Antonio Piccoli - Poesie e Racconti

OLTRE IL TRAMONTO

Mentre la sera si appresta a spegnere le luci del giorno luminoso, dai diversi camini dimenticati si ode l’eco dei giorni vissuti …

Non il tramonto ci impietosisce, ma il crepuscolo che risucchia e disperde il nostro ricordo.

Non un nuovo giorno potrà consolarci, esso è tetro e luce per chi, nel suo tristo girone, come noi, manifesta il proprio ego, mercanteggia la lussuria e insolentisce ogni vanità.

Smarrito il ricordo dell’ultima intimità, tendiamo sempre più a mostrare noi stessi, nel nostro intimo, i nostri spazi, i nostri luoghi segreti, retaggio dell’infanzia e dei sogni, che dovrebbero essere inaccessibili e restare tali.

Abbiamo svenduto la nostra poca intimità in cambio di quel cosa!, di pochi attimi di esuberanza e celebrità.

Volevo mostrare la mia infinità realtà  e sono scivolato nel biasimo aprendo le porte chiuse.

Con poche parole esprimo me stresso e racconto voi nascondendomi nei miei racconti e poesie ove raggiungo la mia rada  ….

“E venne, nuovamente, subito sera”.


 COME LORD JIM

Siamo esuli dal nostro passato, inconsapevoli vittime di oscuri poteri, eterni viandanti, mai più romantici e privi nell’intimo. Le nostre vite sono la nostra storia, spesso dimenticata o solo ignorata; la nostra storia le nostre pene, per comprenderle vanno viste prima e vissute poi nelle sue ombre e nelle sue luci. Di vile umana condizione, da anima perduta ognuno viene a farsene virtù.

Al far del giorno nessun oste ci farà bottega, nessuna strada sarà troppo sicura, nessun ramingo sarà più errabondo; il futuro sta innanzi, a ogni sorgere del sole guarda un cartello stradale, non voltarti indietro a cercare le tue pietre miliari, esse non esistono più.

Percorri la tua strada che dentro di noi non è stata mai abbandonata, e se incontri un viandante fermati un istante: cerca di comprendere se nei suoi pensieri aleggia il pregiudizio; se nei suoi occhi si coglie il pallido riflesso del nostro viso dimenticato; se nel suo cuore alberga l’affannosa ricerca del suo intimo essere. Verrà da se il doversi fermare per prestare conforto o scostarsi dalla sua strada.


 ULTIMO TRA I GRANDI

Come un fiordo colmo di limpide e profumate acque, come un’icona del passato, come il re degli elfi tutto accogli, le nostre pene, e riempi i nostri cuori.

Maestoso e perpetuo, inneggi alla vita e perseveri sino alla fine.

Padrone del tuo tempo, portatore di virtù ci rendi forti e sereni infondendoci speranze. Ogni sciagura alberga fuori.

Alla tua quarta decade autunnale di vita, come una sequoia, a tutti come allora dispensi pace e riparo all’ombra della tua folta chioma.


 A Laura.

 05 giugno 2018

Non ho le parole per significarti ciò che provo, ciò che vorrei  trasmettere.

Di questo amore, in questa notte chiara, sotto lo sguardo di questo cielo adorno di stelle, il mio spirito ora libero e ora prigioniero sogna; i miei occhi scrutano il lontano immenso e il mio cuore è rivolto all’origine di un amore, il nostro amore ch’io non dimentico. Non uno qualunque. Mi prostro e abbandono a questo incomprensibile amore che ai miei occhi pare infedele e sacro al mio cuore, puro e potente, divino come il principio vitale del Tutto. Percepito come mente, sapienza che tutto vede e sa, forza che senza fatica tutto scuote, arma che c’intimorisce e saetta uncinata che colpisce, annichilisce, uccide e fa rinascere. Forza distruttrice e feconda del mio tempo; giudice, oohh!! mio giudice e intelletto.

Come il vento veloce, la pioggia e i freddi sereni della notte, rinascita di ogni cosa voluto e accettato come la luce.

Principio divino a ogni cosa, superiore a ogni altro, medicamento e veleno dell’anima.

Di questo amore che mi da senno, gioia e forza, ne vivo e godo in ogni luogo.

Ho lasciato le mie catene per prenderti la mano.

Mi lascerò trasportare dai miei sogni così che possano realizzarsi i tuoi.

Laura, la mia famiglia, una coperta magica, un vello invisibile contro ogni dolore e sofferenza, che mi avvolge e ovatta dai mali del mondo.

Ora sono uomo, e di te vestirò anche l’anima.


 IL NOSTRO PARCO GIOCHI

Con immenso tragico dolore paghiamo ogni passo consumato.

In quest’orrendo parco giochi, ove ogni sospirato gesto in questa casa stregata t’incanta malignamente; ove ogni giorno è un altro giro;

ove ogni diritto è un altro gettone, tutto è luce, paura e meraviglia.

Tutto è schiamazzo e silenzio dell’anima.

Perso d’umanità, come un sogno accolgo i miei fantasmi nell’ora in cui il gallo canta, in cui i miei pensieri, la mia vita, prevalgono sulla speranza e quiete della notte,  ove tutto è calore e colore.

Osservo l’alba padroneggiare il buio circostante e ad esso segue; ascolto il pesante rumore del mattino.

All’orizzonte le strade si riempiono di affannose vite mentre qui tutto tace, tutto è caos e sofferenza.


 IL MIO ANGOLO DI CIELO

Da tempo vedo solo un piccolo spazio di cielo, un quadrato di cielo che dice, annuncia e da speranza, quasi fosse mio, solo mio, ove rifugiarmi, ove nessuno può vedermi ed ascoltarmi.

Il mio angolo di cielo, più grande dell’immenso, di tutto l’universo: è il mio universo.

Anche se piccolo, quell’immenso universo, quel piccolo quadrato di cielo, il mio angolo di cielo tutto contiene, anche i miei sogni ivi deposti.

Da speranza, provoca, invoca e delude sentimenti, i miei sentimenti che lì nascondo, in quel grande universo, il mio angolo di cielo.

Anche lei, l’amabile signora della notte, la Luna, non manca, come un appuntamento, un’icona del passato, una parola data, una promessa mai tradita al più grande degli amori.

Stessa ora, solitaria e silenziosa, piena o mezza, offuscata, visibile o celata è lì a lasciarsi contemplare, a darmi serenità e conforto con al suo fianco la più splendente e luminosa delle stelle.

Insieme mi danno speranza, una speranza che si perde tra la notte per poi ritrovarsi in quel mio angolo di cielo.


PUTTANA POLITICA

La più amata ed ostentata, la più invidiata e derisa.

La politica

Come una megera da molti evitata, come una meretrice da molti acclamata e desiderata.

La politica.

In un mondo povero di ideali, morale e saggezza, ove il genere sapienziale è il frutto di relazioni, contatti, influsso ed ambienti in cui i predisposti si trovano a vivere.

In questa povera povertà ove tutti, anche i diversi, si prodigano a suo servizio quale alternativa alla propria condizione ed incapacità, quale punto d’arrivo del bene e del male, ove tutti si prostrano quale ultima meta, o forse la migliore per meglio affermarsi.

Punto d’arrivo, per altri di partenza, ove tutti possono realizzare i propri falsi ideali.


 I MERCANTI DI SOGNI

28 novembre 2013

Terra promessa, speranze tradite: ognuno conosce ciò che abbandona, senza rimpianti e col grido nel cuore.

Terra dei suoi avi, paura dei suoi figli: ognuno sente ciò che gli giunge da echi lontani e da procaci vicini che trovano facile chi si lascia ingannare.

Autodafé, sofferenza e paura accompagnano i propri figli a seppellire in terra straniera, che non ci accoglie e mai ci chiama.

Ciò che è in cuore nessuno potrà mai saperlo, nessuno osa solo immaginarlo; ciò che l’anima ci sussurra chiunque può pensarlo senza mai provarlo.

Ed è qui, ove la speranza arriva, ora come allora, ove la disperazione lascia lo spazio alla fiducia, ove la pazienza è l’unica certezza che vince il tempo, che io peregrino per le vie del nostro mare infitto di gente, come non mai demone della natura, come un boia esecutore, avaro di sentimenti, che non restituisce più le sue vittime sacrificate ancor prima che vengano celebrate colpevoli;

ed è qui, su questa battigia che di me uomo io mi vergogno e piango, dove s’infrangono  mille indicibili segreti, cento bugie e poche speranze;

ed è qui, su questa poca adorna spiaggia, ove il suo corpo si poserà, dove in tanti ci sono già passati, che io osservo la mia alba e l’altrui tramonto, senza più sentimenti e con la morte nell’anima.

E quando la vita del disgraziato sarà manchevole, solo allora apparirà nel suo sorriso l’attesa primavera, quella pace anelata che illuminerà l’attesa della giustizia invocata dal presente dei volti ancora senza sorriso.

(a memoria dei tanti bambini, e non solo, che hanno perso la vita per raggiungere una speranza sulle coste meridionali dell’Europa)


 Un uomo al fronte

Non ero un soldato …., non lo avevo chiesto e neppure mai voluto.

Da soldato mi vestirono, m’imbracciarono un fucile intimandomi di andare, la mia famiglia dovevo lasciare, i miei amici, la mia casa e i miei campi, la mia Anna, per andare lontano, in terra a me straniera.

Alla Patria lo dovevo, per l’onore dovevo uccidere e morire.

Non lo avevo chiesto: non sono un martire e neppure un assassino. Non volevo essere un soldato ne lo voleva la mia famiglia, ma altri avevano deciso anche per noi. Avevano i loro interessi sporchi di sangue degli innocenti, d’ipocrisia degl’ideali; ma io non lo sapevo e per la gloria di questi dovevo uccidere e morire.

Chi lo avrebbe detto alla mia mamma che suo figlio, poco più che adolescente, era un assassino ed era morto: per la guerra o forse per la Patria; in guerra o forse in Patria?

Non una medaglia e nessuna onorificenza, nessun ricordo alla memoria avrebbe potuto consolarla.

Non lo avevo chiesto, neppure mai voluto, e ancor prima che lo pensassi ero al fronte, sul Peuma, al freddo e a soffrir la fame, in luoghi che non avevo mai percorso prima e che non avevano i colori ne gli odori della mia Patria.

Non ero un soldato … , non lo avevo chiesto e neppure mai voluto. Non sono un martire, neppure un assassino, ma per la Patria dovevo uccidere e morire.

Uscii dal fango, quel dannato giorno, lo guardai dritto negli occhi, non lo avevo scelto e non avevo scelta, puntai e sparai; non aveva più della mia stessa età. Il destino ci aveva accomunati e gli uomini, non l’odio e gli interessi nostri, ci avevano divisi, ma morte e la disperazione nuovamente ci accomunava. Non lo volevo……., non avevo scelta ne lo avevo scelto. Passarono due anni su quei monti, su quel fronte a noi nemico eravamo oramai in pochi, uno sparuto gruppo di ragazzi soldato presto uomini diventati, a difendere un cumulo di neve che imbiancava i cadaveri dei soldati, che a fine inverno sarebbero affiorati come bucaneve in mezzo ai prati; ma non avevano lo stesso effluvio, solo il tanfo della putrida morte.

Venne un nuovo inverno, quel Natale del ‘17, tre anni dal Natale sulla Marna.

Su quelle alture restai il più giovane e più alto in grado. Quel giorno, prima delle otto e prima che iniziasse a piovere di fuoco, alzai bandiera bianca e dal nemico andai a rendere i miei doni.

Quel Natale, su altopiani e cime innevate, tra morte e solitudine, nessuna sposa o figlio avrebbe ricevuto un triste telegramma o una attesa visita in divisa; nessuna mamma avrebbe pianto  per un figlio che non avrebbe  mai più rivisto, un ragazzo al fronte seppellito chissà dove, troppo presto uomo per capire e troppo giovane per morire. Nessuno di loro lo voleva, nessuno di noi lo aveva chiesto.

Quel Natale non vi fu guerra, una tregua per la vita imposi anche al nemico, che pianse e fu felice; soldati senza colori con un’unica divisa, solo uomini che andavamo e venivano dalle trincee nemiche, amiche, per rendere e ricevere un sorriso: anche solo un abbraccio, un augurio.

Non ero un soldato … , non lo chiedevo e neppure lo volevo. Non sono un martire, neppure un assassino, e per la Patria non volevo più uccidere e morire.

Ma la Bestia è senza cuore e l’ordine arrivò, di iniziare le ostilità ed io mi rifiutai. No, non avrei mai più sparato, volevo solo tornare a casa, dalla mia famiglia, dalla mia Anna, al mio lavoro, alla mia semplice quotidianità, tra la mia gente sui miei monti, al niente che per me era tutto.

Agli arresti io mi misi e a loro io risposi che l’amore avrei imbracciato e il fucile avrei lasciato. No, non avrei mai più sparato, mi avevano ingannato e chi voleva poteva  pure uccidermi, anche subito: tutti.

Fui processato e condannato, ma la guerra su quei monti ebbe fine prima che sopraggiungesse quell’ordine sbagliato, un’atroce punizione: morte per fucilazione. Dove non fece il tempo e il mio nemico, poteva invece il mio Paese.

Ma dovevo scontare lo stesso la mia pena per aver disubbidito, per aver obbedito agli ordini del cuore: per non aver ucciso ne esser stato ucciso.

Quel Natale, in quella sporca guerra, su quei monti, nessuno aveva vinto: solo quegli uomini al fronte.

Ora le armi tacciono e a nessuno importa del loro prossimo risveglio, se non a quei giovani soldati, senza colpa e senza scelta.

Non ero un soldato … , non lo avevo chiesto, neppure mai voluto. Non sono un martire e neppure un assassino,  per la Patria non avrei mai più ucciso e decisi di non morire.


 Galoppata d’onore e di perdono

Da “Calabria grande e amara”

L’imperioso signore del giorno, il Sole d’agosto, inchioda alla croce la terra e il mare. L’uva già nera e grossa sui tralci rosi dal salino beve golosamente la bava di vento che, a tratti, spira dalle lontananze del mare, increspando leggermente il cristallo opalino delle acque.

Il Molo, accovacciato come una belva nella sua prigione di pietra, urla senza voce, non meriggia mai. Un gruppo di contadinelli l’ha scalato per riposarsi dalla fatica del nuoto, ma le piante dei piedi non han sopportato il cociore della sua febbre. I ragazzi si son rituffati nell’acqua starnazzando per ogni dove, in un nembo di spuma.

Primeggiando sul rabbioso gorgoglio del mare che si infrange sulle propaggini estreme del molo, improvviso, un coro di voci chiama l’irrequieta schiera. La tavola imbandita è pronta, piena di provviste che il parentado dei due promessi ha portato per festeggiare la lavatura della lana. C’è roba fine e abbondante: braciole, pesce, parmigiane, insalate, frittate, caci e frutta: testimonianza di quel Lucullo romano. Il buon mangiare è accompagnato da un angelo custode che farebbe bel vedere alla mensa di un re: il Cirò, il miglior vino di Calabria.

Le due famiglie hanno alzata, a poca distanza dal lido del Molo di Fabrizio, nel praticello bagnato dalla vena d’acqua del torrente Coriglianeto che scende dalla montagna, una randa rossa per ripararsi dal sole, sostenuta da robuste canne che sull’alveo crescono spontanee, tutta strappata perché appartenuta a un brigantino che invecchiò per mare. Balbetta la brezza in cima agli strappi e pare voglia cucirli con i suoi aghi di pettegoli. Sull’erba han disteso una bella tovaglia bianca che si pavoneggia con quei larghi piatti odorosi che escono dalle canestre come da un corno regale dell’abbondanza. Le donne sono liete e ciarliere. Gli uomini attaccano il discorso chi della vendemmia, chi dell’abbondante raccolta o mungitura. Ci stanno tutti, con zia Teresa e zio Peppe anche Antonio e Giuseppe, i cugini venuti da Roma.

Battista di Alfonso guarda Lella che, pudica, china il capo sul petto. La lana già lavata è soffice, stesa al suolo su un lenzuolo, dice a quella che ancora s’ammucchia nei sacchi, tutta sudicia e ruvida: “Io non ti conosco, sorella ingrata e abbandonata”.

I ragazzi arrivano tutti grondanti di mare, si buttano sulle cibarie con l’insolenza di chi sa che tutto è permesso oggi, giorno di festa. Difatti, molte mani di donne li frenano senza severità.

Lella nel trattenere Tonino, il suo fratellino, s’è scoperta leggermente sul petto. Battista ha veduto lampare qualcosa e si è sentito pungere dalle ortiche.

La compagnia si è appena disposta attorno alla tovaglia quando dalla cresta della mulattiera si vede scendere un cavallo nero con un uomo a bisdosso, anch’egli vestito di nero. Il cavaliere è di statura erculea ed ha la doppietta a tracolla che lampeggia al sole, minacciosa, quasi a svettare come una caldera pronta ad eruttare e infondere paura e morte. Più che riconoscerlo Lella ha la sensazione, amara e calda come la paura e la sventura. Fa solecchio con gli oleandri mentre si sente sbattere in viso il pampino rinsecchito di un fico volato chissà da dove e da quando. La lana che le sue mani han lavato nel mare e nell’acqua della fiumara di montagna non è più bianca ora delle labbra di Lella.

“Padre, è ‘Ndonio i Micucciu, u Passerini”, dice desolata Lella, “ora ci ammazza, Dio ci liberi …”:

“’Ndonio è a Rossano, in galera … Sei impazzita?”;

“È lui …., non c’ha mai perdonati. È scappato dalla galera per vendicarsi …”.

Le sue parole calano un lenzuolo bruno sul viso di tutti. Le donne, Fina e mamma Pina in testa, si segnano precipitose il capo e il petto  mentre gli uomini si buttano sui roncoli, sui coltelli e sui randelli, per rintuzzare la minaccia improvvisa. I ragazzi spiano le mosse dei grandi con gli occhi sgranati, senza fiatare. Battista vorrebbe lanciarsi animoso ma qualcuno lo ferma: “Vuoi che ‘Ndonio t’impallini? Lo sai che non scherza …; lui non conosce il perdono, ha il pelo al cuore”.

La cavalcatura si avvicina lentamente precisando il suo cavaliere, si rileva sulla gobba brulla della collina mettendo alle sue spalle un lembo di cielo azzurrissimo. Staccati dalla massa petrosa il cavaliere e il cavallo perdono un po’ della loro spaventosità. Le loro proporzioni diventano umane. Prima parevano figure della Bestia primordiale evocata dalla canicola.

“Lasciate parlare me solo. Figli!”, dice con autorità don Giuseppe, il padre di Lella.

“Chi è avvisato è armato …. E speriamo in Dio”.

“Io non gli darei spazio e retta per niente …”, brontola Battista, “appena l’abbiamo a portata di mano gli saltiamo addosso e lo crivelliamo di coltellate. Dico male?”

“Tu chiuditi la bocca una buona volta. Che vuoi mostrare col tuo impeto, quante lavature dobbiamo fare prima di maritare questa figlia?”, risponde grave mastro Luigi, fratello maggiore di Lella, “’Ndonio non è uomo da trattare col coltello ma c*ol fuoco. Nessuno di noi ha il fucile, maledizione …”.

Intanto il cavaliere avanza con studiata lentezza nell’ultimo tratto del sentiero. Già si distinguono la sua faccia scavata e sarcastica, la sua bocca larga e sinuosa, la mano che regge le redini, le canne della doppietta che gli sputano dietro le spalle baluginando al sole. Ormai è a cento passi dal gruppo, a ottanta, a sessanta, punta diritto sulla tenda, senza perdere il suo fiero atteggiamento di statua. Si direbbe che voglia farsi ammirare nella sua eretta eleganza di cavalcatore, e passare oltre. Improvvisamente, quasi vergognosi della loro furia e del loro avventato giudizio che avrebbe portato torto e sciagure, gli uomini nascondono roncoli, coltelli e randelli dietro le schiene. Le donne si stringono attorno a Lella come per farle scudo. La giovane non vorrebbe guardare ‘Ndonio i Micucciu ma una forza inconscia dirige il suo sguardo atterrito e avido su di lui, come se un sentimento sovrumano le avesse afferrato e alzato il capo.

“Buon giorno e salute!”, grida ‘Ndonio con voce di beffa, smontando da cavallo. “Son venuto alla “jumara”, qui al Molo, per guazzare questa nobile e fedele bestia …. Non immaginavo di trovare tanti amici in festa … La presenza di tanta bella gente e di questo guazzabuglio mi rincuora, tiene lontane le serpi, così la mia bestia non rischia alcuna brutta sorpresa nell’abbeverarsi alla “jumara”, non rischia d’esser presa al muso da alcuna serpe”.

“Amici, puoi dirlo …”, sottolinea con voce pacata don Ciccio, l’altro fratello di Lella. “Quando tutti ti avevano abbandonato tu sai quel che io feci per te. E ora, se la tua bestia non scalcia può bere senza timore, oggi qui non si nascondono vipere …”.

“Vi ringrazio … La vostra testimonianza non m’impedì d’essere condannato a undici anni per l’omicidio. Ne ho fatti cinque con l’aiuto di Dio e il perdono del re, ed eccomi alla vita … . Comunque, la bestia è mansueta se non la si percuote e sa tenersi lontana dall’erba alta dove si annidano le serpi, ma voi mi avete tranquillizzato che qui non ci sta alcuna serpe. Dunque non ho da temere per la bestia, e la vostra parola basta”.

“’Ndonio, il tuo cuore ardente ti portò alla rovina…. Se avessi potuto frenarti … ma tu non conosci il perdono e hai voluto lavare col sangue l’offesa ricevuta”.

“Se avessi potuto. Ma perché piangere il morto?”. Parlando egli si è intanto avvicinato alla tovaglia piena di cibarie, mentre con lo sguardo segue il cavallo che da solo si avvicina al torrente per abbeverarsi, poi si volge verso la tavolata: “Quanta buona roba …., anche le mozzarelle, sono anni che non ne vedo e mangio”, dice con gelido sorriso sul labbro. “La lavatura della lana è sempre una gran festa … Ricordate, compare Giuseppe, la “nostra” lavatura?”.

“La ricordo figlio, come se fosse ora …”

“Neanch’io posso dimenticarla. Fu due settimane prima del fatto. Avevamo portato tanto buon mangiare, non mancava niente, come oggi. La sventura c’era forse nell’aria, ma chi la sentiva? Eravamo tutti più giovani di cinque anni e il fidanzato ero io, ecco. Lella portava un vestito che somigliava tanto a questo ….. È forse quello …”.

“Non ci pensare, non ci pensare, figliolo …”, mormora dolcemente don Giuseppe con lo sguardo volto alla figlia, la quale, alle ultime parole di ‘Ndonio, s’è fatta pallida. In questo momento ‘Ndonio pare accorgersi del parentado di Battista di Alfonso, e soprattutto di lui, del nuovo fidanzato; “sei tu, Battista, lo sposo. La mia irruenza, la mia sfortuna è stata la tua fortuna. Dovresti ringraziarmi invece di startene incagnato come se volessi azzannarmi. Vuoi fare a pezzi questo sgalerato? E fatti avanti, una buona volta, col coltello che hai in mano nascosto come una serpe … Togliti lo sfizio, non muoverò un dito per difendermi, potrai dare prova alla tua promessa …”. Poi, volgendosi a Ciccio: “don Ciccio, la bestia ha bevuto, avete visto? Non teme le insidie che si possono nascondere nell’erba alta”. Il riso bruciante con cui accompagna le sue parole cade come una staffilata su Battista. Egli balzerebbe sul nemico se le mani di suo padre non lo trattenessero.

“Io non ti voglio far male, ‘Ndonio. E non voglio neppure che tu mi sfidi. Tu non sei venuto da amico, qui. Sei scappato dalla galera per fare qualche bravata contro di noi che ti abbiamo sempre rispettato come un cuore leale. Se ti sei rovinato cinque anni fa ammazzando Natale Landolino, la colpa è della Malasorte. Non è né tua né di nessuno …, anche se la sorte può essere benevole o malevole grazie ai nostri gesti. Però, questa povera figlia di mamma non poteva perdere la sua gioventù ad aspettarti …”.

“Troppo giusto”, risponde lui. “Però lei io l’avrei aspettata non undici ma trent’anni, lo giuro sulla “Madonna ira Niva” che mi vede e sente ….”. Lella scoppia a piangere e invano le donne cercan di consolarla. ‘Ndonio stacca l’occhio da lei e lo fissa alle estreme lontananze del mare, sembrava cercasse lì, in quell’immenso, ciò che aveva perduto: il recente passato per rimediare un presente. Ma era troppo tardi oramai. Una cappa di piombo grava sul cuore di tutti. Ognuno sente di rubare qualcosa all’uomo deserto: un pezzo di ciò che ha perduto per sempre. Un pezzo di quel passato, di questo presente.

“Lascia quel fucile, oggi non è più tempo di caccia, e siedi a questa mensa di pace!”, prega don Giuseppe commosso, “tu pensa quel che vuoi di noi e della nostra ingratitudine. Sono stato io a volere che Lella si accasasse. C’è tante malelingue in giro. Si è mormorato persino che mia figlia ebbe un figlio da te …”. Il giovane non risponde. Egli è in preda ad una violenta lotta interiore.

“Se le malelingue avessero avuto ragione di che parlare, allora non starei qui come un nemico e un estraneo, ma persona attesa. Avrei disonorato Lella e la vostra famiglia e salvato il mio di onore. Mi avreste aspettato tutti. Ho rispettata vostra figlia e l’ho persa. Il suo onore è salvo e Battista ha di che gioire e ringraziarmi”, aggiunge rivolgendosi a tutti i presenti.

Guarda Lella, guarda Battista, quella cibaria abbandonata, quei fanciulli tremanti, quelle donne sbiancate dalla paura, e non sa che cosa dare al bisogno d’amore che lo divora. Lella non è più sua perché la pazzia di un momento vinse il suo amore per lei. La grazia! Ma che senso ha ora la libertà? A questo punto ‘Ndonio si sente tirare dalla giacca sulle ginocchia da una mano leggera. È Matteo, il piccolo Matteo, ch’egli lasciò a quattr’anni e che ora ne ha nove. Egli lo riconosce e gli pare di rivedere un figlio suo: “ Tu Matteo … Come ti sei fatto grande, Matteuzzo …. Figlio.” Per poter abbracciare il piccino egli si china e lascia cadere per terra il fucile. Non lo raccoglie. Prende in braccio il ragazzo e lo bacia più volte sulle guance e sui capelli.

“Matteuzzo, tu ricordi ‘Ndonio. Non ti fa paura. Solo tu l’aspettavi ….”

“T’aspettavo e tu non tornavi mai. Eri partito per la galera senza baciarmi. Mi avevi promesso di portarmi a cavallo sulla strada dell’Acquanova perché tutti mi vedessero, e aspettavo che mantenessi la promessa. Sull’asino ci vado tutti i giorni ma non è la stessa cosa …”

“Quella partenza non la prevedevo, Mattè. Ma ora che sono tornato son sempre in tempo. Tu almeno non hai aspettato invano. Se non è la strada grande, quella bella e dritta, può essere questa spiaggia piena di sabbia e di buche …”

“Mi porti a cavallo, di galoppo, subito?”

“Subito se vuoi …”.

“Voglio, voglio ‘Ndoniuzzo buono. Partiamo subito.”

Il ragazzo ha appena finito di parlare che ‘Ndonio, volte repentinamente le spalle al gruppo umano, si accosta al cavallo che raspa la sabbia nella vampa del sole e vi mette a cavalcioni sopra Matteo. Poi salta agilmente in groppa lui stesso e parte fulmineo, toccando la bestia col calcagno.

Il cavallo è ormai un punto sulla spiaggia abbacinata; il battito dei suoi zoccoli non arriva più.

Il cuore della gente amara, l’ardore della sabbia rovente, la sete delle radici selvagge, il delirio degli scogli del Molo: son fatti dello stesso palpito. Il cavallo galoppa dentro il petto di ognuno. Ha smarrito i suoi limiti reali è diventato la voce delle cose, tutta la Natura con il suo spasimo e la sua tragica giustizia. Galoppa nel sole il cavallo nero e gli uomini che lo mirano con occhi sgomenti vedono in groppa alla bestia il triste idolo della vendetta.

 ‘Ndonio riporta il piccino dopo la corsa sfrenata. Posandolo a terra gli dice: “ora non ho più nessuna promessa che io non abbia mantenuto. Né con te né con altri.” Riprende il fucile da terra e verifica se nella sua assenza qualche mano abbia tolte le cartucce dalle canne. Ritrova la carica intatta e sorride: “Ringrazio la compagnia di questa prova di lealtà e di fiducia. Forse, senza di essa, chi sa mai, non terminereste oggi di lavare la lana delle nozze. Che m’imporrebbe, abbandonato come sono, di stracciare la grazia che il Re mi ha concessa e ritornarmene in galera col ricordo di qualche altro morto? Ma come la mia bestia ha sete di abbeveraggio, il mio cuore impavido ha sete di perdono: di essere perdonato e di perdonare”. Un ultimo sguardo a Lella, e ‘Ndonio, risalito sul cavallo, saetta verso le colline nell’implacabile sole.

Destino e carattere sono gli Alfieri del nostro futuro