Antonio Ianuario - Poesie

Tre poesie tratte dalla raccolta “Témenos”

Mi manchi

Ho scritto dei versi, piccola cosa:
non posso parlarti né so quando torni,
ma almeno scrivendo e limando
mi è sembrato d’averti vicino.
Ho cominciato da ciò che più ammiro:
come sfidi la vita con puro realismo,
come giudichi i fatti del mondo
con le tue regole limpide e salde.
Quasi il mio opposto. Quasi,
perché anch’io qualche regola l’uso.
Non mi danno per niente fermezza,
ma pure se resto ogni volta deluso,
continuo ostinato a pensare
che a rovescio è il mondo a girare.
Ma ho ricordato anche i tratti comuni,
come quel ticchio di cui abbiamo riso:
a te piace spostare il mobilio e gli oggetti,
io mi diverto talvolta a cambiare
(è un gioco, lo ammetto, senza costrutto)
a libri e cartelle scaffale.
Con le parole faccio lo stesso:
le sposto, le cambio, ne studio gli effetti
(è un gioco anche questo, ma spesso spinoso).
Per esempio ora posso provare
a dirti con altre parole del vuoto che sento.
Mi mancano gli occhi, le labbra, il sorriso,
ripenso al tuo corpo che sa di vaniglia,
alle movenze tornite e decise,
alla pelle, alle mani, alla voce,
all’incanto degli sguardi più intensi.
E mi manca quel tono di allegra ironia
quando svuotavi i verdetti del mondo,
nomi appropriati ridando alle cose.
Io non sempre ne sono capace:
scelto un nome, se ne affollano altri
(di qualcuno resto sorpreso),
e se più d’uno resiste alla prova,
la cosa finisce in frantumi.
Ma su ciò che sentivo scrivendo quei versi
nessuno sconcerto, nessuna incertezza:
era lì la parola, tersa ed ariosa,
per chiudere in rima l’ultimo verso;
vi si specchiava svelata la cosa.
Quand’ecco un pensiero s’impose,
brusco, tagliente: di quella parola,
che il mondo sommuove,
che cambia in un lampo posto alle cose,
che se la pronunci un demone appare
e non dice: «Comanda, sono il tuo servo»,
ma «Esegui, sono il padrone»,
solo l’ombra ne posso donare,
l’ombra che ancora cammina con me.
Perciò sconsolato l’ultimo verso,
dissonante dal trepido inizio,
senza rima sospira: «Mi manchi».

 

 

 

Tre salmi graduali

Sui ricordi si spense il tramonto:
gli sguardi che tanto amavamo
ci attardammo a sperare vicini,
ma franto il torpore d’opachi rimpianti,
nell’antro della notte
col piglio dei forti
affrontiamo l’ascesa.

Per la valle inondata dal sole
ora libero spazia lo sguardo.
Neofiti ai piedi del tempio,
ripensando al cieco cammino
e all’orma che impresse ogni scelta,
vibriamo affilati giudizi.

Infinite quiete stelle
sospese sul silenzio del bosco
che trepido mistero annera:
ma la mente non si smarrisce.
Foschi nembi dai monti
la tramontana avventa
sulla tenera aurora:
ma il cuore non si spaurisce.
Ora possiamo, senza illusioni,
la parola salda al reale,
esplorare deserti sentieri:
la solitudine non ci avvilisce.

 

 

 

Conformismo

Buon viaggio
verso comodi equilibri e scontate oscillazioni;
approdo sereno
a sterili apatie e rosee mediazioni;
soggiorno disteso
tra morbide esperienze e lagne senza sdegni.
Basta affanni,
tempeste inconcludenti e corse senza premi.
E la sera, sul servomuto,
insieme coi panni appendere il pupo.

 

 

 

7 passi tratti dal poema “Il discorso d’un giovane infedele”

(vv.1-100)

Ambigua adolescenza, ti lusinga
il precoce premio d’essere ammessa
al concitato flusso degli adulti,
che trascorrono spazi perseguendo
mete e fissano norme; eppure smani
di far sentire il tuo furore al mondo
o t’acquatti sgomenta dell’assurdo
che scopri d’improvviso nella vita.
Acerbo, delicato adolescente,
m’inoltravo negli ambiti prescritti,
ma tra i codici e i lessici comuni
e le mie prime, solitarie idee,
monche, confuse, ma eccitanti idee,
l’agro, crescente attrito mi feriva:
né dai coetanei né dalla famiglia
segnali avevo d’una retta udienza
e il prete declamava un formulario
privo di senso per i miei dilemmi.
La scuola un altro tempio, ma con l’ansia
di capire e ritenere: in principio
del verbo definire modo e tempo,
persona e numero, genere e forma,
poi la funzione; la Terra è coperta
al settantuno per cento dal mare;
l’area del cerchio? pi greco erre quadro;
“palleggiato l’infante, alzollo al cielo”;
di honest non si pronuncia l’acca; Horus
ha volto di falco; l’Hwang Ho è giallo
di löss; “quare turbulentam fecisti
mihi aquam bibenti?”; Napoleone
trionfò ad Austerlitz il due dicembre
del milleottocentocinque; il tutto
s’affastellava nelle mie giornate
tra giochi e sogni ed esigeva zelo:
disporlo in salde caselle, in ciascuna
stipare esercizi, sunti e prospetti,
incidersi la mappa del tesoro;
ma dolce arrivava l’ora dei versi
a dare risonanze alle parole,
a suggerirmi d’esplorare il mondo,
il suo pensiero e la sua storia, a dirmi
il nesso fra coscienza del dolore
confitto nell’essenza della vita
e sapiente ricerca d’armonia.
Intanto avevo preso ad annotare
quanto stillava dall’apprendimento
e dall’esame che di me e degli altri
ora istruivo con cura tenace;
la corrente di dubbi e di sconcerti
che ne sgorgava torbida e tortuosa
andava a impaludarsi nei domini
del male, del dolore, dell’ignoto:
per annientare la stirpe priamea
Pirro scaglia Astianatte dalle mura
della città che sfolgora di morte;
nonno si spegneva e la forte stretta
io risentivo premurosa al polso
come quando a passeggio mi guidava;
dell’infanzia per tutto dipendente
dall’amore non ci resta memoria,
solo vaghi frammenti: ricordarla
avrebbe reso pietoso anche Pirro?
In versi sbilenchi (accenti ed accapo
avventurosi) saldavo tasselli
di quel rimuginare. Il mio cortile
faceva da scenario: vi leggevo,
recitato ogni giorno in quattro atti,
il copione che dettano i bisogni,
quelli nativi, indotti dagl’istinti;
ne registravo le scarne vicende
a cui forma di riti conferiva
l’ingenuo culto delle tradizioni;
concludevo con piglio da profeta
ch’alle repliche avrebbe messo fine
solo “il calar dell’ultimo sipario”.
All’infuori della solenne chiusa
e di qualche scolastico drappeggio,
dimesso il tono delle riflessioni,
trasparenti i traslati, sobri e schietti
gli aggettivi a ritrarre il mio cortile
(“mattine smaglianti, coreografie
di panni dispiegati al vento”, “quieti
i pomeriggi nei giorni di festa”,
“nei vetri lento sbiadisce il tramonto”,
“vapori odorosi dalle cucine”,
“trapela dalle imposte d’un balcone
una luce azzurra”): fra quelle mura
mi sentivo accolto quando deluso
l’intrico della società fuggivo.
Negli anni del liceo in quell’intrico
ansioso, intimidito m’addentravo,
ma vi raccoglievo avido materia
da riversare, immagini e parole,
sul piano verde della scrivania,
intento ad indagare, in prosa o in versi,
le cause del fastidio e dello sdegno
che andavano improntando il mio cammino:
alla fine, imbastiti molti appunti,
l’abbozzo me ne venne d’un discorso.

 

 

 

(vv. 637-674)

Il bambino che da un sonno smanioso
è stato vinto appena ha consumato
la tiepida minestra, già lavora
quindici ore laggiù nella filanda.
A sette anni le prime fatiche
nel capannone saturo di borra:
strisciando andava sotto i filatoi
a riprendere rapido i rocchetti
e nei brevi intervalli per il pranzo
puliva meccanismi e pavimento;
poi da quando è cresciuta la sua taglia
il capo l’ha spostato a giuntatore,
percosso ancora ad ogni sbaglio o indugio
dal guardiano delle ciniche norme
che fanno del reparto una caserma
dove si sfianchino docili automi.
Domani all’alba tutto insonnolito
saranno i genitori a farlo alzare,
trangugerà la magra colazione
e via di fretta per due miglia circa
pungolato da fischi intermittenti
e dal profilo delle ciminiere.
Se eviterà il ritardo e l’usuale
sferza, se eviterà attento e svelto
di finire addentato dal congegno
vicino al quale in piedi tante ore
gli stessi gesti esegue all’infinito,
se fortunato eviterà la febbre
il cui contagio alligna in quell’ambiente,
una giornata della sua sventura
sarà trascorsa almeno senza pianti.
Il bambino ch’ora dorme tranquillo
chi sa se giungerà all’adolescenza
e a sfilare in corteo con i compagni
levando in alto una bandiera rossa
davanti alla filanda: sentirebbe
in sé la forza del loro ideale
e che con lui è cominciata un’era.

 

 

 

(vv. 1050-1073… 1087-1105)

La sera del terzo giorno, novizi
forniti di matricola e libretto,
su una panchina di piazza Cavour
stemmo a piluccare nudi fondenti
da un dorato vassoio di Talmone,
rifinendo i propositi di studio
da conciliare con gli altri interessi.
Fu quella sera che parlai a Maurizio
dei versi in cui da poco più di un anno
godevo d’essermi impigliato, versi
intrapresi per un bisogno d’ordine
ed annodati in tela orbicolare
dall’intelletto incline a geometrie
idonee a catturare e organizzare
riflessioni e immagini, parallela
donandomi una vita, sia prigione
magnetica sia prezioso giardino.
Gli dissi poi della sezione in fieri,
del mio tessere tra inciampi: lo spazio
da assegnare ad ogni voce, la linea
degli argomenti addotti, le imboscate
oratorie del discorso diretto;
s’annunciava un lavorio minato
dall’invidiosa collera di Atena.
[…]
Sulla téchne come virtù poietica
si soffermò tra l’altro la risposta
di Maurizio: quando di ciò che genera
la mente s’innamora ed è infiammata
dall’urgenza d’oggettivarlo in segni
per trattenerne innanzi a sé il senso
e la bellezza, al vincolo febbrile
della cura rivolge gli strumenti
d’una téchne, che la ripaga in palpiti
gioiosi per l’opera in cui risalta
il nesso tra la luce e lo spessore
che il senso acquista e il costante, fondato,
coeso affinamento della forma.
Condivideva perciò che spinoso
ma a un tempo esaltante fosse il mio impegno
e che ne avessi assunto come metro
il conclusivo pieno rispecchiarsi
dei miei valori logici ed armonici
nella struttura e nel suono dei versi.

 

 

 

(vv. 1131-1172)

L’ardente gioia d’essere riamati
ci pervade del flusso d’energia
del quale privilegia un nuovo inizio:
nell’alveo in cui si fondono due vite
scorre quel flusso e compie la magia
di lenire riaffioranti ferite,
di fronteggiare tormentosi assilli
e d’avvivare scialbe aspettative.
E si riverberò quel nuovo inizio
sul mio lavoro finalmente intenso:
quando la sera, ritrovati i versi,
mi occupava tortuosa la ricerca
della forma più consona a un concetto,
era soave, sollevando gli occhi,
della mia Pina godere il saluto
come dal buio d’un viluppo uscendo.
Una volta che ancora esasperato
dopo un fitto diverbio con mio padre
tentai invano d’acquietarmi scrivendo,
scelsi il brandy com’estrema risorsa:
l’ira svaporò ma finii infiacchito
col franare sul marmo del balcone.
La notte s’adagiava nel cortile
sotto un lunare velo trasparente
che qualche nube scivolando ombrava
e mentre assorto ne seguivo il passo
nell’incupirsi e schiarirsi dei vetri,
sentii leggero un fischio modulare
il motivo dell’Internazionale:
la mia donna vegliava insieme a me
e melodiosa sul mio malumore
una carezza versava; sorrisi
e le risposi: «T’amo» zufolando
l’ibrido verso d’un fiabesco uccello.
A rischio quella volta fu il segreto
che avevo mantenuto fino allora,
Pina assenziente, con la mia famiglia,
ma quando la curiosità paterna
s’avvicinò felpata, altro non vide
che il figlio malridotto sbadigliare:
quella porta era già chiusa e il duetto
aveva fischiettato: «Buonanotte».

 

 

 

(vv. 1974-1996)

Il più bel sogno che avvinca la mente
è l’armonia d’un mondo in cui la vita
di ciascuno sia onorata da tutti,
e a curvare il pensiero nell’impegno
di farne la sua meta è la pietà.
Essa è sì sgomento innanzi allo scempio
compiuto dai desideri eccedenti;
ombra cupa se vede prevalere
l’egoismo e l’ignavia degli idioti;
ansia per le minacce che agli umani
nel buio del futuro il caso tende;
però quando legge gli occhi imploranti
delle vittime offese dagl’ingiusti,
per rabbia e per amore si fa fiamma:
non solo a prove di nobili slanci
sospinge ma a disegnare modelli
di pólis o progetti di riscatto
delle masse svilite e depredate.
L’intelletto, da quella fiamma acceso,
l’etica della misura dispone
come fulcro delle leve esperite
per deviare finalmente la storia
verso la díke, l’eunomía e l’eiréne.

 

 

 

(vv. 2924-2958)

Onnivoro il sistema verticale
riesce a digerire le obiezioni
di chi pur vuole scrollarsi di dosso
del conformismo la melma vischiosa,
ma fonda le sue scelte originali
soltanto sul rifiuto delle mode,
o di chi fiero denuncia e combatte
ogni violenza in nome della pace,
dell’uguaglianza e della libertà,
ma si lascia irretire dai messaggi
che lo vogliono prono ad accettare
il modello imperante nei consumi.
Perciò il traguardo d’un serio percorso
di critica integrale del sistema
e di studio dello stato presente,
per definire sia le condizioni
sia la sequenza dell’alternativa,
è la conquista di piena coerenza
tra progetto, appelli, azioni di lotta
e lo stile di vita. Si diventa
così un infedele, che opponendo
un lógos e la conseguente prassi
alle sagrestie confessionali
e laiche, ne smonti pedagogia,
giurisprudenza e dialettica, armi
da sempre in dotazione ai servitori
dei palazzi dove il volere è legge
e il potere si nutre d’obbedienza,
e ne stronchi la visione del mondo,
che è il cielo stellato in cui volteggiano
i loro universali, mentre in terra,
nel buio, gl’idioti escono a predare.
È infatti sul terreno delle idee
che d’infedeli oltremodo ha bisogno
il popolo che vive di lavoro.

 

 

 

(vv. 3483-3517)

Dall’osservare con fastidio e sdegno
la società e la storia come intrichi
di soprusi, d’ignavia e d’ignoranza,
sì che l’entrarvi m’incuteva angoscia,
all’incidervi il solco d’un progetto
intriso di realismo e di fervore,
sul quale instradare scelte coerenti,
ero giunto ordinando i miei pensieri
in versi, solide arcate d’un ponte
tra l’adolescenza dagli aspri frutti
e l’acuta, operosa giovinezza.
Nel prenderne commiato avevo fermi
un programma e relativi strumenti
per cercare di vivere il mio tempo
in sintonia col suo farsi storia,
sia accostando studenti a una cultura
che li arricchisse d’un abito critico
e creativo, sia tra le file sparse
del popolo che vive di lavoro,
promuovendo la svolta che svellesse
dai cardini il sistema verticale.
Ed ogni volta che avessi voluto
fare un bilancio del tratto percorso,
al biennio dello scritto pensoso
sarei tornato, trovando nei versi
conferma o richiamo, comunque slancio
per proseguire tenace in quel solco,
condividendo il pensiero e la lotta
di chi la pietà come me sentisse
per rabbia e per amore farsi fiamma,
fiamma che accende l’intelletto e sprona
a fondare il sistema orizzontale,
pilastri la misura e l’uguaglianza,
dove ognuno è chiamato a cooperare
per il fiorire del vero umanesimo.