Anita Pavone - Poesie e Racconti

IN VIAGGIO CON PAPA’..

racconto breve, finalista al concorso “La corte della formica” nel 2013

 

Quella sera Giorgio.. uscì di casa urlando tutto il suo disprezzo. Andando via si era portato tutto. Non solo le valigie. Si era portato via i miei sogni, le mie illusioni, il mio passato e…………

al mattino successivo, dopo una notte trascorsa tra lacrime, whisky e sigarette, decisi che dovevo ritirare i miei risparmi ed allontanarmi per un po’ da quella casa.

Mi lavai il viso, mi guardai nello specchio: gli occhi scavati, la faccia pallida: ero un mostro! Presi la matita per tentare un vago trucco di copertura, ma mi scappò dalle mani e finì, lì, nel buco del lavandino! Mi saltarono i nervi. Iniziai ad armeggiare con le pinze sotto il tubo di scarico, volevo solo svitarlo, ma, stringi di qua, allenta di là, insomma..: lo ruppi.!! Corsi a chiudere la chiavetta di arresto dell’acqua, mandai al diavolo matita, pinze, lavabo e  scesi.

Nuvola Bianca, tenera come sempre mi venne incontro, era una gattina nata da poco. L’avevo sistemata in uno scatolone dell’IKEA, lì, al riparo, proprio sotto l’enorme bouganville in fiore che oramai aveva invaso tutta l’ala destra del mio palazzo.  Aveva il pelo rosso-arancio con una macchia bianchissima, qui, al centro degli occhi. Quella mattina non riuscii neanche ad accarezzarla, anzi.., involontariamente le pestai persino una zampetta. Mi guardò stranita, miagolò offesa e poi se ne andò.

 

Erano trascorse solo 24 ore.., 24 ore dico, da quando avevo scoperto la relazione parallela di Giorgio, che durava da ben quattro anni, con una certa Roberta.

Tutto scritto, chiaro, lì davanti a me in quella messaggeria di posta elettronica con password memorizzata.

Lunghe frasi d’amore, di sesso spinto, una complicità che generava un gioco malvagio che li eccitava come due conigli in calore, ogni qualvolta che io, ignara, “abboccavo come un pesce” nelle trame delle loro fandonie. Quell’uomo era un mostro e quella donna una stronza perversa!

 

La sera prima, quando era rientrato in casa, io volevo tacere, giuro:  volevo tacere e aspettare, ma lui fischiettando era entrato dalla porta, si era steso comodamente sul divano, le gambe incrociate sul tavolino, aveva aperto il giornale in attesa della cena…: “Cos’hai preparato di buono stasera, tesoro?”

Mi era salito il sangue in testa, e mentre urlavo: “Sei un maledettissimo, fottuto porco!!!!” presi una ceneriera e la scagliai contro il suo dorso..: A questo Giorgio mi mollò un ceffone. Un ceffone, capite…..??? Non lo avesse mai fatto. Il mio desiderio di liberarmi dall’orribile sensazione di essere meno che una nullità, mi portò a sclerare del tutto. Gettai sul pavimento tutti i suoi abiti, strapazzai tutte quelle bianche camicie che nel tempo gli avevo stirato, ruppi piatti, bicchieri, fin quando, in preda ad un attacco di violenta, irrefrenabile isteria, afferrai un coltello affilatissimo e  spalancata la porta di casa gli urlai “O te ne vai o ti ammazzo. Hai capito?”

Poi.., poi lo sgommare delle ruote della sua auto lungo il viale, la sua voce che urlava: “Ma và a fa…” e.. e nulla più.

 

Erano le 10.30, circa, di quel mercoledì di agosto, in una Napoli sempre tanto caotica.

Mentre camminavo guardavo le mie scarpe che avanzavano sull’asfalto polveroso.

Un tizio mi urtò. Sobbalzai. Si spaventò.

A dire il vero, credo di esser stata io ad urtarlo, ma fu lui con una smorfia a chiedermi scusa: ci venne da ridere.

Ai suoi occhi di sicuro ero sembrata, non so, una che si era fatta un bel viaggetto con qualche buon allucinogeno…, Imbarazzata, mi asciugai quell’ennesima lacrima che era  spuntata da sotto i miei occhiali quasi provando vergogna di me stessa. Il tipo se ne dovette accorgere perchè mi guardò con un fare curioso, buffo, si tolse il cappellino e mi fece un inchino.

Risi per la seconda volta.

Allora lui prese un’armonica dalla tasca e si mise a suonare saltellando e danzandomi intorno come un matto.., poco dopo ci ritrovammo seduti al bar  a prendere un caffè.

Lancelot, (così si chiamava,) era un tipo strano, un po’ bizzarro: indossava una tuta da ginnastica tutta rosa, con un paio di scarpette a quadretti bianco e blu che si abbinavano proprio bene al suo cappellino. Pochi capelli, grandi occhi nocciola, espressivi, un viso rettangolare  dai lineamenti poco marcati ma dai movimenti plastici come quelli di un mimo. Mi raccontò con un velo di tristezza che un giorno, dopo l’ennesima lite di suo padre alcolizzato che ancora una volta picchiò sua madre, che in realtà, pare, lo tradisse da anni, aveva deciso all’improvviso, di partire dalla Bretagna con un furgone e di andare in giro per il mondo, a cercar sogni, per regalarli alla gente.. (o, forse.. a se stesso.)

Il suo atelier viaggiante era pieno di costumi teatrali, scarpe, maschere, trucchi. Ogni viandante lasciava i suoi problemi per un attimo, entrava in quel camper ed interpretava il personaggio che voleva. Lui era il missionario catartico, così si descrisse. Alla fine ognuno ripagava il mago dei sogni liberati  e lui ripartiva per nuove avventure.

E mentre ero lì ad immaginare chissà quali avventure, all’improvviso si alzò..  mi prese per mano, mi condusse nel suo regno.., entrai. Luci soffuse, candele, incensi e tanti specchi incollati alle pareti, alcuni dipinti, altri no. Una poltroncina di vimini coperta da un drappo di velluto rosso ed un tavolino, incollato al pavimento, con un servizio di plastica di tazze cinesi in bella vista. E soprattutto Mozart..: Wolfgang Amadeus Mozart, che riempiva di note.. i miei vuoti mentali.

Lancelot si accostò al fornellino da campeggio, accese sotto il bricco del thè, preparò, non so,  un infuso a base di erbe aromatiche e forse rose selvatiche che, devo dire, emanò un buon profumo nell’aria e poi.. poi ridendo mi lanciò un sorriso di sfida.

Inaspettatamente una febbre quasi demoniaca mi assalì, mi travolse, rendendomi agitata e convulsa. Spostai grucce, sfilai vestiti dai manichini di gomma-piuma, indossai abiti che puntualmente rigettavo, guardai ovunque, persino negli scatoloni riposti alla base degli stand di plastica grigia, ma niente! Niente di niente!!! Nulla che assomigliasse a quello che cercavo per davvero! Lancelot sorpreso e spiazzato mi bloccò per un braccio, mi fermò, e mi chiese quale costume avrei voluto indossare,

“la domatrice di leoni” risposi!

Non l’aveva!

Lancelot era un uomo libero e felice, io no.

 

Tornai sui miei nevrotici passi, entrai in banca, c’era una folla.. Me ne uscì!  Mentre vagavo stranita e senza meta, una mano mi afferrò: “Ehy Stefania, ma a cosa stai pensando?”

Era Debora, una mia vecchia amica, le ero passata accanto e neanche me ne ero accorta. Accettai il suo invito e salii a fatica i gradini di marmo antico della sua vecchia casa. L’androne del palazzo aveva ancora quei lampioni in ferro battuto, quelli che ricordano la Napoli di un tempo passato. Il suo enorme appartamento era lì, nel centro storico, con le sue balconate oscurate dai panni stesi. E quei vicoli, stretti, pieni di negozietti e di venditori ambulanti.. che spesso urlavano a squarciagola.

Mi sentivo terribilmente stanca.

Finalmente davanti a me il grande salone dai lampadari di cristallo rosa. Mi era piaciuto tanto la prima volta che lo vidi. Mi tolsi le scarpe, attraversai in punta di piedi il pavimento di ceramica dipinta. Mi fiondai verso la poltrona damascata stile Luigi XV, ed esausta.. mi accasciai. Accesi una sigaretta,  ed infine raccontai tutto a Debora..

Piansi.. e piansi tanto!

Ma quando… finalmente mi calmai.., mi accorsi che dall’appartamento adiacente al suo, giungeva il suono di un pianoforte. Chiesi alla mia amica chi fosse il suo vicino di casa, e lei, sorprendendomi rispose: “dai vieni, te lo presento”.

Bussò alla porta adiacente alla sua.

Una signora di mezza età con un portamento molto elegante venne ad aprirci. Debora la salutò calorosamente, e poi le chiese se potevamo andare a trovare Beniamino nella sua stanza. Entrammo. Una stanza  tutta dipinta di verde pastello, nessun quadro, solo un poster con un grande luna che si rifletteva sul mare. Pochi mobili, antichi, rigorosamente bianco-avorio. E poi c’era lui, c’era Ben, con i suoi capelli ricci ed i pantaloni talmente larghi che sembravano cadergli dall’esile corpicino. Ben era un ragazzo down. Mentre sbirciavo il suo profilo, lo vidi ridere, e ancora ridere più volte: Ben viaggiava tra mondi a noi, ignoti, con tanta passione da non accorgersi neanche della nostra presenza. All’improvviso si alzò, iniziò ad emettere dei suoni gutturali. Le sue manine  scivolarono ancor più lievi e veloci sui tasti bianchi e neri. Il suo corpo si lasciò andare al ritmo, ora serrato, ora lento, della musica che lui stesso produceva. Oddio, emisi un gemito: mi ero commossa! Ben mi sentì. Si girò. Mi guardò con quegli occhi spalancati sul mondo, un mondo che io non ero in grado di decifrare! E poi, indicando il piano disse solamente:

”Lui… mio amico!”

 

L’orologio a pendolo rintoccò le 9.00.

Un venditore ambulante urlò sotto il mio balcone. Mi svegliai di soprassalto. Che gran mal di testa! Mi sentivo a pezzi, avevo dolori dappertutto. Ma cosa era successo? La prima immagine che mi saltò agli occhi fu la bottiglia vuota di whisky sul pavimento. Restai ancora un pò intontita. Poi, pian piano la nebulosa iniziò a svanire dalla testa. Ah, già, sì! Ora ricordavo: ah, se ricordavo!!! ..Giorgio,  il tradimento, il litigio e… Lancelot, Debora, Ben…. ma.., ma li avevo visti per davvero?

Mi guardai intorno con il fiato sospeso.

Ma no, no, per casa non c’erano tracce di scontri violenti: allora.., allora, non era vero niente! Mi ero forse ubriacata  ed avevo avuto un incubo? Si! Doveva essere così! Cercai di tornare in me, tranquillizzarmi. In realtà mi stava salendo un’ansia terribile ma tentai di controllarla! Respirai profondamente, e mentre mi facevo coraggio ripetendomi che era stato solo un brutto sogno, mi alzai. Mi accostai lentamente al PC, proprio come un felino, che si avvicina alla sua preda, con passo felpato: non riuscivo a prevedere se mi sarei divertita per un nemico inesistente.. oppure sarei rimasta sconfitta dai morsi letali di un avversario invincibile! Fissai il monitor e, e…: e mi crollò  il mondo addosso! Ero io la perdente!

 

Mi sedetti sul pavimento. Gelido! Ripensai al mio sogno, a Lancelot, a Ben.. Cercavo aiuto!

Mi voltai, scorsi la foto di mio padre. Mi guardava, o almeno così mi sembrava. Mi spiava, mi sorrideva, mi rassicurava come solo con il suo sguardo sapeva fare!

Scoppiai a piangere a dirotto.

“Papà..  voglio andar via.., portami via!”

 

All’improvviso.. una strana sensazione di… leggerezza.. mi avvolse, insieme alla voglia di espellere tutto quel whisky che circolava nel mio sangue.

Il puzzle si componeva nella mente. Tutto mi appariva chiaro. Una cruda sintesi prese corpo nella mia testa. Cosa ne avevo fatto della mia vita in tutti quegli anni con Giorgio?

Avevo completamente perso di vista me stessa, avevo addirittura  lasciato la compagnia di danza contemporanea per dedicarmi al mio nuovo ruolo di mogliettina perfetta..  Insomma, annullando la mia identità, ero stata io stessa la complice involontaria del fallimento della mia storia sentimentale.

 

Avevo 36 ore davanti a me prima che Giorgio rientrasse per davvero a casa, Giorgio che anche in quell’occasione, ovviamente, era in viaggio con la sua amante. Telefonai a mia cugina Ida che viveva a Londra: finalmente accettavo il suo invito. Oddio! Sapevo che sarei finita a fare la laureata in lingue tra le scatolette di carne per cani, nel negozio di Joel, il compagno di Ida…, e sapevo anche quel che mia cugina, da cantante jazz quale era, mi avrebbe detto, ossia che se c’era un vero tradimento in tutta questa storia era il mio nei confronti della mia arte! La conosco bene! Ma, comunque niente, basta, non avevo altro da perdere. Feci la valigia e mentre mi accingevo a scendere in cantina per procurarmi un cesto da viaggio per Nuvola Bianca, l’idea.. della cantina.. mi provocò una sorta di risata isterica che si impossessò della mia anima. Non avrei mai sospettato che la sana vendetta potesse avere un sapore così dolciastro: la mia bocca assaporava un.., un babà alla fragola e panna spruzzato di buon rhum! Ecco, l’azione catartica ha le sue regole, ed io avrei giocato la partita: la cameriera repressa, come mi avevano definita, accettava la sfida fino in fondo,  ed era pronta a dare il meglio di sè.

Insomma, scesi in cantina, e presi il bidone di vernice grigio-metallizzato. Già, lo aveva comprato lui, affinchè io rinfrescassi le pareti del balcone. Tornai su. Versai il colore dal tanfo irrespirabile, su tutte le superfici comode della casa: il letto, il divano, le poltrone, le sedie del salone e quelle della cucina. Ottimo lavoro! Ora avevo per davvero ridipinto l’appartamento proprio come nei vecchi programmi!!  Ma non era finita! Eh, no! C’era ancora una cosa da fare: non potevo mica lasciare il povero Giorgio senza gli abiti profumati di fresco ed apprettati a puntino!! Aprii l’armadio, e con gran soddisfazione gettai il resto della vernice su tutti i capi di abbigliamento lavati e stirati da me.. Poi, riappropriandomi del mio ruolo di compagna perfetta, che nulla, dei suoi pensieri più profondi, nasconde al suo uomo, mi diressi nello studio, scrissi un biglietto, lo lasciai lì, incollato con  l’Attack, sul monitor del PC acceso.. su tutte quelle amorevoli conversazioni.. lette e rilette:

un solo pensiero, una sola frase, una sola parola “MUORI!!!”

Staccai le spine del frigo e del congelatore, versai la marmellata sul televisore, presi la foto di papà e chiusi per sempre……,

già!

Chiusi per sempre.. quella porta. (ny)


 

 LL’ADDORE D’’O MARE: monologo (innapoletano, scritto per la giornata mondiale contro l’ADS e pubblicato, postumo, sulla rivista online: Il mondo di Suk, maggio 2011 )
Caterina è morta!Io me chiammo Sofia, tengo quarant’anni e faccio ‘a vita! Stò ‘ncopp’ a ‘nu marciappiede tutt’e nnotte: cu ll’acqua, ‘o viento, ‘o friddo, ‘a freva, ‘e juorn’ e festa. Io sò chella ca nun tene ‘core, nun chiede ammore, te fa sfugà e nun te da’ pensieri.

E pe tte ca me vuò astregnere, tuccà, vuò sbarià ‘ncuoll’a mme  pe’ ‘nu par’e ore, io sò Sofia: ‘nu suonno, ‘na bambola ‘e gomma, ‘nu luogo ‘e Paraviso, aro’ può trasì, piglià tutto chello ca te serve, ‘a passione, ‘o godimento, l’estasi… e può lassa’ ccà tutto chello ca vuò: ’e turmiente, ‘a valigia cu ‘e panne sporche, ‘e macchie ‘e sudore ‘ncopp’e llenzole.

Songo ‘nu panno.., ‘nu straccio ca leva ‘o fango ‘a copp’e scarpe e ‘a pòvere dint’ a capa d’a ggente! Chella ggente ca passa.., te guarda ‘nfaccia.., sputa ‘nterra e se ne va.

Songo n’anima dannata, a può calpestà, passà ‘ncuollo, ‘a può massacrà… pecchè tu sì ‘o padrone: e tu ‘o saje, e ‘o saccio pur’io!

E pe nun guardà chello ch’è morto, pe nun sentì ‘a puzza d’a morte, pe nun pensà a ‘sti juorne ca nun teneno sfumature, chiuro ll’uocchie.. ‘na vota e n’ata vota ancora, ma nun veco cchiù ’o sole, nun veco ‘o cielo, nun sento cchiù manco l’addore d’o mare attuorno a me.

Sott’a chella luce ca tremma, sott’a chilli lampiune arrugginiti, certi vvote però, mentre ‘a stanchezza me piglia, e ‘e pensiere so’ lacreme asciutte dint’a pòvere ‘e stù vico, me pare ‘e sentì ‘na voce, ‘na voce doce e luntana: “Caterì… Caterinaaa…” e allora, solo allora, dint’o silenzio d’a notte, sott’a pioggia che me ‘nfonne, ll’acqua ca vene ‘ncuollo, dint’ e ricorde smurzate d’a capa mia: torna a essere acqua ‘e mare.
‘O mare… comm’è luntano ‘o tiempo d’o mare, quanno Caterina crereva ca ‘o cielo era chin’e stelle, ca ‘o munno era bello, ch’a ggente se vuleva bene e che l’ommo era vero, sincero, era Ommo!

‘A vita le pareva ‘nu ciardino chin’e fiore, addore, culore, e l’omme suo ‘o vereva comm’a n’angelo, ‘na luce d’o Paraviso.

Quanno isso ‘a guardava, essa se metteva scuorno, ‘nu calore ce traseva dint’e vvene e pe stu calore ca diventava fuoco e passione ‘ncopp’a pelle, essa tremmava e isso rereva.

A Caterina ce sbatteva ‘o core, e comme le sbatteva chillu core! Pareva ‘nu treno, ‘nu tamburo, ‘nu criaturo c’allucca pe se fà senti.

Certi vvote l’emozione era accussi forte ca ll’uocchie, comm’a ‘na sorgente d’acqua chiara ‘a ‘nfunnevano ‘a faccia, e nun erano lacrime ‘e dulore… ma ‘e passione, lacrime d’ammore.

Ma Caterina è morta, io sò Sofia, tengo quarant’anni e faccio ‘a vita!

Dint’a sta prigione che è a vita mia, addo’ nun tengo ‘o diritto ‘e ridere, ‘e chiagnere, ‘e alluccà.., nun tengo ‘o diritto manco ‘e me chiammà femmena! Pecchè, è femmena ‘na bambola ‘e gomma ca p’a ggente normale è solo ‘na puttana ca nun tene dignità?

Ma ‘a ggente, ‘a ggente che ne sape d’a vita mia! Sempe ‘a stessa ggente, chella ca passa.., te guarda ‘nfaccia.., sputa ‘nterra e se ne và|

Però ‘nu sorriso overo, ‘na vota m’o rubaie!

Era ‘nu bellu guaglione, pareva ‘nu principe, ‘nu signore ‘e capille longhe, ricci, nire comm’o gravone e l’uocchie ll’uocchie azzurre comm’o cielo e mentre me stevo spuglianno, isso me guardai e io nun saccio pecchè, ma doppo tant’anni, p’a primma vota me mettette scuorno!

Nun aggio mai saputo si se ‘n’accurgette, nun m’arricordo!

M’arricordo sulo ca me pigliaje ‘a mano e ‘o core accumminciaje a me sbattere ‘mpietto.!

‘A quanto tiempo ‘o core nun se faceva cchiu’ sentì? Nun m’arricurdavo cchiu’ che era ‘o core! S’era abituato a stà zitto zitto, annascuso, in silenzio comme a n’auciello senza voce, ‘na jatta addurmuta… dint’a chill’angulillo scuro addo’ ll’avevo chiuso, ‘nzerrato, steva llà, senza da’ cchiu’ segnali ‘e vita!

E mentr’io pensavo dint’ capa mia e sentevo  ‘o calore d’a mano sua dint’‘e capille.. “uocchie ‘e cielo” me dicette: “Ma tu, come ti chiami?”

“Sofia..” ‘o rispunnette c’a capa acalata p’ annasconnere ‘a bugia, senza riusci’ a guarda’ chill’uocchie, chill’uocchie azzurre, accussì prufunne, ca me spugliavano e me trasevano dint’all’anema.

“No, no” me dicette aizannome ‘o viso cu tenerezza pe me guarda’ ‘nfaccia.

“ Tu… tu bambolina, come ti chiami?”

‘O core s’astrignette, se fermaje. ‘Na lama tagliente me trasette dint’o stommaco e ‘a capa accuminciaje a girà, me scuppiaje. Sentevo ‘o tremmore., ‘o dulore, sentevo ‘n’ata vota l’allucche d‘o core .

Comme se po’ ringrazia’ ‘o cielo pecchè siente ‘n’ata vota ‘a voce d’o dulore? Chillu dulore ca nun vulive cchiù sentì.., chillu dulore ca te fà capì ca ‘ncopp’a sta terra ce stai pure tu, ca nun è overo ca sì morta!

“Io? io comme me chiammo?”

Me pigliaie nu mumento ‘e silenzio… e po’, respiranno timidamente pe paura ca ‘e pensieri facessero rummore… ricette n’ata vota: “Sofia!”

No! Nun è overo! Me chiammo Caterina e Caterina nun è morta!

‘O core ‘e Caterina ‘e vvote, sanguina ancora, sbatte, sbatte ‘mpietto pe se fa’ sentì, pe me fa’ capì ca chillu sanghe scorre, ca è russo, è cavero!

Ma io guardo chillu sanghe e ‘o ggelo cu ll’uocchie! Caterina è morta, e dint’o buio d’a notte adda restà|

Pensieri, ciente pensiere ca m’arravogliavano ‘e cervelle, mille pensiere ca me vulavano ‘ncapa, comm’a quanno arape ‘e gabbie pe fa’ asci’ tante aucielle ca accummenciano a vulà all’impazzata, solo ca ‘ncapa ‘e facette rimane’ a vulà.

Basta!

“Che te ne ‘mporta?” ‘o rispunnette: “ Io so’ Sofia.  So’ ‘na bambola ‘e gomma! Canto,  ballo, te regalo ‘nu suonno, te faccio divertì. For’ a chesti mmura ‘a vita è  turmiento. Ccà dinto ‘o munno se ferma: trine, merletti, piume, incensi, cannele accese, e tu vai pensanno a comme me chiammo overamente? Lascia sta’, pienze a te, pienze a sta’ buono! Mò, t’appriparo ‘na tazza ‘e cafè!”
‘O guaglione durmette dint’o lietto mio, fui ‘na notte ‘e desiderio, nun sentevemo ‘a stanchezza, l’uocchie scavate, ‘e capille spettinate, ‘o trucco sciolto, mani ca s’astrignevano, vocche ca se cercavano, l’addore d’a pelle ca s’ammiscava, nu profumo forte dint’ a stanza era addore ‘e passione!

E chesto fuie fino a quanno  spuntaje ‘o sole.

A matina.., tra ‘nu surriso, ‘nu vaso e ‘na carezza, uocchie ‘e cielo se ne jette… e nun ‘o verette cchiù.

E accussi ‘e juorne e ‘e nnotte, turnajene comm’a primma: trine, merletti, piume, lenzole chin’e sudore, gente ca jeva e veneva, ‘o silenzio dint’a capa e dint’o core e sulo panne sporche attorno a me.

Pe me da’ ‘nu poco ‘e cunforto,  ogni tanto pensavo all’addore d’o mare e a chill’uocchie azzurre ca brillavano dint’o scuro.
‘Nu juorno bussajeno ‘a porta e ‘nu signore me purtaje ‘nu mazzo ‘e fiori… sette rose rosse cu ‘nu biglietto.

‘A quanto tiempo nun me mannavano fiori? Dint’a chella stanza, senza ‘a luce d’o sole ce steveno ‘e fiori… ma erano finti, ’e plastica.., comm’era ‘e plastica tutt’a vita mia.

M’assettaje a guarda’ chelli rrose.. mentre ‘e mmane nun riusceveno a arapì chillu piezz’e carta: “A te… ca sì nu suonno, ma no ‘na bambola e gomma!” Tremmaie… me gelaje..

Quanti vvote leggette chillu biglietto? Tanti, fino a che ll’uocchie nun se stancajeno. ‘O pusaie e restai là, ferma, immobile, annanze ‘e fiori.

Nun ‘o saccio pe quantu tiempo restaie a sentì l’addore ‘e chelli rrose e nun ‘o saccio manco pe quanto tiempo restai cu ‘a faccia dint’e mmane,  saccio sulo ch’all’intrasatto se facette buio.

Me vestette, me truccaje, scennette e jette ‘o posto mio: ‘ncopp’o marciapiede!

Chiuveva, chiuveva assaie, ma j’ nun sentevo friddo e manco ‘a pioggia ca scenneva senza pietà.

Chella sera, e chi s’a scorda chella sera: se Dio esiste, annanz’a Isso avimma essere tutt’eguale! Tutte quante avimmo deritto a ‘nu mumento ‘e pace!

‘A stanchezza me pigliaje, nun tenevo cchiù ‘a forza ‘e reagì, ‘e cumbattere contro ‘e fantasme d’a vita mia..

Chiurette l’uocchie… e all’improvviso, dint’o silenzio d’a notte, sentette ‘a voce, chella voce doce e luntana: “Caterì… Caterinaaa…” l’arapette e ‘na lacrema ascette senza permesso, ‘a vulevo fermà.. ma addiventajne ddoie, tre… ‘na funtana..!
Chella sera a Caterina nun ‘a cacciaje…, fuie essa ca s’assettaje ‘ncopp’a panchina, se levaje ‘o russetto, se sciugliette ‘e capille, aizaje ‘a capa.. e se mettette a guarda’ luntano.

Lle parette ‘e verè ‘nu cielo azzurro,  limpido, ‘nu mar’e stelle. L’acqua d’a pioggia era bella… teneva ll’addore d’o mare. ‘A luce fioca d’o lampione brillava ‘o posto d’a luna. E dint’o silenzio d’a notte.., pensanno a uocchie ‘e cielo.. Caterina s’addurmette.

(ny.)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Leggenda napoletana arrangiata dall’autrice

‘A LEGGENDA D’ ’O DIAVOLO
Na cuntastorie.. conta chello ca sape,

v’ho ddico primma: nun ve fissate!

‘E storie d’’o popolo, spisso so’ favule,

cunte e leggende ‘e chella città.

‘E nomme ce stanno ma ‘o riesto chi ‘o ssape:

‘e fatte se ‘mbrogliano a le cuntà;

‘a voce s’appicceca cu ‘o tiempo ca passa

e ‘nce mette ‘o ssuojo pe l’aggarbà! (ny.)
‘Nce steva na vota, mmiez’a na piazza ‘e Napule, ca mò se chiamma Teodoro Monticelli….

No, no! Sta’ leggenda accummencia ‘o ccuntrario:

Nel 1409 mmiez’ a chesta piazza ‘e Napule, nun ce steva propreto niente, ma niente sà.

Mò, se cunta, però, ca nu juorno, arrivaje dint’a chesta città, nu signore ricco, ma ricco assaje: Antonio Penne, segretario perzunale d’‘o rre ‘e Napule “Ladislao”.

A’ stù giuvinotto, ca pure eva cuntento d’ ‘a vita ca faceva, chi ho sape, all’intrasatta, che l’afferraje, insomma se senteva sulo e s’accumminciaie a s’appucundrì, e allora se mettette ‘ncapa ca se vuleva truvà na mugliera , ma siccome era n’hommo assaie viziuso, a vuleva fresca, tosta e bbella.

Passajene li juorne, e na matina,  in città, capitaje, ca Antonio Penne sentette ‘e parlà ‘e na creatura capricciosa assaje, ca teneva nu sacch’e spasimante pe’ quanto eva bella, nu ciore ‘e primmavera, ma a guagliona, ca nun m’arricordo comme se chiamma, però sapeva ‘o fatto suoio,  e a tutte l’huommene c’‘a vulevano ‘ncatastà, essa ‘nce chiedeva nu pegno gruosso assaje. E sti puverielli avevano rinuncià a chella piezza ‘e figliola, incontentabbile.
Antonio Penne, saputo stu ‘nciucio, jette a spià a guagliona, e quanno a verette: uh mamma, mà!  Rummanette stupiteato , ‘a nennella, overo, era na rarità, na principessa, na sirena, na diva, comme se dice mò: na star!

Antonio, però, nun eva st’hommo accussi bello, dicimmo ca era… simpatico! Insomma, pè nun v’a purtà a lluongo, chillo però, teneva na capa tosta, ma una e chelli cape accussì toste, c’hanna vencere pè fforza e mò  una sola era addiventata ‘a fissa ca teneva dint’a chella capa: stà bbella guagliona, se l’aveva spusà isso!

Allora se mettette nu bbellu vestito, ‘o cappiello, e guante ‘e pelle, nu prufummo aspro ca faceva girà ‘a capa, e s’ appresentaie  comme a tutte ll’ate. Quanno fuje annanze alla nennella, arapette na scatulella cu ‘e nastre e cu ‘e rrose, dinto nce steva n’aniello ‘e brillante ca eva nu spettacolo, lucentea isso sulo sott’e raggi d’’o sole, d’’a luna e pure dint’all’oscurità.., po’ ‘nce facette ‘o cunto e ‘a mmasciata e tutte ‘e ricchezze ca teneva, e giuraje ca l’avessa trattata comme a na regina.

Ma a guagliona, niente sa!! Nun se cunvinceva.. financhè ce pensaje bbuono e accussì ‘o rispunnette:

“Ommo ca viene ‘a luntano,

ca lu core e la tasca tiene chin’ ‘e denare,

si stà femmena bella tu te vuò ‘nsorà..  

doppo na notte,

nu palazzo cu e jardine e cu e marme,

mmiezo a stà piazza,

m’è ha fà truva’.”

Vutaje ‘e spalle, e se ne jette, overo comme a na star!

‘O pegno d’ammore, mò, era difficile assaje e Antonio Penne nun sapeva comm’eva fà.. e pienze.. pienze.. pienze ancora.. pigliaje na brutta decisione: se ‘o diavulo in perzona ‘nce faceva stù favore, isso ce deva ’ncambio, ll’anema soja.

Belzebù comme sentette stu fatte, scuppiaje a ridere comme ‘a na jena faina.. accettaje subito e sò facette mettere pure per iscritto, pecchè dint’a capa soja se vulev’ addivertì.
Penne, però, a na scusa, a na ascusa, riuscette a ‘ncatastà, na clausola, dint’o cuntratto.

A matina doppo, ‘o diavulo, aizat’o palazzo,  nun aspettaje manco na mezza jurnata, ca subbeto s’apprisintaje, ca vuleva chello ca lle spettava, ma Antonio Penne, cu nu sorrisetto sott’e baffe, le dicette:

“Aspiè, ma vaje ‘e pressa? T’e sì scurdato ca tenimmo nu contratto? E liegge chell’o ca tu è firmato! Liegge Belzebù!!”

‘O diavulo allora liggette e se mettett’a ridere c’ ’a panza ‘mmano:

“Ma comme” dicette

“Io Belzebù.., p’avè ll’anema toia..  aggia primma cuntà tutt’ e chicche ‘e grano, ca tu mò, m’è vutte n’terra?”

Allora Penne ‘o rispunnette:

“Uhè Belzebù, tu è firmato? e… e Patte s’ò Patte!”

A chesti pparole ‘o diavulo se sturzellaje, e sfasteriuso smettete ‘e ridere e accumminciaje a cuntà! E ch’eva fa! E Patte s’ò Patte!!!

Ma conta che riconta.. però, nun se truave maje.. Penne eva ‘mpastat’o ggrano c’’a pece.. e accussj e chicchi se ‘mpicciavano sotto a ll’onghie ‘e Belzebù, pecciò, ‘o diavolo, aveva voglia ‘e cuntà, nun se puteva maje truvà!!
Chistu, fatto fesso, s’arraggiaje c’addiventaje ancora cchiù russo, e accumminciaje a’lluccà ca facette tremmà ‘a terra.., ma Penne cu nu lampo ‘e ggenio, se facette prontamente ‘o segno da Croce e allora nu fuosso s’arapette, ma nu fuosso prufunno assaje, ‘o diavulo sprufunnaje adinto mmiezzo a na vampata ‘e ffuoco..  ‘a terra s’ò ‘nghiuttette e ‘o puzzo se chiudette.

Penne, allora, avette ll’anima salva, ‘a nennella capricciosa finalmente truvaje lu zito, tutte ‘e   ffemmene d’’a città ‘nce dettero na bella benedizione che accussi, pure ll’uommene lloro, s’appaciajeno e palazzo Penne, stà ancora ccà, dint’a chesta bella città.
E comme se dice?

Quanno ll’ammore se sente ‘e chiammà

pure ‘o diavolo s’addà stutà,

ma nun ve fissate…

ogni leggenda se sape..

tene  nomme,

fatte, perzone,

sò inciuci ‘e popolo…

cu bbella ‘nvenzione. (ny.)

L’ODORE DEL MARE: monologo(Traduzione in italiano)Caterina è morta!Io mi chiamo Sofia, ho quarant’anni e faccio la vita!Sto su un marciapiede.. tutte le notti, con l’acqua, il vento, il freddo, la febbre, nei giorni di festa!

Io sono quella che non ha un cuore, non chiede amore, ti fa sfogare e non ti crea pensieri.

E per te che mi vuoi stringere, vuoi smaniare addosso a me per un paio di ore, io sono Sofia: un sogno, una bambola di gomma, un luogo di Paradiso, dove puoi entrare, prendere tutto quello che ti serve: la passione, il godimento, l’estasi, e puoi lasciare qui tutto quello che vuoi: i tormenti, la valigia con i panni sporchi, le macchie di sudore sopra le lenzuola.

Sono un panno..  uno straccio che leva il fango dalla superficie delle scarpe e la polvere dalla testa della gente! Quella gente che passa, ti guarda in faccia, sputa per terra e se ne va!

Sono un anima dannata, la puoi calpestare, passare addosso, la puoi massacrare.. perché tu sei il padrone: e tu lo sai, e lo so anche io!

E per non guardare ciò che è morto, per non sentire la puzza della morte, per non pensare a questi giorni grigi, che non hanno sfumature.. chiudo gli occhi.. una volta.., una volta ancora, ma non vedo più il sole, non vedo  il cielo.., non sento più neanche l’odore del mare intorno a me.

Sotto quella luce che trema, sotto quei lampioni arrugginiti, certe volte però, mentre la stanchezza mi piglia, ed i pensieri sono come lacrime asciutte nella polvere di questo vicolo, mi sembra di sentire una voce, una voce dolce e lontana..: “Caterì, Caterinaaa….” e allora, solo allora, nel silenzio della notte, sotto la pioggia che mi infonde, l’acqua che mi bagna, nei ricordi smorzati della testa mia..: torna ad essere acqua di mare.

Il mare.. com’è lontano il tempo del mare, quando Caterina credeva che il cielo era pieno di stelle, che il mondo era bello, che la gente si voleva bene e che il suo uomo era vero, sincero, era Uomo!

La vita le appariva come un giardino pieno di fiori, odori, colori, e l’uomo suo lo vedeva come un angelo, una luce del Paradiso.

Quando lui la guardava, lei arrossiva, un calore si sviluppava nelle vene, e per questo calore che avvampava, che diventava un fuoco di passione sulla pelle.. lei tremava e lui rideva.

A Caterina pulsava il cuore, e come pulsava quel cuore! Sembrava un treno, un tamburo, un bambino che urla per farsi sentire.

Certe volte l’emozione era così forte che gli occhi, come una sorgente di acqua chiara, le bagnavano il viso, e non erano lacrime di dolore.. ma lacrime d’amore.

Ma Caterina è morta, io sono Sofia, ho quarant’anni e faccio la vita.

Dentro questa prigione, che è la vita mia, dove non ho il diritto di ridere, piangere, urlare, non ho neanche il diritto di chiamarmi femmina! Perché è femmina una bambola di gomma che per la gente normale e solo una prostituta che non ha alcuna  dignità?

Ma la gente, la gente che ne sa della vita mia! Sempre la stessa gente, quella che passa.., ti guarda in faccia, sputa per terra e se ne va!

Però un sorriso vero, una volta me lo rubai!

Era un bel ragazzo, sembrava un principe, un signore… i capelli lunghi, ricci, neri come il carbone…, e gli occhi.. occhi azzurri come il cielo…, e mentre mi stavo spogliando, lui mi guardò.. ed io, non so perché, ma dopo tanti anni, per la prima volta… mi vergognai!  

Non ho mai saputo se si accorse del mio imbarazzo…, non me lo ricordo!

Ricordo solo che mi prese la mano ed il cuore iniziò a palpitare forte!

Da quanto tempo il cuore non si faceva più sentire! Non ricordavo più cosa era il cuore! Si era abituato a stare zitto, zitto, nascosto, in silenzio come un uccellino senza voce, un gatto addormentato.. in quell’angolino scuro dove io l’avevo chiuso, recintato, stava là, senza dare più segnali di vita!

E mentre io pensavo, assorta e sentivo il calore della sua mano nei miei capelli, occhi di cielo mi disse: “Ma tu, come ti chiami?”

“Sofia” risposi con la testa china per nascondere la bugia, senza riuscire a guardare quegli occhi.. quegli occhi azzurri, così profondi, che mi spogliavano e mi entravano nell’anima.
“No, no” mi disse, alzandomi il viso con tenerezza per guardarmi in volto

“Tu.. bambolina, come ti chiami?”

Il cuore si contrasse, si fermò per un attimo. Una lama tagliente mi tranciò lo stomaco e la testa iniziò a girare, mi scoppiò.  Sentivo il tremore, il dolore, sentivo un’altra volta la voce, l’ urlo del cuore.

Come si può ringraziare il cielo perché senti nuovamente la voce del dolore? Quel dolore a cui non volevi più dare voce, quel dolore che ti fa capire, che su questa Terra, ci sei anche tu, che non è vero che sei morta!

“Io?.. Io come mi chiamo?”

Mi rinchiusi in un momento di silenzio.. e poi, respirando timidamente per paura che i pensieri facessero rumore.. dissi nuovamente: “Sofia!”

No!!! Non è vero!! Mi chiamo Caterina e Caterina non è morta!!!

Il cuore di Caterina alle volte sanguina ancora, ansima, pulsa forte in petto, per farsi sentire, per farmi capire che quel sangue è vivo, scorre, è rosso, bollente! Ma io guardo quel sangue e lo gelo con gli occhi! Caterina è morte, e nell’oscurità della notte deve restare!

Pensieri, cento pensieri che mi ingarbugliavano il cervello, mille pensieri che mi circolavano confusamente nella testa, come quando apri una gabbia per far uscire tanti uccelli che iniziano a volare all’impazzata, solo che in testa li lasciai a volare.      Basta!

“Che te ne importa?” gli risposi: “Io sono Sofia. Sono una bambola di gomma! Canto, ballo, ti regalo un sogno, ti faccio divertire. Fuori da queste mura la vita è tormento. Qui dentro il mondo si ferma: trine, merletti, piume, incensi, candele accese, e tu vai pensando a come mi chiamo veramente? Ma lascia stare, pensa a te, pensa a stare bene! Ora ti preparo una tazza di cafè!”

Il ragazzo dormì nel mio letto, fu una notte di desiderio, non sentivamo la stanchezza, gli occhi scavati, i capelli spettinati, il trucco sciolto, mani che si stringevano, labbra che si cercavano, l’odore della pelle che si confondeva, un profumo forte nella stanza.. profumo di passione!

E questo fu fin quando spuntò il sole.

La mattina dopo.., tra un sorriso, un bacio, una carezza, occhi di cielo se ne andò.. e non lo rividi più.

E così i giorni e le notti.. tornarono come prima: trine, merletti, piume, lenzuola piene di sudore, gente che andava, tornava, il silenzio nella testa e nel cuore e solo panni sporchi intorno a me.
Per rincuorarmi, ogni tanto, mi perdevo nei ricordi dell’odore del mare e in quegli occhi azzurri che brillavano nell’oscurità della notte.
Un giorno bussarono alla porta e un signore mi consegnò un mazzo di fiori.. sette rose rosse con un biglietto.

Da quanto tempo non mi mandavano i fiori?

Nella mia stanza, in cui non batteva il sole, c’erano i fiori, certo! Ma erano finti, di plastica.., com’era di plastica tutta la vita mia.

Mi sedetti a guardare quelle rose.. mentre le mani non riuscivano ad aprire quel foglietto:

“A te.. che sei un sogno, e no.. una bambola di gomma!” Tremai! Mi gelai!

Quante volte rilessi quel messaggio! Tante! Fino a quando gli occhi non si stancarono! Lo posai e restai ferma. Immobile, dinnanzi ai fiori.

Non so per quanto tempo rimasi ad annusare l’odore di quelle rose e non so per quanto tempo mi rannicchiai con la faccia nelle mani.., so solo che all’improvviso calò la sera e si fece buio.
Mi vestii, mi truccai, scesi e andai al posto mio: sul marciapiede!

Pioveva, pioveva assai,  ma io non sentivo freddo e neanche la pioggia che scendeva senza pietà!

Quella sera.. e chi se la dimentica quella sera..: se un Dio esiste.. dinnanzi ai suoi occhi dobbiamo per davvero essere tutti uguali! Tutti abbiamo diritto ad un momento di pace interiore!

La stanchezza mi assalì, non avevo più la forza di reagire, di combattere contro i fantasmi della vita mia..

Chiusi gli occhi e all’improvviso, nel silenzio della notte, risentii quella voce.. quella voce dolce e  lontana: “Caterì… Caterinaaaa..” li aprii, ed una lacrima scese senza permesso, la volevo fermare, ma diventarono due.., tre.., una fontana..!
Quella sera a Caterina non la mandai via.., fu lei h si sedette sulla panchina, si tolse il rossetto.., si sciolse i capelli, alzò lo sguardo.. e si perse a guardare lontano…

Le parve di vedere un cielo azzurro, limpido, un mare di stelle! L’acqua della pioggia era bella.. aveva l’odore del mare! La luce fioca del lampione brillava al posto della luna. E nel silenzio della notte.. pensando ad occhi di cielo..  Caterina.. si addormentò.

(ny.)

 

 

 

 

 

Leggenda napoletana. Traduzione

La leggenda del diavolo

Una cantastorie racconta quello che sa,

ve lo dico prima: non vi fissate!

Le storie del popolo, spesso sono favole,

racconti e leggende di quella città.

I nomi ci sono, ma il resto chi lo sa:

i fatti s’imbrogliano a contarli;

la voce (le parole) litiga (s’imbrogliano)con il tempo che passa

ognuno aggiunge pensieri (personali) per renderli più interessanti.
Ci stava una volta, in mezzo ad una piazza di Napoli, che adesso si chiama Teodoro Monticelli..

No, no! Questa leggenda inizia al contrario:

Nel 1409, in mezzo ad una piazza, qui a Napoli, non ci stava proprio niente, ma niente veramente!

Ora, si racconta, però, che un giorno, arrivò in questa città, un signore ricco, ma ricco assai: Antonio Penne, segretario personale del re di Napoli “Ladislao.”

Questo giovanotto, che a dirla tutta era una persona contenta della vita che conduceva, all’improvviso chissà da che malessere fu travolto, insomma si sentiva solo e gli venne l’afflizione, e allora decise di trovarsi una moglie, ma siccome era un uomo molto vizioso, la voleva giovane, ben fatta e bella.

Passarono i giorni ed una mattina, in città, accadde che Antonio Penne seppe di una creatura molto capricciosa, cha aveva tanti spasimanti a causa della sua straordinaria bellezza: era un fiore di primavera, ma la ragazza, che non ricordo come si chiamava, però, era una furba ed a tutti gli uomini che la volevano sposare, lei chiedeva un pegno molto grande. E questi poverini dovevano rinunciare a quella bella figliola, incontentabile.

Antonio Penne, saputa questa storia, si recò a spiare la ragazza, e quando la vide: uh mamma mia! Rimase esterrefatto, la fanciulla era di una bellezza rara, una principessa, una sirena, una diva, come si dice oggi, una star!

Antonio, però, non era un uomo particolarmente bello, diciamo che era… simpatico! In conclusione, per intenderci, però, era testardo, ma così testardo che doveva vincere per forza, e adesso una sola era la fissa del suo cervello: questa bella ragazza se la doveva sposare lui e nessun’altro!

Allora si mise un bel vestito, il cappello, i guanti di pelle, un profumo aspro che faceva girare la testa e si presentò come tutti gli altri pretendenti.

Quando giunse dinnanzi alla fanciulla, aprì una scatola con i nastri e le rose, dentro c’era un anello di brillanti che era uno spettacolo, luccicava sotto i raggi del sole, della luna, e brillava anche al buio, poi informò la fanciulla di tutte le ricchezze che possedeva e giurò che l’avrebbe trattata come una regina.

Ma la ragazza, niente, non si convinse, finché ci pensò bene e poi così rispose:
“Uomo che vieni da lontano,

che il cuore e le tasche hai piene di ricchezze,

se questa bella fanciulla tu ti vuoi sposare,

dopo una notte,

un palazzo con i giardini ed i marmi,

in mezzo a questa piazza,

mi devi far trovare.”

Girò le spalle, e se ne andò per davvero come una star!

Il pegno d’amore era molto difficile Antonio Penne non sapeva come fare, e tanto si sforzò a trovare una soluzione, che, alla fine, prese una brutta decisione: se il diavolo in persona gli faceva questo favore, poi lui, gli avrebbe dato in cambio la propria anima.

Belzebù come sentì questa proposta, scoppiò a ridere come una iena e subito acconsentì allo scambio e stipulò anche un contratto scritto, perché si voleva divertire.

Penne, però, di nascosto, riuscì ad aggiungere una clausola nel contratto.

La mattina successiva, il diavolo, costruito il palazzo, non aspettò neanche mezza giornata, che subito si presentò per ricevere ciò che gli spettava, ma Antonio Penne, con un sorriso furbetto, gli disse:

“Aspetta, ma vai di fretta? Ti sei dimenticato che abbiamo firmato un contratto? E leggi tu stesso ciò che hai firmato! Leggi Belzebù!

Il diavolo allora lesse e scoppiò a ridere di gran gusto:

“Ma come” disse

“Io, Belzebù, per avere l’anima tua, devo prima contare tutti i chicchi di grano che tu adesso sparpagli per terra?”

Allora Penne gli rispose:

“Uhè Belzebù, tu hai firmato? E.. i patti sono Patti!”

A queste parole il diavolo si innervosì, e contrariato, smise di ridere ed iniziò a contare!

E cos’altro poteva fare? I Patti sono Patti!!

Ma conta e conta ancora, però, non si trovava mai.. Penne aveva impastato il grano con la pece.. e così  i chicchi si pasticciavano sotto le unghie di Belzebù, perciò, il diavolo, aveva voglia di ricontare sempre daccapo, non si poteva mai trovare con i risultati esatti.

Questo, raggirato, si arrabbiò fino a diventare ancora più rosso ed iniziò ad urlare così forte che fece tremare la terra, ma Penne, con un lampo di genio, fece immediatamente il segno della Croce, ed allora una voragine si aprì, ma una voragine profondissima, il diavolo sprofondò nel fondo tra vampate di fuoco violente, la terra lo inghiottì ed il pozzo si richiuse.

Penne, allora, ebbe l’anima salva, la fanciulla capricciosa trovò marito, tutte le donne del paese le dettero la piena benedizione perché così, anche i propri consorti, trovarono pace e palazzo Penne, sta ancora qui, in questa bella città.

E come si dice?

Quando l’amore si sente chiamare

pure il diavolo deve zittire,

ma non vi fissate

ogni leggenda, si sa..

riporta nomi

fatti, persone,

ma restano voci di popolo

con bella invenzione. (ny.)


 

FIORDALISO… filastrocca di primavera

 

C’è una storia che ti voglio raccontare…

è una storia di friabile magia,

che se la stringi troppo forte e senza amore…

lei si sgretola alle porte del tuo cuore!

Contro-Fiaba o Contro-Storia come dire….

è la vita che rinasce al suo morire,

una goccia di rugiada sulla via…

può cambiare il delirio in armonia!

 

Lei aveva luccicanti ricci d’oro,

e gli uccelli al suo canto erano il coro…

quando il sole la spingeva con amore,

confuso al vento arpeggiava il suo bagliore!

Occhi immensi… specchi fluidi e marini,

pelle bianca… sensuale e dolce nei confini,

bocca a cuore… fatta così, come l’amore…

tredici anni… senza l’ombra del dolore!

 

Era figlia del tempo che va,

era figlia del tempo che torna,

ma il buon padre nel metterla al mondo,

non mise anche il pianto nel suo profondo!

E così Primavera di cuore…

la spingeva sul dondolo il sole,

lei viveva cantando al suo vento,

senza lagrime… senza un lamento!

 

Ma un giorno… il suo cuore… conobbe la pioggia,

che bagnò… allagando… il suo candore bambino..

ogni gemma lucente si spense nell’acqua,

Fiordaliso annegava… come un pulcino!

La sua voce soave zittì in un momento!

Primavera, oltre il buio, ne conobbe il silenzio!

E i tamburi, stridenti, del rimbombo dei tuoni,

fermarono il dondolo e tutti i suoi suoni!

 

Si guardò nello specchio, appariva sbiadita,

ad ogni goccia esalata, trasudava la vita!

che se avesse, di dolore, versato un sol pianto…,

la magia, nel suo cuore, avrebbe spento l’incanto!

Lei sarebbe svanita, sgretolata nel vento,

non ne sarebbe rimasto neanche un lamento!

Era nata d’amore, per mai non-soffrire, sì!

..Bianca e friabile, come il morire!

 

Ma un giorno, un fanciullo, passando per caso,

spinse quel dondolo abbandonato,

così, innocente, senza nulla sapere,

salvò col sorriso la vita di un fiore!

Fiordaliso dal suono..  rimase rapita,

dal quel cigolio… per lei, musica, vita!

Tornò a sedersi… si fece cullare…

e la sua voce soave, riprese a vibrare!

 

Se tu per caso, passassi oltre il mare,

e sentissi leggiadra, quella musa cantare..

No! Non sbiadire i contorni dei visi!

Lasciali intatti .. quegli eterni sorrisi!

Contro-Fiaba o Contro-Storia come dire,

è la vita che rinasce al suo morire:

una goccia di rugiada sulla via,

può cambiare il delirio in armonia! (ny.)

 


 

 ECLISSI D’AGOSTO..

 

 

A volte il bisogno di amare

supera ogni visionario fantasticare.. 
e cosi ti trovi a solcare pagine di vita,

e strappi squarci a fessure semi aperte.. 
regali battiti di ciglia alle cerniere dilatate..,

e l’anima, fibrillante, il fremito trasuda.. 
E tu uomo inatteso

contatti le mie albe..

i miei tramonti.. 

della mia percossa pelle tendi le rughe della fronte.. 

che come d’incanto scivolano.. 
obliando segreti 

impastati in perle di sudore.. 
che sulla tua bocca carnosa.. 

si sgretolano nell’abisso dei respiri.. 
Non ho ieri.., non ho domani.., 

non ho un giorno.. non un tempo.. non ho uno spazio.., 
ho solo l’attimo che mi percuote il petto.. 
E tu giri e poi rigiri le mie vibrazioni.. 

e mi rendi schiava del tuo sentire..,

del tuo vedere.., del tuo immaginare.., 
ed io mi perdo.. perdutamente persa.., 

senza avanzare.., senza indietreggiare.., 

statica.., immobile.., 

nel tuo profondo ansimare.., 
che senza parlare..

trasuda libertà e sconvolto amore. 
E la danza tribale inizia.., 

l’appartenenza mi fonde

nel tuo respiro.. io respiro
e ti appartengo.., e mi appartieni.., 

in quell’attimo senza ieri e senza domani…. 
e mi trascini.. nella spirale di un’eclissi mi trascini.. 

e brucio.. ed ardo.. mi incendio..
nel ritmo incessante..

del tuo carnefice pulsare.. (Ny.)

 


 

Il senso delle cose..

 

 

Dipingo quadri rosa pastello..

senza linee.., senza contorni..

senza forme che ne trancino il flusso.

Ciò che ieri era.. più non è!

Ciò che sarà domani.. non lo sento.

Leggera l’anima mia

sfiora vagando..

come in un soffio di primavera,

gemme che sbocciano al sole

e petali sparsi sulla terra..

che profuma di erba bagnata.

 

La vita plasma il movimento!

Nulla si ferma.., nulla si ripete..

La sensualità avvolge le immagini..

ogni volta che in punta di piedi,

lascio che i capelli sciolti al vento..

accarezzino le mie nude spalle,

mentre, con le pupille dilatate,

guardo l’orizzonte lontano..

ed i miei pensieri..

come bianca e soffice neve..

inglobano l’infinito cielo.

 

Non ho voglia di parlare per ore..

Non ho voglia di capire..

Non ho voglia di spiegare..

Ho voglia solo, nel silenzio,

di ascoltare l’armonico rimbombo

dell’essenza delle cose,

quel suono magico

..che non ha inizio..,

..che non ha fine..,

che come musica..

mi fa tremare l’anima.

 

A volte ho freddo..,

ho freddo dentro

e tremo sulla pelle senza potermi fermare..

a volte il cuore..

trasuda di calore..

e sento che il mio corpo..

..trasparente..,

scivola sul mondo

e senza che una goccia bagni le mie ciglia..

cerco ogni angolo di vita

nella profondità del mare.

 

 

Ed è allora

che dinnanzi ai miei occhi..

si svela l’abisso dei miei pensieri,

non ho ieri..,

non ho domani..

ho solo l’istante in cui sento..

per vibrare..

in tutto quel che sento.. (ny.)

 


 

TUMULTO..

 

 

Sai cos’è un Tumulto? 
È una Vibrazione, 
è un fuoco di Tensione. 
È un Guizzo della mente 
È il non capirci niente! 
E’ un Fremito del corpo 
Ti scuote e non s’Acqueta
… ti Arde sotto i piedi… 
…Soffri se ti Siedi! 
Ti Scoppia nelle vene… 
Nel cuore, Lì ti Freme!!! 
Sì!!! Vorresti Dominarlo! 
…però non sai Placarlo!!… 
…E allora… Perdi i Sensi 
e provi a Sradicarlo!!!!. 


Sai cos’è lo Scoppio di passione? 
È Poliedrica Tensione 
…di ogni Corda… 
la sua vera Pulsazione! 
…è l’Incontro… 
di ogni Armonica Fusione! 
…il Ritmo…

il suo Rimbombo… 
ogni gesto di Emozione!!! 
E’ un’Armonia che sussurrando Invade i mari! 
…ma Scoppia dentro i cieli e fa Vibrare 
anche Te… se nel corpo vuoi Pulsare… 
…e qui di Botto… 
in un Fuoco di Tensione, 
Esplode nella pelle in uno Scoppio di Emozione!!!

 
E così… quella Magia, 
Sai,

nei sensi,

quell’eterna pulsazione..
E’ l’Amore!

La sua Essenza… 
La sua Massima Espressione! (ny.)

 


 

Il gabbiano

 

…Oggi guardavo affascinata il volo di un gabbiano…
ne seguivo la tratteggiata scia che inseguiva il sole
e scoprivo la dinamica del suo movimento
quando, ad ali spiegate,

accarezzava le pareti di un cortile
disegnando sinuoso.. curve ondulatorie!
..Non volava in modo verticale…
ma guadagnava altezza in moto circolare…
ed ogni giro era una conquista verso il cielo..
ma doveva riabbassar la quota

per poter riprender slancio verso l’infinito…
fin quando dopo l’ultima picchiata..
rasentando la prigione di cemento…
ha planato maestoso oltre il tetto
e… finalmente libero..
…è volato via….!
…Ed io.., raccontando il volo magico..,
cercando di ripercorrer l’ondoso movimento..,
in un pathos di emozioni

che producono il mal di mare…
ho stretto la bocca del mio stomaco..,

ho trattenuto il gemito,
ho calmato il trepidante core.,
che gradualmente…
ha ripreso possesso del suo silente urlo…:
…pensando a te..

al tuo contorto volo

quando hai inseguito me!

Perché l’amore è libertà

fantasia di volare oltre le codifiche del tempo

oltre ogni prigione di cemento

oltre il senso ed il non senso.

…Oggi guardavo, affascinata.. il volo di un gabbiano! (ny.)


 

Il Battito Silente


Non una foglia vibra…
Nell’aria che non muove!
Non un raggio riscalda…
Ciò che non germoglia!!!
Non un moto risveglia…
Ciò che assopito tace!!!
E’ una sorta di elegia…
Statica malinconia…
..pacata tenerezza
in un tempo che non passa…
immobile carezza
nell’anima mia!.
La lagrima scende!
Il fiume è in tormenta!
Non mescola l’acqua…
Non bagna la via…
Il sudore non traspira il dolore!
Non c’è freddezza…
Non c’è calore…
Si sublima l’armonia nella pausa del cuore!!!!
…non c’è rumore
nel silenzio della morte che muore!.
Non un soffio di brezza
Sulla vela che viaggiando…
È ancorata in mezzo al mare!
Non un fremito del capo
Nella temperatura..
Che nell’alta febbre sale!
Non una ruga dentro il cuore
In un giorno che passando…
Nel suo buio ha messo il sole!!
E’ una nota di magia…
Sacralità di un rituale…
E’ la Cellula del Mondo
Che non muovendo… fugge via!
…E’ il Battito Silente…
..della sospesa Anima Mia! (ny.)


Vorrei un posto mio

 

Vorrei un posto mio

un posto per sognare,

dove parlar con Dio

e vedere il suo splendore,

nel sole che risorge nell’eterno dei sorrisi..

nel dolce pio imbrunire che racconta i Paradisi,

dove la mente vola

oltre il buio del mare..

che non sia mistero

l’infinità del suo fondale!

Mille racconti poi vorrei udire..

sentendoli nel vento

che mistico lo sento

..scrigno segreto di mille vite in una!

Nel suo tumulto che poi s’acqueta e tace,

che raccoglie i frantumi.. di ogni vita andata,

.. ma che soffia sulla polvere

Spazzando la fuliggine..

Imprimendo al cielo opaco

Il candore della luce!

Mille pensieri poi ti vorrei donare

che sappiano sgorgare dal profondo del mio cuore!

.. dolci vibrazioni..

..impercettibili carezze..

.. sensuali e cristalline tenerezze..

Sublimi nell’eterno della vita

Quando apri alla purezza..

Ogni fluido…

Che ti sgorga dalle dita!

Mille giorni poi vorrei vedere..

Plasmando nella luce i tuoi sorrisi!

..perché la notte non sia più mistero oscuro

Ma magico riflesso dei nostri chiari visi. (ny.)