Angela Giovanna Amico - Poesie e Racconti

Siria

di Angela Giovanna Amico

 

 

Se avessi occhi potrei vederti

se avessi mani potrei toccarti

se avessi braccia…

ma non ho occhi

e non ho mani

e non ho braccia.

Eppure questa notte

anche io,

che sono la morte,

piango mentre accarezzo il tuo viso.

 

Eravamo insieme sulle braccia di tuo padre,

erano gelide come un presagio.

Quando ti ha lasciato a me,

nel lago dei suoi occhi,

l’ultima preghiera era muta

e la speranza

nei suoi pugni chiusi

era la rabbia dei vinti.

 

Con un bacio ho spento la vita

sulle tue labbra d’argento,

ti ho posata in una culla di terra

e ho pianto per te

un lenzuolo di neve.

 

(Dedicata a Iman, bimba siriana morta di freddo il 13-02-2020,

e a tutti i bambini vittime del conflitto.)


Semi di ricordi

di Angela Giovanna Amico

 

 

Ho trovato fiori secchi in un libro,

sono semi di ricordi,

eco di parole che ho amato.

 

La mente torna a quel gesto lontano,

ancora nitido il colore.

Raccoglievo profumi

toccavo petali vellutati.

Una bambina corre sul prato,

piedi nudi bagnati di brina

e labbra color marmellata.

Sorrisi sbiaditi dal tempo.

 

C’è un fiore per ogni capitolo

che conserva la sua arida bellezza,

duro e fragile,

da non riuscire più a chiudere

il libro della vita.

Così sono fuggite tutte le parole

e le pagine sono tornate bianche,

come farfalle,

che la mia penna insegue. 

 

Arabeschi sulla carta,

le sottili radici dei sogni.

Ho il cuore pieno di semi.


MAESTRO

di Angela Giovanna Amico

 

 

La musica non pensa il silenzio,

come il cielo non pensa le stelle

e la vita non crede alla morte,

ma cos’è un cielo senza stelle?

 

Resta uno spartito vuoto,

resta una poesia senza parole.

Una spiga cieca senza grano,

uno stelo muto senza rosa.

 

Nell’aria immobile

non è ancora svanita

l’impronta del tuo gesto.

La bacchetta del Maestro 

è ferma per sempre,

è perduta la rotta del tempo.

 

L’orchestra tace silenziosa,

davanti alla tua morte.

Solo un violino piange

note di sale nel mare, 

ma cosa sarebbe il mare

senza quel sale?

 

Mi immergo

per cercare le note che hai amato 

e ti ascolto, dentro di me.

 

(Dedicata al Maestro Ezio Bosso, scomparso il 15-05-2020) 


 

Medusa

di Angela Giovanna Amico

 

 

Le mie mille sorelle

sono lacrime di pescatori,

che danzano nelle reti vuote

prigioniere.

 

Ho scritto parole di sale

sulla sabbia bianca dei coralli

e hai creduto che il mio bacio 

fosse solo veleno.

 

Sulla spiaggia vuota dei tuoi ricordi

il mare cancella

le impronte della morte.

 

Io sono nata senz’occhi

e sono la bianca sposa del silenzio.


Pensieri d’autunno

di Angela Giovanna Amico

 

 

 

Lacrime di resina 

sui rami imploranti,

gocciolano lenti ricordi.

Foglie già morte 

che sfuggono le lunghe dita 

e danzano le ultime note 

nel vento.

 

Il sole sopra di noi

è uno specchio in frantumi.

Negli occhi bianchi dei ciechi

la mia immagine riflessa

è in attesa di una risposta. 

 

È bastato un soffio del vento

per rapire i petali 

delle illusioni.

Non pagherò il riscatto.

Ci saranno nuovi boccioli

e api laboriose e frutti

e sorrisi di bambini.

 

Steso sull’erba sotto di lei

vedo la madre che culla i suoi germogli.

Ha già dimenticato il pianto.

Le domande sono desideri

che l’ombra tace.

Non ho paura di quello che sento.


Dieci dita

di Angela Giovanna Amico

 

 

Dieci petali di pesco

portati dal vento,

 scivolano nel greto del mio corpo.

Sfiorano tenui le sponde,

indugiano nei vortici dei pensieri.

 

Sfugge la sabbia arida

sulla riva

fra le tue dita curiose,

ma conosci la strada 

sulla mappa dei ricordi.

 

L’anima attende

la poesia di una carezza.

La pelle che sa ascoltare,

bastano dieci parole sussurrate.

 

Mi è sembrato di sentirti dire

“amore” 

Forse…  era solo il vento.

Il fiume è dentro di me,

scioglie l’ormeggio.


 

Guardalo adesso

di Angela Giovanna Amico

 

 

Guardalo adesso,

è tuo padre,

quest’uomo che mi uccide.

 

Guardalo adesso,

prima che i suoi calci 

ti rendano cieco

nel mio grembo.

 

Guarda questo specchio di dolore

sul pavimento, 

sotto la mia guancia viola

sporca di preghiere.

Guarda il colore del tuo sangue

e gli occhi bianchi 

della bestia che mi divora.

 

Il mio ultimo abbraccio 

è un corpo spezzato,

come una culla rotta,

mentre il respiro affoga

 nel tuo silenzio.

 

Dentro di noi, 

amore mio mai nato,

anche le ossa 

non fanno più rumore,

e le lacrime sul viso 

non sono più lamento.

 

La mente 

è un lago nero di bile,

Solo gli occhi vigilano

in attesa di un segno

…la vita che riaffiora,

il guizzo di un pesce.

 

Un attimo prima di morire,

l’ultimo colpo.

Guardalo adesso.


Preludio d’amore

di Angela Giovanna Amico

 

 

 

Ho versato in questi calici

tutta l’attesa di un bacio.

 

Le tue parole

sono faville nel camino,

mentre il fuoco

disegna il mio profilo sul tuo viso.

 

Reti da pesca i nostri pensieri

scivolano lenti dalle mani,

sulle onde rosse del tramonto

catturano i colori del desiderio

 

Il tuo respiro si fa marea

quando sorge la luna,

sirena mi immergo e canto

tra i coralli bianchi dei tuoi silenzi.

 

Sarò il cielo

nel lago dei tuoi occhi

 

Sarai la luce

nella notte di questa falena.


Milano, 31 febbraio 3001

 di Angela Giovanna Amico

 

 

Sono sicuro che sia domenica.

Mi giro a pancia in su sotto il lenzuolo e scrivo mentalmente sul soffitto bianco della stanza la lista delle cose da fare.

Mi concedo ancora qualche minuto pensando alla piacevole sensazione di avere un’intera giornata da dedicarmi.

Balzo in piedi e apro la finestra della mia stanza, Milano dorme ancora.

Il vento disegna ventagli luminosi in Piazza Duomo.

L’alta marea ha sommerso ogni cosa, arrivando fino ai gradini più alti del Sagrato, ma sotto la superficie dell’acqua, dall’alto si distingue ancora il disegno geometrico della pavimentazione.

Respiro profondamente.

Mi preparo in fretta, non farò colazione in albergo. C’è un bar sotto i portici del Corso che apre presto anche di domenica, le brioches sono calde e fragranti e il caffè profuma di cioccolata.

Ci andavamo spesso da ragazzi, una tappa fissa quando si “bigiava” a scuola.

Si arriva a piedi in due minuti percorrendo la passerella sopraelevata. I tassisti cercano di attirare la mia attenzione dal centro della strada sommersa, sbattendo forte i lunghi remi nell’acqua.

Scelgo un tavolino vicino alla vetrina, profumate spire di vapore si alzano dalla tazza di caffè bollente, danzano sinuose a mezz’aria davanti alle mie labbra. Assaporo l’idea di non essere più solo, presto la rivedrò. Una folata improvvisa dalla porta a vetri fa svanire nel nulla odori e pensieri, decido di pagare il conto lasciando il resto alla cassiera.

Devo aver perso il senso dello scorrere del tempo, fuori il sole è già alto e si affaccia senza fretta tra le guglie. I monumenti sono fari per naviganti e la gente si riversa davanti alle vetrine, come uccelli nelle reti dei pescatori.

L’acqua in Piazza San Babila è così invitante, trasparente quanto basta per riuscire a vedere i binari della metropolitana in profondità. Mi sporgo sul parapetto dei vecchi ingressi allagati, tra le cime delle barche ormeggiate. Tutti vogliono vederla questa Milano come Venezia!

Il vociare dei turisti invade ogni luogo. L’ipnotico battere di quelle lingue sui palati inizia a disgustarmi e non riesco a evitare di osservare le nuvole di minuscole goccioline di saliva che scintillano controluce. 

La quiete dell’alba è già un lontano ricordo. Il mare circonda i palazzi con maestosa indifferenza, mentre la gente riempie le banchine, mi ricordano gli insetti sugli scogli quando in massa sfuggono alla marea.

È già ora di pranzo quando decido di accettare l’offerta di un imbarco da un abusivo con l’illusione di risparmiare qualche centesimo.

«Pusterla Sant’Ambrogio, grazie.» Il marinaio saluta la ragazza seduta sul marciapiede con i piedi a mollo nell’acqua e i sandali in mano. Lei gli sorride speranzosa e timida.

 “Promesse da marinaio” penso, ma mi perdo subito nei riflessi del sole sulle onde incoerenti del canale e mi lascio cullare alzando lo sguardo solo davanti alle due torri rosso mattone dell’antica porta della città.

Il marinaio lancia la cima e assicura l’ormeggio alla Colonna del Diavolo, vicino alla Basilica. Sembra di sentire il ribollire dell’infernale Stige, ma è ancora il vociare della gente che si accalca sul molo.

Con qualche difficoltà riesco a sbarcare e percorro il pontile che mi porta fuori dalla cerchia dei navigli, risalgo le rampe fin sopra i tetti scoperchiati delle case, espropriati senza indennizzo da anni in tutta la città per trasformarli in percorsi pedonali, piazze e parchi a venti metri sul livello del mare.

Lo spettacolo dai belvedere lascia senza parole, ma io ho fretta di arrivare al luogo dell’appuntamento.

Infilo le mani in tasca e seguo con lo sguardo il volo di un picciogabbio che plana sul crocevia del Museo Nazionale.

La noto da lontano per il colore del vestito, onde di seta rossa si agitano nel vento che a quella quota non manca mai, come sulle montagne del nord. La noto perché è ferma in mezzo alla gente che arriva da ogni direzione. Le gettano addosso sguardi indolenti, insofferenti al suo immobilismo che li costringe a scansarla. Quando si gira le sono davanti, mi sorride, mi aspettava!

 

«No, per favore! Questo è un finale banale! puoi fare di meglio. Racconta che ti aspettava Satana piuttosto, che avevi un appuntamento all’inferno. Ma non raccontarmi la solita storia d’amore! Il colpo di fulmine, la donna fatale! Ma dai!» l’amico che qualche minuto prima lo ascoltava affascinato, lo interruppe bruscamente, facendolo sobbalzare.

«L’amore non è mai banale …e poi questa è la mia storia!» cercò di difendersi l’uomo.

Il vecchio non lo lasciò finire, si alzò a fatica dalla panchina, sbuffava dalla bocca il fumo del suo sigaro facendo pensare a un locomotore a carbone:

«Ti te me cuntet su di ball! Ho sentito abbastanza, nessuno dei vivi si ricorda di quella Milano lì…» continuò a gesticolare nervosamente, con rabbia immotivata.

Gli girò le spalle e si allontanò.

L’uomo che stava leggendo il racconto, lo osservò zoppicare tra le guglie sul tetto del Duomo e poi scivolare sulla grande duna, fino all’imbocco della Galleria, inghiottito dal solito polverone. Abbassò lo sguardo e fissò a lungo i fogli che stringeva tra le mani. Tutto intorno era silenzio.

Pensò che se ci fosse stato ancora qualcuno in quella città i suoi passi sulla sabbia sarebbero stati comunque muti. Decise di alzarsi con movimenti cauti.

Occhi di vetro osservavano l’orizzonte, mentre il corpo si abituava alla posizione eretta.

Una carovana di dromecani neri procedeva lentamente, il deserto che assediava la città avrebbe inghiottito anche loro.

«Era così bella la mia Milano, come Venezia!  …prima della grande siccità.»

Disse a voce alta, ma non c’era più nessuno disposto ad ascoltare le allucinazioni di uno scrittore.

Un sorriso amaro gli spaccò le labbra sottili mentre una luna di sale scintillava sotto i suoi occhi aridi. Si tolse il cappello a falda e sfilò dalla bordatura interna un morbido foulard da donna. Alzò il braccio verso il cielo vuoto di nuvole, la seta tinse di rosso l’abbagliante disco solare. Restò qualche minuto al riparo di un ricordo. 

Poi lo lasciò al vento e lo vide scomparire nell’azzurro, come una favilla nel camino.


 

ROMANZO

 

La verità è una rotta tracciata a matita_Amico

 

 

 

 

 

 

 

https://youtu.be/ixswVUwRc1c