Alessandra Moretti

Poesie e Racconti


Lontana e bellissima

L’altro giorno mi sei venuta in mente di nuovo. Non so perché, in questi giorni è successo già tre volte. L’ultima è stata questa mattina. Ero in treno,la pioggia cadeva copiosa, la gente si spintonava per accaparrarsi un posto a sedere e le sagome dei ben noti palazzi della città si intravedevano in una nuvola di nebbia e smog. Scena già vista, come ogni giorno. Eppure, mentre me ne stavo lì con l’ombrello che mi gocciolava sulle scarpe e la testa appoggiata al finestrino, scorsi un piccolo papavero fra i binari. Com’è possibile che un fiore possa crescere in questa desolazione? In quel momento dimenticai il treno, la pioggia, la gente e con la mente tornai a dieci anni prima, a casa della nonna in campagna, un luogo dove i papaveri crescevano nei campi di grano e io ero uno studente ventenne che non si preoccupava troppo del futuro.
Era estate e i tuoi genitori avevano affittato una casa per le vacanze proprio vicino alla nonna. Ricordo che il giorno in cui ti vidi stavi giocando con il cane nel prato di fronte a dove mi trovavo io, pigramente abbandonato su un’amaca con un libro aperto sulle ginocchia. La mia mente vagava in un luogo indefinito, i miei occhi stavano cedendo alla quiete del pomeriggio.
La tua voce mi raggiunse come una freccia scagliata improvvisamente per riportarmi alla realtà:
“Ehi, vieni qui! Ma cosa stai facendo? Lascia stare!”
Mi accorsi che il cane stava leccando la mia mano penzolante dall’amaca. E poi ti vidi. Ti ricordo mentre corri verso di me con i capelli biondi scompigliati e il vestito azzurro, mentre ridendo allontani il cane e ti scusi un po’ goffamente. Eri bellissima, anche questo ricordo, molto bene.
Per il resto di quell’estate dimenticai l’esame di economia e mi tuffai nella mia prima vera storia d’amore. Una storia che mi coinvolse e mi travolse totalmente, che mi lasciò impresso il ricordo dei colori che le fecero da sfondo: il giallo dei campi di grano, il verde dei prati e l’azzurro del cielo. Non ho mai più rivisto quei colori in nessun altro posto durante questi dieci anni e quella fu l’ultima estate in cui andai a casa della nonna.
Perché? Cosa successe poi? Non saprei spiegarlo, passarono dieci anni senza che me ne rendessi conto, ero impegnato in mille cose, studiai, in poco tempo mi laureai e iniziai a lavorare in città. Non ebbi più tempo per le vacanze, per la campagna, per l’amore. Ma quell’estate ero un altro. Ogni mattina venivo a cercarti sotto casa e in bicicletta percorrevamo le strette stradine attraverso i campi, andavamo al fiume, poi in paese, poi al vecchio castello sulla collina, dove mi piaceva tenerti stretta a me nella luce del tramonto. Tu eri uno spirito libero. Ti piacevano la natura, gli animali, i fiori selvatici e la frutta rubata dagli alberi del vicino. Suonavi il violino e la sera mi lasciavo cullare dalle tue melodie, ti ascoltavo per un po’, una mezz’ora forse, poi ti venivo vicino e poco per volta ti costringevo ad abbandonare il violino perché erano troppi i baci e le carezze che volevo rubarti.
Durante quell’estate mi parlavi spesso dei tuoi progetti: il tuo sogno era quello di diventare una famosa concertista, avresti voluto suonare in una grande orchestra e girare il mondo. Al tempo stesso però, avresti voluto continuare a vivere in campagna, occuparti degli animali, correre nei campi e sognare ogni sera davanti al tramonto. Perché eri una sognatrice, parlavi del tuo amore per me come di una bellissima favola che stavamo vivendo e della quale non avremmo dovuto sprecare neanche un attimo. Io ti seguivo, ti ascoltavo, ti guardavo e ti adoravo.
Dei due, eri tu a parlare di più: della vita, dell’amore, del futuro. Non mi facevi mai domande e io invece ne facevo tantissime a te. In realtà non avevo delle idee precise sul mio futuro, non avrei saputo dire cosa mi sarebbe piaciuto fare della mia vita, ma non me ne preoccupavo, mi bastava ascoltarti ed amarti.
Dove sei ora? Sei felice? Si sono realizzati i tuoi sogni?
Quando giunse l’ultimo giorno delle nostre vacanze ci promettemmo che avremmo fatto di tutto per poterci vedere, nonostante la distanza fra le nostre città. Promettemmo, ma non riuscimmo mai più a incontrarci. Ci sentimmo al telefono, qualche messaggio sul cellulare, poi più nulla. Non saprei chi per primo abbia smesso di cercare l’altro, ma quello di cui sono sicuro e di cui mi rammarico ora è che io non feci niente per riaverti con me. Avrei dovuto venire cercarti, chiamarti. Invece ho lasciato che volassi via, lontana e bellissima.

 


 

La posizione comoda

Richard Ashbury non riusciva a trovare una posizione comoda nel sedile dell’aereo.
E la chiamano business class? Questo continuo accavallare prima una gamba e poi l’altra a cui era costretto avrebbe certamente finito per rovinare il completo appena ritirato sulla Fifth Avenue.
E poi il vino era pessimo questa volta.
Decisamente Ashbury avrebbe fatto volentieri a meno di rimbalzare una volta a settimana tra Londra e New York, ma certo non poteva lasciare che quattro incompetenti facessero le sue veci nella filiale americana. La sua presenza era necessaria, come d’altra parte lo era in ogni settore della sua frenetica esistenza.
A capo di una grande multinazionale, quarantenne instancabile, Ashbury controllava tutto e tutti, rispondeva di tutto e di tutti e raggiungeva ogni angolo del globo in cui la sua azienda avesse messo radici. Il telefono era ormai una protesi della sua stessa mano, il laptop un compagno insostituibile. Perfezionista, esigente, sempre all’ultima moda, abituato a pensare di essere l’unico in grado di fare le cose nel modo giusto. Alta società, relazioni interpersonali importanti, moda, nuove tecnologie, tutto ciò che struttura la vita dell’uomo in carriera del terzo millennio era racchiuso in Richard Ashbury.
Particolarmente insofferente in aereo, Ashbury. I posti migliori gli venivano sempre riservati, ogni comfort e ogni cura gli venivano prodigati, ma nulla poteva cancellare quella sensazione di sprecare del tempo prezioso che sperimentava a ogni viaggio.
Cellulare in modalità aereo. Il telefono di bordo incorporato nel suo sedile. Ne faceva un uso smodato. ” Hello John? Sì sto tornando a Londra. Sarò lì per cena. Sì certo che possiamo incontrarci subito. Ti aspetto al solito ristorante in Bond Street. No, non ho incontrato Woodward. Sì, certo che lo contatterò, stai tranquillo. A presto.”
” Pronto? Qui è Richard Ashbury. Vorrei parlare con l’avvocato Sinclair, per favore. Come non è in sede? E’ a Hong Kong? Bhè gli dica che è urgente. Anzi no, lo contatterò io personalmente quando mi recherò in Cina la settimana prossima. Arrivederci.”
” La signora Beaumont? Qui è Richard Ashbury che parla. La chiamo per informarla della mia prossima visita alla filiale di Parigi. Sarò da voi fra due giorni. Mi aspetto di trovare tutti i documenti che le ho chiesto. No, non ci sono deroghe, signora Beaumont.”
Preciso, Ashbury. Aveva una fidanzata. Una ragazza della buona società londinese che in quel momento aveva il compito di organizzare il più fastoso matrimonio che si fosse mai visto.
” Kathleen? Pronto Kathleen? Sì, sono io. Sto per tornare. Ti sei accordata con il sarto per il mio smoking? No, avevo detto niente cilindro. Insomma, non hai capito? Niente cilindro! Santo cielo, come devo fare con te? No. No aspetta, ho detto che i canapè di caviale vanno serviti dopo l’aperitivo!” Ashbury posò il ricevitore alquanto preoccupato. Kathleen non stava seguendo alla lettera le sue istruzioni. A volte era molto stupida. E quel sarto italiano, poi.
Ashbury saettò fuori dell’aereo non appena fu possibile. Bond Street, con John. Parigi, dopodomani. Forse fra tre giorni. Hong Kong. Kathleen. Il cilindro, decisamente no. I canapè con l’aperitivo. Non ho molta fame per Bond Street. La signora Beaumont, posso prorogare. Hong Kong. Hong Kong. Il mese prossimo andrà bene. I canapè con l’aperitivo. C’è un volo per Antigua che parte fra mezz’ora. Farà caldo ad Antigua. Il sarto italiano e i canapè con l’aperitivo. Ad Antigua si può fare il bagno nel mare. Il cilindro decisamente no. Mi sento molto stanco.
Mezz’ora più tardi Richard Ashbury era su un aereo diretto ad Antigua e aveva trovato una posizione comoda nel sedile.

 


 

I sopravvissuti

Pianeta Terra, 13 maggio 2037. Un anno e un mese dopo l’impatto dell’asteroide Apophis. Sheila e Grant escono dal bunker sotterraneo del Centro Sperimentale della NASA di Houston, Texas. Il progetto “Reborn” si è concluso, le cellule per l’ibernazione sono vuote, dieci uomini e dieci donne si guardano attorno: è buio, fa molto freddo. E’ una terra completamente desolata quella che si stende davanti a loro, la devastazione ha colpito ogni cosa, animale e vegetale. Non ci sono case, strade, piante, niente di niente.
“Esattamente come mi aspettavo,” esclama Sheila, mentre gli altri cominciano a tastare il terreno, l’aria, a prendere campioni, a fotografare e ad annotare.
“Che intendi dire?” chiede Grant. Sheila gli indica l’unica cosa presente in quel nulla generale: enormi lastre di ghiaccio un po’ ovunque.
“Ghiaccio in Texas?” Grant è sbalordito. Sheila gli spiega che il fenomeno è dovuto al fatto che, con l’impatto del meteorite, si erano sollevate quantità esorbitanti di polveri e gas che hanno oscurato il Sole lasciando la Terra nel gelo totale.
“Siamo gli unici sopravvissuti”, fa notare uno degli uomini, “ma se resteremo qui fuori ancora a lungo il nostro lavoro sarà stato inutile. Non possiamo resistere a una tale temperatura e l’aria è satura di gas nocivi. Dobbiamo rientrare.”
Una volta all’interno del bunker –laboratorio Sheila sente il bisogno di una sigaretta e, appoggiata allo spigolo di una parete recupera il suo vecchio pacchetto di Camel dalla tasca dell’impermeabile: è ancora intatto.
“Direttamente dal 2007. Ne vuoi?” Chiede a Grant, che nel frattempo le si è avvicinato e si è appoggiato alla parete.
“ Non potresti fumare qui dentro, lo sai.”
“Non credo che un po’ di tabacco possa farci peggio di quello che respiriamo là fuori! Erano trent’anni che aspettavo questo momento!” sorride amaramente Sheila.
Si sono un po’ isolati dal resto del gruppo, hanno l’aria pensierosa. Grant guarda davanti a sé attraverso un oblò le grandi distese di ghiaccio e Sheila tiene lo sguardo basso, assaporando la sua sigaretta.
“Avremo fatto la cosa giusta?” Chiede Grant, più a se stesso.
“Siamo un gruppo di scienziati e cultori della scienza, abbiamo deciso di ibernarci volontariamente perché avevamo capito che per la Terra non c’era possibilità di sopravvivenza dopo Apophis. Siamo rimasti qui sotto nelle nostre capsule per trent’anni allo scopo di evitare l’estinzione della specie umana. Certo che abbiamo fatto la cosa giusta.”
Sheila ha grande fiducia nella scienza, Grant è ancora studente di biologia, ha aderito a “Reborn” per amor suo, per non doversi separare da lei, più che per una reale convinzione.
“Cosa faremo adesso?”
“ Vivremo qui!”
“Non sono sicuro ne valga ancora la pena.”
“Stai dicendo che non ritieni importante ricostruire la nostra vita?”
“Non lo ritengo più possibile qui. C’è un’altra strada, veramente…”
“Di che si tratta?”
“Ne parlavano poco prima dell’ibernazione alcuni di noi. E’ stata messa a punto una nave spaziale che sarebbe in grado di trasferirci sulla stazione spaziale internazionale. Lassù sicuramente in questi anni hanno continuato a lavorare, può darsi ci siano altri esseri umani che si sono evoluti!”
“Come mai non ne sapevo niente?”
“Ho ascoltato una conversazione di nascosto. I posti sono limitati, Sheila.”
Gli occhi di Sheila già brillano di una nuova luce mentre getta la sigaretta e afferra Grant per le spalle: “la stazione internazionale è un ottimo trampolino di lancio verso l’esplorazione del cosmo, ti rendi conto Grant? Lascia che ti dica una cosa: due di quei posti saranno nostri!”
“Forse, ricominciare… un nuovo mondo…”, anche Grant ora comincia a sognare.

 


 

L’uomo delle montagne

Avevo camminato troppo a lungo per le mie gambe poco allenate. Finalmente posai a terra lo zaino e mi rilassai sull’erba morbida. Silenzio attorno a me.
Un minuscolo agglomerato di case in pietra era tutto ciò che potesse in qualche modo segnalare la presenza umana in quella solitaria radura. D’altra parte, nient’altro era necessario in quel momento, solo il canto degli uccellini e la carezza del vento.
C’era un piccolo monumento non lontano da me, una specie di cappelletta con una lapide che riportava i nomi di un gruppo di giovani partigiani caduti in quel luogo durante la seconda guerra mondiale. Fiori freschi, immagini sacre, lumini accesi.
L’uomo mi colpì subito per il semplice fatto di essere il solo essere umano presente, ma anche per la sua camminata lenta, il suo vistoso zoppicare. Procedeva dal gruppo di case verso la cappelletta, lo sguardo fisso davanti a sé, come assorto in pensieri lontanissimi. Anziano, molto anziano. Normale d’aspetto, assolutamente normale: pantaloni scuri e camicia a quadri, come quelle dei taglialegna.
Si avvicinò alla lapide e rimase immobile a guardarla. Improvvisamente notai che la sua postura assumeva un qualcosa di imponente, la schiena non era più ricurva come durante la camminata e vidi che egli tentava di raddrizzare anche le spalle. Vi era tutta l’incertezza di un corpo ormai provato dagli anni in quel tentativo, ma lo sguardo no, quello non mostrava esitazione, era fiero e diretto come se lì il tempo non fosse riuscito nella sua opera disgregatrice.
Rividi allora il soldato che egli era stato, il partigiano scappato sulle montagne con i suoi compagni per sfuggire ai tedeschi. Sopravvissuto, non aveva più voluto lasciare quel luogo, non aveva più potuto abbandonare i suoi compagni al silenzio di quella valle tanto da diventarne egli stesso parte integrante.
Mentre lo osservavo, immaginavo che fosse andata proprio così, ancora di più quando lo vidi appoggiare un braccio alla trave superiore della cappella e abbandonarvi contro la testa. Il dolore divenne visibile, inconfutabile: quell’uomo soffriva ancora per l’orrore al quale aveva dovuto assistere.
Poi si risollevò e lentamente si allontanò, nient’ altro che un vecchietto ricurvo. Ma io ormai sapevo chi era.

 


 

New York e ritorno

“E così l’hai lasciata andare?” Andrea ruppe il silenzio.
“Non mi era rimasto altro da fare. L’ho cercata per tutta New York, senza risultato. Se non vuoi farti più trovare, New York è perfetta: quando inizi a percorrerla sui suoi larghi marciapiedi, vieni fagocitato da un crogiolo di razze. Da quel momento anche tu ne fai parte, chiunque tu sia, comunque tu sia vestito, quale che sia il colore della tua pelle o la tua età. Silvia era sparita lì in mezzo e allora ho capito che non sarei più riuscito a tirarla fuori, perché era lì che lei voleva restare. D’altra parte la colpa è stata solo mia”.
Andrea sapeva che avevo ragione, sapeva che avevo tradito Silvia e che non avevo scusanti. Sapeva che lei mi aveva lasciato un biglietto dove diceva di essere partita per New York presso un’amica e di non volermi più vedere. Sapeva che un giorno di punto in bianco ero salito sull’aereo in preda a una smania di ritrovarla, senza però sapere bene come fare, senza un indirizzo.
New York fagocitò anche me non appena scesi dal taxi di fronte al gigantesco albergo dove avevo prenotato. Era sera, dovevo organizzarmi, ma crollai in un sonno senza rimedio.
La mattina dopo uscii in strada. La gente camminava velocemente in un gruppo compatto, i taxi partivano e arrivavano di continuo. All’inizio provai timore verso tutta quella che a me sembrava un’incredibile frenesia, non ero mai stato in una città del genere, ma iniziai lo stesso a muovere qualche passo verso sud, lungo Sixth Avenue.
La folla mi abbracciò e io lasciai fare, sentendomi stranamente a mio agio. Ero parte di un tutto, di un agglomerato di giovani con gli auricolari e di manager in giacca e cravatta con il bicchierone del caffè in mano, che camminavano, camminavamo velocemente e senza fermarsi.
Cercai Silvia nei loro volti, finchè non capii a mie spese che a New York non si guarda la gente negli occhi, si cammina e basta. Scesi fino a Battery Park, rimasi in contemplazione dell’Hudson solcato dai traghetti e vidi la Statua della Libertà in lontananza. La cercai anche là, fra i turisti che si   facevano fotografare con le fiaccole di plastica in mano.
Passai dieci giorni percorrendo Mahattan da nord a sud, da est a ovest. Cercai Silvia nei musei, tra le astrazioni del MoMa e i classicismi del Metropolitan. La cercai nella vastità di Central Park che riuscì, con i suoi straordinari colori autunnali e il suo silenzio, a placare la mia ansia.
Un giorno sentii il bisogno di elevazione, di vedere le cose da una prospettiva diversa, così salii in cima all’Empire State Building riempiendomi gli occhi con quella vista strepitosa e passando più di mezz’ora a scrutare la strada lontanissima sotto di me, stupidamente pensando che forse da lì avrei riconosciuto Silvia.
Poi una mattina mi svegliai di soprassalto e, in un momento di incredibile lucidità capii che tutto ciò era inutile: quella città mi aveva mostrato il senso del fluire delle cose e il traffico, la gente, erano passati come una spugna sulle briciole della mia relazione con Silvia e se le erano portate via assieme lei.
“Aeroporto JFK, per favore”,dissi e sprofondai nel sedile del taxi.

 


 

Tramonto

Guarda il tramonto
e la sua luce,
prima che svanisca veloce.
Ricorda il rosso bagliore
che delle montagne
infiamma il candore.
Riempiti lo sguardo
di colore,
troppo presto
solo della notte
sentirai l’odore.

 


 

Sonno

Riposare,
perché se vuoi accelerare,
poi devi saperti fermare.
Oppure dormire,
per poter proseguire.
Desiderare il sonno,
per ritrovare quel sogno.
Il sogno che non mente
perché ragione non sente.
Il silenzio della notte
tutte le difese inghiotte,
tutte le battaglie combatte.
E ti convinci che lì,
tu vinci.

 


 

Comete

La porta è chiusa, la ruota non gira,
la chiave è incastrata, la barca non vira.
Il tempo è sospeso
in uno stagno rappreso.
I ricordi di vita passata
si confondono
con un’idea appena abbozzata.
E tutto si ripete,
mentre cerchi le tue comete.

 


 

Il passo

Regolerò il mio passo
per non tralasciare neanche un sasso.
Ascolterò il mio respiro,
un meravigliato sospiro
di fronte a un lago di zaffiro.
E con il sole dietro le montagne,
da qualche parte,
in un preciso istante,
tutto diventerà grandioso,
emozionante.
Il mio passo
sarà il tuo passo,
costante, regolare,
finché non tornerà ad albeggiare.

 


 

Prima

A volte,
si finisce
prima di iniziare.
Spesso,
si risponde
prima di domandare.
Talvolta,
si perde
prima di provare a vincere.
E si prende
prima di chiedere.
Altre volte,
si chiude
prima di aprire
o si parla
prima di sentire.
Però poi
si esita
prima di agire
e dopo,
dopo c’è il rimorso
da fuggire.

 


 

Invariato

Rivedere un posto familiare
con gli occhi di chi
non vorrebbe cambiare.
Ti chiedevi come sarebbe stato,
se qualcosa in te
fosse mutato.
Timore di trovare diverso,
qualcosa che speravi
non si fosse perso.
Ma in fondo un po’ lo sai
che certi luoghi
non deludono mai.

 


 

Sonno

Riposare,
perché se vuoi accelerare,
poi devi saperti fermare.
Oppure dormire,
per poter proseguire.
Desiderare il sonno,
per ritrovare quel sogno.
Il sogno che non mente
perché ragione non sente.
Il silenzio della notte
tutte le difese inghiotte,
tutte le battaglie combatte.
E ti convinci che lì,
tu vinci.

 


 

In Normandia

La proiezione ha inizio. Lo schermo è diviso in due parti: a destra soldati tedeschi dispongono cannoni e mitragliatrici mentre si preparano a resistere ad un attacco imminente, sulla sinistra militari americani giocano a carte e si lavano i denti. Ecco che, dopo pochi minuti, quegli stessi soldati americani sono a bordo di grandi barche metalliche, gli elmetti allineati, i fucili ben saldi nelle mani. E’ il 6 giugno 1944, è il giorno dello sbarco in Normandia. Le immagini e la musica mi colpiscono con violenza: lo scontro con la resistenza tedesca è cruento, soldati feriti urlano per il dolore, corpi cadono a terra esanimi. Alla fine esco stordita dalla sala cinematografica, mi trovo all’interno del “Mémorial” di Caen, museo dedicato alla seconda guerra mondiale, un tempio di reliquie e documenti che ti riporta esattamente là, a fianco di John che scrive una lettera a sua madre, a dividere la razione K con David e ad ammirare il vestito da sposa che una qualche ragazza ha improvvisato con un paracadute.
Un viaggio in Normandia ti porta in luoghi dove la natura è prorompente, il verde smeraldo dei prati, l’azzurro vivo del mare. Il vento sferza la costa impietoso, piega gli alberi conferendo loro forme bizzarre, scompiglia i capelli. E mentre sei lì che cerchi di ripararti scorgi una buca nel terreno e ti ci infili. Poi scopri che sei in una trincea, a Omaha Beach, quella mattina di giugno, al riparo dal fuoco nemico. Sollevo appena la testa oltre la fossa e guardo la spiaggia al di sotto di me: una distesa uniforme e piatta, grande, ampia. Alcune persone sono laggiù che passeggiano e scattano fotografie, gli abiti incollati al corpo a causa del vento. Bagnanti temerari stanno stesi al sole, bambini giocano con gli aquiloni. Il nemico sta per rispondere all’offensiva degli alleati, ecco i primi soldati sul bagnasciuga… che fa quella gente? Devo dir loro di mettersi al sicuro, i bambini devono lasciare i loro aquiloni, gli adulti devono abbandonare le macchine fotografiche e scappare…
L’ auto percorre lentamente il tratto di costa normanna dove i luoghi che hanno fatto da teatro a quel giorno decisivo si susseguono con i loro memoriali, le loro bandiere, le loro liste di nomi di giovani caduti. Lascio il finestrino abbassato per respirare l’aria del mare e scopro che qui è impossibile non tornare a quel 1944, la sensazione quasi fisica di essere là che avevo provato a Omaha Beach la ritrovo ovunque, in ogni spiaggia, in ogni bunker o trincea nel quale ti aspetti di vederti comparire davanti un fucile spianato.
Quando arrivo a La Pointe du Hoc la sensazione è ancora più forte. “Senti il rumore degli spari?” “Sì, lo sento come se fosse adesso”. Un uomo scende e risale dalle enormi buche scavate dalle bombe, scivola… sto per gridargli di abbassarsi, un’altra granata sta per esplodere proprio lì…una donna ride divertita sul bordo della scogliera e mi riporta alla realtà, ma mentre mi chiedo se davvero un gruppo di soldati sia mai riuscito a scalare questa rupe a picco sul mare ecco il colonnello Rudder che compare incitando i suoi ad avanzare. Non troveranno i cannoni, i tedeschi li hanno già portati altrove.
Il viaggio in macchina prosegue. La campagna sorprende con la sua vastità, i suoi colori vividi. Le mucche pezzate pascolano libere e i contadini fanno ritorno alle loro case dai tetti aguzzi. L’erba ha ricoperto i resti delle battaglie, eppure tutto qui sembra essere come allora. In poco più di settant’anni certamente la gente non ha dimenticato, penso a quante storie potrei conoscere entrando in una qualunque di queste casette in pietra ad ascoltare loro, le persone che vissero quei giorni di guerra. Il tempo si è fermato in Normandia.
Se è vero che il senso di un viaggio è andare, andare sempre e comunque, è anche vero che la completezza di esso viene da quello che si riesce a carpire ad ogni tappa, le esperienze che arricchiscono l’esistenza. Ed è con questa convinzione che lascio che la strada mi conduca ancora più in là, con ancora nella testa le voci e i suoni del giugno 1944, sensazioni che mai più avrei dimenticato.
Campagne, pascoli, paesini arroccati e flutti che si infrangono lungo gli scogli; la Normandia cede il passo alla Bretagna, estrema regione della quale ho voluto raggiungere il punto più estremo, un’altra punta, la Pointe du Raz. Qui la violenza non è data dal fragore della battaglia, è la natura stessa ad essere violenta nella sua libertà e bellezza, con quel faro in lontananza che è solo, alla mercè dell’oceano. D’improvviso tutto si placa e tu capisci che ti devi sbrigare, perché vuoi cercare il posto migliore da dove potrai assistere in prima fila a uno spettacolo incomparabile, quello del sole che, rosso e arroventato, va a sciogliersi nell’acqua.