Andrea Biondi

Poesie e Racconti


Inquietudine

Crollo sotto il peso del vuoto
nel rumore confuso del silenzio
tra le cento pieghe di una foto
col sapore amaro dell’assenzio.
Puntuale l’ombra della sera
governa ondate di solitudine
e falsi segnali di primavera
di lei che c’era, l’inquietudine.

 


 

Remata

Una remata lunga e potente
spacca la voce del silenzio
e nel respiro di un laurenzio
getta per aria spruzzi di niente.

La canoa procede spedita
e nell’effimero di una vita
mette stranamente radici
nel coro stonato di adulatrici.

Felicità raggiunta laggiù,
dove tutto tace, dove tutto è pace
dove l’acqua alla fine riposa
e l’amore ha gli occhi blu.

 


 

Smartphone e semi di zucca

Sono nato forte, nel lettone dei nonni, in un giorno d’autunno, con la tramontana che sferzava le vie di un borgo senza tempo. Sono nato forte, senza dottore, visite specialistiche ed ecografie 3D. Sono nato a 40 km dall’ospedale, a due ore di corriera (la Cat)  e di strade  polverose da quella che erroneamente in tanti – lo si scoprirà solo dopo – chiamavamo la “civiltà”. 

Siamo nel 1960. Tedeschi e americani sono transitati appena quindici anni prima, persino da Serrazzano, paesino in collina, tra i castagni, con poco più di 500 anime, nel cuore della geotermia, in Toscana.

Sono nato forte. Soltanto con la levatrice, con pezze di panni caldi fumanti, una bottiglia di una sottomarca di cognac e tre  comare sgarruffate, avvezze a risolvere ogni situazione, compreso un parto, ovvero la normalità, l’inizio della vita.

 
“E’ un maschio”, disse Anna, la levatrice. E la voce echeggiò veloce come il vento, in ogni angolo del paese, per la felicità di tutti, in particolare di Nello, che con la scusa di aver indovinato il sesso del nascituro, entrò nel Circolo del paese per ritirare la vincita e sorseggiare così un bicchiere di rosso.

Mi hanno chiamato Andrea, dal greco Andreas, nome che riconduce a forza, valore, coraggio. Ma nessun parlava greco in famiglia, e a ben guardare nemmeno l’italiano, quanto un radicato dialetto pisano, che a me hanno estirpato – ahimè – dopo anni di scuola, sotterrato da un insieme di parole in bello stile che sarebbero però, ironia della sorte, state riposte ben presto in un cassetto, a vantaggio di altre prole ritenute più moderne, e così via.

Quindi Andrea, figura di spicco del Cristianesimo, con onomastico il 30 novembre, e santo secondario del giorno 10 novembre, dopo il santo primario, ovvero San Leone Magno. Che rischio ho corso! Anche se il nome Leone fa riferimento, guarda caso, alla forza e al valore.

Sono nato forte, in casa, con l’odore del caffè d’orzo proveniente dalla vecchia stufa a legna, mischiarsi presto con quello dei biscotti al rosolio, liquore a buon mercato, dal significato augurale, propinato in quei minuscoli bicchieri di vetro che di solito riempivano, accatastati in gran numero e in ordine sparso, un angolo della vetrina a muro della nonna. 

Amalia era una bella ragazza di 19 anni, con occhi scuri e lunghissimi capelli neri. Una bellezza etrusca, e come il fratello Niccolò era l’orgoglio del babbo, che aveva reso nonno dopo una nottata di travaglio. 

Di mio nonno materno ho pochi ricordi. Era un vecchio coi capelli bianchi che ogni giorno tornava dalla macchia con qualcosa nel tascapane: cacciagione assortita ma anche funghi, asparagi, qualche tartufo, noci, mandorle, fragole e altre bacche del bosco, compreso delle palline rosse e gialle che erano disgustose per il palato ma perfette per i miei giochi.

Nonno Cesare aveva una stanza tutta sua al secondo piano della casa. Per me era una stanza magica. C’era un trombone, perché nonno suonava nella Banda paesana, un grosso scudo di ferro con lo stemma del Casato Lamborghini, della cui appartenenza mio nonno era orgoglioso, decine di libri, uno scatolone pieno di settimane enigmistiche, tutte con i giochi risolti. Non male per una persona che aveva la terza elementare! 

E poi c’erano teste di animali imbalsamati alle pareti, fucili, materiale per fabbricare cartucce, stivali, e tanti vestiti, tutti con tonalità vicine al marrone e al verde. Mio nonno aveva una giacca da cacciatore stupenda, con una tasca posteriore molto capiente e dalla quale tirava fuori uccellini morti, e che si affrettava a spiegarmi di che razza fossero, prima che la nonna li pelasse e li adagiasse, insieme alle patate, dentro la stufa a legna, in una vecchia teglia di alluminio senza manico, per farne un arrosto.

Nonno Cesare portava spesso le chiocciole, che Olga teneva prigioniere in una cesta con della farina per un paio di giorni, prima di cucinarle nel tegame, insieme a pomodoro e aromi. E siccome andavano messe vive nella pentolona con l’acqua bollente, mia nonna si prendeva la briga di ricacciare dentro con un mestolo di legno, quelle che cercavano di uscire o si attaccavano all’interno del coperchio in attesa di tempi migliori, che non arrivavano mai.  Solo tre-quattro di loro evitavano la mattanza, perché le prendevo io per giocarci, ovviamente a gare di velocità.

Ricordo che mio nonno fumava come una ciminiera; in casa, mentre mangiava e persino nel letto prima di addormentarsi. Sempre con una Astor in bocca. 

Ricordo lo scaldaletto, un’attrezzatura ingombrante che sorreggeva un caldano pieno di brace, e poi un braciere in un angolo della camera,

Ricordo i secchi di acqua fredda per lavarsi perché non c’era ancora un acquedotto adeguato per farla arrivare nelle case. Così andavamo in piazza dove c’era una fonte. Che freddo ragazzi! 

Comunque, Paride aveva 26 anni e alla notizia che ero nato, si precipitò in chiesa ad accendere una candelina e fece tre volte di corsa il giro del borgo offrendo vino e biscotti a tutti quelli che incontrava.

Era letteralmente al settimo cielo: lui aveva un figlio e la famiglia Martinelli un erede! Orazio e Bruna, i miei nonni paterni, e mio zio Adalberto, andarono in un brodo di giuggiole e si unirono presto ai festanti. Mia nonna Bruna allestì un tavolo davanti il portone di casa con pane e prosciutto, dolcetti fatti in casa e un paio di fiaschi di vino.

Mio babbo si precipitò all’Ufficio Postale per inviare una dozzina di telegrammi a parenti e amici.

All’indomani della mia nascita, mia nonna Olga dette il massimo. Ordinò il necessario a Cesare e si mise a cucinare. Con l’aiuto di una sua vicina di casa e amica: Agata, una vecchietta vedova di guerra abbandonata da tutti, analfabeta (mia nonna le leggeva Grand Hotel, ovvero l’antesignano delle Fiction ), che il Parkinson faceva tremare come una foglia al vento. Scuoteva così tanto la testa che sembrava dicesse sempre di si. E per questo era derisa da tutti.

Olga aveva tanto da fare.  Per prima cosa si sedette sulla piccola sedia impagliata con tanto di grembiule e pezzola nei capelli e si mise a tirare il collo e a pelare una mezza dozzina di polli, aiutandosi con dell’acqua bella calda. E quando una gallina, magari già pelata per metà, si muoveva perché morta ancora non era, Olga si alzava dalla sedia imprecando e sbattendo la testa del pennuto sullo spigolo del tavolo finché la gallina non trasaliva.

Poi, con le uova di giornata provenienti dal pollaio di famiglia, faceva una sfoglia così lunga che andava ben oltre i limiti del tavolo. Ricordo che quel giorno c’erano strisce di pasta dappertutto; sul tavolo, sulle sedie, persino in alcune spianatoie messe sul letto. La sfoglia di nonna Olga  era perfetta per i tortelli ricotta e spinaci col sugo di ragù di cinghiale, per le tagliatelle salsiccia e funghi, per i tagliolini in brodo. 

Prima ovviamente c’erano gli antipasti: affettati fatti in casa con il “nostro” maiale, verdure dell’orto, salsa verde, maionese.
Di secondo carne a volontà: dal lesso (compreso la cipolla e il collo ripieno, due bontà che mi facevano impazzire), all’arrosto misto, in teglia o sulla griglia, al formaggio del pastore del Podere Chiusino.

I dolci erano tanti e tutti buoni; crostate, pinolate, salame di cioccolato, (chiamato anche pesce, per quello spruzzo di schiumetta bianca fatta con l’albume sbattuto, con un cioccolatino marca Pernigotti chissà perché ancora incartato, che sembrava un occhio). Poi i cantucci alle mandorle con il vino dolce fatto in casa e i biscotti di vario genere, accompagnati dal vino fragolino, proveniente dalla pergola del nonno.

Allegre tavolate di una ventina di commensali, interpreti sempre all’altezza della situazione, di una maratona culinaria, interrotta per poche ore dai tornei di briscola, di ramino e dalla tombola, con la nonna sempre a estrarre i numeri, sempre iniziando dal 34 perché mancava. E quante risate quando la nonna attribuiva  a ogni numero un significato: 22 “le carrozzine” oppure 77 “le gambe delle vecchie” e così via. Le cartelle erano immancabilmente piene di fagioli coi quali si marcavano i numeri che uscivano. Tutte le cartelle piene di fagioli che alla minima scossa del tavolo si muovevano generando il panico tra i giocatori. Tutte le cartelle tranne quella di mio nonno, che usava un metodo diverso, tutto suo, senza marcare i numeri, ma basandosi sul conteggio degli spazi non numerati, abilità che feci subito mia. 

Nonna Olga era piccola di statura e con una pancia insolita per una donna. Era conosciuta nel paese come “Olga la sorda” perché nonostante portasse un apparecchio acustico ci sentiva poco. Quando dormivo nel letto con lei, nei miei soggiorni estivi a Serrazzano, si raccomandava sempre che se avessi avuto bisogno durante la notte avrei dovuto toccarla o accendere la luce perché quando si toglieva l’apparecchio non sentiva più nulla.

Mi sono sempre chiesto come fosse un mondo senza suoni, senza rumori. Me lo immaginavo come una grossa scatola vuota, senza il cinguettio degli uccellini, il rumore delle fronde degli alberi, il fruscio del grano maturo scosso dal vento, senza la voce di chi tutti i giorni ti dice “ti amo”.

Certo è che in alcune occasioni essere sordi sarebbe stato un vantaggio enorme. Vi immaginate non sentire i rimproveri della mamma perché giochi a pallone e sei sudato e ti sporchi? Che poi non ho mai capito come si faccia a giocare a calcio senza sudare o sporcarsi, mah!

Oppure non sentire gli insulti dei coetanei che ti prendono in giro perché sei il più piccolo e hai paura di tutto.

Essere sordi può essere davvero conveniente. Per esempio per non sentire i genitori di Filippo che abitavano di fronte e che litigano di continuo. Si insultavano, urlavano e facevano piangere il mio amico, maledicendo il giorno che era nato perché si, alla fine, la colpa era anche un po’ sua, dicevano entrambi.

Ma a questo non potevo credere. Avevamo entrambi sei anni e ci comportavamo bene. Eppure ogni tanto Filippo non veniva a scuola e solo io sapevo che la tosse era una grossa bugia. Così andavo a trovarlo e lui mi mostrava i lividi dovuti a una caduta dalle scale (!!!) mentre rincorreva Gomitolo, il suo micio rosso.

Nonna Olga muoveva sempre la bocca, biascicando le castagne secche che portava sempre con sé per ovviare a improvvisi cali di zuccheri, diceva lei, dovuti al diabete. Un po’ come il nonno, che masticava tabacco e ogni tanto sputacchiava per terra quello schifoso liquido nerastro.

Nonna Olga ha vissuto gran parte della vita da vedova, senza marito. Non si era più risposata, Diceva sempre che un uomo le era bastato. Una donna d’altri tempi, anticonformista, che rifiutava le etichette e non si vergognava, a differenza della maggioranza delle altre donne, a entrare nel Circolo e fare buio per giocare a Ramino oppure a Scala 40 con gli uomini.

E’ lei che mi ha insegnato a giocare a carte, a saper perdere, a contare solo sulle proprie forze, a esultare per le vittorie vere, meritate, e non regalate semplicemente perché ero biondo e con gli occhi verdi. Nonna scriveva senza rispettare le più elementari regole di grammatica e non conosceva Montessori, ma dai suoi insegnamenti ho appreso cose che nella vita mi hanno fatto spesso comodo. 

Questo, senza Smartphone, ero io. Eravamo noi, con i calzoni corti e le scarpe sporche. Ricordo che il primo giorno di scuola eravamo in 12, tutti nella stessa aula, una pluriclasse (cinque anni tutti insieme). Ricordo che Rita era una brava maestra ma ce l’aveva con Antonio. Lui non rispondeva mai nella giusta maniera sia chiaro, e così finiva ogni giorno dietro la lavagna dove, si scoprirà più avanti, la maestra lasciava sempre un pezzo di pane o una mela che Antonio – tutti in paese dicevano che era poverissimo – poteva mangiare. 

Mi rammento che non avevamo mai i soldi e così a merenda, quando andava bene si mangiava pane con vino o zucchero oppure con olio e sale; quando andava male, e succedeva spesso, si mangiava il pane alla “volterrana” (ovvero pane col segno della croce e basta).

Diversamente ci pensavamo noi! E cosi mangiavamo i semi di una zucca che avevamo aperto giorni prima, e lasciati a seccare al sole.

Un po’ di sale e via: “Smartphone e semi di zucca”: