Anna Simoni

Poesie e Racconti


Pioggia

Cielo che si squarcia, pioggia che cade pesante, e tu cadi con lei. Gocce larghe a bagnarti la pelle, bollenti sul tuo viso freddo, ti macchiano, ti purificano. Inspiri e ti sollevi e alzi le mani al cielo, a dita tese, e provi ad afferrarlo, quello sguardo cieco di Dio. Dell’universo. Della tua anima. Ugualmente salvatore e spietato e implacabile.

Tu integra, sola, minuscola sotto quella vastità infinita di gocce. Tu integra, sola e minuscola ad affrontare luci e ombre tra la tua mente. Un tuo singolo ricordo contro una moltitudine di istanti. Naufraghi tra conscio e inconscio, mare e iceberg di pensieri, e la pioggia ancora ti sferza la pelle. È semplice. Lo senti. Sei viva.

Palpebre che si sollevano, il tuo sguardo brilla. Corri e ti scateni e vuoi sentirtela addosso, ‘sta tempesta. A piedi nudi in mezzo a tuoni e lampi e temporale.

 


 

Mockingbird

Avevano finalmente raggiunto l’incrocio con la strada principale. Il vento freddo scuoteva i rami dei tigli lungo il viale deserto, e pungeva il viso appena rasato di Grev. Camminavano verso uno degli altri vicoli quando Lester gli afferrò un polso, gli occhi su qualcosa in fondo alla strada; Grev seguì il suo sguardo, e scosse la testa.
“No”, disse, liberandosi dalla sua presa. “Andiamo, Les. Tra poco sarà buio, c’è il coprifuoco, non c’è tempo”.
Lester si voltò verso di lui, tra l’incredulo e l’irritato.
“Non c’è tempo” tentò ancora Grev. Faceva così in fretta a sentirsi colpevole, sotto quello sguardo giudicante. Anche quando sapeva di aver ragione. “Senti, non piace neanche a me, okay? Dico solo che in questo momento dovremmo cercare di stare fuori dai casini”.
“Non ti piace, dici?” gli chiese Lester “Non ti piace. Lei invece si starà divertendo tantissimo”. Indicò le figure che si agitavano nella piazzetta in fondo alla strada, tra gli alberi quasi spogli. Il vestito chiaro della ragazzina risaltava nell’ombra, una macchia di luce tra le sagome dei due ufficiali che la accerchiavano. Le esortazioni arrivavano fino a loro.
“È una bambina, Grev” insisté Lester con veemenza.
Grev sostenne il suo sguardo, esasperato, mentre i comandi degli uomini aumentavano di intensità. Lester aveva ragione, ma quello che stava proponendo era follia. E ovviamente -ovviamente, diamine- Les non lo sapeva, ma per lui, Grev, non era solo follia, era suicidio. Lo avrebbero espulso dall’università, emarginato ancor di più all’interno della società stessa, e osservato. Costantemente, aspettando il suo primo passo falso. E poi lo avrebbero con ogni probabilità fatto sparire, in uno dei loro maledetti centri, per curare la sua “devianza”. E non gliene sarebbe neanche importato granché, se questo non avesse voluto dire condannare anche Ria. No, doveva proteggere sua sorella. Lui sarebbe tornato alla base. Non era il momento di richiamarsi addosso l’attenzione adirata di qualche ufficiale.
Il clangore di una sbarra di metallo caduta li fece voltare entrambi. Grev si accorse solo in quel momento che le urla erano cessate. Silenzio e foglie secche volteggiarono nell’immobilità della piazzetta. Ignorando tutti i pensieri avuti fino a quel momento Grev sfiorò il braccio di Les, e insieme avanzarono, svelti e cauti. La ragazzina dava loro le spalle, ed era in quel momento la sola figura in piedi; gettata per terra vicino a lei la sbarra, e sdraiate scomposte lì accanto i due ufficiali. Volantini sparsi lì intorno si mescolavano alle foglie cadute. Ancora scrutava gli ufficiali che aveva appena colpito, e Grev fissava lei.
Fissava i suoi lunghi capelli neri, in quel momento sciolti, scompigliati dal vento; lucidi capelli neri che Grev era abituato a vedere raccolti in una treccia. A raccoglierli in una treccia, la mattina presto, per lei. Lei rabbrividì nel suo vestito leggero, si strinse le braccia intorno alle spalle e alla vita snella; un gesto che era fin troppo famigliare a Grev. Non poteva crederci. No, no. No. Non poteva essere.
Un incerto “Ria?” gli apparve sulle labbra, senza suono; non si accorse di averlo deciso, ma si ritrovò a correrle incontro, colmare il prima possibile quella distanza che li separava, Lester abbandonato confuso dietro di sé.
Lei si voltò, presa alla sprovvista, ansiosa.
Grev si bloccò a pochi metri di distanza, le mani che lentamente si sollevavano, aperte, inoffensive, come a non voler spaventare un animale selvatico; lei lo scrutava, arretrando turbata. Guardò poi convulsamente la scena intorno a lei, apparentemente dimenticandosi per un istante di Grev. I corpi svenuti a terra. La sbarra, strappata dallo schienale della vecchia panchina in ferro battuto, lì vicino. Sbarra macchiata; forse di ruggine, forse no. Le sue mani. Mani che avevano impresso pieghe sulla stoffa dove l’avevano stretta, sul fianco e sulla spalla, e che ora tremavano. Incontrollate. Alzò gli occhi su Grev, riconoscendolo infine, e lui
ebbe appena il tempo di coglierci paura e vergogna e terrore, in quello sguardo, che sua sorella già si era lanciata in uno dei vicoli lì vicino, sparendo nel buio.
“Ria!” il grido si strappò dal fondo del petto di Grev. Si precipitò tra le case, rincorrendola; trovò solo ombre. Incespicò al buio, addentrandosi sul selciato, ma sapeva di non avere nessuna possibilità di trovarla, se Ria non voleva essere trovata. Sperava solo valesse lo stesso anche per gli ufficiali al momento privi di sensi nella piazzetta, e tutti i loro colleghi che avrebbero contribuito alla ricerca di una giovane che aveva aggredito degli uomini del governo. Diamine. Diamine. Ria era in pericolo, e lui non era più in grado di aiutarla. Sua sorella. Che così a lungo aveva provato a proteggere dai sistemi malati della società di quel periodo. Sua sorella. Ora in diretto pericolo. Il respiro corto faceva a pugni con il battito stordente del suo cuore. L’angoscia così accuratamente repressa negli ultimi mesi lo investì come un’onda. Grev sprofondava. Ria era in pericolo. Ria era in pericolo. Ria.
“Rev?” la voce di Lester lo raggiunse dalla strada principale, lontana. Grev aprì gli occhi; tutto fuori fuoco per qualche istante. Rilassò le dita che si erano serrate nei suoi capelli, si portò le mani in grembo. Perse l’equilibrio, e si rese conto di essere accovacciato contro il muro di una casa. Tirò su con il naso, sforzandosi di distendere i muscoli. Una mano contro il muro freddo alle sue spalle, si sollevò in piedi. Qualche passo incerto verso la luce dei lampioni che proveniva dalla piazzetta.
“Yo, Rev?” La voce di Lester era più vicina ora.
Grev ci colse una seria vena di preoccupazione. Dannazione. Les. Un colpo di tosse. Una spazzata ai pantaloni. Un altro mezzo colpo di tosse, o forse schiarita di gola, o forse tentativo di farlo tornare giù al suo posto quel cuore che ci si era andato a incastrare, nella gola.
“Qui, arrivo” riuscì a dire alla fine.
Grev emerse nella strada principale, avvistando un Lester intento a leggere uno dei tanti volantini sotto la chiazza di luce di un lampione. A suo agio tra i corpi privi di sensi distesi a terra. Grev si chiese se stesse scivolando verso la pazzia, considerando che in quel momento quella situazione surreale lo stava solamente incitando a ridere. Okay. Okay. Si passò le mani tra i capelli, raggiungendolo. L’imbrunire si era addensato diventando notte. Quando gli fu accanto Lester sollevò lo sguardo su di lui, enigmatico, e qualcosa in Grev si distrusse ancor di più. Il fascio di luce rendeva il verde dei suoi occhi incredibilmente limpido; nonostante quello Grev non riuscì a capire che pensieri o emozioni celasse, quando si accorse che stava per porgergli l’inevitabile domanda. Gelò e arretrò di un passo, scuotendo la testa, tentando di schermarsi dallo sguardo inquisitore di Lester. Sapeva che non c’era modo di posticipare oltre quel momento, quella conversazione, le conseguenze che avrebbe portato con sé, ma non era pronto, decisamente no. Si lasciò cadere sconfitto sull’unica panchina della piazzetta, lì accanto, schiena e capo abbandonati contro lo schienale senza una sbarra. Occhi chiusi, in attesa. Era scomodo. Non gli importava. Fruscio di carta, volantino sistemato in tasca, zip chiusa; scarpe fatte sbattere l’una con l’altra, tallone contro punta, punta contro tallone. Grev percepiva Lester fare tutte quelle cose, lo vedeva, quasi, starsene lì in piedi accanto a lui ad osservarlo indeciso. Una parte di lui sperò quasi che lasciasse cadere tutta la faccenda.
“Chi diamine è Ria?” Lester chiese invece infine.
Grev sospirò.

 


 

Marble stairs

I tacchi che risuonano sulle imponenti scale di marmo, le dita a sfiorare leggere il corrimano. Lo sguardo fisso su un qualche punto sotto il suo mento alzato, le labbra laccate di porpora socchiuse. Tutto quello addosso e intorno a Ruth sembra imporle quell’atteggiamento lento di chi è consapevole del proprio fascino; non guasta, considerando che si sta addentrando nella tana dei lupi.
Le note di Debussy che riempivano il piano superiore lì in basso arrivano ovattate. Si ferma un istante, cercando in quelle note un po’ di quiete per calmare la sua mente. L’atrio di fronte a lei da attraversare e un altro paio di corridoi, e raggiungerà quel ricevimento; quella sala piena di persone e potere. Il motivo di questa sua messinscena che sta portando avanti da lunghe settimane. La pressione di cercare cose a cui si è promessa di voltare le spalle la avvolge, la spinge; Ruth scuote la testa, inspira. Non ha tempo di prestare ascolto ai suoi demoni, lì.
Un rimbombo improvviso di passi rompe bruscamente la melodia e i suoi pensieri. Passi che in quel momento lì non dovrebbero esserci e che si stanno avvicinando, decisi e secchi lungo il corridoio buio di fronte a lei. Si ritrova all’ultimo gradino della scalinata, esita. Sperava di non incontrare nessuno prima del suo ingresso alla sala. Non si sente pronta. Una mano le si solleva al collo, mossa dall’ansia, e non ci crede di poter essere stata così folle. Sta ancora indossando il ciondolo che ha trovato all’Archivio, quel piccolo disco d’ambra così pieno di mistero, nascosto tra gli oggetti sequestrati. Suo fratello aveva ragione: ha un’ossessione per quell’affare, lei. Spera sia collegato alla resistenza? Non ne ha prova. E perché indossarlo, e aspettare fino all’ultimo per toglierselo? È esasperata da sé stessa, e quella sensazione le sta scomoda. Vuole sfidare la sua realtà, ma è ancora troppi passi indietro, appena in grado di rincorrerla; è quella stessa realtà a possederla, prendersi gioco di lei. Di nuovo. Tanti tentativi e sfide e sforzi per cosa?
I passi si bloccano alla fine del corridoio non illuminato. Scaltro, chiunque sia. Lei in piena vista, e ‘sta altra persona protetta dal buio. Tutte particolarmente scaltre e accorte le figure in quella struttura. Detesta quelle persone e quel che rappresentavano con tutta sé stessa, eppure ne ammira la sagacia; e si odia per questo.
Le flebili note di Debussy sono corrose dal suo panico, e le sembrarono quasi sinistre, ora. Non ha idea di chi stia per incontrare. Non che importi: così vicini all’ala dove il ricevimento è in atto, le uniche persone che in quel momento possano permettersi di allontanarsi non sono sicuramente insignificanti dipendenti. Agitazione e disgusto le stringono il petto. Il battito del suo cuore si fa quasi più assordante del rumore dei passi che in quell’istante riprendo ad avvicinarsi.
La sagoma di un uomo – che ha già deciso avrebbe odiato – prende forma nella luce dell’atrio.
Inflessibile, come Ruth si aspettava. Grave. Eppure giovane; e distrutto. Stretto tra le braccia di quell’uomo -di quel ragazzo- un bambino sui cinque anni, addormentato.
Il giovane uomo guarda Ruth con espressione dura ma neutra, nessun interesse; la studia. Si sente quegli ostinati occhi grigi addosso, lei; non la lasciano. Lo sguardo di chi ha identificato il nemico. Occhi pieni di gelo.
Ruth ci legge un’intelligenza quasi selvaggia, disperata, in quello sguardo, e per qualche motivo in lui riconosce sé stessa. La determinazione autentica, pura, che lei vorrebbe avere. Autenticità che in quel luogo mai sopravvive. Fissa i lineamenti induriti del ragazzo, il salvia scuro sbiadito del suo maglione, i pantaloni da ex soldato, il bambino che dorme al sicuro nella salda presa dalle sue braccia; una parte di lei le urla che vorrebbe esserci lei, al suo posto, ad ostentare quell’aria protettiva, quasi di sfida, in sostegno di quel bambino indifeso. Ad avere quel fare paterno. Si chiede se potrebbe mai un giorno essere una buona madre. I suoi pensieri vorticano troppo veloci per quel momento, mille dimensioni le si sovrappongono sulla realtà, e lei si sforza di tornare al presente.
Ha una mano inguantata ancora sospesa sul ciondolo, sulle sue labbra parole mute, inutili. Aveva deciso di odiarlo, quel ragazzo, ma ogni suo aspetto le grida motivi per non farlo. Lo sguardo di lui l’ha percorsa velocemente, ed è ora fisso nei suoi occhi; immobili entrambi, e Ruth è imprigionata in quel grigio, e ancora lo guarda, lui che sembrava aver trovato in lei conferma del tipo persona che supponeva lei fosse.
La rende triste. Si chiede come lei, la sua figura, appaia a lui. L’abito elegante, la pochette costosa in mano, il profumo raffinato; si sente sporca. Non pensa, non riesce; non vuole. È un azzardo, ma lascia cadere la sua mano – il suo scudo – al suo fianco, e osserva lo sguardo di lui fermarsi insistente sulla collana d’ambra al suo collo. Osserva i suoi lineamenti farsi più rigidi. Il suo peso spostarsi inquieto da un piede all’altro. Confusione, turbamento, disprezzo, e poi odio dipinti sul volto di lui; e Ruth trova forse conferma di quella che era prima solo una sua impressione, ipotesi, speranza, e il cuore le batte ancora più violento contro le costole.
A cosa è collegata quella collana. Cosa significa, per le cerchie che esulano la giurisdizione di quell’edificio. Esistono ancora, cerchie simili, nella realtà oltre che nelle speranze di Ruth?
Il bambino si muove nel sonno, docile. Il giovane uomo sembra riscuotersi, riprende ad avanzare, sguardo fisso sulle scale, di nuovo imperturbabile. Ruth è nella sua traiettoria, e si sposta inavvertitamente di lato, apre loro la strada; e sorpresa attraversa gli occhi di lui, cancella tutta quella risolutezza per un istante. Ruth non è completamente certa sia stata una scelta consapevole o meno, quella di comportarsi così, la sua. Nessuna figura di quel palazzo si sarebbe abbassata a tanto, addirittura cedere il passaggio a chiunque appaia meno facoltoso. C’è una gerarchia, lì. Una precisa struttura. Con conseguenze per chiunque non la rispetti. Ruth lo sa, lui lo sa, chiunque lì intorno lo sa. E una parte incosciente di Ruth spera che quel poco basti a insinuargli un dubbio rispetto a chi lei veramente sia. A suggerirgli che loro due non sono poi così diversi. Che (anche?) lei quel palazzo e tutto ciò che rappresenta vuole vederli rasi al suolo. Per quanto folle e pericoloso. Non è sicura di aver interpretato correttamente lo scambio che hanno avuto; se si può chiamarlo scambio. E un mero gioco di sguardi, capelli scompigliati e un bambino in braccio non sono certo sufficienti dettagli per assicurarle che lui non sia in realtà solo un’altra sfumatura di chi lei sta cercando di combattere. Neanche se sembra aver riconosciuto il dischetto d’ambra che porta al collo. La speranza può essere pericolosa, tra tutti quei pensieri confusi; troppo confusi e troppo lucidi. Ruth la mette a tacere prima che riesca a farsi ancor più strada dentro di lei.
Immobile si volta a guardarli mentre i due la superano, lui che avanza risoluto verso la scalinata, sale i gradini a due a due. La testa del bambino dondola seguendo il ritmo delle falcate decise, il mento sulla spalla muscolosa del ragazzo. Sbadiglia, e due schietti e assonnati occhi verdi fissano Ruth da sotto un ammasso di riccioli castani. Qualcosa si muove dentro di lei, e non riesce a non accennargli un saluto con la mano. Lo sbadiglio si trasforma in sorriso, e lui già ricade nel sonno.
Scompaiono dalla sua vista, e Ruth si volta, avanza verso il corridoio buio, recupera sé stessa e il suo intento. Sfiora con una mano la fotocellula a contatto incassata nella parete e il corridoio si tinge di una luce confortevole, una delle poche cose calde di quell’edificio. Perché camminare al buio, se lui e quel bambino erano legittimati ad esserci, in quel luogo? Scuote la testa, la vuole libera da quei pensieri, si deve concentrare. Si sfila con gesto preciso la collana, finalmente, la nasconde nella pochette, cammina. Sono i suoi tacchi a risuonare sul silenzio del pavimento di marmo, adesso. Svolta qualche angolo, procede. Ad ogni passo più vicina al suo obiettivo; ad ogni passo più lontana dalla sua innocenza.
Raggiunge l’ennesimo atrio, e l’enorme, ampia porta in vetro della sala del ricevimento. Osserva i funzionari dell’edificio nei loro abiti dal taglio moderno, gli ospiti facoltosi ancora un po’ rigidi mentre tentano di interpretare l’atmosfera. Bene. Non è poi così in ritardo come temeva. Il pieno della serata sembra essere appena iniziato. Le risate insincere con le eleganti mani inguantate a coprire il viso, tutti che a tratti si appoggiano delicatamente a qualcun altro per non dover sopportare il peso di quell’artificiale situazione
da soli. Dio, se solo si accorgessero che sono loro stessi gli artefici del loro disagio. Del disagio di una società intera. Giocherellano con le loro mani nello stesso distratto modo con cui giocherellano con le vite di tutti. Sorride rivolta al cameriere che le apre la porta, ma sta già al contempo esaminando Lady Agatha. Sa che Lady Agatha sta facendo altrettanto. Attraversa la soglia, si lascia investire dal rumore del luogo. Le sue labbra distese in un amabile sorriso falso, i suoi occhi che brillano di celata e vigile intelligenza, e la porta si richiude alle sue spalle.
“Oh, miss Miura, siete o non siete uno splendore”
Ruth scambia un leggero bacio sulla guancia con Lady Agatha, una delle donne più anziane lì presenti. Le sorride dall’alto dei suoi tacchi, ma si sente comunque sovrastata dall’acume della sua mentore. “L’ultima volta che ci siamo incontrate mi avete detto che ‘Il vero splendore deve risiedere nell’animo, o è solo abbaglio'” le risponde.
“Oh, ma niente è mai solo una cosa, mia cara-” le si avvicina, invitando Ruth a chinarsi di nuovo verso di lei “-E non dimentichiamo che anche l’abbaglio può essere un valido ed efficacie strumento” sussurra, sollevandosi a incrociare lo sguardo di uomini e donne nella sala presi ad osservarle. Ruth segue il suo sguardo, davanti a lei le celate espressioni contrastanti sui volti di funzionari e invitati, e si chiede che fine facciano, di solito, i “pupilli” di Lady Agatha. Una delle più acute menti del governo. E lei, Ruth, lì a tentare di farci il doppio gioco. Ha davvero davanti a sé una delle responsabili del sistema in cui è nata? Sistema che si fonda su e si impegna per portare avanti disuguaglianze e violazioni? Perché allora non la inorridisce, il fatto che in quel momento la sua mano traslucida sia sollevata a sfiorarle la guancia, con fare quasi materno? Sente la sua identità e i suoi valori vacillare sotto il peso dell’autorità e dell’intelligenza sprigionate da quella donna. Si sforza di ricordarsi che deve a Lady Agatha la realtà in cui vive, realtà che lei è intenzionata a far cadere, e aiutare a ricostruire per il meglio. E che si trova più o meno di sua volontà in quell’edificio, in quel momento, per quell’esatto motivo. Risponde agli insistenti e opachi occhi verdi di Lady Agatha incollandoci i suoi, riportando la sua attenzione lì dove lei la sta pretendendo. Si sente imbrigliata ad obbedire al suo volere senza che lei debba esplicitamente esprimere la sua supremazia. Esattamente il modo in cui agisce il governo. Inizia ad essere convinta che sia quella la vera essenza del potere.
“Un valido ed efficacie strumento” ripete Lady Agatha.
Ruth rivede per un istante lo sguardo del ragazzo. Si finge imbarazzata, cogliendo l’occasione per arretrare di un passo. “Lo terrò a mente, Lady Agatha” dice chinando il capo. Lo risolleva, e la trova ancora lì intenta a fissarla; le sorride. Continua a pensarci, l’intelligenza di quella donna la mette a disagio; fortunatamente il suo ruolo in quel momento le consente di non doversi sforzare troppo per nasconderlo.
Lady Agatha agita una mano. “Sappiamo entrambe che la tua mente lo sapeva già, miss Miura. Ma apprezzo l’umiltà di accettare sempre i consigli di quelli più potenti-” si interrompe, cercando Mr Whisan con lo sguardo “-quando non si può fare altrimenti”.
Neanche Ruth vede il relatore nella sala, al momento, e non riesce a capire se la sua assenza compiaccia o infastidisca la sua mentore. Intorno a lui si evolverà la parte centrale della serata; si chiede dove questo lasci Lady Agatha.
Sta aspettando una risposta, Ruth ne è consapevole. “Immagino tu abbia ragione”, riesce a dirle alla fine. Lady Agatha sorride. “Come sempre. È quello che capita a chi dice tutto e il contrario di tutto”. Le indica un cameriere che sta venendo nella loro direzione con un vassoio di drink. “Ecco, ora va’ da lui” le ordina. “Lasciati dare tutto il vassoio, che contiene un messaggio per me.”
Ruth sa bene il contenuto di quel messaggio. Scritto a mano, inchiostro pregiato. È il fondamento di questo suo piano folle. L’inizio della fine. Spera.
“Un drink puoi tenerlo” Lady Agatha aggiunge, più o meno apertamente osservando l’espressione di Ruth.
Lei se lo aspettava. Lady Agatha è a conoscenza dei suoi problemi con l’alcool, ovviamente; e di ogni altro dettaglio si è lasciata sfuggire per crearsi un profilo veritiero e plausibile, sebbene non completo. La appaga, chiedersi se Lady Agatha sia a conoscenza anche del fatto che lei, Ruth, ha un fratello gemello di nome Lester, di cui è estremamente orgogliosa, attento responsabile di molti dei disordini che dal nulla sorgono nel sistema; e sapere che la risposta è no. Che l’acuta mentore si abbagli pure con il non così segreto alcolismo, e chissà cos’altro. Anche l’abbaglio è un valido ed efficace strumento, si diceva.
Le risponde con un consapevole, caldo sorriso. Poi si rimprovera. Non può rischiare che la sua arroganza la renda superficiale, non adesso. È la partita a scacchi più importante della sua vita, questa. “Nient’altro?” le chiede.
“Non è mai ‘nient’altro’. Ora va'”
Un accurato inchino, e Ruth si addentra tra la folla.