Angelo Pellè - Poesie e Racconti

Domande nella memoria

 

Cos’è un filo

di spine di ferro?

L’elettrica aria tra cemento

e bianca ceramica in tondo?

Cosa un binario nella neve,

dopo mattoni rossi in arco,

e nessun dove

e un camino grosso grosso,

su tetti di terra e cenere?

Cos’è fame di ossa e nudità di sensi

senza capelli, ori, scarpe e vettovaglie? Numeri

d’inchiostro senza indumenti?

Dov’è banalità, l’ingiustizia,

il divino, il ventre fecondo?

Dove il sacro cammino, il sole

freddo e il piacere

del male? Chi è l’aguzzino?

La vittima? Il creato destino?

Dove il forte, l’abbraccio puro, il gioire

di un bambino

e il suo mortale incontro

con la madre,

nelle luci dell’alba

dell’orizzonte di filo?

Urla, spianate, fucili?

La ricerca del mare? Universo

di fiume e parole?

Perché storia, sorrisi, vecchi

col bastone? Uomini finti?

Perché treni, cartoni di valigie,

pettini, macchine da cucire

e viaggi atroci, bestie e geli?

Perché fumi, terre come coperte,

e ceneri grigie, senza soli? Tremi?

Come può l’uomo

annientare? L’altro o non è altro?

Ubbidire e calpestare?

Cosa dicono i legni

di castelli di letti,

gabbie senz’aria, buchi

di latrine, in fila, fatiscenti muri,

forche, elmetti? Quanto

piangono i resti degli amanti?

Dove essere sarà umano?

Quando… quando… quando… ora che

ancora si muore – così – per sua mano?

 

Auschwitz-Birkenau, 27 gennaio 2017.


Costellazioni nel vuoto

 

E siamo, di nuovo,

sul lungomare dei sensi

illuminati. E siamo,

diversi, nell’apparente

mentre, dentro,

mi porto sempre

le stesse costellazioni

nel vuoto, da quando ho visto

chi sono. E siamo silenzi

e musiche di sconosciuti suoni,

amori, che muovete

le corde di questo

limitare sul mare

dell’esistenze pure

delle nostre presenze.


 

Fuoco

 

Fuoco piove dalle curve

del cielo, fuoco ode

il silenzio del sentiero

notturno mentre – solo –

cammino, giro e mi fermo

sulle braci del vivere

diverso. Fuoco rode

le cose, fuoco splende,

fuoco come neve

scende senza pensiero,

sopra tetti di legni

tagliati, sotto eventi

di singoli stati, tra genti

dell’universo vago.

Fuoco di stenti acceso

in diroccate stanze, fuoco

appeso al niente

che sale in fiamme

fantasmagoriche,

eternamente fluenti,

astri di fuoco,

d’interni fatti di vuoto,

di menti ignoranti,

di giorni contenti che passano

come venti su campi

aperti, freddi, senza frangenti.

Il filo del crepuscolo

 

Abbiamo percorso, a piedi nudi,

strade ferrate, per gioco;

mangiato frutti di spine,

in segreto;

saggiato le nostre labbra,

fino alla fine

del giorno. E al buio

e al fuoco

e alla luce

e al ritorno, ho cercato

ogni tuo angolo ascoso,

ho baciato il filo

del crepuscolo e il tuo sorriso

mi ha ricordato.

Sono due…siamo.


fluire

 

e stiamo su fragili

steli, su fili di cieli

verdi di mani e di giri

solchiamo le nevi.

e siamo frangenti

di sublimi suoni,

di legni battelli.

fra angeli snelli dipingo

spirali e canti, punti.

esistiamo fraterni

e tanti sono infedeli

compagni, contenti

di essere miseri

baccelli lasciati

nel vento

mentre mi nutro

del seme, del momento.

e andiamo nel vento,

nella danza dell’esistente,

nel tuo essere selvaggia

e fine,

frammento

di un felice universo,

frammezzo

di note e di passi.

confine fatto di piccoli

sassi, in equilibrio

indecifrabile

sul non senso

- diverso.

amo esisterti

dentro,

osservare le onde

andare…

essere niente

sul fiume dell’esistente…

fluire…


Mi hai lasciato il labbro ferito

 

Mi hai lasciato

il labbro ferito

che la sento

la linea in rilievo;

quanto sangue

ho bevuto

dalla mia, dalla tua

bocca, dal mento!

quanto fiato sudato!

quanto stupore!

Non lo sai

quanto ho visto

oltre il rumore,

oltre il muro delle parole,

oltre la bella illusione?

Mi hai lasciato

il labbro segnato;

come una virgola

la sente il fratello

e le tue rosse gemelle diverse…

io mento,

non sono degno,

faccio tanto frastuono

dovunque vada – segmento

delle nostre stanze,

dell’esistenze ignote!

tu vai! non senti ancora quel sadico piacere?

io sì, che il vivere

lascia gli uomini per le pietre.


 

E stanno le parole

 

E stanno le parole

in arie

come voglie di nuvole

al sole.

E stai come

me

in te…

in percezioni

nuove.


 Racconti da “Crepuscolo di un inverno” di Angelo Pellè

 

L’Adone

 

All’amore imperituro.

 

Stava come appesa al piedistallo e passando, dopo porta Rudiae, mi voltavo sempre a sbirciare nell’androne, verso i giardini interni. Là, nell’ultima parete, affianco alle lenzuola stese delle tende bianche, grande, seppur minuta al vero, appariva Adone.

Il corridoio vi si giungeva come scolo a confluire e in esso immergeva con sé il mio vedere. Era marmorea di bellezza e viva dalle forme estese, tese al vento che là non poteva spirare. Come matrona troneggiava il volgo che, passando, non guardava; io, infedele invece, la toccavo con occhi fatti di carezze, quasi baci a volte. Aveva pieghe torte come verso il viso, avvinghiate nelle gambe, assorte ai fianchi, poi deboli, disciolte ai seni appena rasi dalle vesti lievi e lì, dove sfoggiava il viso, era dolce non vedere niente, lenze o stuoli. Nuda figurava onori d’amore e di versi appena intesi.

Quanto poetai su di essa passato oltre e per le chiese, che s’aprivano disseminate sulla via, non degnavo volti guardando in terra pago, con sorriso! Un sorriso muto, sempre. Via Libertini portava ad un chiostro, vecchia caserma o atrio liceale e in quei mattini mi tingeva il giorno quell’enorme masso vivente, pietra. Marmo vuoto di parole come io amavo, d’altro forte.

Era come digiunare per quei corridoi e nel ritorno, chiuso, il portone dell’Accademia non ne impediva i sospiri e le forme che passavano i legni, i serramenti, i quadri e le pareti fuggendo come luce da spiragli, soffusa.

Dopo porta Rudiae il muto frastuono delle genti. Io non capivo quella sozzura e tacevo l’altro con altri. ‘Adone è bello!’

Un giorno di questi lo vidi quasi muoversi, visione o vera stasi che mi veniva incontro, dentro, o fu il mio passo lento a non colmare il suo trabocco di luce. Si muoveva il muro grigio che aveva dietro, io tacevo. Come un abbraccio dalle deboli tinte e dai tremori in croce prese il filo di terra che ci univa e venne. Ero perso in quelle case, la mia digiuno e quella di studio triste, senza sorte alcuna. Pensai un sogno, inquieto.

E lei veniva… Adone profumato e grondante di splendore, come a una tresca voluttuosa e pura. Nascondigli di rose e di viburni a notte serbavo per lei nelle ville e fuori dal comune. Scendeva, a sera, dalla colonna in basso e non toccava il pavimento se non col mio pensiero delle orme umane ma volava silente e placida e silenziosa l’aura ad essa trapassava. Anch’io restavo zitto e nell’amplesso erano solo parole in moto di rigoli e di ruote a mulinare, ricordi di vedute, distese erbose e di boschi montani ma, presto, erano rigiri, volte e avviluppate garze di braccia e mani, anche distese a intrecci incauti.

Sapevo del terrore che m’avrebbe vinto la notte appresso nel mio letto ma, allora, ancora tacqui quel pensiero che lei parve udire e non fece uscire, soffusa di lentezze e morbi a me da tanto ignoti.

A chi dire che quelle vesti eburnee, limpide come acque mai vedute, scorrevano il terso corpo, spoglio d’armi umane e illeso, verbo? E come che da esso, fulgente e tumultuoso, sorgeva un lume d’enfasi e d’amore? Io, in combutta col mio verme umano, quanto di quel chiarore possedevo, immisurato quale manna ad un terreno scarno e afoso?

Non conobbi più, da quelle sere in primavera, un simile genio di passione e di dolore, invece ebbi certezza ed ogni poi venuto sentimento di graziosa donna di pensiero o di fratello gaio e giovane elfo di candore non fu mai come quello. Ineguagliabile sentore d’altre piante; indicibile, per me grato, fiato eccelso!

Mi abbandonò riverso, sfinito in quel sublime, alle fresche sponde dalle nostre erbe calpestate. Non la vidi andare e del suo atto un solo vago senso di piacere ha il mondo che il tempo però, non come il resto delle nostre cose, non riesce a consumare nel suo braciere.

Non so le forme del suo crine, non rammento le viole dei due occhi sbocciare ma le labbra intrise del sangue delle more e di rugiada e i fossi delle guance, candidi a carezzare ancora sento come solchi di note sopra un nastro che io solo posso udire se passo con mano le gote e i miei occhi ardenti. ‘Vive!’

Sono io, era luce; io Adone o cavaliere; lei figura o voce ed io clamore, frugare inquieto; docile io, lei tra la femminea grazia d’un dio atroce, lui dolce tacito irredento.

Tornando ancora, dopo giorni assenti, era là la sua croce ed io ai miei passi in chiodi acuti e neri strascicavo versi. Ora ricordi ameni e acri. Vezzi.


 

Madrigale d’inverno

Vivevano nei boschi o per stretto tempo vi si erano recati. Lui aveva occhi come soli, ad ogni alba nudi, e fulgenti, e di essi portava il peso con gli anni. Di stenti s’era nutrito e aveva vagato per il mondo come un viaggiatore svelto e senza meta. Lei, invece, pura come notturna neve, s’era unita a quel suo male come certi tarli alle cortecce. Ne traeva linfa e di esso paga e impaga coglieva la notte, frugava l’alba.

S’erano comunque trovati, in quel cristallo inverno, tra la bruna flora di un clivo montano. Seguivano il torrente che scendeva ruggendo e scavava il suo alveo come lui saliva. Lei era chiara, pallida come cera, amava la bellezza di quelle piante solitarie. Tronchi levighi profumati, felci e funghi sotto tetti scuri, foglianti aulenti come stanze chiuse. Ultimi veli del cielo appeso oltre quei rami.

Le rocce, scalando il crine ciottoloso, parevano loro come volti, richiamavano le stive cittadine, figuravano note parole; suonava tra loro il vento. E questo, imperituro, accordava le esili corde dei piccioli sì da non far cedere le foglie che sostenevano. Allora lussureggiava tra i rami, vorticava i tronchi, spazzava i petali del tappeto fulvo e colorava di rubino, col suo fiato, le figure ansanti di quei navigatori.

Salivano come certi pesci le scale dei torrenti e, di tanto in tanto, fra le cime più ardimentose sorgevano le vette, stagliate croci lontano, incastonate urne ai cieli bagnati o lapidarie effigi d’un ultimo vedere. Erano steli, principio e fine, fedi blasonate ad azzurri d’immacolate volte. Lui le tese la mano, ad una rupe più eretta e lei la prese, come aria che fresca un mattino avvertì nel suo bianco viso. Le fragili dita, come stecchi di secchi rami s’offrivano alle protese foglie di lui, invaghito.

Spirava il sole, tra le rocce e i pruni, osannando il dì e piovendo.

Raggiunse la mascolina offerta appena e appena l’indice del suo vellutato stelo s’era proteso, concesso, non vide presa, non sentì calore. Restava l’aerea face delle piume al vento che lui sparse dall’alto verso le sue scale. Riprese l’andazzo che stava per cadere. S’apriva il precipizio come cloaca nera, mortale lode. Un’erba scrocchiò secca sotto il piede.

- Allora siamo! – disse lui, lei non si volse.

Camminavano distanti e si udiva ancora il profumare che i soffi conducevano loro. Passava quel fiato tra corolle e stami e come vivente portava polline, odorava. Lei s’inebriò di tale olezzo che quasi svenne. La resse sulle sponde delle acque per darle vita. Bevve.

E proprio allora lei rivenne, sentendo attorno come un’aurora ancora cupa e pronta a dipanare l’argentea luce ancora ascosa. Lei lo vide tra il frangersi delle acque, come Narciso a bere, e chinò il capo, ancora, a quella visione.

Tutto irreale e tutto inteso.

Sospeso tra le voci silvane e le torture arboree, che dentro suonavano, quel reale era vacante, etereo, scialbo. Nessuno dei due si mise a pensare: il pensiero non era parola e l’essere muti, non taciti dei moti di membra, capelli e mani, li rassomigliava al verde, non più prodigioso ma assonnato, delle nevi cadute, disciolte, interrate. Erano due scogli, in quel mare di prati che a radure apparivano e, desti, s’infrascavano nella selva. Oasi di luce, vuoti d’ogni umano odore, restavano bagliore inconsumato come orti intesi e persi. L’inverno era docile come le loro anche s’incipriavano di rugiade, di sterpi e polverose carte, fogli non più verdi.

Proseguivano stretti in un tempio morente eppure ancora vivente, ancora al mondo. Tutto palesava il vivere ed essi, come in una tana raccolti, si fermarono ad un passo dalla fonte. Lei bevve e lui l’attese schivo. Come un’eco sussultava il canto delle rocce, sotto le acque terse e veniva, anche, da ogni profondo, ignoto antro del boschivo dorso un suono, come sommesso, di parole nuove. Le udirono, per primo, veleggiare alte sui tetti serrati delle conifere e delle rupestri aiuole, dopo, discese, a passo d’uomo si fecero innanzi quasi voci di chimere poi sirene.

E mare e verde si mescevano.

E canto e antico verso di pianure si torcevano.

Essi tacquero e ancora presero il cammino. Trovavano fiori dell’inverno, qualche ombra di caprioli e non più muggiti, lamenti, urla. Solo richiami maliosi come brezze frescavano i loro volti, contornati di arazzi striscianti sulle gote, avvinghiati tralci alle narici aperte e sulle bocche cercanti; in socchiuse finestre s’addentravano germogli quasi aspersi a godere il loro fiato, quasi offerti in dono a quelle dolci fauci.

S’offrivano oli, ninfe dei sentieri appena folti, vergini radure e ancora colmi vasi di lezzi verdeggianti e freschi troni.

Giunsero a una casa di macerie, ruderi sommersi. L’arte pomposa di radici e muschi, di ricche terre l’aveva presa e rassegnata al campo. Giaceva a scala, dai mattoni in fiamme e l’edera l’abbracciava e il glicine pendeva, sgargiante grappolo, sul selciato in basso.

Non era forse un sonno?

Di lei che in lui l’impresse?

Non era anch’esso un canto che, come turbe incomprese, gli sguardi offuscati aveva?

Non seppero capire.

Arresero i trasparenti veli dei loro sterni, le esili pieghe delle nude anche, le forme nerborute di braccia alpestri e i piedi non più insorti ai terreni giacigli, avite cune.

Risuonava, quella stanza senza tetto, del passare di antichi dardi nati altrove e fatti venti. S’udiva il discorrere di abitatori andati, vecchi eredi. Non erano morti. Non funebri toni arsero ai pioli cadenti e marci. Lui guardò assente i suoi occhi vitrei e vi trapassò oltre, come traverso impalpabile sfere, cristalline lenti. Decisero di andare, esausti di inconsistenti corpi. Come nebbie si spargevano tra i rami protesi al loro passare e si udivano argentei migratori, sospesi a gocciolare.

Adesso essi vagavano tra i pori delle cortecce quasi divelte e, aspersi d’essi stessi i libri già piangenti, abbandonavano quei muri lisci, in rovina sdrucciolevoli. Il pendio si restringeva e le valli, aperte dai fiumi e dalle genti, erano lontane, in basso all’orizzonte immerso. Si presero l’un l’altro, intrecciandosi come veste ai ferri e l’un nell’altro sciolti, aerei pervenivano, man mano, così, alla cima.

“Mi sono perso…” disse lui e lei, vento sottile ormai, brezza avvincente, frammentaria bellezza, come gesso in volo d’una statua in sfacimento, s’assottigliava scolpita ancora, incompiuta.

La scoscesa s’impennava d’un tratto, lasciandosi al forte declinare la piovente vegetazione. Come stelle cadevano gli aghi e le chiome più leggere e, dopo un ballo avvenente, prese dalla terra, s’adagiavano le orme delebili dei due passanti sospiri.

Un vento da nord-est spirava, alzando con flebile sciamare la terra e portando con le foglie da un altro versante. Anch’essi si dispersero, come un soffio, voce d’inverno. La sommità s’aperse tra le alghe dei mughi, facendo venire alla sua cresta il cielo vagolante e prono. S’offrì nuda, isolato fastigio tra le nebbie adagiate nella valle. La scoscesa vi s’inficcava sprofondando.

Essi stettero, respiri.

Come a non più tornare.

Erano un suono, melodioso flato, malia d’uno iato sommesso, quasi silenzioso. Non erano.

Due crome d’un accordo su un giallito spartito. Abbandonato.


 

Due amanti

Sentii chiudere una porta.

- Mi vedi molto lunatica, – profuse, – invece sono contenta! –

Sentii passare un frastuono acuto. Fastidio.

- Guarda che io non ho quello che hai tu! –

Sentii urlare, vociare, chiacchierare.

- Senti, potresti vedermi se vuoi! –

Pensai di starle a baciare il collo alle spalle.

“Illusioni!” mi dissi.

- Me ne vado a casa! –

“Amore!” pensai.

Lei non si voltò e sbatté la porta senza fretta.

- Dai! – la immaginai guardarmi con occhi da ragazza.

Il vento soffiava sui fiori.

“Abbandonami anche tu!” mi dissi gettandomi, morto, sul letto.

Udii il suono di passi sull’uscio. Ma passi d’uomo. Dai tacchi lustrati.

- No, no! Non farmi del male! –

Udivo come in un sogno e un viso, all’improvviso, come riflesso di un vetro grigio, etereo, dolce e chiaro, apparve a guardarmi da un lato; chiamava silente il mio labbro.

 

Un colonnato. Peristilio.

- Luoghi, luoghi, luoghi! – si mise a urlare con voce bambina.

 

Era maggio. Il sole smerigliato batteva il grano come flutto sulle rocce sorgive e l’aria inquietava le braccia, il vento i volti. I crepacci esalavano tonfi afosi, quasi da catene nascoste si fossero sciolte anime penose.

Ed essi attendevano il tramonto. Tra le spighe vita d’insetti e cunicoli terrosi, tra i filari lontane voci e sudori di villani. Il meriggio ardeva ed essi si presero tra i rugosi steli delle ossute mani a divinare moti, parole, stasi. Erano vaghi come la calma che, di tanto in tanto, a folate li lambiva e, di questo gaudenti, passarono attraverso l’ombra del gelso dai frutti ancora verdi. La frescura cupa, non intera, li ammansì.

- Saranno rossi o neri? –

- No, bianchi! non sono… ? – fece per chiedere lei.

Lui sentì salire dal suo sesso e diffondersi in tutto il corpo una sensazione voluttuosa e attrattiva: “Fornicare!” meditò.

- Torneremo ad assaggiarli quando starò meglio. – Aggiunse lei, dopo il silenzio che si era creato.

- Tornerò! – chiuse l’uomo lontano dal partire.

- E se sono rossi? – si domandò lei ad alta voce.

- He! – sospirò lui. – Saranno rossi. –

- Li mangerei tutti… imbrattandomi di rosso le labbra come una bambina! –

- Uhm… labbra succulente! Ti bacerò, amore! –

Silenzio riflessivo. Occhi puntati sui frutti, sulle foglie, sui rami radiosi infrascati di sprazzi solari.

- Ti morderò quelle labbra… come frutti carnosi… -

- Torneremo a fare l’amore! –

Il sole si coricava in fondo al canale, dopo il cespo del gelsomino e frastagliava la pianura invadendo i confini alberati di ulivi, la ferrovia che, solitaria traversava il ponte e solcava i campi di grano distesi come greggi verso la torre.

La baciò in un sorriso tenendole le guance; lei divenne seria e sbottò in un riso, ilare dai pensieri sciolti. Si distesero sul letto del grano ricavando un giaciglio tra le alte onde ora verdi ora ingiallite.

- E se ti strappassi i cuore, con una mano, e lo mangiassi mi ameresti? –

- Sì. -