Alessio Paladini - Poesie e Racconti

Tra le labbra

 

Spigolo di finestra illuminato

ad arginare l’imbuto della sera

una donna fuma avanzi di passato

pensieri biondi in una giornata nera

 

Eterno equilibrio al fil di lama

tra ciò che è e quel che deve fare

il suo ruolo con la voglia di sbagliare

e da dietro una voce già la chiama


 Pane quotidiano

 

 

La bellezza mi morde di soppiatto

come il cieco all’angolo di strada

come il flaccido, il randagio, come il matto

lo stelo a cui nessuno bada

 

Ed io la sopporto quel momento

avendo frequentato la sua assenza

bandiera che garrisce al poco vento

sapendo di dover restare senza


 Sotto sale

 

 

I resti dei miei sogni andati male

invecchiano alla luce della luna

già spinose speranze cadute a una a una

ora involucri di ricci sul fondale


 Largo de São

 

 

Cultura parola senza figli

orfana venduta da puttana

bandiera sventolata tra sbadigli

ninnolo, perlina da collana

 

Furgone nell’angolo di piazza

diritto, percentuale, ipocrisia

menzogna a difesa della razza

lotta combattuta in retrovia

 

La sogno mostro che divora

bicchiere che brucia chi lo beve

bianca di peccato e nera come neve

unico senso al qui e ora


 

Verità in un cappello

 

 

Umanità fragile e sparuta

che rotola come spiccio per la via

non ho trovato da dove sei caduta

quale divina tasca fece economia

 

Non so, in realtà, chi t’abbia perso

lasciata nel dolore del mattino

ma in tutto il resto d’universo

non c’è altra mano né violino


 Torear

 

 

Impegnato in una corrida con il vento

volteggio in veroniche infinite

particella da combattimento

chiusa in un’arena senza uscite

 

Nel circolo di voci e battimani

inseguo il numero perfetto

un altro sventolìo di fazzoletto

che sposti la polvere a domani


 

Alla milonga

Vivo nei luoghi matematici del tango

nell’attesa strascicata d’ogni passo

e nel tempo sospeso in cui rimango

sono il tocco di dio su un compasso


 La cuenta

 

 

            Seduta sul balcone la vecchia guardava in basso. La casa era vuota e sul balcone con lei c’era soltanto una pianta, che aveva acqua nel vaso ma stava morendo lo stesso. Era il 23 di calle Moral de la Magdalena e sotto passava la gente granadina. La vecchia li guardava passare, da anni.

Dietro la finestra tutto era buio e odorava di chiuso, con la polvere sui mobili e le zanzare che giravano in tondo in cerca di sangue o di un torero che le matasse. Soltanto il balcone era la parte viva della casa, sebbene non ne facesse parte. I balconi sono posti strani, luoghi al limite, come lo spigolo della bocca. Tra quello che è di tutti e quello che è segreto, la guancia e le labbra. Arbitrariamente vicini alla casa non le appartengono, né appartengono alla successione di eventi e di persone che li vedono dal basso. Re abdicanti o imperi che si sfaldano. Sono del vento semmai, che spaventava le tende lì affianco e la periferia dei suoi capelli bianchi. La vecchia continuava a tenere i capelli legati, l’anello d’oro al dito, gli occhi aperti nella luce. Non aveva spezzato l’anello e slegava i capelli solo per dormire. La cattedrale era sempre là vicino, con la sua eredità e il suo perimetro di silenzio. Ma alla vecchia non importava più. Non c’erano più buoni ricordi dentro, solo uomini che cercavano l’ombra. E la vecchia aveva smesso il nero da tempo.

Dalla strada saliva l’odore delle spezie e le voci delle persone, ma lei non era lì né per l’uno né per l’altro. A lei interessava solo la vita passante. Più gente passava, più tempo stava a guardarla, più lei viveva a lungo. Voleva vivere più a lungo di tutti gli altri, la vecchia. Si chiedeva spesso quanti se ne erano andati, di quelli che aveva visto passare. Non era stato facile stare seduta su quel balcone: due guerre, povertà, crisi, amori evitati, piccoli viaggi, malattie, brevi respiri tra due compromessi. Il balcone era il risultato di una lunga equazione difficile e piena di variabili. Per cui ora la vecchia contava, ma senza dita e senza numeri.

Granada sfilava nella calle senza saperlo, solo la vecchia lo sapeva. Tutti sfilavano nella calle prima o poi, e tutti le appartenevano.  Era stata anche lei bambina, donna gravida, madre, moglie, era stata una puttana qualche volta, ed era stata anche un uomo di tanto in tanto. Era stata come tutti quelli che passavano.

Come loro aveva camminato a passi svelti credendo di essere seguita, aveva finto di essere felice e aveva pianto senza sapere perché. Si era messa il suo vestito migliore e due gocce di profumo dietro le orecchie. Aveva pulito lo sporco in silenzio, si era sentita inadeguata, crudele, incompresa. Aveva cercato piaceri privati con gli occhi chiusi e aveva avuto due poesie e un ritratto da uomini che non l’avevano mai avuta.

Allo straniero pensava ancora delle volte, per lo più quando vedeva passare giovani coppie mano nella mano. Quel ragazzo che parlava un’altra lingua era riuscito a guardarle dentro. Sarebbe scappata per il mondo con lui, a nord o a sud a ovest o a est, ma aveva sette anni di fidanzamento posati sulle sue spalle e sull’altare della sua famiglia. Così aveva lasciato sedere a tavola la sua bellezza e si era fatta il segno della croce prima di mangiare. Testa, petto, spalla sinistra, spalla destra. E aveva continuato a mangiare facendosi il segno della croce, un giorno dopo l’altro. Immaginando talvolta di ingoiare un gusto che non aveva mai permesso, di provare il sapore di un uomo che la spingesse oltre il suo limite, che desse un senso ai suoi capelli biondi.

Anche il Cristo era biondo, ed il raggio di luce che filtrava nella calle liberava dai peccati. Ma non c’erano Saul a cavallo ad avanzare nella stradina né statue da portare a spalla, solo un vecchio con la camicetta celeste e le buste della spesa. La processione di persone nella strada continuava in ordine sparso e in entrambe le direzioni. Qualcuno camminava parlando da solo, con uno di quei cosi nelle orecchie o davanti la faccia. Era una cosa quasi nuova questa, non erano molti anni che accadeva. Era strano come il tempo passasse lento e gli uomini invecchiassero velocemente. Non poteva non notare che la vita fosse fatta per invecchiare.

La vecchia cambiò un poco la posizione delle gambe. Aveva le gambe pallide e piene di vene, che risalendo dai piedi si spandevano in alto come un intrico di vicoli. Tirò su le dita del piede sinistro senza guardarle e poi le rimise al loro posto. Nella calle un cane avanzava al guinzaglio del suo padrone, ogni tanto alzava gli occhi su di lui come per cercare di capire le sue intenzioni e quello che doveva fare. Tre ragazze camminavano a schiera con gli occhi nascosti dietro occhiali scuri. Un piccolo furgone rosso bruno provava lentamente ad attraversare la via, troppo stretta e affollata dalla gente del barrio per farlo agevolmente. Una donna che passeggiava fumando ne incrociò un’altra che spingeva una carrozzina, si riconobbero e si fermarono a scambiare qualche parola.

La vecchia non amava gli incontri, per lei erano come mulinelli che strozzavano il fluire della corrente. Una coppia di ragazzi dalla fine della strada s’avvicinava al suo balcone a metà della calle, ogni quattro o cinque passi si fermavano per baciarsi. Avrebbe potuto misurare la loro distanza in baci. Con trenta baci sarebbero arrivati al monastero di San Jeronimo, sessanta baci per l’El Albaicin, novanta al Sacromonte, centoventitré per salire sull’Alhambra.

L’Alhambra era solo una scusa, niente di più, una scusa che sovrastava le altre, come far velare una donna per cercare di possederne l’anima. Qualche volta lei si era fatta velare gli occhi, e aveva cercato nel buio quello che non trovava nella luce. Allora le piaceva il buio, ora seduta sul balcone disprezzava l’avvicinarsi della notte. Quando tutto è più difficile da vedere. I suoi occhi non erano più buoni come un tempo, erano ancora azzurri ma senza più cielo dentro. Ma erano tutto quello che le restava, i suoi occhi e quel balcone al centro della via.

Proprio sotto di lei i due ragazzi si diedero l’ennesimo bacio. La vecchia si chiese se facessero l’amore, e se fossero compagni, amici o amanti. La sua bocca aveva conosciuto un solo uomo, la sua bocca e il suo utero. Questo tanto tempo prima, quando l’utero era soltanto un organo impari e le tonache ancora circoscrivevano il lume che le avrebbe arse. Serviva un utero e una benedizione, allora, per mettere al mondo qualcuno. E del seme maschile, quasi sempre.

La vecchia sbatté gli occhi. Quindi voltò la testa da una parte e poi dall’altra, undici persone erano nella calle in quel momento. Verso la sierra già si intuiva il buio e della musica da strada pregava qualcuno da qualche parte. A non più di un metro dalla sua mano una collalba negra si posò sullo spigolo della ringhiera e la guardò.


In breve

 

Un debole chiarore giallo illumina per un momento la stanza, poi il frigo viene richiuso.

L’elettrico russo s’avvicina al tavolo portando una bottiglia d’acqua fredda, l’altro russo Sergej si sta sedendo, Carlos l’ecuadoregno e Alessandro l’italiano sono già seduti.

I due russi hanno i vestiti schizzati di bianco, l’ecuadoregno un cappello nero da pescatore calato sulla fronte, l’italiano solo molto caldo. Fuori è estate. Nel cucinino del piccolo albergo un ventilatore gira la sua testa sopra una credenza, quasi inutilmente.

            Carlos inizia a scartare il pacco avvolto di bianca carta untuosa al centro del tavolino. I quattro uomini sono a contatto di gomito e stanchi e molto affamati. L’orologio tondo col vetro rigato, appeso alla parete, segna le quattro appena passate.

Una donna in grembiule e pantofole s’affaccia nella stanza.

“Allora, quanto manca?”, chiede da sotto i suoi capelli che sono stoppacciosamente biondi.

“Solo una mano, signora”, risponde Sergej senza girarsi.

“Va bene, va bene, ora mangiate. Buon appetito”.

Quattro grazie diversi tagliano l’aria della stanza.

Due polli hanno fatto la loro comparsa al centro del tavolino.

L’ecuadoregno e l’italiano ne dividono uno, i due russi l’altro. Ognuno tira sul suo foglio di carta una metà.

“Buon appetito”, dice l’italiano e stavolta le risposte sono appena bofonchiate.

            Per un po’ mangiano in silenzio.

L’elettrico riempie d’acqua ognuno dei quattro bicchieri di vetro stretti e lunghi, tre cenni della testa seguono il suo gesto.

            Per un po’ bevono e mangiano in silenzio.

“Quasi finito, eh?”, dice Carlos a Sergej infilandosi in bocca una parte del petto del pollo.

“Una mano”, dice Sergej andando a cercare una coscia.

“Hai sporcato molto?”, domanda l’ecuadoregno con la bocca piena, seminascosto dal capello.

“Niente”, risponde il russo sorridendo.

“Te ringrazio amico”, dice Carlos, e l’accenno di baffi che ha sopra le labbra s’allunga.

L’elettrico manda giù un boccone e ricolma premurosamente tutti i bicchieri, sia ai quarant’anni di Sergej sia ai venti di Alessandro e Carlos.

Le loro dita unte si muovono veloci tra le ossa.

Alessandro cerca di bere afferrando il bicchiere soltanto con indice e pollice non ottenendo un risultato apprezzabile, poi si rituffa sul mezzo animale che va scomparendo dal sottile foglio per alimenti che ha davanti.

Sergej si pulisce parte della bocca con un angolo della sua carta che sta aderendo alla squallida tovaglia a fiori che copre il tavolino, così come le altre tre.

L’elettrico regge un osso colla sinistra e strappa coi denti quello che c’è intorno e mentre lo fa spalanca gli occhi. Sono occhi celesti e i suoi capelli sono scuri e crespi come quelli dei suoi figli; pure l’altro russo ha un figlio coi suoi capelli biondi. L’italiano, invece, ha capelli e occhi scuri, come l’ecuadoregno, che però in più ci mette la perenne abbronzatura e una bambina di due anni.

“Perché hai rifatto la stanza?”, domanda Carlos, mordendo a più riprese un pezzo ossuto.

“La signora”, dice Sergej e deglutisce dell’acqua.

“Non andava bene?”, continua l’ecuadoregno. Riuscendo finalmente ad avere la meglio sul suo boccone.

Il russo si stringe nelle spalle e mostra le linee delle vene che gli corrono sugli avambracci al soffitto ingiallito dal tempo e dalla nicotina.

            Della parte commestibile dei polli non è rimasto molto. Mani oleose s’aggirano tra i loro resti. Su un lato del foglio di Carlos, circondata dagli avanzi, è rimasta un’ala, intatta. Alessandro la vede e l’accenna con la testa.

“E’ la parte migliore”, dice Carlos e sorride. Sorride anche Alessandro.

La donna nel corridoio traversa l’uscio come un fantasma, guardando un momento all’interno; solo un istante.

L’acqua nella bottiglia è quasi calda e quasi finita. Sergej mastica ancora, l’elettrico s’è già appoggiato allo schienale della sedia, Carlos ha la sua ala, Alessandro è il più indietro di tutti con un bel po’ di petto da finire.

            “Ehi amico”, dice l’ecuadoregno all’improvviso guardando Sergej, “come se dice mama in tuo idioma?”.

“Mama”, risponde il russo.

“Uguale”, commenta Carlos.

“Uguale”, gli fa eco il russo passandosi il dorso della mano sotto l’occhio sinistro.

“Proprio lo stesso”, interviene l’altro russo, “come vodka”.

“Be’ vodka è vodka siempre”, dice l’ecuadoregno, sfregando le dita tra loro per pulirle.

            L’italiano non dice niente, ma annuisce. Ingoiando un miscuglio d’acqua e petto di pollo.


La disperazione dei piatti sporchi

 

 

            Il ragazzo si chiama Pau e taglia le carote. Fuori venere si mantiene a distanza dalla luna, silenziosa e solitaria. Pau ha già pelato e tagliato sedici chili di patate prima di passare alle carote. Ce ne sono da fare una ventina di chili e lui è circa a due terzi, poi rimarrà solo quell’ortaggio strano di cui non conosce il nome. E’ abbastanza contento di occuparsi delle carote, se fa quello non lava le cose sporche, e poi ha scoperto di poter imparare a maneggiare il pelapatate, non l’aveva mai fatto prima. Può essere una cosa che gli può tornare utile in qualche modo. Ogni tanto getta un occhio all’orologio da parete, forse oggi finirà il turno senza dover lavare tutto, ci sono ancora carote e freschi giallo pallido a sufficenza per arrivare fino in fondo.

Le carote vengono spogliate al ritmo di una musica rock, di cui Pau capisce alcune parole ma non tutte. Intorno a lui, tra il tavolo, la radio, la cucina, si muovono in due, parlando di giocatori di calcio, delle loro donne e di trasferimenti milionari da una squadra all’altra. Così Pau inizia a pensare.

Ognuno cerca i suoi vantaggi, pensa Pau, ed elude le sue domande. Ora, mentre il coltello taglia via la parte iniziale e finale del corpo arancione, gli sembra di vederlo chiaramente. Potrei iniziare a pregare, pensa poi, potrebbe anche funzionare. Lui non crede, ma ha conosciuto tante persone convinte che funzioni. Ogni volta che prova a considerare l’eventualità, però, che prova appena a credere che in fondo non ci sarebbe niente di male, gli arriva l’idea che un dio qualunque possa accontentare le sue richieste e non quelle di un padre che prega per il figlio malato. Si è sempre chiesto come si possa pregare con un peso del genere. Certo pregare è semplice, credere in qualcosa aiuta. Quantomeno a non sentirsi come una carota, pensa Pau, senza capo né coda, tagliati via senza sapere perché. E poi la gente ti guarda sempre strano quando dici di essere agnostico, sembra sempre una risposta difficile per stupire l’interlocutore. Ti guardano strano e pensano tu sia cattivo, o al più indifferente. Il coltello scivola sul dorso tondo e gli sfiora un dito, fermandosi a pochi millimetri dalla carne. Pau si dice che forse farà bene a metterci più attenzione e guarda di nuovo l’orologio, meno di un’ora. Quando fa il turno pomeridiano la vita gli sembra migliore, una manciata di cose in meno da cui tirare via lo sporco e soprattutto la quasi certezza di staccare in orario, di sera si gioca a dadi. Ha provato più di una volta a spiegare che un quarto d’ora non è sufficiente per pulire tutto dopo che la cucina ha finito, ma i proprietari fanno finta di non capire. Così ogni volta che rimane solo la sera, oltre l’orario di stacco, prende qualcosa per sé. Una banana, una mela o un’arancia, quasi sempre, o due di queste a scelta se passa i venti minuti. La sua morale non gli permette di fare di più.

Il sacco nero è quasi pieno di sottili linee arancioni. I due sembravano aver trovato l’accordo sul valore del centrocampista. Pau inizia a sentire qualche fitta alla schiena.

L’ultima carota è trattata con una gentilezza maggiore. Poi è il turno dello strano ortaggio giallino. Pau ci pensa su un istante per decidere qual è la via migliore per tagliarlo. E’ anche curioso di capire come reagirà al pelapatate. Prima di partire fa un passaggio naso-occhi-naso che non gli rivela niente di particolare, se non che l’odore gli ricorda qualcosa di già conosciuto che non riesce del tutto ad afferrare. La pelle viene via facile, rivelando un colore interno molto simile a quello esterno. Bianco sporco con qualche livido bluastro qua e là. Pau emette un suono di approvazione e inizia a tagliare.

Perfeziona il modo mentre pensa all’ultima persona che l’ha invitato a pregare. E’ una persona sorridente e dagli occhi gentili, che non pela ortaggi se non quando ne ha voglia. Si sbaglieranno mica tutti, pensa poi, hai voglia a tenere il punto quando tutto ti dà torto. Il coltello apre le fibre sotto la sua pressione, stolidamente, come un cane che abbaia a comando. Uno dei due si avvicina e lui teme che gli dica di andare a lavare, ma chiede solo per quando deve essere pronto tutto e lui risponde, quindi guarda l’orologio. Forse quel giorno finirà davvero senza passare per il mucchio sporco di fianco al lavandino, ora inizia a crederci sul serio.

Il tempo cade un pezzo alla volta, e quando mancano cinque minuti alle sette Pau sorride. Ha finito di fare circa la metà dello strano ortaggio, più in là di così non potrà andare. Entra in cucina e lava il coltello, dando un’occhiata alla pila di roba di fianco al lavandino. Non è poi così tanta quella sera. Passa per il bagno, quindi si cambia, si rimette l’orologio e riprende i cellulari. Prima di uscire saluta tutti e prende il sacco nero da buttare, poi è fuori.

Lasciato il sacco incontra la sera. E’ fredda e senza vento e il cielo è una vecchia pellicola senza niente impresso sopra. C’è ancora una lama di luce dalla parte della città con venere che sembra averlo atteso, sospesa e fatua nelle sue vesti bianche. Taglia per il parco guardandola, guardando lei e il palcoscenico buio in cui si esibisce. La gente non lo guarda più il cielo, probabilmente perche sa che sarà lì anche domani, pensa Pau, ci fosse una selezione, la possibilità aperta una sola volta al mese o un’altra restrizione qualunque farebbero a botte per guardarlo. La gente prega ma non guarda il cielo, pensa mentre traversa tutta la macchia scura con lo sguardo alto sopra l’orizzonte. Alla fine del parco passa il ponte di ferro sul fiume. Sotto i cigni dormono sull’acqua, galleggiando, come una manciata di stracci bianchi lasciati a mollo. Quindi prende per water lane e green end road, spiando nelle case ogni volta che può. Nei salotti e nelle cucine. Ci sono miliardi di cucine al mondo, pensa, miliardi.

A metà di green end road inizia a vederlo, bianchiccio con la sua base squadrata e le tre forme tondeggianti e allungate sul tetto. Basta una piccola deviazione. E’ questa la sera, pensa Pau, non può non essere questa. E poi loro sono tanti, ragiona, non può dargli troppo fastidio. Numerosi ed estranei può sempre considerarlo uno scherzo, si dice. Mentre s’avvicina al portone d’ingresso si guarda le mani, pieni di minuscoli tagli e di linee ruvide che non vengono via. Rallenta il passo, così prima di lui entra una donna; la cosa lo incoraggia. Si infila dentro giusto dietro di lei.

All’ingresso non c’è nessuno, solo un anonimo spazio bianco con luci e telecamere. La donna sale verso destra, e Pau vede che ci sono accessi separati per uomini e donne. Imbocca quello per gli uomini sotto la scritta in due lingue, a nessuna delle quali appartiene. Dopo le scale c’è un altra sala spoglia, con uno scaffale poggiato al muro per lasciare le scarpe. Pau si toglie le scarpe e apre la porta verso il corridoio nel quale nessuna scarpa è ammessa. Per terra c’è una moquette rosso spento, passa due porte da ufficio e finisce in una saletta allungata. C’è un appendiabiti attaccato alla parete con diverse giacche appese ed una panca di legno vicino ad una porta. Pau si toglie la giacca e si siede sulla panca, può sentire il suono di una voce che cantilena qualcosa oltre la porta. Si affaccia al quadrato di vetro e vede tre uomini seduti a terra, gambe incrociate sulla moquette rosso spento. Si risiede. Di fianco alla panca c’è una cesta con delle noci di cocco, intere. Ma che faccio, pensa Pau. Le noci di cocco l’hanno fatto sentire straniero. La voce cantilenante prosegue nel suo flusso monotono, apparentemente senza interruzioni.

Un uomo dalla pelle bruna arriva nella saletta, si toglie la giacca ed entra per la porta, innalzando per un momento il volume della cantilena. Dopo un paio di minuti ne arriva un altro e la procedura si ripete. Entrambi lo hanno guardato per un istante passandogli davanti e lui ha accennato un sorriso, sperando di mostrarsi innocuo. O entro o me ne vado, pensa Pau, non posso rimanere qua. Si guarda di nuovo le mani, per decidere. Quando è ancora incerto, arriva un terzo uomo, stavolta dalla pelle chiara come la sua. Ha i capelli bianchi, l’aspetto occidentale e l’aria mite. Entra anche lui come gli altri. Questa cosa fa pendere la bilancia. Si alza e con cura apre e richiude la porta alle sue spalle.

L’uomo che è appena entrato prima di lui si sta prostrando di fronte ad un altare, è la prima cosa che vede. Ginocchio, carponi, sdraiato, allungato a terra con le mani protese in avanti, quindi di nuovo in ginocchio, carponi, sdraiato. Pau si va a sedere in un angolo, cercando di dare nell’occhio il meno possibile. Seguendo il movimento ciclico dell’uomo guarda l’altare. Ci sono tre figure, colorate e luminose, una di fianco all’altra e molto simili tra loro. Una sorta di uomini, pensa Pau. Hanno quattro braccia e due gambe in posizioni varie e ghirlande attorno al collo. Devono essere tre divinità, pensa ancora. Quindi gli viene voglia di avvicinarsi, ma si trattiene. Più tardi, se troverà il momento. Alla sua destra a circa sette metri da lui c’è l’uomo che cantilena. Seduto a terra, schiena ad un paravento, ha un microfono davanti che ne raccoglie la voce. Sparse intorno ci sono altre  otto persone, tutte sedute a terra a gambe incrociate, rivolte verso l’altare.

Dall’altra parte ci devono essere le donne, pensa Pau guardando il paravento. E’ una sorta di mini parete mobile alta due terzi del soffitto. L’uomo dalla pelle chiara ha smesso di prostrarsi e si è alzato per avvicinarsi all’altare, quindi sparisce alla sua sinistra. Dopo qualche secondo Pau lo vede ricomparire a destra. E’ una specie di isola, pensa, ci girano attorno.

L’uomo regge un sacchettino in una mano e cammina intorno all’altare, sparendo e ricomparendo ad intervalli regolari, sempre con lo stesso passo. Pau si mette ad osservare i suoi giri ipnotici, contando i secondi delle sue sparizioni-apparizioni. La sua regolarità è quasi surreale. Ci sono delle ceste ai piedi delle tre immagini sull’altare, a Pau ad una prima occhiata sembrano piene di frutta. Ma è al secondo sguardo che si convince che è così, è tutta frutta intera. Un secondo uomo si alza e inizia i giri all’altare. Anche lui ha un sacchettino con le dita infilate dentro, ma l’espressione è più corrucciata. Si mantiene a tre-quattro passi di distanza dall’altro con la stessa frequenza, in una rincorsa impossibile e infinita.

Un orologio da parete in alto sulla destra segna le sette e venti. Due persone una dietro l’altra entrano e si siedono a terra, tra gli altri. Quindi un altro e poi un altro ancora, molto più giovani. Hanno tutti la pelle bruna e alcuni hanno i baffi, specie tra i più anziani. Lui e l’uomo orbitante attorno all’altare sono gli unici di carnagione chiara. Il flusso di persone in entrata aumenta notevolmente col passare dei minuti. Da una porta a sinistra, dietro l’altare, vengono fuori anche due uomini vestiti di bianco. Sono un ragazzo ed un vecchio ed indossano la stessa cosa, una specie di mantello color neve che gli fascia tutto il corpo. Il ragazzo gli si avvicina e Pau nota i suoi calzini di spugna, sono del tipo corto con linea verde e blu attorno alla caviglia. Quei calzini ai suoi occhi spezzano tutta la mistica che l’arrivo dei due aveva creato.

I due satelliti dell’altare finiscono il loro peregrinare e si siedono anche loro, aumentando il mucchio di uomini seduti a terra. Di fianco a Pau, alla sua sinistra, ha preso posto anche un uomo con un bambino. Il bimbo avrà circa tre anni e l’uomo l’età giusta per essere il nonno. Indifferente al resto il bambino inizia a giocare con una macchinina, facendola andare sulla moquette rossa e sulle gambe e i piedi dell’uomo. Pau sorride spontaneamente nella loro direzione e così fa l’uomo guardandolo con un cenno di approvazione. Il vecchio vestito di bianco prende posto davanti al microfono al posto del precedente, così le cantilene ricevono una nuova spinta. Pau, che si stava alzando per avvicinarsi all’altare prima di andare via, si accorge che il pavimento si è piuttosto riempito negli ultimi minuti. Il quadrante dell’orologio segna le sette e trenta in punto. Quando tutti iniziano a cantare in risposta al monaco, si rende conto che è partita una sorta di funzione.

La messa induista, pensa mezzo sorridendo. Il ritmo stavolta è più scandito, con ripetizioni a velocità crescente e inserimenti di battiti di mani. Lui non fa niente del genere, ovviamente, e spera che il suo stare in disparte lo preserverà dagli sguardi inquisitori. Dopo qualche minuto comincia a capire la circolarità di alcuni suoni che si ripetono all’inizio e alla fine delle linee cantate. Quando tutti si alzano in piedi, si alza anche lui, naturalmente, gli sembra una forma di rispetto. Il problema nasce quando gli altri iniziano a prostrarsi. Non può buttarsi a terra, in ginocchio o sdraiato, ma non può nemmeno rimanere seduto, comodo e indifferente, come una spina su delle dita in movimento. Così decide di accovacciarsi, gli sembra la cosa più sensata.

Occhi bassi, pensa, e faccia seria.

Alla fine delle genuflessioni e di un battito di mani perfetto e crescente, Pau guarda il bambino. Si è un po’ allontanato dalle gambe del nonno, cercando nuove strade per la sua macchinina. L’uomo lo richiama a sé con uno sguardo. E Pau pensa all’universalità di qualcosa che non riuscirebbe a spiegare. Mentre il vecchio monaco prosegue nella sua processione di canti, l’altro si alza e chiude un sipario davanti all’altare, nascondendo le tre divinità agli occhi dei fedeli. Quando si risiede sopra i suoi calzettoni bianchi, tutti hanno ricominciato i loro movimenti di deferenza. Tutti tranne l’uomo al microfono, Pau e il bambino. Accovacciato nella sua posizione Pau guarda l’orologio e si domanda quanto possa durare quella specie di messa. Poi pensa che non deve farlo, deve vivere quel momento non aspettare che finisca, anche perché non ha idea di quanto potrebbe stare in attesa.

Il giovane in bianco si alza di nuovo e di nuovo tira la corda facendo sparire il drappeggio dietro l’altare, con un movimento fluido che a Pau piace molto.

Chissà che fanno dall’altra parte, pensa, non si sente cantare. Gli piacerebbe fare un’escursione di là del paravento, per vedere se anche le donne si inginocchiano e si prostrano, con il tintinnare dei loro braccialetti e delle cavigliere. Pau guarda in alto, verso il soffitto, bianco con gli altoparlanti e le bocchette dell’antincendio. Quindi si fa un giro con gli occhi intorno, cercando di essere discreto. Se l’era immaginato diverso l’interno, più ricco, più formale, più esotico.

Mentre gli altri proseguono nei loro canti e battiti di mani, seguendo l’uomo alla loro sinistra, e l’altro monaco in calzettoni apre e chiude il sipario un paio di volte, Pau si richiede per quanto tempo sarà intrappolato là dentro. Pure le ripetizioni infinite hanno una fine, si dice. Si accovaccia ancora una volta, e pensa se i suoi amici di là del mare lo vedessero in quel momento.

Una messa induista, pensa, solo io.

Il ragazzo vestito di bianco si alza dalla sua sedia in un angolo e va all’altare. Lentamente ed un po’ alla volta ritira le ceste piene di frutta. Fa diversi viaggi.

Pau si accorge che una rosa con il gambo tagliato corto sta girando tra gli uomini seduti a terra. E’ una rosa rosa, aperta per due terzi. Gli uomini se la avvicinano alla testa tre volte, sulla bocca, sulla fronte e sulla nuca, prima di consegnarla a quello accanto. Pau osserva il rituale ripetersi da un uomo all’altro, e si chiede cosa farà lui quando l’onda approderà alla sua spiaggia. Per sua fortuna la rosa fa il giro largo, dandogli modo di pensare. Non può semplicemente passarla, ma nemmeno mettersi a fare quella cosa. Decide che la porterà al naso, per sentirne l’odore, in una versione mascherata di quello che gli altri stanno facendo. Quando il fiore arriva all’uomo con il bambino lì affianco, si sente pronto. L’uomo riproduce il movimento per sé, quindi prova a farlo sul viso del bambino, che gira la testa e la scuote per sottrarsi. Poi il gambo arriva a lui da un volto mezzo sorridente, questo lo rilassa. Sente il profumo della rosa, vero e intraducibile. Poi la consegna all’uomo seduto alla sua sinistra.

Pure questa è andata, pensa. Bello però, strano ma bello.

Perde di vista il destino della rosa per seguire il giovane monaco, che entra spingendo un piccolo tavolino vicino alla parete di destra. Pau lo osserva dare qualcosa all’uomo più prossimo al tavolo. Continuando a guardare si accorge che gli uomini stanno via via mettendo quel qualcosa sul pavimento, vicino le loro gambe incrociate. È un sacchettino di plastica trasparente, e i devoti se lo aprono davanti dandogli la forma di una ciotola squadrata. Uno alla volta i sacchettini trovano posto sulla moquette rossa, come strani cappelli di mendicanti. Arrivano anche a lui, naturalmente, seguiti dall’annuire della testa e dalla mano aperta che indica a terra dell’uomo bruno che glieli ha passati. Un’indicazione muta e universale a fare lo stesso. Pau ne prende uno e cerca di riprodurre meglio che può quello che vede attorno a sé. Quando ha finito guarda quella forma arrangiata ad un palmo dai suoi calzoni da lavoro, valutando ad occhio se è abbastanza simile alle altre. Ed attende.

Il ragazzo ammantato di bianco passa in piedi tra i cespugli di uomini, versando con un mestolo pezzi di mela nei contenitori trasparenti. Sono tutti spicchi con la buccia rossa, non più di tre o quattro a testa. Al suo turno Pau ha già visto gli uomini prima di lui chiudere i sacchetti, e poi alcuni alzarsi per andare via. Così, appena la sua parte cade nella busta, la annoda come gli altri. A lui sono toccati tre pezzi, ma belli grossi. Prima di alzarsi chiede timidamente al vecchio alla sua sinistra se è possibile mangiarli, non vorrebbe commettere qualche sacrilegio, l’ira di una divinità qualunque è l’ultima cosa di cui ha bisogno. L’uomo risponde di sì, con l’espressione di chi si chiede cos’altro se non quello. Rimane seduto un altro minuto, avendo idee vaghe del perché, poi esce avvicinandosi più che può all’altare ma senza fermarsi.

Imbocca la porta e si rimette il giaccone, infilando il sacchettino nella tasca esterna. D’istinto controlla la presenza del portafogli. Cammina per il corridoio pensando di ritornare. Si rimette le scarpe e prima di scendere legge gli annunci attaccati al muro. Riunioni religiose e corsi di lingua. Altri uomini intanto stanno andando via alla spicciolata, non molti. Al piano di sotto passa per i bagni senza un vero bisogno, come volesse rimandare la strada ancora un po’. S’avvicina alla porta d’ingresso dando le ultime occhiate in giro. Chiuso su se stesso avanza nel freddo verso casa, con in tasca un po’ di mela in una busta.