Alessia Incigneri - Poesie

Sfioro la cera del tuo viso

Sfioro la cera del tuo viso assorto
tra il pensiero che gonfia la pietra del tuo occhio.
Posa concentrato, cattura spruzzi di colore,
componendo un fregio di immagini antiche.
Il contatto dei nostri volti lega i nostri vissuti,
come un arco l’estremità di colonne scanalate.
Da un varco all’altro corrono le nostre voci
e si rispondono come echi divini.
Sonorità ancestrali pervadono
gli anditi spogli del cuore.
L’organico rimbombo tuona grandioso,
come la grancassa percossa
a gran voce richiama a sé il silenzio.
Dialoghi indecifrabili si svolgono,
sono respiri chiusi dal tuo anelito di pace.
Sfioro la cera del tuo viso stravolto
e pare che al mio tocco la guancia si consumi,
si ottenebri,
si svilisca come un francobollo inumidito.
L’intero tuo corpo svanisce compositamente.
Il mio riflesso ancor più non scorgo.

 

 

 

 

Si interrompe la scia,
che legata m’avea
per gli occhi
alla sostanza della terra.
Mi sfugge il legame
che armonizzata mi rese
per l’anima
all’aria vibrante.
L’occhio caduco
s’annebbia
e più non vola,
or giace a terra
come foglia morta.
Tra stuoli di sterpi
pestato da piante campestri
si chiude eternamente,
più non vede l’ombra
della sua casa,
più non scorge la luce
che di nuance l’accese
e vivido virgulto lo fece.
L’avvolgono tronchi slanciati
di cipressi schierati
a guisa di fanti compassati.
Protetto lui tace laggiù
colpito dal lampo amaranto
scivolato giù.
Dal suo nido rinnovato muove
il friabile impasto
di palpebre nuove
e la terra si copre di patine chiare
giammai non è sfera
ma focaccia mal lievitata
di grumi e livori butterata.

 

 

 

 

Non andartene
prezioso essere
che in me riposa sereno
come la melodiosa
fissità del cielo.
Non lasciarmi
tra ricordi orticanti
di ciò che è stato
fino all’attimo dianzi
che t’ebbi chiamato.
Rimani qui,
mostrami
come essere un punto
del tuo orizzonte.

 

 

 

 

Il lago accoglie
il corpo tremante
come l’azzurro degli occhi tuoi
la mia anima abbraccia.

 

 

 

Ombrelli

Piovono ombrelli danzanti,
piccole e concave barche
mosse dal cielo in tumulto.
E che folle di manici stretti e nemici
schierati attorno alle vette,
che lotte di fiamme divampa
per montare l’impavida cima
e la pioggia lo placa il fuoco d’ardire
e cangia le fragili tele.
Passano i venti accorati e pietosi..
ahimè or vedo ombrelli solinghi e solitari
sciolti alla pioggia come cuori agli altari
flessuosi e scuri gli ombrelli diventano,
più alti di uno sguardo si ergono,
li immagino tristi e lugubri,
che quasi pare che piangano…
senza più l’ombra dei loro padroni;
senza più il vento che li sostiene;
con la pioggia sassosa nel loro pancione.
Un glabro gorgheggio mi invita,
birbante!
Che quasi mi tuffo nel ventre panciuto
e bevo tutto l’umore increspato;
che gioia che danza e starnuti di pioppi
tra allodole e tordi rido con gli occhi
l’acqua poi spruzzo dalle piume copiose
a suon di schioppo m’arresto e m’inghiotto.
Scompaio,
or vivo ancora del canto,
di un canto dorato dal vento,
di un canto piumoso,
di un canto mozzato dal tempo.

 

 

 

 

Ridi, giri e rigiri, dentro e fuori,
sopra, sotto, intorno, nel fondo e a fondo.
Ecco, affondi nell’aria quadrata
di una stanza piena di te.
Pensieri nuovi cadono nel magma dei vecchi
come foglie d’autunno in tappeti di sterpi.
Tutto se n’è andato,
scivolato via..

Trema il suolo schiacciato
da ricordi nudi e freddi,
presenti e passati, passati e presenti,
sciolti alle pareti..

Pensi che immagini tutto,
che quello che provi lo inventi,
che quello che senti è un inganno,
che canti questa finzione, che vola e viva si fa.
E poi ti addormenti di colpo
con gli occhi più accesi di un lampo.
E le senti nei sogni le voci,
che volano in stormi dritti e rotondi,
lontani e gemelli,
in questo silenzio, che zitto non sta.
In piedi fissi lo specchio
e scruti una forma, un colore,
il quadro di ciò che non eri
ed esser non vuoi.

 

 

 

 

Una risata ghiaccia le mie labbra,
scarlatte stalagmiti taglienti,
schiuse da suoni fluenti.
Libero sbuffi di parole,
dolcemente espirando
catturo il silenzio e me ne riempio,
flebilmente ispirando,
il diaframma s’imbarca e si innalza,
dispiega l’ala sua glabra
verso il bersaglio del mio sguardo.
Sulle tracce del mio passato
il presente il grembo trascina informe,
come con sé madre chioccia reca
il vuoto guscio altisonante.
Avanzo nel nulla esteriore,
rumorosa lo squarcio trionfante
con l’eco di un grido danzante.
La voce risuona geometrica
nera macchia concentrica;
decanta e si scioglie
il colore
una due lacrime
poi scompare
umido il mio corpo si scioglie
e poi muore.
Ordunque tutto questo niente in me si riflette
come pagine bianche in queste parole sono iscritte.

 

 

 

 

Mi vesto di pelle vitalmente dolce
purpureo involucro d’umidi pensieri,
svezzati in succosi fiumi lagrimosi.
Gocciolo, gocciolo sui boccioli dei giardini in fiore,
gocciolo sulle mucose di larve rugose.
Si impregna di me il mondo che sempre ha osato
nutrirsi della mia polpa.
Non più stretto e compresso sei
entro le pieghe dei filamenti miei,
nocciolo di pesca rosea..
Cado fruttuosamente a terra
sbucciata dall’aria
in pezzi a lunetta
sto a pezzi tra i succhi
mi appannano gli occhi
senza seme al mio interno
più lieve e leggera m’avverto
e temo o pesco d’esser ingoiata
al più presto.

 

 

 

 

Posa le sue radici
su pelle solitaria,
stringe ogni lembo
con cura d’artigiano,
come ad avvolgermi
tra bianche lenzuola.
Non sono che un pezzo di vetro
appannato,
se mi guardi solo nebbia
dentro ogni sguardo spento,
torpedine nel mio corpo
tra l’esistente e l’ombra diviso,
non so chi sia più vero..
il magna che è in me
scivola per il dorso,
s’avvinghia al fianco,
in visibilio gittandosi
a petrosi piedi,
carmigni ormai.

Affondo al suolo
l’unghia dei miei pensieri
per seppellirli,
ma anch’io mi muovo
da un sepolcro all’altro,
non trovando l’aria,
che più mi aggrada.
Il mio corpo si mescola
tra cenere e pietre
e pelle più non pare
ma carne senza fiato.
Solo una bara mi regge,
saldamente mi sostiene;
peraltro resta il terrore d’infrangermi,
prima d’esser afferrata
da una mano inesistente.

No, non ascoltare,
non temo più nulla,
giammai voglio essere tenuta.

Che la terra ieratica
spenga il mio spirito
con forza taurina.

 

 

 

 

Si incrociano gli occhi miei con raffiche di ricordi,
è così freddo qui, improvvisamente freddo
di rigide carezze che lacrimo,
lacrimo così, che gocciolo come una spugna
a forza strizzata in una tinozza.
Scendono, scendono picchiettando gocce
in cui bagnarmi potrei
e potessi allora raccogliervi
piccole sferette rugiadose
oblungate dal precipitare.
Non riesco a trattenervi,
ma delicatamente avverto ciò che vive dentro di me.
L’interno lascia un rivolo sul mio corpo,
che rigetta ciò che come estraneo avverte.
Un ammasso di ignoto mi riempie,
i fluidi s’ addensano stringendo il mio cuore
di laghi di silenzio.
Il vengo sfregia il mio volto,
segnando la pietra della mia pelle
e i segni del mondo non sono altro che miei disegni,
che tralci delle mie vite,
delle loro vite,
della vita del mondo,
incastrata a un presente
poco trasparente.
Ciò che sono riflette l’incongruenza delle mie parti,
il sorriso della vita mi tiene interamente insieme,
ma non sana le crepe,
in cui si insidia la mancanza.
Tento di bere ciò che mi tocca..
deficio di forze
e forse la mia bocca vorrebbe rimanere secca
per essere nutrita di latte.
Respiro violentemente per svuotarmi,
perché il vuoto ristretto nei miei confini
troppo mi riempie.

 

 

 

 

Immagina che io sia quest’acqua
rossa di mirtilli e ribes
e il miele ogni visione
che si scioglie nella memoria
addolcendo il tè dei ricordi.
Il tempo raffredda la miscela
e ciò che fui rimane lontano
come la luce del faro
che s’accende debole
illuminandomi.