Annalaura - Poesie e Racconti

Dolce Amica 


La mia forte e debole amica,
Quante cure son servite.
Oggi sei incauta e forte e lungi da morte nemica.
Il tempo si reo adesso non tormenta te
Ma penar mi fa di aspri pensieri,
Che nulla è eterno e tutto passa e fugge.
Teco non vorrei quei dispiaceri,
Tal che il cuor mio così si strugge.  



Riserva d’amore   

 

Qui vi riservo grande pregio

Del mio intimo, devoto elogio

A colui a cui dedico amor grato,

Quando all’almanacco girò lato.

 

Così a voi auspico quel piacere,

Il desio di cantar gioia di vivere

E cinger l’altro di parole armoniose,

A stimolo del nobil affetto, si deliziose.

 

Fin ne l’ora grave che ogni grazia è caduca

L’amor si rinnovi e audace vi unisca.

 

«   Certo mille volte si è detto

non sei più un giovinetto.

Eppur i sensi miei persi

si allietano sempre, immersi,

nel cuore tuo fanciullo,

che a me tutto intorno divien nullo.

 

Se vivere dovessi oltre te,

con la tua essenza, potrò gioire e soffrire con te.

E se fato dovesse teco indugiare,  

In te la mia essenza vorrai ospitare,

per il resto del corso immoto

giacché non mi resisterà ostacolo ignoto.  »


In memoria  

 

Lungi è l’avvento di quel dì

che ella al cuor tuo disse sì,

par poco eppur anni son trascorsi

e il vostro affetto non ebbe mai rimorsi.

 

La rimembravi sempre angelica

nella tua mente, si graziosa ed eterea,

in una veste bianca e bella

da parer quasi una farfalla.

 

Fervida fu la promessa all’altare

che per l’eternità la dovevi amare.

E il voto come pietra offrì da lì in avanti

fatti meri e vicende appassionanti.

 

Ma sempre cieco ad indugi e bieco ad amenità,

tal che furono donate diletta prole e virtuose affinità.

E intensa fu la conferma giurando lo stesso Amore

con unione onorata d’oro ed ardore.

 

Poi che tardo infin in quiete andasti,

il dolor anzi che le cure ad ella albergasti.

Ebbe arresto quella sua ardita, solita speme,

Che la vidi cedere mesta della fiamma il lume.

 

La promessa, ora che la vita a lei è muta,

ancor ti giunga ovunque con l’alma sua amata.

Ed io lieta e paga a voi le palme stendo;

E da lontano, gemente, da voi mi congedo.


S’io potessi

 

S’io fossi padron d’albergo,
Ti ospitaria a vita.
S’io fossi fattor di motori ergo,
Ti daria mezzo per andar per via.
S’io fossi vate,
di onor ti lodaria.


Ma solo oratoria mi appartiene
E nessuna dote d’alchimia.
A ciò che tu abbia dabbene,
Onore al tuo valor
E che teco s’unisca il buon fato.


Connubio 


L’attesa s’impregna d’ansia,
e insinua sommessa l’indugio,
Ma aldunque s’appresta il tempo d’andar per la via,
Il borgo capitolino s’affolla al connubio.
È la festa a scacciar quei meri pensieri!
Si turbano l’anime al giubilo,
Spuntan lacrime a dame e ad esimi alfieri.
Resta il gioiale ricordo già nitido,
Poi più mesto d’intenso,
Come un eco sbiadito,
E la vita si ridesta al suo ordinario senso.


Opale lucido e grano dorato

 

Mi apparve una sera errante allorché incede il buio

E d’improvviso cambiò intento che l’odore di cena

Gli rimembrò l’infausto bisogno che tutt’altro aliena.

 

I grandi occhi opale immersi in un vello pallido e baio

Mi guardarono felini e fiduciosi del pasto.

Seppur di cure aspro, si lasciò carezzare il manto,

sicché potei delle splendide membra gioirne alquanto.

Ahi, come rammento quel sommesso tremore casto

sotto le palme che mescevano il crine dorato.

 

Amore diletto e devoto: seguimi immortale,

Donami sosta dall’operoso affanno rituale,

che serenità m’infondi al tuo morbido tocco stregato.

 

Un lustro è passato, amante virtuoso e schietto,

Di devozione sincera e di intesa compiacente,

Lusingati entrambi del viver presente,

Che ancora e ancora avremmo diviso affetto.

 

Incerti giorni per l’aere andai a lungo chiamando

Onde trovar sue sembianze o sue tracce o sue dimore,

nelle selve tratte e nei vicoli per ore ed ore:

una voce, un verso, un rumore, un lampo, ascoltando.

 

Se prima il mio spirito ansioso incedeva con speme,

Come la sabbia nella clessidra incessante scende,

così la speranza al pari affievolisce, il passo mutava esitante.

 

Mi obbligai a tornare ramingo e la luna insieme

Tracciò la strada tra le ombre del cuore.

Che pena la notte priva del suo attiguo mormorio!

 

Un annuncio trasse dall’incerto oblio

Che le sue reliquie estreme giacean immote e senza calore.

Seco mi menai lesto e affranto dell’ingrata sorte,

Sfinito del vano scrutare ma al fin del dubbio liberato.

 

Qui narro e scrivo del mio pianto pacato,

Dell’amore puro, di un gatto color del grano e della morte.

 

Vita acerba, bene anzitempo rubato,

Amore diletto e devoto: seguimi immortale,

Donami sosta dall’operoso affanno rituale,

che serenità m’infondi al tuo morbido tocco stregato.


Clochard e gentiluomo

 

La tua casa è un angolo della strada regina:
quando un recesso e quando un riparo,
al buon fato è calda o al più, è fronda d’albero.
La famiglia è l’eclisse della tua vita.
La tua compagnia sono passanti sguardi sfuggenti
E il tuo amore è un cane devoto dagli occhi spenti.
Nereo di nome e bianco di fama in cuor alla vetusta Pinciana

Sei solo e peregrino nel palpitare assordante,
Sei esule tra le vestigia dell’antica dimora;
A confronto degli onorati condottieri di allora,
Sei scevro di gloria ma di garbo colmo.
Quando lasciar persuaso dal viver mondano del travaglio,
Dovesti certo sentir un privato, grave doglio
Mentre cozzava intorno ignara l’umana gente.

Stanco e vinto tornavi al paese da cui non partisti.
Ossequioso è l’animo tuo gentile, sazio mai di tomi.
Oh, grama esistenza vissuta tra estranei idiomi
Oh, misera e stanca e avversa,
Paga e famelica, dona serenità a chi nulla chiede,
e concedi amore a colui che amore cede
Giacché il vecchio cuor meschino di fiamma privasti.
 


 

Davanti al foglio bianco


Lo ammiro: di stile rigoroso ed esatto,
In pari le linee e pari in estremi,
Retto alle curve e netto ai confini.
Si candido e latteo è l’aspetto
che par sia sterile, così spoglio
Al mio primo guardo sobrio,
Tal ch’io sgomento resto al cospetto,

Finché prime tracce non segno
E muta morbido la rima abbracciando.
E sì che di sontuosa storia è vanto:
Or porta fardello di ordine magno,
Or conserva peso di gravi memorie,
Talor è foriero di diffamanti ingiurie,
In altre di orazione lodato e insigno.

E sovente racconta di amorose pene,
Perciò gualcito e strappato tanto è spregevole.
Ahi quanto l’umana stirpe si duole
Sulle trame intrise ed aspre che ei contiene,
E ancora ritorna sur le dolenti note che bagna

Ripassando con occhi piangenti e agogna
Speranza, ama e serba ira e non si astiene,

In un crescendo di sentimento duraturo.
In ver quanto diversa sorte in sua ligna origine
Tra cielo e terra, monti e selva vergine,
Nella culla del bosco silente quell’albero
Dimorava ignaro del destino prematuro e nefasto.
Da una mano a guisa d’ascia reciso dal fusto
Cadeva innaturale restando reietto e misero.


Piero oste di riguardo

 

 

Messere Piero:  è un po’ che Cavaliere e consorte  

Manchiam dal desinare della vostra Corte.    

Ebbene, sia per chieder venia e perdonanza,  

Sia per donar ai palati una buona sostanza,

Sia per rinnovar passione d’amicizia fraterna,

La chiediam riserva di una quaterna            

Nel dì di Venere allorquando il desio sverna.


 Il re di Col Martino

Copyright 2017  by Anna Laura Ranazzi

 

Capitolo I

 

“il suo nome è gatto Tommino,

ma lo chiaman tutti Tato.

Lui è il re, il re di Col Martino,

da tutti rispettato!”

La mamma quasi non mi considerava più, ero ormai cresciuto per lei e mi aveva insegnato tutto quello che c’era da sapere per essere autonomo. I suoi pensieri erano altrove. Il casotto dov’ero cresciuto con i miei fratelli era pieno di esserini che si inserivano sotto il pelo e mi davano pizzichi. I due fratellini erano morti e i giochi erano finiti con loro. Ero solo e dovevo andare!

Cominciai a camminare. Oltrepassai lo steccato. Era tutto così grande: gli alberi, i muri, perfino l’erba; erano come mostri alla luce dell’imbrunire. Dal casotto mi ero allontanato un bel po’ e la collina scendeva, le case che prima vedevo dal casotto e mi avevano sempre incuriosito, ora erano vicine. Ogni volta che volevo andarci la mamma mi riportava indietro. Ora sentivo un vociare umano. Poi silenzio. La giornata era agli sgoccioli, gli umani non si vedevano, se ne erano ormai andati spegnendo luci e accendendone altre. Il buio mi dava sicurezza e cambiava i rumori: i lamenti erano sommessi, le grida attutite, i passi degli animali furtivi. Salii sul muro davanti alla casa e la vedi!

Aveva nelle mani un serpente lunghissimo che sputava acqua in giro e, proprio quando saltai su, lei lo puntò verso di me inondandomi il pelo bianco-grigio. Acqua! Per fortuna era una calda sera di fine estate.

Anna aveva poco più di una quarantina d’anni; era una donna minuta e sul volto iniziavano a vedersi i segni di una vita piena di preoccupazioni, di doveri e di lavoro ma era felice e, scoprii poi, innamorata dei gatti e degli animali in generale. Girò subito il serpente ma io ero già saltato giù. Iniziammo uno strano balletto in cui io salivo e lei cambiava direzione al serpente. Dietro di lei vedevo i due grossi cani che avevo già sentito e, come mamma mi aveva insegnato, mi tenni fuori portata. Non si sa mai che passa per la testa di quei bestioni!

Anna mi guardava senza far rumore e senza avvicinarsi. Poi se ne andò dentro la grande casa e con lei i grossi cani. Il giardino era grande, la casa sotto era tutta aperta e piena di cose mai viste prima. Curiosai un po’ in giro trovando anche un strano osso, che non era osso ma aveva un buon sapore. Scoprii poi che era il cibo abitale dei cani. Poi trovai un bel posto caldo e morbido, una specie di culla fatta di piccoli legnetti intrecciati e pieno di una cosa simile al pelo di mamma. Che bello! Mi misi nel mezzo e mi addormentai contento. Finalmente un posto asciutto e sicuro. Quella casa mi piaceva davvero.

Anna non era rimasta indifferente, mi aveva pensato tutta la sera. Oltre a Athos e Silver i due cani siberiani, in casa c’erano anche Tillo, il vecchio e schivo gatto rosso di Paolo e Sissi, una micia tigrata che mi ricordava la mia sorellina. Anna sapeva che non potevo entrare senza creare scompiglio e reazioni spiacevoli. La mattina presto iniziai ad esplorare. Dopo la casa di Anna e Paolo c’era un’altra casa uguale ma non riuscii ad entrare: c’erano dei cani che mi abbaiavano e non mi avvicinai. La strada iniziava dal cancello di Anna e scendeva, altre case vi si affacciavano ma poche avevano il giardino. Tornai indietro e vidi i due cani della sera prima. Saltai sul mio muretto e uno dei due mi vide e mi ignorò l’altro era sdraiato e sonnecchiava. In realtà, tutti e due avevano notato la mia presenza. Buon inizio!

Tutto rimase immobile per un tempo che sembrava infinito come in una fotografia, finché si aprì la stessa porta dentro cui era sparita Anna la sera prima e apparse un altro umano e poi a seguire un altro. Non mi videro, nascosto com’ero dalle piante del giardino. Ripresi di nuovo la strada fino ad una casa con un cortile grande ed entrai passando attraverso le sbarre del cancello. Si sentiva ovunque odore stantio di una presenza non recente di cani. Feci il giro intorno alla casa e anche sopra al tetto, tramite dei gradini sul retro. All’interno si sentivano dei rumori di passi. Tornai in strada e salii delle scale attaccate al cancello da cui ero appena uscito. Le scale terminavano su un piccolissimo giardino e una porta che si aprì improvvisamente e mi si parò davanti una umana. Corsi indietro fina a metà scala ma la voce tranquilla della donna che mi chiamava mi fece fermare. Cosa fare? Rimasi fermo mentre Felicia sparì nella porta da cui era uscita per riapparire dopo poco con qualcosa in mano.

Capii che voleva darmi quella cosa da cui mi arrivava un profumo simile al latte di mamma. Era latte! Lasciai che Felicia mi accarezzasse un po’ mentre leccavo la sua offerta. Buono il suo latte, anche se il sapore di mamma era decisamente un’altra cosa. Strofinai i baffi sulla gamba di Felicia mentre mentalmente fissai la sua casa come un buon riferimento e tornai verso casa di Anna che conoscevo meglio.

Saltai sul solito muretto. La scena era immutata: i cani erano nella stessa posizione come li avevo lasciati, mi guardarono di nuovo sbadatamente. Dal fianco della casa provenivano delle voci umane. Percorsi tutto il muretto ad angolo fino alla fine e feci qualche passo in mezzo alle rose per scoprire il lato della casa da dove venivano le voci.

Paolo, il marito di Anna, era con il padre e parlavano mentre si muovevano intorno alla gabbia delle tortore. Era piacevole sentirli parlare ma mi sentivo troppo distante dagli umani ancora. Rimasi lì finché Paolo non si accorse di me, portando avanti e indietro degli oggetti dalla casa. Si avvicinò parlandomi dolcemente che non potei scappare, mi dava sicurezza sentirlo. Mi accarezzò e, senza fretta con calma, mi lasciai prendere in braccio. Dopo avermi fatto rilassare, chiamò. Stava accadendo tutto senza che io facessi nulla. Per poco apparse Anna dal piano alto della casa e in pochi minuti era accanto a noi con una ciotola da cui veniva un profumo fantastico. Mi accorsi solo allora di avere una gran fame. Ricordo di aver pensato: ”Ecco cosa cercavo. Come vorrei che ci fossero anche mamma e i miei fratellini.”.

Il resto della giornata lo passai nel giardino di quella casa, facendomi coccolare da tutti ma soprattutto, da Anna che mi fece anche un bel giaciglio al coperto con a fianco tutto quello che un micio possa desiderare. Era palesemente la più felice di tutti di avermi lì. Paolo inizialmente mi diede l’impressione di non volermi ma, in realtà, quando ci trovavamo soli, mi coccolava amorevolmente. Anche i cani, incuriositi, mi vennero a salutare annusandomi e dandomi una poderosa e maleodorante leccata! Impiegai un sacco di tempo per ripulirmi. Da quel momento in poi, evitai quegli eccessi di affetto.

Infine feci il mio primo incontro con i felini di casa. E qui qualche problema ci fu, soprattutto con Tillo: era un carattere tutt’altro che facile: solitario, scontroso e per nulla avvezzo ad accogliere intrusi nel suo mondo. Mi venne in soccorso Pepe, il gigantesco gatto dei genitori di Paolo che, essendosi già trovato nella stessa situazione, con il suo carattere pacato e il suo virtuoso altruismo, intermediò gli incontri smussando gli eccessi e molando le pieghe storte. Inoltre, all’esterno della casa Tillo era meno rigoroso del rispetto delle regole del capobranco. Questo lo scoprii più tardi, ovviamente.

Sissi, la gattina tabby, era arrivata in casa solo un anno prima ed aveva un carattere grintoso ma nel contempo frizzante e gioioso. Passava inspiegabilmente dalle moine alle aggressioni stile velociraptor, per quanto, non usasse mai pesantemente unghie e denti.   

Ci fu un bel discutere tra gli umani sul mio nome. Non capivo cosa intendessero. Anche questa fu una novità che compresi successivamente.

Anna in questo la faceva da padrona: “Lo chiameremo Silvestro”.

Paolo: “Chiamiamolo Paco”.

Anna: “No. È banale. Allora facciamo Artù oppure Rufus.”

Paolo: “Che ne pensi di Don Porfirio come il gatto napoletano dei fantastici cartoni che facevano in TV?”.

Anna: “No. È troppo lungo. Allora facciamo Isidoro, il gatto dei fumetti”.

Elisa, la mite e affettuosa mamma di Paolo: “Che ne dite di Mosè, come si chiamava il mio gatto di quando ero ragazza?”

Dino, il papà di Paolo, fino ad allora rimasto silenzioso: “Vi piacerebbe Jolly?”

Anna: “No. Silvestro mi piace perché la mia prima gattina si chiamava Silvestrina.”

Poi Dino le fece notare che Silvestro sarebbe facilmente scaduto in Silvio. A quel punto, non so perché, Anna cambio idea e divenni, irrevocabilmente Tom e, cosa ancora più strana, non lo ha mai usato per rivolgersi a me. Quello che usa di più è Tato.

Altra cosa a me incomprensibile è che, ogni volta, sparivano tutti dietro quella porta: gli umani, i cani, i gatti. Io restavo sempre nel mio covo accudito e curato per mano di Anna. Sulle prime questo non mi disturbò affatto ma non ho mai capito l’utilità delle porte.

Capitolo II

Il mio spirito vagabondo mi spinse all’avanscoperta dei dintorni. Ogni volta che rimanevo solo, mi avventuravo lungo la strada. Quasi tutte le mattine andavo a trovare la vecchietta delle scale, Felicia. Anche lei mi diede un nome: Remì. Le ricordava il marito, diceva ai curiosi. Le mie visite da Felicia erano sempre accolte con una bella ciotola di latte consumata nel caldo della sua cucina.

I suoi modi erano decisamente rudi, avendo passato una vita al bar a servire liquori a gente di passaggio e a giocatori incalliti. A qualsiasi ora andassi da lei, mi ospitava in casa e mi proponeva la ciotola. Era sufficiente grattare leggermente sulla porta, per convincerla ad aprirmi. A volte mi offriva qualche avanzo dei suoi pasti: cose non commestibili per me. Ero una piacevole compagnia, nonostante fosse solo lei a chiacchierare, mentre io mi limitavo ad accucciarmi sulla sedia e guardarla gesticolare. Quando poi mi vedeva grattare la porta, sapeva che era il momento di salutarmi con una carezza e un “ci vediamo domani, Remì”. Sulla soglia mi giravo e alzavo la testa a mo’ di saluto.

La casa proprio di fronte a quella di Felicia era abitata da più famiglie. Nel piano sulla strada vivevano i gatti bianchi e neri, Camilla e Quark, con i due umani Silvia e Fede. Silvia adorava Quark ed era poco incline a farlo uscire. Non aveva lo stesso successo con Camilla che, al contrario, in casa entrava solo per mangiare e non accettava restarci un minuto di più.

Silvia mi trovò davanti casa una notte che, durante il mio girovagare, venni sorpreso da un temporale. Non trovai altro che ripararmi sotto la tettoia del loro portone. Silvia mi scambiò per un gatto abbandonato e cominciò ad inveire con Fede sulla gente che lascia i gatti in strada.

”Ma io non sono un gatto abbandonato! Sono un gatto libero e ho tanti amici!”  

Supplicò Fede di tenermi in casa ma appena Quark mostrò il suo disappunto, la determinazione di Silvia scemò e ripiegò per un’accoglienza in casa saltuaria quando capitava e avendo l’accortezza di tenermi fuori portata di Quark.

Avevo anche un giaciglio tutto per me simile a quello che mi aveva fatto Anna. A volte ci trascorrevo ore ed ore con loro, una volta ottenuta la benevolenza di Quark. Anche loro erano fissati con il nome e mi chiamarono Momo.

Al piano alto viveva Elvira, una vecchia signora alta e austera. Per arrivare da lei, bisognava salire le scale esterne che, di solito, erano presidiate da Camilla. Mi divertivo tantissimo a salire sui rami del mandorlo, cresciuto addosso alle scale, con il quale arrivavo in cima, battendo Camilla che passava dalle scale. Lei aveva un confine immaginario invalicabile del suo territorio: il tratto di strada davanti casa, il piccolo cortile, le scale per salire da Elvira e il piano sottostante la strada che era aperto.

Elvira non mi dava molta confidenza ma mi trovava simpatico e, con il tempo anche lei si addolcì. Un giorno ero sul ramo del mandorlo che sporgeva verso l’entrata della sua casa. Lei arrivò con delle buste pesanti. Stava per entrare come faceva sempre, chiudendosi la porta alle spalle, quando, improvvisamente, allungò un braccio e mi fece una carezza dicendo soltanto: “Micio!”. Non lo aveva mai fatto prima. Poi entrò e uscì subito dopo con una sedia. La mise difronte a me e si sedette a guardarmi. Senza emettere alcun suono, scesi dal ramo e le andai tra le gambe strofinandomi a lei. Elvira mi accarezzava chinandosi. Dopo poco mi girai e alzai la testa con il mio solito cenno di saluto e scesi in strada. Da quel giorno, lo stesso rituale si ripete spesso: i movimenti, i suoni, gli sguardi, i saluti e persino i tempi.

Più avanti nella discesa, c’era una casetta con un piccolo giardino inzeppato di alberelli, siepi, pergolati e fiori. Ci vivevano due vecchietti, Gino e Mary, degli umani che non disdegnavano le mie visite. Mary molto, cortese e affabile, inizialmente fu reticente ma poi mi dimostrò affetto e premura. Gino invece era di carattere sanguigno e frenetico, passava ore a conversare con me con quei versi articolati che solo gli umani sanno fare. Per lo più non capivo cosa intendesse ma alcuni versi e gesti che mi interessavano, li avevo imparati a riconoscere, come i segnali che mi invitavano a mangiare o ad entrare in casa o farmi accomodare in poltrona.

In realtà, Gino discorreva con se stesso, io ero solo una scusa, oltre che il mio sguardo sornione gli faceva sembrare che fossi interessato e d’accordo con lui. Nella scorza era burbero ma di fatto, aveva davvero un cuore tenero.

Mi accoglieva sempre con un “Oh, Stregatto! Pezzo di vagabondo, e nullafacente! Fai proprio il comodo tuo, eh? Entri, esci come se fossi a casa tua!”. Ma era contentissimo di vedermi!

La casa con il cortile grande, di fianco alle scale di Felicia, scoprii essere abitata da Charlie: un uomo buono, molto cordiale e dai modi gentili. Aveva avuto due cani che erano morti da poco e viveva solo. Le sue abitudini, come anche il suo atteggiamento molto pacato, trasmettevano una tristezza e una solitudine infinita. Andai a trovarlo spesso. Si metteva seduto in cortile con una bottiglia da cui beveva un liquido dall’odore sgradevole e forte. Mi accovacciavo vicino a lui o sulle sue gambe facendomi accarezzare. Non diceva nulla e guardava fisso un punto lontano.

A volte entravo in casa seguendolo. Non mi scacciava e non mi chiamava: semplicemente lasciava la porta aperta per consentirmi di uscire, quando lo avessi voluto. Quando lo trovavo a desinare, prendeva un piattino che teneva sotto il camino, sempre pronto e sporco dalla volta precedente, ci metteva qualche pezzettino del suo cibo e lo metteva sul pavimento vicino alla sua sedia; dopodiché faceva un “Fiiiuuh!” per dirmi che mi potevo avvicinare. A volte anche lui mi chiamava Remì, avendo sentito Felicia.

Non cambiava nulla, tutto rimaneva uguale ma lui no!

Avevo la sensazione di trovarlo ogni volta più triste, più debole, più malato.

Una volta saltai in casa di Charlie da una finestra bassa, che ultimamente lasciava aperta, girai per le stanze e non lo trovai. Improvvisamente sentii uno schianto e una porta si aprì: era lui. Mi passò davanti senza notarmi, entrò in camera e crollò sul letto. Rimasi lì, accomodandomi prima vicino a lui poi mi spostai su un ripiano basso dell’armadio aperto e mi addormentai. Ad un tratto sentii un rumore secco e tutto diventò buio: ero rimasto chiuso nell’armadio!

Provai a grattare lo sportello. Di solito funzionava e mi veniva aperto. Quella volta invece non funzionò. Provai a chiamare: “Miao!” Il mio richiamo di aiuto rimase inascoltato, forse avevo un tono di voce troppo basso. Uno spiraglio di luce penetrava dallo sportello ma con il passare del tempo si esaurì. Mi addormentai e mi risvegliai più volte e ogni volta: “Miao!”. Sentivo dei rumori attutiti ma nessuno sentiva me. Avevo terribilmente bisogno di uscire: avevo fame, dovevo fare i miei bisogni e Anna mi stava sicuramente cercando. Trascorse ancora molto tempo e io dovetti urinare.

Lo spiraglio tornava ad illuminare l’interno e si oscurava di nuovo. Mi sentivo oppresso nel poco spazio e indebolito. Le zampe che inizialmente mi dolevano, ora non le sentivo più e non riuscivo a muoverle. L’odore forte della mia urina mi soffocava. Desideravo terribilmente la mia culla, la ciotola e le cure di Anna. Perfino il ricordo del muso umido dei cani siberiani mi dava sollievo.

“Dovete saper riconoscere il momento di attraversare l’arcobaleno. Lo sentirete dentro di voi quando la vita vi starà per abbandonare. Lasciate stare tutto.  Trovatevi un riparo e attendete che l’arcobaleno appaia. Non dovrete far altro che attraversarlo.”

Quando mamma ci disse questa cosa, la guardammo increduli e inconsapevoli. “Mamma, che noia!” A dire il vero non lo capii neanche in seguito, quando morirono i miei fratelli. Invece aveva ragione. Eccolo il momento! Lo sentivo, lo riconoscevo, lo accettavo.

Smisi di pensare e di combattere. Mi feci un po’ di spazio raspando intorno a me e mi acciambellai. Chiusi gli occhi e tutto mi sembrò semplice e naturale. Non vidi l’arcobaleno ma sapevo che non mancava molto.

Improvvisamente senti un trambusto: rumori e voci umane ma erano lontani. No, forse più vicini. Non capivo. Sentivo ondate di frastuono.

Poi quella voce tanto cara: “È Anna!”

Con un filo di voce mi sforzai: “Miao, miao, miao, miao!”

Una luce fortissima e una ventata di aria fresca mi investirono. Fui preso da mani esperte e abbracciato. La voce amorevole di Anna nelle orecchie andava e veniva. Mi sentivo toccare e trasportare ma capivo che era lei, anche se non la vedevo. Avevo gli occhi chiusi e vidi l’arcobaleno. Ero proprio davanti ad una delle sue larghe gambe ed era luminoso, caldo e bellissimo. Dovevo solo muovermi per salire sulla sua gamba e attraversarlo. Tentavo di muovere la testa e non ci riuscivo. Anche le zampe erano come sassi.

Ora sentivo anche Paolo e, sì, c’era anche Charlie.

Anna correva con me in braccio: “Resisti Tato, resisti. Sei salvo.” Le sue parole riecheggiavano pulsando. Il suo contatto mi scaldava e mi dava conforto. O forse era solo il calore dell’arcobaleno che mi avvolgeva.

Mi portò a casa. Paolo iniziò a massaggiarmi le zampe mentre Anna mi strofinava con una cosa bagnata che odorava di fiori. Mi infilarono qualcosa nella bocca. Sentii un liquido caldo scendere e arrivare nella pancia.  Mi sembrò latte. O forse era acqua. Mi coccolarono per ore. L’arcobaleno pian piano scomparve, cominciai a sentire le zampe e a riprenderne il controllo.

Mi aveva salvato proprio la perseveranza di Anna. Non vedendomi tornare per giorni, mi cercò per tutta la collina, fino a bussare a tutte le case della strada e chiedendo del gatto bianco grigio: chi lo avesse visto e dove potrebbe trovarsi, magari chiuso inavvertitamente.

Charlie, dopo essersi ripreso dal suo malessere, era partito per passare qualche giorno da parenti. Il poverino non si era accorto di me nell’armadio, quindi aveva chiuso casa ed era partito. Anna e Paolo dovettero attendere il suo ritorno per chiedergli di controllare nell’unica casa che non avevano ispezionato.

Capitolo III

Fu così che Anna e Paolo mi fecero entrare nella loro casa. Mi tennero a casa, segregato dagli altri gatti. Ero troppo debole per andarmene in giro. Con la supervisione umana mi facevano incontrare Sissi e Tillo. Quest’ultimo non gradiva affatto la novità e brontolava ringhiando sommessamente.

Mi piaceva molto questa mia nuova condizione. Infine, riacquistate le forze, fui rimesso in libertà ma conservando l’accesso in casa.

Durante il giorno uscivo e la sera rientravo. Se capitava che mi attardassi, all’ora di rientrare sentivo il classico fischio inconfondibile che mi invitava a tornare. E se non fosse bastato, venivano a cercarmi. Finché non fossi a casa, Anna non permetteva a nessuno di cenare. Ora mi sentivo davvero uno di loro.

Il gatto rosso, Tillo, fu un ostacolo nei primi tempi ma presto capii quali fossero le sue condizioni e senza troppi sacrifici, le rispettai.

Tillo odiava il contatto fisico; anche solo casuale. Inoltre era maledettamente geloso della sua poltrona e per me non fu un problema accoccolarmi nell’altra, all’angolo opposto del salone. Inoltre detestava gli incontri negli spazi obbligati. Un esempio erano le scale.

Non sopportava che un qualsiasi altro gatto gli si parasse davanti mentre faceva le scale o, più in generale, si spostava nella casa. Il suo tempo era speso sulla poltrona a vigilare su tutto quello che accadeva intorno. Quando usciva, si limitava a gironzolare in giardino.

Un giorno capitò che il gatto gigante della casa accanto, uno sbruffone tutto pelo e presunzione, scavalcasse la recinzione e, ignaro di Tillo, iniziasse a marcare il giardino.

L’incauto fu investito da una valanga rossa. Tillo lo strinse in un angolo e con morsi e con graffi lo separò dalla buona parte della pelliccia.

In soccorso del gigante, intervenne un amico di Paolo che era in casa a fare dei lavori e che fu attirato dalle urla, di guerra selvaggia da un lato, di dolore e terrore dall’altro. Nella frazione di tempo che Tillo fu distratto dal sopravvenire dell’umano, il gigante malcapitato si sottrasse alla morsa e scomparve da dove era arrivato.

Questo bastò a tutti i gatti di casa, me per primo, a riconoscere Tillo come il prode capofamiglia, nonché, il saggio gatto anziano della collina. Io mi prodigai per l’ottenimento di questa riconoscenza.

Per tutti gli anni in cui Tillo restò tra noi, il gigante stolto non si azzardò più a mettere zampa oltre la recinzione.

Le amorevoli cure di Anna comprendevano anche di sottoporsi alle sevizie del Veterinario. Infatti, dopo pochi giorni venni amorevolmente accompagnato da un umano tutto bianco che mi rovistò ovunque. Infine mi diede un pizzico dietro e non ricordo nulla di ciò che accadde dopo. Mi risvegliai nella scatola che chiamavano macchina, tutto indolenzito, soprattutto dietro. So solo che da quel giorno mi sentii diverso. Imparai a detestare quell’umano!

Dopo la brutta esperienza a casa di Charlie, per un po’ non andai giù per la strada. Mi faceva ancora timore. L’altro fianco della collina, attaccato alla casa di Anna, era pieno di alberi. Ci passavo molto tempo. Oltre si raggiungeva la sommità della collina ed era lì che si trovava il casotto dove ero nato. Era una vecchia costruzione non più usata dagli umani, bassa e con una sola porta piccola, dove un umano, per entrare, avrebbe dovuto camminare in modo normale, come noi gatti, anziché mettersi su due zampe come si sforzavano a fare. Dentro non c’era nulla se non tanta erba secca. Si sentiva l’odore di altri animali che erano transitati o ci avevano soggiornato per un po’.

Da lì si scopriva anche l’altro versante che, per una buona parte, era libero con una sola casa a metà del declivio in cui vedevo umani solo occasionalmente.

Andai spesso a cercare la mamma ma lei aveva avuto altri gattini e quasi non mi riconobbe, quando mi vide. Mi mettevo a distanza di rispetto e osservavo i dintorni con occhio da adulto quale ero diventato. Avevo passato un periodo meraviglio in quel posto con i miei fratelli.

Capitolo IV

La nostra unica preoccupazione era giocare, per il resto, pensava a tutto mamma:

lei ci portava il cibo,

lei ci puliva e ci dava il suo calore quando faceva freddo,

lei ci difendeva e, sempre lei, ci impartiva lezioni su come vivere da soli. Ed era bravissima ad attirare la nostra attenzione di giocatori irriducibili. Trovava sempre il modo di insegnarci una cosa facendoci giocare. E le sue coccole erano le più belle che io abbia mai provato.

Gli intrusi venivano tenuti a distanza e scacciati in malo modo. Questo mondo idilliaco, che credevo fosse infinito, fu bruscamente interrotto una notte buia e freddissima.

Noi fratelli dormivamo abbracciati l’uno con l’altro e la mamma era con noi a tenerci al caldo. Tirava un vento forte e gelido. Mamma si alzò di scatto, allarmata e si mise a scrutare la notte senza uscire dal casotto. Io mi svegliai perché nell’alzarsi, mi rovesciò di lato. Era una cosa che faceva spesso e non mi preoccupò ma rimasi anch’io in ascolto, pur essendo molto assonnato.

Non riuscii a riprendere sonno perché vedevo lei sempre più agitata. Decise di uscire.

Dopo poco la sentii strillare e azzuffarsi. I suoi miagolii di minaccia si mescolavano a quelli di altri gatti. I miei fratelli si svegliarono e si misero in ascolto, intimoriti anche loro.

Mamma ci aveva insegnato a nasconderci quando ci fossimo trovati in situazioni di minaccia e iniziai a scavare nella paglia ammucchiata.

Sentii qualcosa di duro sotto che faceva volume. Continuai a scavare finché non la raggiusi. Era un contenitore usato dagli umani e abbandonato. Facevano così molti umani: lasciavano oggetti in giro quando non erano più utili.

Non era granché come nascondiglio ma era abbastanza grande, mi infilai dentro a quell’oggetto e iniziai a chiamare i miei fratelli. Erano però troppo impauriti per ascoltarmi; giravano tutto intorno e non mi badavano anzi, ogni tanto si affacciavano fuori per vedere dove fosse la mamma. Lei, nel frattempo, era corsa dietro all’intruso e la sentivamo urlare più lontano.

All’improvviso saltò all’interno del casotto un gatto ululante. Aveva una voce tuonante e aggredì furiosamente i miei fratellini. Io ero diventato una pietra dal terrore; chiusi gli occhi, chiamando in silenzio: “Mamma! Mamma! Corri mamma, corri qui!”.

Il gatto furioso, così come fulmineamente era apparso, altrettanto velocemente scomparve e il casotto piombò in un silenzio buio, freddo e gravido di tensione.

Sentivo solo il vento. Restai accovacciato nel contenitore, convinto che appena avessi fatto rumore, il gattaccio mi avrebbe agguantato. Sperai che i fratellini fossero scappati e avessero trovato un nascondiglio. Io invece mi sentivo terribilmente vulnerabile e in pericolo.

Ancora sentii un rumore dentro il casotto e presi la decisione di fuggire da quel pericolo.

Uscii velocemente e imboccai l’uscita.

Una zampa mi blocco, posandosi come un macigno sulla schiena.

“MAAAH” urlai.

“Mau!” fu la risposta.

Era mamma. Che sollievo!

Mi diede due spinte con la testa e mi agguantò per la collottola, sollevandomi e uscì di corsa nel buio.

Mi trasportò fino all’incavo di un albero e mi depositò, dandomi altre due spinte con la testa per farmi entrare. Era frenetica ed ansiosa. Si immerse di nuovo nel buio.

La sentivo che cercava, emettendo quell’inconfondibile richiamo che conoscevo molto bene e che avrei riconosciuto ovunque e sempre: “Mauù!”.

La sentii allontanarsi, allora mi rintanai nel fondo dell’albero. Sapevo che era l’unica cosa da fare.

Rimasi lì al freddo tutto il resto della notte. Mi agitavo ad ogni piccolo rumore ma senza contravvenire agli ordini di mamma.

Appena iniziai a vedere, mi resi conto che mamma mi aveva spostato parecchio, perché il casotto non si vedeva e mi trovavo in un posto che non conoscevo.

Passò ancora del tempo poi la vidi comparire.

Era meno agitata ora, anzi, direi che fosse piuttosto nello stato d’animo contrario rispetto a quando era partita. Si avvicinò e mi accorsi che era gravemente afflitta e stanca.

Aveva trovato i miei fratelli: uccisi!

Non fece altro che prendermi di nuovo per la collottola e incamminarsi, sommessa, alla ricerca di un posto sicuro. Mi portò in una legnaia vicino alla casa solitaria a metà della collina.

Ci accoccolammo al riparo bene all’interno dell’intrigo di legna spezzata e, abbracciati, ci addormentammo, sfiniti e provati dalla terrificante nottata che aveva sconvolto la nostra serenità.

Il sonno non ci appagò del vuoto che si era formato nel nostro piccolo nucleo. Il misto di tristezza, paura e dolore impregnava l’aria e non ci dava tregua anzi, nelle nostre effusioni, quando mamma mi coccolava, sentivamo ancor di più il peso di quelle assenze.

La compagnia dei miei fratellini mi mancava enormemente: le loro voci, il loro contatto morbido e caldo, le finte lotte e i giochi. E, come se non bastasse il dolore, il ricordo di quegli orribili istanti mi faceva sprofondare nuovamente nel terrore.

Mamma si ridestò da quello stato di trance nel giro di qualche giorno o, fece finta di farlo per il mio bene.

Per me fu molto più difficile: avevo paura di uscire dalla legnaia a godermi il sole o ad esplorare il mondo, cose che invece facevo spensieratamente prima di quella notte, spalleggiato e incoraggiato dai fratelli. Andare da solo nello spazio aperto, visibile da tutti non era pensabile.

Mamma cominciò ad spronarmi. Mi spingeva fuori ma il mio pensiero principale era solo quello di rientrare. Allora mi prendeva per la collottola e mi depositava lontano, riprendendomi ad ogni tentativo di fuga. Pian piano questi approcci diedero i risultati attesi.

Vista la sua imponente tenacia, dovetti capitolare alle incalzanti insistenze ma la tenevo a distanza minima di sicurezza, perché lei potesse intervenire a proteggermi.

Riprendemmo le lezioni interrotte bruscamente la sera dell’agguato al casotto. Avevano però un sapore amaro, non erano più insegnamenti camuffati da giochi. Avendo solo me, mamma non doveva perder tempo ad attirare l’attenzione, concretizzava fino quasi ad eludere i giochi.

In fondo al mio animo persisteva ancora una forte reticenza all’avventura quindi, dal canto mio, mi concentravo ed ero molto diligente, nella speranza di far presto e tornare al sicuro.

Un giorno, mentre ero distratto ad inseguire una farfalla, persi di vista la mamma e appena catturata la mia preda, mi girai orgoglioso per portargliela e vedere la sua reazione soddisfatta: era sparita.

Cominciai a chiamarla con il mio verso ancora pigolante da gattino ma niente. Assalito dal panico alzai il volume, girando in tondo e facendo cerchi sempre più grossi: nessuna risposta.

Infine, stanco e senza voce, cercai una sicurezza per il buio incipiente e la trovai sotto un masso sporgente dove si formava una piccola tana.

Mangiai la magra cena a base di farfalla e mi accucciai addormentandomi quasi subito. La notte trascorse, tra risvegli improvvisi causati da ogni piccolo rumore e brevi sonni con visioni terribili di agguati di animali enormi e di assalti di mandrie di gatti inferociti. Mi sentivo vulnerabile ma non emisi neanche il più piccolo lamento per evitare di essere scoperto.

L’incubo terminò appena la notte finì per cedere il passo alla poca luce dell’alba. Ripresi coraggio e mi avviai da quel misero riparo di fortuna. Vagai tenendo come riferimento la tana provvisoria della notte e, incredibilmente, trovai il casotto dove ero nato. Non era tanto distante tutto sommato. Lo ispezionai nella vana speranza di sentire i richiami conosciuti. Non trovai traccia alcuna, né della loro presenza, né della loro fine.

Tornai nei miei propositi di trovare la tana nella legnaia nonché, la mamma. L’insegnamento di cercare tenendo a vista i punti di riferimento certi, come la base di partenza e altri punti conosciuti, mi aiutò molto. Trovai la legnaia e, non distante da essa, la mamma che scrutava intorno. Mi stava aspettando e mi accolse sorniona con una spinta sulla testa, come a dire: “Bravo!”. Era divertita, soddisfatta e soprattutto orgogliosa.

Io non potei nascondere la felicità per essermi scollata l’ansia che avevo accumulato tutta la notte. Era chiaro che mi aveva volutamente lasciato solo per farmi superare le paure e imparare che presto sarebbe stata una vita senza di lei.

Dopo questa prova mi lasciò spesso solo per tutto il giorno o per più giorni. Ogni volta che ci riunivamo la vedevo meno mamma e più distaccata, in simbiosi con il mio nuovo status di gatto quasi adulto.

La legnaia non era un buon riparo e non lo percepivo più come il luogo della mia vita. Con l’arrivo della primavera si era popolato di insetti fastidiosi e animali di ogni genere. Finanche serpenti dall’aspetto affatto cordiale e che sapevo dover trattare con estrema attenzione. Averli così vicino non era assolutamente accettabile.

La meglio era cambiare aria! Decisi perciò di cercarmi un nuovo rifugio. Mi appropriai del casotto che al momento era ignorato, sia dalla mamma, sia da altri.

C’era stato il passaggio recente di umani che avevano lasciato altri oggetti tra cui uno enorme che prendeva tutto il pavimento ed era morbido e comodo. Mi sistemai lì come un re.

Persisteva ancora un problema piuttosto importante: riempire la pancia! Badare a me stesso, stando lontano dai guai, sapendo prevenire ed evitare situazioni di pericolo, era diventata una cosa quasi istintiva. Quello che invece mi dava preoccupazione costante e quotidiana era mangiare.

Spesso mi dovevo accontentare di insetti, di mosche e, quando ero fortunato, di lucertole. Avevo sempre fame ed ero magrissimo. Scoprii che alcuni gatti frequentavano un contenitore dove gli umani mettevano i loro scarti. Tentai anch’io di rovistare in mezzo a quell’ammasso di roba e, devo dire, con ottimi bottini.

Quel posto però era una contesa continua: essendo piccolo, non ci entravano più di due o tre gatti; in genere lo trovavo occupato e l’accoglienza non era certo un benvenuto. Dovevo spesso rinunciare. Inoltre mi capitò, una volta, di rimanere quasi sepolto dall’arrivo di una quantità di roba che mi fu gettata sopra prima che io potessi saltare fuori.

Credevo di soffocare, sia dal caldo, sia dall’odore nauseante. Riuscii a uscire ma non ci tornai più.

Con il caldo, insetti di vario genere avevano invaso anche il casotto ed era diventato davvero poco accogliente. Il problema era che andar via da quella collina era una scommessa davvero grande. Bisognava andar incontro all’ignoto e questo includeva imbattersi inevitabilmente negli umani, quelli di cui la mamma diffidava alquanto.

Affrontai l’estate in questa situazione ma dedicando sempre un po’ di tempo all’esplorazione, nella speranza di trovare una condizione migliore.

Mi era capitato qualche volta di incontrare gatti provenire dalle case degli umani e notavo in loro un benessere per me insperato. Senza saperlo uno di questi era Sissi, la gatta di Anna. Vedevo che si appassionava a tutto quello che la circondava ma mai la vidi mangiare o cercare cibo. Questa cosa non era spiegabile per un gatto nelle mie condizioni.

Anzi, mi sbalordii una volta che catturò una lucertola e dopo averla martoriata giocando, la abbandonò disdegnandola quasi come se fosse stata ripugnante. Adorava giocare e lo faceva con qualsiasi cosa. Quando passava nei dintorni del casotto, giocavamo molto ma poi la vedevo fermarsi, rizzare le orecchie e irrigidire i muscoli, non appena sentiva voci umane provenire dal fianco della collina e, in un lambo, spariva incontro a quel richiamo.

Un paio di volte la seguii per un breve tratto e scoprii che si dirigeva sempre verso lo stesso punto: le case sul fianco della collina.

Questo fu un chiaro segno di dove orientare le mie esplorazioni.

Capitolo V

Anna, Paolo e i loro animali sono più che mai i miei riferimenti, la famiglia sicura. Trascorro la maggior parte del mio tempo a casa loro, a casa mia.

Anna adora il mio Karma e soprattutto ama il mio modo di comunicare senza mai miagolare:

Un movimento in alto della testa,

un tocco leggero della zampa,

una carezza capo contro capo,

uno sguardo accompagnato da un passo,

un voltarsi improvviso verso l’uscio,

il rumore della zampa sulla porta,

uno sbadiglio sornione guardando il mobile dispensa,

rovesciarsi a terra con le zampe in aria,

scrutare seduto ed immobile la scena,

strofinare i baffi su una mano o una gamba,

fare fusa manipolando addosso con le zampe,

sono i gesti di un gatto,

sono i silenzi che parlano,

sono la voce dell’anima,

sono il Karma di Tom.

Il mio compagno, il saggio Tillo e i due adorabili cani siberiani hanno attraversato l’arcobaleno e lo scettro del gatto capofamiglia è stato assunto dal dignitario Pepe che, va a sapere perché, si è definitivamente traferito da noi. Anna però ha accolto altri gatti e siamo diventati una vera comunità felina.

Le mie visite alle case della strada che si diparte dal cancello di Anna si sono ridotte notevolmente e non certo per causa mia. Felicia non ha più aperto alle mie zampate sulla porta. Così come non ho più trovato il buon vecchio Charlie, benché lo avessi cercato tante volte, superando le mie reticenze a rientrare in quella casa.

Silvia, Fede e Quark sono partiti un giorno salutandomi con tante coccole. Silvia mi ha inondato di lacrime e baci prima di salire in macchina. Hanno lasciato Camilla a guardia della strada, seppur la sera rientra sempre in casa di Paolo e Anna. Passa sempre più tempo con noi, di fatto si è aggiunta alla nostra variegata comunità.

Un caldo giorno d’estate di un po’ di tempo fà un enorme incendio distrusse la casa di Gino e Mary. Ero nel loro giardino che sonnecchiavo su una sedia all’ombra del pergolato; Gino e Mary non mi avevano fatto entrare perché erano arrivati altri umani.

“Stai qui Stregatto! Ora non puoi entrare. La capa non vuole! Queste donne, comandano loro! Ci vediamo dopo, non te ne andare.” mi aveva sussurrato Gino all’orecchio, accarezzandomi.

Si sentiva un piacevole odore di carne da fuori, così mi accomodai paziente in attesa che Mary mi portasse un po’ di quella delizia.

Un odore acre e sgradevole iniziò a sostituirsi al buon profumo di carne fino a diventare insopportabile. Mi misi seduto in vigile osservazione. All’interno li sentivo mangiare e discutere tranquilli. Ad un tratto arrivò Paolo e cominciò a chiamare e bussare freneticamente. Non mi piacque; non era normale il suo atteggiamento.

Capii che quel posto era diventato pericoloso e scappai di corsa fuori dal cancello.

Paolo scomparve all’interno della casa. Incredibilmente appena aprirono della porta, dal tetto della casa, che rimaneva al di sotto della strada, cominciarono ad uscire fiamme gigantesche.

Mi assalì un terrore irrefrenabile. Mi allontanai ancora per mettere più distanza tra me e quel calore ma sempre scrutando e aspettando di vederli:

“Ma perché Paolo, Gino e Mary non scappavano come me?”.

Finalmente li vidi uscire dalla porta che era rimasta aperta. Intanto erano arrivati molti umani e avevano affollato la strada.

Urla, rumori secchi, crepitio, frastuono. Alzai la testa, mi girai verso casa di Anna.

In quel momento sentii uno scoppio tremendo. Corsi via senza girarmi.

Tornai qualche giorno dopo da Gino e Mary nel mio usuale giro mattutino.

La casa era tutta nera e non aveva più il tetto. Quell’odore forte di bruciato si sentiva da lontano. Trovai Gino seduto sulla rampa di accesso, curvo come un gatto e rivolto verso la casa. Era insolitamente silenzioso e immobile. Il volto rigato di lacrime e guardava fisso la casa. Era trasformato, sia nell’aspetto, sia nell’umore.

Non mi accolse con il suo solito allego rumoreggiare. Si mosse solo quando mi strofinai a lui per attirare la sua attenzione: mi prese sulle gambe abbracciandomi forte; mi abbandonai sulla sua spalla e mi lasciai accarezzare. Dopodiché, mi mise a terra e mi salutò; risposi con il mio solito cenno di saluto, alzando la testa come facevo sempre. Riconoscendo quel gesto usuale, si abbandonò ad un pianto singhiozzante.

Non l’ho più visto. Visito spesso il suo giardino: ci trovo solo gatti e altri animali che usano la casa come rifugio.

Il versante senza case, a sinistra della casa di Anna e Paolo è rimasto invece la meta imprescindibile del mio girovagare. Tutto è iniziato lì e tutto inizia lì, ogni giorno a tonificarmi per la giornata. La vista dell’orizzonte e della quasi totalità della collina che c’è dal casotto è il mio riferimento primordiale che mi inebria e mi infonde energia. Ha segnato gli eventi principali della mia vita e del mio destino. Non potrò mai farne a meno.

Ancora oggi le mie uscite da casa di Anna e il mio vagabondare cominciano con una ricognizione della collina e dei pressi del casotto. Poco è cambiato se non gli esseri viventi che si succedono nel tempo. Siedo come il Re Leone su una cengia e mi godo gli amati e confidenti dintorni.

 

Ho l’impressione di aver vissuto qui

ben prima di esser nato qui.

Di roccia erosa e arida è la collina erta,

di selva popolosa e di antròpico viver deserta,

ferita qua e là da una siepe o da un muricciolo:

un eremo sospeso e dimentico dove solo,

siedo, osservo l’immenso vuoto dove esso finisce,

e dove l’intimo mondo noto svanisce.