Alessandra Scuri - Poesie

Vertigini

Vertigini mentali
Paure celebrali.
Molecole ed impulsi
Pulsioni e vibrazioni.
Un squarcio su una tela
Un veemente sospiro.
Ed è candido il sale
Che argina il sangue.
Ed è impercettibile il sole
Che cura le anime.
Incantevole il pensiero
Che giunge e che fugge:
Cavalca il desiderio
Per disperdersi nel sonno
E sopravvivere al mio fianco.

 

 

 

Sperduti

Manca lo sguardo
E manca il profumo.
Passi pesanti
Sull’immenso prato,
Siamo forse solo ciechi?
Un vuoto tangibile,
Più reale di un corpo.
Camminiamo soli
Sull’umida terra,
Cerchiamo colori invisibili
Perché ciechi son gl’occhi.
Ci ritroviamo lontani
Scalzi e sperduti;
Separati dallo sguardo:
Io bramo l’alba
Tu aspetti la luna.

 

 

 

L’amore

Volano gli amanti
Sfiorando le nuvole.
Anime libere dalla malizia
Guardano la realtà:
Intima e timida,
Estasi.
Si alzano come note
Gli spiriti goduriosi,
Volteggiano sul verde
Scivolano sul porpora.
Per pochi le chiavi
Per tutti la speranza.
Un unico corpo
Un’ unica vibrazione.
Eterna energia
Dal color della vita.

 

 

 

La sofferenza

La sofferenza è vitale.
Reciproca e consapevole,
Cosmica e karmica.
Eterna.
È dolore e passione,
Amore e pentimento,
Sangue e fluido.
È un urlo celato
Di mani sul viso.
Una vertigine roteante
Di pianeti e poesia.
Un’ambivalente melodia
Tra una guida e un Giuda.
Cavalca ed assedia,
Domina.
È un’assenza presente
Per un’eterna presenza.

 

 

 

Ritrovarsi a vagare

A volte guardavano il cielo, nascosti tra le fronde di un salice.
Lì, tutto era un ricordo, un vento sconosciuto che odorava di casa, un eterno déjà-vu che rilassa e avvolge.

Contemplavano le stelle e il caos si muoveva su di loro.
L’aria era elettrica e tutto era perfettamente confuso, come una tela dipinta nello spazio più oscuro, dove la terra gira e i loro corpi sono immobili e in movimento.

A. sapeva che quella calma apparente sarebbe finita e che sarebbe stato più semplice capire l’essenza dell’universo piuttosto che comprendere lui, ma le andava bene così.
Si erano amati ancor prima di conoscersi, si accettavano da sempre nel silenzio di quel cielo. Erano l’uno l’oasi dell’altra e lei non aveva paura.
Era certa che a loro non servisse toccarsi, che le loro anime si sfiorassero anche a chilometri di distanza e non importava dove fossero, a loro bastava riconoscersi.

A. lo sapeva.
Quella fu la loro ultima notte insieme.
Avevano scelto di perdersi nel mondo senza nemmeno dirsi il perché.

E così passarono le stagioni e con esse anche i colori.
In quegli anni si erano cercati così a lungo, nei fotogrammi della loro memoria, che ormai i loro volti erano sbiaditi.
Era rimasta solo la bellezza di quello che insieme riuscivano a creare, era rimasta solo la certezza che ci sono persone che gli occhi non vedono, ma il cuore sente.

E così era sopraggiunto un altro autunno, e con lui, anche loro decisero di tornare sotto quel salice, ciascuno con le proprie ferite, il proprio dolore, le proprie insicurezze e le parole mai dette.

Si ritrovarono di nuovo insieme, con il loro silenzio assordante, sdraiati sull’erba a guardare il cielo.
Furono attimi eterni, sospesi nel tempo, incastonati per sempre, come le stelle, in quel firmamento infinito e luminoso come il loro amore.

 

 

 

Nella testa di mia madre

Amo mia figlia, ma odio questo giorno.
Ogni mercoledì lo stesso déjà-vu, urticante e spinoso, come quel vecchio maglione di lana rossa che mi fece mia madre quando avevo undici anni. Lo indosso controvoglia ogni volta che A. viene a trovarci a casa per cena. Appena mi avvolge sento sbocciare dalla mia pelle mille schegge di vetro e nella mia pancia scivolare infuocata una melassa lavica di solitudine e incomprensione.
Quell’appuntamento settimanale trasforma il mio salotto in un baccanale di suoni distorti e alfabeti sconosciuti, così ingombranti che non c’è più spazio nemmeno per l’aria; si fa grigia come il piombo, ma per loro, è scirocco sulla pelle.
A. gli sorride, mentre giocherella fastidiosamente con lo specchio nero del suo I-Phone per controllare l’ora. Adora suo padre anche se non lo ammette.
Sono le 20:30 e stiamo aspettando la pizza di Massimo; forno a legna, sotto casa, una piccola bottega vivace e pulita e non paghiamo nemmeno la spedizione; dopo dieci anni, di pony-pizza ne abbiamo visti tanti, e tutti sanno che il nostro indirizzo è quello segnato su un post-it ingiallito e scollato, attaccato alla cassa elettronica con un pezzetto di nastro adesivo nero.
A. e mio marito sono sul divano; lui è al suo posto, quello accanto alla vetrata, luminoso e accogliente, distante il giusto dal bocchettone dell’aria condizionata e non troppo vicino al televisore Samsung da 50 pollici; lei è su quello incorniciato dalla libreria in mogano, traboccante di colori e storie; si siede sempre così: le gambe incrociate, comoda nella sua tuta Adidas blu elettrico, e le braccia che avvolgono un cuscino vellutato e spugnoso come una meringa; entrambi sono sospesi in un avvolgente guscio invisibile, inaccessibile, perlomeno per me. Sento il loro respiro; una fanfara agitata che corre al ritmo dell’adrenalina che ha inondato le vene e gonfiato il cuore. E’ un tiptap frenetico di battiti e sospiri, è l’attesa per il fischio d’inizio della partita.
Si guardano e s’intendono, nemmeno vedono che sto portando i cartoni delle pizze sul tavolino di cristallo. Quel vetro vergine e luccicante è la fotografia del mio salotto borghese, dove, ogni sera, con precisione, poggio una tazza di te al gelsomino Vahdam, un piatto in ceramica bianca che accoglie disordinatamente qualche Krumiro e un libro di Sveva Casati Modigliani. Osservo quei dettagli e mi rilasso; mi ricorda una natura morta di Morandi, un equilibrio cremoso, tra l’ocra dei biscotti e l’avorio della copertina di 1996.
Stasera non sarà così, nel giro di venti minuti, so che tutto si trasformerà in una discarica maleducata di croste rosicchiate e annerite, tovaglioli accartocciati al gusto di pomodoro e aloni circolari e ghiacciati di Heineken. Le scatole si schiudono, sembrano delle locomotive fumanti che sbuffano nuvole di vapore al sapore di peperoni e salamino piccante.
La mia è più semplice, una bianca con verdure, delicata come me.
La osservo; A. è bella anche mentre si porta quel triangolo oleoso alla bocca e una goccia di unto arancione le cade sulla maglietta bianca con il logo della Juve sul petto, ma a lei non interessa, non stasera, stasera lei è libera di essere se stessa. Mastica al ritmo delle parole incalzanti di Caressa, l’impasto è morbido, ricoperto di mozzarella e gorgonzola, colorato dal rosso scivoloso del peperoncino ed in bocca c’è un arcobaleno di emozioni.
Conosco quello sguardo, ha i colori di settembre; stasera non sta mangiando una pizza, ma calorie di felicità.
«E io di cosa mi nutrirò?»
Un sferzata mi percorre la spina dorsale «Avrò sbagliato qualcosa con mia figlia?».

 

 

 

Profumi passati

2 giugno 2015

Era il giorno del compleanno di suo padre e dopo sette anni Cecilia decise di chiudere la sua storia con Niccolò.
Aveva appena finito di schiacciare tutta la sua vita dentro i sacchi neri della spazzatura, deglutendo i ricordi e asciugandosi il sudore con la maglietta bianca dell’Hard Rock Café di Bangkok. Ingoiava gli anni, un giorno alla volta, e si leccava le labbra. Sapevano di lacrime e vino. Rosso e pungente come quel giorno.
Eccola, l’ultima busta era nell’ascensore, la porta sfilò dietro di lei e il pulsante del pianterreno la aiutò a chiudere per sempre quel capitolo di eterni punti e virgole. O almeno così credeva.
Cecilia era quel tipo di donna che disseminava scuse nei prati inariditi del suo passato. Voleva poter toccare quei ricordi, sbiaditi e ingialliti, ogni volta che desiderava concedersi il lusso di soffrire. Le piaceva punirsi per aver fallito, era convinta che quel tipo di dolore la potesse aiutare a sopravvivere e a ricominciare.

Passarono quarantotto ore ed era di nuovo in quella casa.
Aveva bisogno di registrare quegli odori un’ultima volta, per trasformarli in eterne maree che le sarebbero esplose nello stomaco e nelle tempie, ogni volta che venivano stuzzicate da un presente beffardo. Il profumo lo conosceva, era quello di lenzuola pulite, tipico delle lavanderie; avvolgente e ingrigito dal fumo di sigaretta e dal nero del caffè bruciato dalla moka. Era un odore appiccicoso. Era l’odore della resa dei conti.
Prese un altro sorso di vino e si diresse verso via Assolata. Parcheggiò la cinquecento carta da zucchero nelle righe bianche e spense il motore. La città era deserta e infuocata, le strade sgombre e si sentiva solo il battito del suo cuore più veloce persino del ticchettio del suo Rolex.
Si specchiò nel riflesso nero delle vetro, si raccolse i capelli in una coda scomposta, osservò il sudore incorniciarle il viso e si accese una Winston Blue, pesante come quell’aria bagnata. Sbuffò e si diresse verso il civico 13.
Erano solo lei e la sua pancia. Un vortice magnetico la trascinò verso il centro della terra, dove la gravità era pesante e la luce assente. Iniziò a sentire lo stomaco contorcersi e la gola stringersi. Sentì l’aria assottigliarsi, la lingua asciugarsi e la carotide pulsare.
D’improvviso si ritrovò a roteare sospesa in assenza di ossigeno. La testa le batteva al ritmo di passi di elefante, le mani si sfaldavano come schiuma sugli scogli e gli occhi vibravano come fiamme lacrimanti. Un fischio le uscì dalle orecchie e la riportò nel presente.
Si era schiantata contro la sua realtà imperfetta. Era lì, frastornata dal vino e dal nero luccicante dell’asfalto. Sadica e compiaciuta. Saziata.

Suonò il campanello. Il suo cognome era lì accanto a quello di lui. E di nuovo uno tsunami di fotogrammi la travolse.
«Ti prego, non rispondere, ti prego..» CAZZO « Chi è? » Non una parola uscì dalle labbra di Cecilia; la pece bollente l’aveva inghiottita e la voce di Nico paralizzata.
Un rumore metallico fece scattare il portone d’ingresso e con lui anche lei si schiuse, risvegliandosi da quel torpore.
« Sali» le disse una voce rassegnata e spaventata.
Cecilia, impietrita, spinse la porta, che mai era stata così pesante. Camminò lentamente verso l’ascensore rosso e trattenendo il respiro nell’ombelico, schiacciò il pulsante e pregò.
Avrebbe desiderato ruotare la clessidra del tempo ed invertirne il moto. Avrebbe voluto veder dissolvere quel pianerottolo in marmo come il vento dissolve i granelli di sabbia sulle dune.
Avrebbe voluto cancellare il presente per continuare a vivere nell’incertezza del passato.

 

 

 

La mia logica apparente

Cibo, una parola che solo a guardarla è tonda, ridondante, piena, carnosa, ingombrante nella sua semplicità.
Come si può amare una cosa così pesante? Non si può; ed infatti, io l’odiavo.
Ma avevo fame. Tanta fame. Sempre.

Quel giorno eravamo io, la mia solitudine, una dispensa a disposizione e nessuno che potesse ascoltare il mio disagio e giudicare la mia voracità.
Aprii l’armadietto e iniziai a mangiare : velocemente, nervosamente, come accecata, eccitata, senza fiato.
Poi, il silenzio.
Tirai lo sciacquone, alzai lo sguardo e mi specchiai compiaciuta.
Gli occhi gonfi, le guance rosse ed il sapore amaro della bile in bocca.
Quel senso di vuoto era sparito; ero piena e al contempo prosciugata, inorridita ma soddisfatta, ero felice in quel modo cinico che solo una bulimica conosce.

Amavo il mio segreto, era vitale e doveva rimanere immutato.
Finalmente tutto era in ordine; un equilibrio scomposto, senza una logica apparente, ma studiato in ogni sfumatura; era deviato, forse, ma ero libera, ero in pace.
Avevo 13 anni, era agosto, ed era l’inizio della fine.

Il cibo era diventato la mia guida, che si trasformava in un Giuda tutte le volte che decidevo di sconvolgermi. Agli occhi della gente ero perfetta e quindi felice; e in un certo senso, lo ero.
C’erano, però, quelle ossa che non erano mai abbastanza sporgenti e quello specchio che mi rimandava sempre una me imperfetta.

Un giorno, poi, accadde qualcosa.
Il cibo non mi riempiva più. Avevo bisogno di qualcosa di più potente, che mi permettesse di sedare quel vortice di emozioni che non volevo sentire, e così, ho scoperto i Gin Tonic e con loro la cocaina.
Era estate e c’era il sole, ma io lo volevo spegnere.
Era iniziata una nuova epoca della mia vita, quella della tossicodipendenza.
Ma questa è un’altra storia.

 

 

 

Ballata numero 26

Giugno 2019

Erano ormai due settimane che Diogene viveva in quella camera d’albergo. Le lenzuola erano sempre le stesse, accartocciate e ingrigite come il corpo dei lei. Gli avanzi delle cene marcivano sul terrazzino intossicati dal sole e, nel corridoio, un cartellino con la scritta “non disturbare” penzolava addormentato sulla maniglia della stanza 26.
Faceva caldo quel giorno, ma lei, come un cane randagio, si nascondeva infreddolita sotto una vecchia coperta di pile. Il sudore era come brina sul suo corpo nudo e ustionante e l’odore acre dell’astinenza si mischiava con quello umido e invecchiato della coperta.
D’improvviso, nello spigoloso caos del suo dormiveglia, il materasso cominciò a vibrare. Diogene allungò il braccio, che precipitando come un pugile al tappeto, tagliò l’aria densa e appiccicosa e raggiunse esausto la metà vuota del letto. Qualcuno la stava chiamando. Tempo fa la sua mano, avrebbe trovato il corpo innamorato di Edoardo, ora non le restava altro che la sua solitudine, impiccata ad una bottiglia inaridita di Tennent’s , proprio lì, accanto al suo I-Phone distrutto e sconvolto, come la sua mente.
Lo afferra, e tra le macchie bluastre dei cristalli liquidi in frantumi, intravide il nome di sua madre. Non rispose, non prima di aver assunto la sua dose quotidiana di dolore, non prima di aver cercato di rimettere insieme i suoi mille pezzi, che come coriandoli grigi, riposavano svenuti nella stanza.
Ormai era sveglia. Che cazzo vuole questa? – pensò nevrotica . I soliti crampi lancinanti le infiammarono lo stomaco, mentre gli occhi, come ogni mattina, mettevano a fuoco lo stesso squallido fotogramma: una vita paralizzata, inghiottita da una pozzanghera inacidita di miseria e tristezza. Si guardò le mani, sperando di vederle diverse; le fissava tremare scarne e ingiallite: l’epatite la stava rosicchiando. Si fece forza sollevandosi sui gomiti rinsecchiti e bruni e a malapena riuscì a scivolare fuori dal letto; scomposta come una frattura si lasciò cadere sulla moquette infeltrita: sembrava un grappolo d’uva ringrinzito. Accartocciata con le mani sull’addome, raggiunse il bagno tra gli spasmi e i conati, e, come in un quadro di Schiele, si abbandonò tra le braccia del lavandino in marmo; per sbaglio i suoi occhi incrociarono se stessa nello specchio. Le pupille erano vuote, nere come quella goccia di sangue che le colava dal naso. Ogni sua cellula tremava, assetata e affamata; cercava di trattenere il respiro sperando di nutrire con un po’ di ossigeno il suo corpo malato: niente. Una scossa le trapassò il cranio, doveva chiamare sua madre, doveva riprendersi. Si voltò di scatto verso la scrivania, la guardò con gli occhi aggressivi di chi sa esattamente cosa deve fare; raccolse 10 € da terra, lo arrotolò con devozione, chinò il viso sulla copertina di un libro non-libro e inalò voracemente una dolce riga bianca. Deglutì l’amaro della speranza, tirò su fino alle cervella l’essenza della fine e reclinò la testa fino toccarsi la schiena. Si schiarì la voce e ritornò davanti allo specchio. Adesso la chiamo – bofonchiò mentre decideva quale maschera indossare. Ciao ma’ scusa ero sotto la doccia, senti ti chiamo tra 2 minuti, ok? Ciao – disse tutto d’un fiato. Nemmeno si accorse che, mentre le chiudeva il telefono in faccia, si era già infilata gli occhiali da sole, aveva afferrato la sua Balenciaga gialla, ultimo residuo della sua presunta dignità, ed era pronta per aggredire un altro giorno all’inferno. Un altro giro di giostra, fino alla fine, fino a quando, come Babele, non sarebbe crollata implorando pietà a se stessa.

 

 

 

 Orizzonti

ORIZZONTE.
Ti ho guardato così a lungo che a volte il tuo volto si confonde .

IO
Ti copri con il lenzuolo, appoggi la testa sul cuscino e con amore ti abbracci.