Fresche profondità
Gole riarse attendono…
Attingere e dissetarsi
è diventato sogno…
Oggi anche il pozzo piange:
piange la solitudine del cuore,
piange il silenzio…
piange le impurità
che nell’oscuro grembo
minacciano la vita!
Ancora tanta,
troppa umanità
corre deserti e aridità
ché non si placa, no,
la sete d’infinito,
memoria di una storia,
memoria di un Amore,
di un Dio
che ha camminato
su queste nostre strade,
divenendo sorgente
per le arsure immense
che bruciano le menti,
i cuori, le speranze…
Ed anche il pozzo lacrima:
ché non ha più
acqua da donare!
Domande
In quale frantumata adolescenza
abito ancora,
senza sapere districare il sogno?
Quali meandri
limpidi e fanciulli
giocano dentro i miei abissi?
In quale sconfinata
profezia di tenerezza
trova conforto
l’anima, la mente?
È sempre più strizzato il cuore
ed arde
nell’agonia del tempo
che tarda le sue albe
e brucia le sue notti illuni…
E desidero e sogno
e ancora ardisco
passi e cammini
pur nelle retrovie
aride di risposte…
E ancora avanzerò,
ancora frantumerò
zolle di ghiaia
infreddolita e amara
per restituirmi,
lacerata dai venti
alle rugiade buone
del mattino…
Stilla preziosa
Silenziosa e furtiva
irrori i frutti della terra
che nutrono la nostra fame;
sei balsamo e conforto
quando, soavemente,
lenisci le ferite,
restauri secchezza e aridità,
là dove alla creatura,
la fatica e il sudore
nel trarre dalla terra il pane,
o il vento o la salsedine
sferzando con violenza
piagano mani e volti…
Nel tuo oro brunito
di stilla umile e leggera
che scivola soave,
io leggo
il sogno della zolla,
la carezza del sole
che ha fecondato il ramo…
colgo rugiade pure
di notturni silenzi…
l’argento delle fronde
nel cielo azzurro visitato
da una brezza bambina
a primavera, quando…
tutto è risveglio di vita,
tutto è nuovo,
nel pronunciarsi di germogli
nell’accenno di frutti
che saranno, domani,
la tua oliva buona
che non teme
di essere spremuta
e tutta si lascia derubare…
E forse, poi, ancora,
lasciandoti bruciare
dall’amore e dal sole,
nel buio e nel silenzio,
dirai la Sua presenza,
tutto l’essere Suo divino
fattosi pane e nutrimento
per restare per sempre
accanto all’uomo…
e colmarlo di Sé…
soavemente…
Angeli del Saharawi
Visetti dolci
sguardi sorridenti
trascorsi con grazia
in mezzo a noi,
vi restituisce, oggi, il cielo,
a quella vostra terra
che si è fatta avara,
solo per la sua gente,
ingiustamente derubata
d’ogni sua ricchezza,
d’ogni bene,
quasi di futuro, per voi,
appena all’alba
dell’avventura della vita!
Popolo bello e buono,
ricco di dignità e speranza,
vi restituisca, presto, l’uomo,
ciò che un uomo
ha rubato a un altro uomo!
E crolli in fretta, il muro,
la recinzione amara
che ha lacerato ogni libertà!
In voi sogni di pace,
e desiderio,
nostalgia profonda,
d’essere ancora popolo
ricco di storia e di memorie
scritte con lacrime e passione
in quelle sabbie ardenti
che racchiudono strade,
in mai arresa dignità,
verso il domani,
perché sia migliore
quello che attende
i vostri bimbi…
Sigaretta spenta
Abbandonata lì,
in un incavo,
fra la terra e il tronco…
nemmeno l’albero
debba custodire
questa scoria venefica!
Che altro, ancora?
Son già troppi i soprusi,
troppe le violazioni consumate
ai danni del creato!
E – forse – piange l’albero,
derubato d’aria pulita,
costantemente defraudato
in questo inquinamento
che non ha più tregua!
O uomo, tu,
chiunque sia,
incapace di reggere il silenzio,
incapace di tacitare
voglie ed istinti,
lo sai, tu,
che stai uccidendo il mondo?
Lo sai
che bruci il tuo futuro
e quello d’infinite creature?
È nulla, certo,
un piccolo cilindro bianco,
involucro a una dose
che appaga la tua ansia…
E poi?
Ora è l’andare
Ora è l’andare…
Fra i meandri del tempo
e le scorie di una speranza
che sembra addormentarsi
mentre anela a rinascere…
Il tempo della sosta è terminato…
Ardono fuochi
in fondo al cuore,
nelle vallate dei nostri sogni
così spesso feriti,
abbarbicati a nuda roccia,
disillusi e graffiati
da una realtà
che si fa spesso amara…
Ma non s’arresta, no, il passo,
di noi, creature nomadi,
vagabonde di vita,
riarse nei crateri inermi
che a lava incandescente
han sostituito
cenere e terra bruna…
Ma il cuore sa!
Sa che oltre ogni siepe,
ogni recinto,
oltre ogni sbarra o inferriata,
che vorrebbe imprigionare l’anima,
è l’azzurro gravido di luce,
macerato da pioggia
che ne ha deterso i lembi
restituendo splendore…
E andiamo, dunque!
In questo nostro tempo dell’andare!
Ridisegniamo il passo,
ricomponiamo
il nostro esistere
al ritmo antico e sempre inedito
della nostra esistenza
che beve all’Infinito…
Nebbia di settembre
Muta, solerte,
s’insinua fra le case,
lungo i pendii scoscesi
vuoti di passi,
di parole,
vuoti di raggi,
di orizzonti…
assente ogni rumore
quasi che il giorno
stenti a risalire
dal talamo notturno.
Giunge ovattato il suono
di un motore lontano…
Un uomo, in bicicletta,
pedala incontro al nulla,
ed è presto ingoiato,
da impalpabile manto
che ogni cosa abbraccia,
tutto avvolge…
Su tutto è nebbia!
Tutto è scomparso!
Ammaliatrice afona,
penetra ovunque!
Dall’uscio aperto
spalancato sulla breve piazza
di cemento e foglie,
dove alberi stanchi
per la lunga arsura
si stanno denudando,
non invitata ospite,
avanza, morde, avvolge
il corridoio appena illuminato,
e la luce soffusa,
diviene incerta,
bagliore appena,
naufragante esausto
in un mistico alone…
Il giorno in cammino
Il giorno si è rimesso in cammino
lungo le vie dell’uomo
percorrendo i sentieri
della sua storia d’oggi.
Il giorno non è ancora pieno!
Sguscia, furtivo,
dalle ombre notturne
vagabondo in un cielo senza luce
fra dense nubi
dove non sono arcobaleni,
e tende le sue mani scarne
a strappare i fili
tessuti nel riposo
dai ragni sempre pronti
a fare prigionieri i cuori.
Il giorno vuole essere di pace,
vuole attingere acqua
alle fontane di granito
disseminate in tutte le regioni
dove i poveri vanno
perché non hanno più cisterne
e recano canestri
dalle trame strappate,
vana speranza di passare oltre.
Parte di questo giorno
parte di questa umanità
che non ha casa
fra le stanze del bene,
mi faccio anch’io, con l’uomo,
mendicante d’attesa e di speranza.
Il giorno tornerà.
Il giorno avrà le menti acerbe
e uncini insanguinati di paure,
ma noi andremo,
noi, umanità in cammino
verso lidi fioriti,
oltre il deserto,
oltre ogni nostra angoscia,
per colmarci le mani
di corolle raccolte
dagli avari cespugli
che hanno visto rovi
trasformarsi in fiori.
Il ramoscello di mandorlo
Usciva dai silenzi dell’inverno.
Usciva da quel tempo in cui la vita, più che addormentata, pareva morta.
Usciva dopo lunga, trepidante attesa.
Indossava un abito di seta azzurro; ai piedi piccoli sandali intrecciati di steli teneri e bocciolini di margherite; i lunghi capelli biondi fluivano dalle sue spalle a richiamare la luce…
Il sole risvegliava le nevi e i segreti mormorii della montagna…
Primavera si guardò attorno, l’iride azzurra colma di sorriso: era tutto nuovo, ancora una volta!
Le pupille si posarono sulla grande vallata percorsa dalle nebbie del mattino.
Ebbe come un brivido: non per l’aria pungente del febbraio non ancora trascorso: era piuttosto una remota preoccupazione a farla trasalire.
Lo sguardo attento, penetrante, diceva una inquietudine appena celata: laggiù, nella valle prossima a rinverdire, un mandorlo, più caro d’ogni altro albero, le era apparso, nelle ultime visite, come stanco e, in un certo senso, incapace di continuare a fiorire.
“Cosa posso fare ancora per lui?”, si domandò, una sottile vibrazione d’angoscia nella voce dolcissima.
Liberò i piedini dai preziosi sandaletti – perché sempre, era solita dire, ci si deve sciogliere da qualcosa che ci è caro, per amore di chi amiamo – e si diede a correre leggera e frusciante giù per il pendio, lasciando la sua dimora spalancata a nuove brezze.
Con sé non portò nulla: solo la vita, l’amore, il desiderio che pulsavano indicibilmente in tutto il suo essere.
È vero, era presto risvegliare tutte le creature, ma Primavera amava il suo mandorlo, e pur senza trascurare alberi, fiori, steli e corolle di quei prati immensi, desiderò andare a lui con un dono nuovo.
Avrebbe fatto in modo che nessuna delle altre sue creature potesse soffrire sentendosi trascurata, e attese la notte.
Stelle e stelle rilucevano nell’infinito, e uno spicchio di luna – lacrima d’argento nel manto blu della notte – era apparso nel cielo.
Aveva atteso tanto quel momento!
E se il suo mandorlo fosse stato ancora immerso nel sonno?
Sarebbe riuscita a ridestarlo?
Ne conosceva bene – oh, quanto li sapeva! – il soffrire, l’agonia, quella sorta d’incapacità di dare ancora vita mentre la linfa scorreva pura e limpida nelle sue profondità.
“Ti saluto, Primavera! È l’ora, già?”.
“No, mio dolce mandarlo! Sono venuta da te solo, perché ti amo troppo, e desidero che tu possa tornare a splendere di fiorellini bianchi e foglioline nuove…”.
“Lo so, conosco la tua attesa! Ed io ti ho tanto deluso! Dimmi: cosa posso fare? Metterò da parte ogni paura, abbandonerò i miei rami nudi nelle tue mani, ti lascerò fare, questa volta, anche se farà male!”.
“Vedi, mio dolce mandorlo, devono venire da te fiorellini non toccati dal fango che si muteranno in mandorle dolci e piene d’unzione. Le mandorle nuove, poi, percuoteranno la pietra, e dalla pietra scaturiranno acque abbondanti. Ma non sarà subito! Solo dopo lunga e paziente attesa, ciò accadrà…”.
“Capisco! Davvero comprendo, ma ho dei timori…”.
“Dimmi con fiducia, sono qui per aiutarti!…”.
“Vedi, i miei rami sono tutti buoni!
Tutti, sempre, hanno sciolto con me l’inno di lode e cantato la speranza!
Tutti hanno pianto e gioito con me… eppure… alcuni non riescono a comprendere…”.
“Non riescono a comprendere, vuoi dire, quanto sia importante, inevitabile, il lasciarsi prendere da me per liberare ciò che ti appesantisce impedendoti di svettare nell’azzurro e prolungare la tua ombra ristoratrice?”.
“Essi sono molto stanchi, Primavera, e non si accorgono delle loro esigenze più profonde: essere alleggeriti dalle scorie di trascorse primavere per respirare, liberi, la luce, e regalarla. Io te li affido!”.
“Non temere più!
Nelle mie mani tutto diverrà pace!
Poi passerà l’Amore.
E sarà miracolo!
Ancora!”.
Lo scoiattolo e la colomba
Da poco era cessato l’inverno.
La Primavera aveva sfiorato con le sue dita tutte le cime nude degli alberi e il miracolo antico del ridestarsi della vita si era ripetuto. Il bosco risuonava di canti, di suoni, dei lavori di sempre.
Lo scoiattolo Arturo si stava godendo il tepore delle prime giornate di sole sui rami più alti dell’antica Quercia.
Gli piaceva arrampicarsi fin lassù: a mostrarsi ai suoi occhi era l’immensità di un paesaggio sconosciuto che gli faceva nascere dentro una nostalgia senza nome.
Chiona, la grande Quercia, lo conosceva ormai da tempo, e talvolta lo aveva anche rimproverato:
“Perché continui a perdere tempo? Cosa sogni, così, ad occhi spalancati? Ciò che vedi laggiù non è fatto per te! Pensi forse che abbandonare tutto, ogni certezza, ciò che è stato finora il mondo degli scoiattoli, sia molto intelligente? È sempre un grande rischio, sai! Pensaci bene! Io, al tuo posto, non farei un solo passo. Quando è tutto ben piantato, quando il tempo ha fornito le sue sicurezze, perché tentare l’ignoto?”.
Forse la Quercia aveva ragione, ma Arturo continuava a sognare… “Oh, poter andare laggiù! E bere la novità perenne della vita che – era solito ripetersi – è la novità perenne dell’Amore, e soltanto dall’Amore nasce la vita”.
Cominciava a sentirsi sempre più stretto nella sua vecchia pelliccia, provava sensazioni che nemmeno a se stesso era in grado di spiegare: si sentiva scoraggiato, triste, deluso… con una gran voglia di cambiare tutto, perché vedeva bene che ogni cosa, attorno a sé, sapeva di stanchezza…
Altri scoiattoli stavano cominciando a seguirlo. Non sapevano ancora bene cosa stesse succedendo ad Arturo, ma quella sua segreta nostalgia, quell’ansia incontenibile, quel desiderio profondo, erano ben più di un richiamo!
Nella loro tana, divenuta ormai troppo grande, c’era un lavoro immenso da sbrigare ogni giorno, e non restava più tempo da dedicare alle cose belle capaci di rallegrare il cuore.
Il mondo degli scoiattoli era ormai irriconoscibile: essi lavoravano, e lavoravano, e lavoravano…
Erano rimasti in pochi e così non potevano continuare.
Ma non sapevano decidersi: lasciare la vecchia tana, andare… e dove, poi? “Sono pregne di ricordi, queste pareti, qui è viva la nostra storia. Cosa ci attende oltre questa soglia?”.
La realtà più vera – e che non avevano mai il coraggio di dirsi apertamente – era una sola: avevano paura!
Non si sentivano preparati ad affrontare i rischi di un’avventura diversa.
Bisognava attraversare un fiume che spaventava con i suoi gorghi e le sue acque non sempre chiare.
Lentamente cominciava a farsi sentire l’urgenza della decisione da prendere, e non da soli! Tutto il mondo degli scoiattoli era chiamato in causa: sarebbero dovuti essere uniti nella scelta che richiedeva un grande coraggio…
“Io devo andare!”, disse a voce alta Arturo, come concludendo un interno colloquio.
“Dobbiamo andare! Così non possiamo più vivere! E non gioviamo a noi stessi né agli altri”.
Uscì. Andò a rifugiarsi nel cuore della grande Quercia.
Dietro di lui, altri scoiattoli si mossero, decisi a tentare nuovi sentieri. Non era facile decidere!
Mentre se ne stava tutto pensieroso, passò, volteggiando, la colomba Lucilla, sua grande amica.
“Che hai, Arturo? Pensi sempre di realizzare il tuo sogno? Fa’ in modo che non sia troppo tardi! Gli indugi possono essere pericolosi! Le importanti decisioni della vita non possono prenderle gli altri al nostro posto! Dobbiamo lasciarci guidare, illuminare, consigliare, ma poi il passo spetta a noi!”, gridò, allontanandosi, Lucilla.
Trascorse diverso tempo. Mattino e sera Arturo era ritornato presso la grande Quercia, ma Chiona taceva…
Aveva atteso ansiosamente il passaggio di Lucilla, ma della sua amica nessuna traccia…
Egli si sentiva perduto! E il cielo si era fatto oscuro, minaccioso…
Pioveva ormai ininterrottamente da alcuni giorni, e tutto, nella casa degli scoiattoli era divenuto precario.
Gli scoiattoli più anziani si sentivano molto male e pareva stesse venendo meno, in loro, anche la forza che li aveva sostenuti fino a quel momento; i giovani, sempre più incerti e impazienti, non sapevano che dire e cosa fare.
“Sarà molto doloroso, sì, ma dobbiamo deciderci a passare il fiume!”.
Nel cielo riapparve la colomba splendida e luminosa. Cosa stava succedendo?
“Finalmente hai compreso, Arturo? Ti ho lasciato solo, in questo tempo, perché tu e i tuoi amici comprendeste.
Quando la realtà fino allora sicura ci è divenuta stretta e noi non siamo più gli stessi perché tutto si è fatto inadeguato, è tempo di andare, è tempo di mutare, e insieme dobbiamo incamminarci verso l’orizzonte”.
“Come faremo a raggiungere l’altra sponda? E se spunteranno i nemici? Come ci difenderemo da loro?”.
“Chiederò aiuto al Sole librandomi verso di Lui”.
“E non temi, tu, di bruciarti le ali, avvicinandoti così al Sole?”.
“Accanto al Sole le ali non si bruciano, si trasformano in luce. Chiederò io al Sole di farsi ala soave per farvi guadare il fiume, e poi nube luminosa nella notte per proteggervi dai nemici…”.
“Andiamo! Senza più indugi! È già tardi, ormai!”.
E tutti gli scoiattoli si misero in cammino, rotti gli argini delle ultime incertezze…
Nel cielo era spuntato l’arcobaleno…