Arturo Buzzat - Poesie

Da “VOLANDO TRA LE PIEGHE DEL CUORE”

 

Il deportato

 

Nella terra natia sono ritornato per caso,

recuperato da una fossa comune;

ciò è stato possibile grazie ad un numero

che su di me si leggeva con sufficiente chiarore.

 

Me lo avevano impresso sul braccio sinistro

appena arrivato sul suolo polacco;

prima ancor di caricarmi sul treno

che mi avrebbe condotto dietro il filo spinato.

 

Se ripenso a quei giorni ritrovo la fame,

la rabbia, l’angoscia, la paura, il dolore,

gli occhi vuoti di chi, pur camminando tra i vivi,

di uomo aveva solo l’aspetto esteriore.

 

Rivedo il sergente dagli occhi di fuoco,

dai neri stivali e con le medaglie sul petto,

che ordinò di allinearmi, con gli altri, in silenzio

davanti alle case, tra i pini e il laghetto.

 

Quel mattino d’estate il sole era caldo,

non capivo perché fumasse il camino;

perché avessero riscaldato quel posto

dove mamma diceva avrei giocato un pochino.

 

La morte mi ha colto che anelavo alla vita,

mentre riordinavo i progetti nel cuore;

e se ora in cielo io vivo felice

è perché Iddio mi ha promesso:

“Mai più quell’orrore”.


 

Da “ALFABETPOETICANDO”

 

B come Bellezza

 

Tolstoj  la definiva

scettica e irrazionale;

Dostoevskij ce ne parlava

come di qualcosa senza uguale.

 

Stendhal sosteneva che non è

promessa di felicità;

Per Gandhi è un messaggio d’amore

che dal cuore parte e va.

 

Per me lei è una giovane madre

che cammina intimorita tra la gente,

è un sussurro delicato dello spirito,

una luce che tremula timidamente.

 

Per me è l’alba che sorge sulla terra,

il tramonto rappresentato sua tela,

un fiore, una farfalla in volo,

la vita ovunque si rivela. 


 

Da “VIAGGIANDO VERSO INFINITO”

 

Pescando ad Alderney

 

Mentre con la mente già viaggio

lungo la strada di casa

uno strattone mi richiama al mare.

La canna si è flessa,

un pesce ha abboccato all’amo.

 

Memore di pazienti insegnamenti 

ìrallento il richiamo del filo

ed eseguo ogni altra mossa

cercando di prevenire 

il mio astuto avversario.

 

Ci osserva

divertendosi

il mare.

 

D’un tratto è superflua la forza,

il pesce si è arreso,

si lascia portare.

La sagoma appare,

riconosco chi avanza,

mi brillano gli occhi,

sussulta il mio cuore.

                                                                                        

E’ l’argenteo branzino sognato per anni

che …

dà un ultimo colpo di coda,

si libera,

ritorna a nuotare.

 

Attonito

lo guardo sparire tra i flutti,

sono come un bambino 

privato del suo dolce migliore. 

 

Dura un attimo, 

poi il sorriso ritorna sul volto.

Lancio l’esca,

ricomincio a pescare.


 

Da “A TE CHE SEI VENUTA DA LONTANO”

 

Per amarti

 

Vorrei regalarti un vestito

fatto di petali di rosa,

esaltare il tuo corpo

con le essenze dei fiori più rari,

adornare il tuo collo

con le stelle del cielo,

allietarti con il canto

di mille usignoli.

 

Ma sono soltanto un uomo,

e per amarti

 

non ho che tutto me stesso,

la dolcezza di un abbraccio

e le parole che sa trasmettere

un bacio.


 

Da “IL GIOCO AL TEMPO DEI NONNI”

L’albero della cuccagna

 

 “Peccato tu non abbia qualche anno di più, caro Mario” mi disse papà non appena lo raggiunsi per rincuorarlo.

Non era riuscito a conquistare l’albero della cuccagna e il suo volto era più scuro del grasso che gli si era appiccicato addosso durante la scalata dell’albero.

“Sono stati i dodici metri di salita più faticosi della mia vita” commentò, mentre gli battevo qualche colpo di consolazione sulla spalla sinistra.

“Il nuovo grasso sintetico con cui hanno unto il palo di legno dove si deve salire, quest’anno non permetterà a nessuno di giungere in cima e di conquistare la cuccagna” commentò Antonio, un amico del babbo che ci era vicino.

Come il mio genitore era altrettanto deluso per fallimento della sua prova.

“Guardate come ride il signor conte” feci notare ai due, sperando di distrarli dalla loro disperazione per l’insuccesso.

Ottenni l’effetto contrario, perché sia Antonio che mio padre cominciarono a imprecare contro il signor Conte e a dubitare che la sua generosità di contribuire con grossi premi,  per la sua gioia, alla prova più ambita della festa del paese, fosse solo perché sapeva che tutti avrebbero fallito.

“Quando diceva che per  Santa Caterina avrebbe regalato tre grossi salami, una sporta  di farina e un sacchetto di iuta contenente cinque chili di riso, noi lo prendevamo in giro. Ora ride lui di noi” brontolò Antonio, rivolgendosi a me.

Non sapendo che cosa ribattere gli feci un sorriso.

“Non c’è niente da ridere, Mario” osservò mio padre.

 “Il Conte non ha mai regalato nulla. Sapeva che i suoi regali se li sarebbe riportati a casa”.

“Dai … non dire così” tentai di rincuorarlo.

“Avevo promesso a tua madre di portarle la cuccagna come regalo per il suo compleanno. Ho fallito e anche quest’anno non potrò regalarle niente. La guerra, per fortuna finita, ci ha tolto tutto e ricominciare è dura” mi rivelò papà con gli occhi velati da un pianto trattenuto a stento.

“E’ dura per tutti, Lorenzo” tentò di consolarlo Antonio.

“Guarda non ce l’ha fatta nemmeno il vincitore dello scorso anno” aggiunse subito dopo,  additando l’uomo che aveva appena abbandonato l’impresa di conquistare la cuccagna.

Non so che cosa mi spinse , ma istintivamente infilai le mani nelle tasche dei pantaloni del babbo e ne estrassi due manciate di sabbia.

Misi la sabbia nelle mie tasche e senza rendermi conto di cosa mi stesse urlando papà, mi avvicinai all’albero della cuccagna.

In tanti lo guardavano, ma nessuno voleva tentare di scalarlo.

Passai davanti alla gente, guardai verso l’alto e mi aggrappai al palo.

Le mie mani era diventate unte e appiccicose. 

Mi ricordai della sabbia che avevo nelle tasche dei pantaloni e ne presi un pò. 

“Sei troppo piccolo, non farlo”, sentì urlare alle mie spalle.

Non ascoltai il consiglio e in un silenzio irreale, come una scimmietta mi lanciai nella salita.

Spinsi prima di gambe, poi di braccia, poi di nuovo di gambe e … via così.

Giunto circa a metà del palo avevo il fiatone e decisi di riposare un attimo.

Le braccia avevano iniziato a  indurirsi e io a scivolare un poco verso terra.

Abituato a salire sugli alberi, puntai ben bene i piedi  e feci riposare le braccia.

Solo quando mi sentii pronto ripresi a salire.

Fu l’urlo e l’applauso della folla a dirmi che ero giunto in cima.

Trionfante staccai la cuccagna dai ganci dove era stata appesa e trovato con lo sguardo mio padre gli lanciai i tre salami.

Infilai il sacchetto di riso nella sporta della farina, mi caricai il tutto sulle spalle e ridiscesi a terra.

Fui soffocato dall’abbraccio della folla e portato in trionfo.

Guardando il mondo dall’alto mi accorsi che il signor conte rideva ancora e mi urlava bravo e che papà, euforico diceva a tutti:

“E’ mio figlio;  è mio figlio”.

Mamma fu talmente felice che per anni raccontò alle amiche  quello che aveva mangiato nel più bel compleanno della sua vita.


 

Da “CAPITAN AFRICA”

DALLA PARTE DEGLI ALBERI

 

In molti Paesi africani le festività a carattere locale, per lo più legate alla semina, al raccolto, alla transumanza o a eventi di carattere comunitario, sono, turisticamente parlando, sicuramente le più affascinanti. 

Affrontare un viaggio con l’idea di assistervi è però assai rischioso, perché è impossibile conoscerne le date, che sono stabilite solo con qualche giorno di anticipo sull’evento. 

In Burkina Faso, le festività locali più caratteristiche sono concentrate nel periodo prossimo alla stagione delle piogge, che nel Paese occupa lo spazio temporale che va da maggio – giugno a settembre – ottobre.

Si tratta di ricorrenze che vedono coinvolte soprattutto le maschere, delegate a rappresentare e perpetuare il  rapporto con gli dei, alle quali si chiede di proteggere abitazioni, villaggi e di intercedere sulle precipitazioni, perché siano abbondanti, a beneficio della semina e del raccolto.

Alcuni colleghi della cooperazione, che avevano avuto la fortuna di assistere allo spettacolo delle maschere, me ne hanno parlato come di un’esperienza da non perdere.

Io, però, sarei rientrato in Italia molto prima dell’inizio della stagione delle piogge e questo fatto mi avrebbe impedito di godere della tanto osannata esperienza.

 

Ci ha pensato la costruzione della scuola a venirmi incontro.

 

Tra le opere da realizzare in via accessoria il progetto prevedeva anche  un giardino e una zona orto che, a causa del solito ritardo nell’arrivo dei materiali, in questo caso necessari per la realizzazione del pozzo e dei collegamenti idrici tra le strutture del complesso, con Hasnuu abbiamo deciso di iniziare a mettere in cantiere subito dopo il completamento dell’edificio riservato agli insegnanti, evitando così di perdere inutilmente una decina di giorni.

Questo, anche perché le due aree, ricavate sul retro della scuola, non sarebbero poi state interessate dai lavori.

Quando, spianata e sistemata l’aera destinata al verde, abbiamo iniziato a scavare le buche per piantare alcuni alberi, il capo operaio ha voluto che Dio e gli antenati assicurassero al luogo protezione e prosperità.

“Perché tutto dev’essere perfetto … in ogni senso”, mi ha spiegato.

 

Poi,  per convincermi della necessità di organizzare una festa propiziatoria, mi ha raccontato:

“Se tu ti mettessi a intervistare le persone del mio Paese, ricevendone risposte sincere, scopriresti che ancor oggi, moltissimi, anche giovani, asseriscono di aver visto camminare gli alberi. Questo perché …  molto tempo fa, quando il deserto e la sua aridità stavano, pian piano, sostituendosi alla terra fertile e ricca di vegetazione e l’erba e gli alberi cominciavano a diradarsi in modo spaventoso, la gente dei villaggi, anziché prestare attenzione a questo palese cambiamento, continuò imperterrita a consumare acqua e legname come se questi fossero beni inesauribili. Di fronte a quanto accadeva, gli alberi dei diversi generi, tamarindo, mango, anacardi,  karité, per giorni e giorni tennero consiglio sul grave momento e con grande amarezza convennero come gli uomini, per i quali loro facevano tanto, davvero molto poco si preoccupassero di loro. “Chissà perché si comportano così”, s’interrogò l’albero di mango, che poi di seguito, amaramente aggiunse: “Gli umani  continuano a tagliarmi anche se io ho sempre dato loro ombra e buoni frutti”. “Anch’io e i miei fratelli”, lo interruppe il karitè, “diamo all’uomo frutti abbondanti …  e gli regaliamo pure il seme che usano  per estrarre un unguento speciale, che rende le pelli  seccate dal sole morbide e vellutate. L’uomo, però, non ha alcun timore di accendere fuochi sotto i nostri rami e di bruciare le nostre foglie. E tutto questo lo fa, anche se gli indichiamo che sotto, o vicino a noi, c’è acqua buona e abbondante”, concluse con rammarico. “E che cosa dovrei dire io, che con le mie foglie regalo medicine”, si intromise il tamarindo, che, un po’ seccato, aggiunse: “l’uomo mi taglia anche se gli dono, oltre alla salute, semi da condimento e legno duro e resistente. Se le cose continueranno così sparirò in pochi anni”, sentenziò piangendo. L’unico che ascoltò in silenzio i fratelli fu il maestoso baobab, che ben conosceva come la cupidigia e la stupidità dell’uomo sarebbero risultate invincibili ad ogni considerazione, per quanto logica e giusta.

“Proviamo a lamentarci e a farci sentire”, propose il più vecchio degli alberi. La sua proposta venne accettata e così si fece. Il lamento degli alberi fu compreso dagli animali, che dall’universo verde ricevevano rifugio, tane, foglie e frutti da pasto, protezione da tempeste di sabbia e di pioggia. Questi, come potevano, restituirono collaborazione, iniziando a portare in giro i semi per favorirne la propagazione o  a concimarli con i loro bisogni, a  cibarsi con parsimonia di foglie e frutti, a condividere con gli alberi parte del tempo quotidiano. L’uomo, invece, gli abitanti del mondo verde continuò ad usarli e basta. Indignati da questo comportamento, gli alberi di più grande specie  proposero al regno verde di andarsene  lontano dai villaggi degli uomini. “Se non lo facciamo, rischiamo di essere sterminati. Dagli umani ritorneremo solo quando riusciranno ad apprezzare e a comprendere la nostra importanza”, spiegarono. Gli alberi più vecchi e saggi convennero con loro, convinsero i giovani  e persino la verde erba …  e così, notte dopo notte, piano, piano, quasi con vergogna, l’universo verde incominciò ad allontanarsi dai villaggi degli uomini, lasciandoli soleggiati e aridi, privi di frescura e spesso inservibili.

Vedendo quanto per colpa loro la vita della specie umana fosse diventata dura e difficile, gli alberi cercarono ancora una volta di spiegare all’uomo le loro ragioni. Fu tutto inutile, perché mentre loro parlavano gli uomini fingevano di non sentire o si tappavano le orecchie. “Tanto vale cambiare la nostra lingua. Almeno non saremo più umiliati”, decisero un bel giorno gli alberi. E da lì in avanti  gli umani non li compresero più.  Per dare, poi, all’uomo una lezione ancora più severa, decisero che i loro spostamenti sarebbero avvenuti in tutta segretezza, all’improvviso. “L’uomo andrà in difficoltà e finalmente capirà e si  ravvedrà”, spiegò il vecchio e saggio baobab agli arbusti più giovani. Il tempo decretò che si sbagliava. Perché anche se molti videro gli alberi iniziare a muoversi, scalzandosi con le radici  dal terreno mentre i rami dondolavano come braccia e le foglie, seppur senza vento,  avanzare veloci come  fossero percorse da forti folate di brezza, solo pochissimi, per lo più vecchi e bambini, si interessarono allo strano fenomeno. Furono solo tre i villaggi che compresero il cambiamento del clima che stava avvenendo e che decisero di condividere con tutti gli elementi viventi, acqua, animali e piante, fatiche e risorse, facendo in modo che se una pianta moriva se ne piantassero due”.

 

“Dove si trovano i tre villaggi”, ho domandato incuriosito, considerato che il narratore aveva smesso di parlare senza rivelarmelo.

Hasnuu sorridendo mi ha detto:

“Dovresti seguire i karité, i tamarindo e i baobab, che,  narra la leggenda, proprio verso questi tre villaggi si stanno dirigendo”. 

Deluso, ho domandato:

“Che cosa centra questa favola con il nostro giardino e la festa che vorresti organizzare”.

“Se davvero non lo hai capito, mi ha risposto il capo operaio, “serve per dire agli alberi … bentornati; scusarci con loro e festeggiare tutti insieme. Senza il mondo verde la nostra terra, ora per lo più laterite rossastra, è divenuta arida. Con gli alberi, poi, anche l’acqua se n’è andata e la ricchezza di un tempo si è trasformata in povertà”.

 

Pensando all’Africa, dove l’estrazione mineraria a cielo aperto ha creato, in alcune Stati, danni ambientali gravissimi;  dove l’agricoltura di piantagione produce a lungo andare un impoverimento dei terreni in cui si coltivano sempre le stesse piante; dove un rischio per l’ambiente è legato alla desertificazione dei territori ora occupati dalla steppa; dove, ai margini del deserto, le popolazioni, sempre più numerose, cercano di sfruttare al massimo il territorio per cercare di sopravvivere,  ampliando i campi ai danni dell’ultima vegetazione spontanea rimasta, tagliando alberi e arbusti per ottenere legna da ardere, l’erba dei pascoli per aumentare i capi di bestiame;  dove, paradossalmente, nonostante il continente sia il primo produttore mondiale di almeno 7 delle 18 materie prime principali,  oltre 14 milioni di persone sono a rischio carestia; dove la speranza di vita alla nascita, a causa dall’alto tasso di mortalità infantile, della grande diffusione delle malattie infettive, della carenza di medici e strutture sanitarie, della precarietà delle condizioni igieniche, dell’utilizzo di acque infette, della malnutrizione e sottoalimentazione è, in media, di 52 anni per gli uomini e di 55 per le donne, in Angola e Niger anche meno di 45, non me la sono sentita di negare al mio amico e interlocutore la festa,  che dopo le sue spiegazioni e considerazioni mi appariva anche come una straordinaria opportunità per aiutare a far capire e a cambiare … per crescere.

 

Quando Hasnuu, ottenuto il mio “va bene”, con evidente  commozione mi detto grazie, io pensavo alla straordinaria possibilità che mi era capitata per poter apprezzare il folclore locale.

Non immaginavo assolutamente che da quella festa, rivelatasi ricca di fascino e di mistero, avrei ricavato una lezione ambientale, che non avrei più dimenticato.

A darmela, seppure indirettamente, è stata la moglie di Hasnuu, che durante la festa degli alberi, nei pressi della zona orto, mentre straordinarie maschere allietavano i molti intervenuti, mi ha messo tra le mani uno sgualcito pezzo di giornale, dove ho letto:

 

La mia patria, il mio Burkina Faso, senza dubbio ha il diritto di definirsi un concentrato di calamità naturali. Otto milioni di burkinabé hanno interiorizzato questa realtà in 23 terribili anni. Hanno visto morire le madri, i padri, i figli e le figlie, decimati da fame, carestia, malattie e ignoranza. Hanno guardato prosciugarsi stagni e fiumi. Dal 1973 hanno visto il loro ambiente deteriorarsi, gli alberi morire e il deserto invaderli a passi da gigante, sette chilometri all’anno. Solo questa realtà permette di comprendere la genesi della legittima rivolta che, maturata per lunghi anni, è finalmente esplosa in forma organizzata nella notte del 4 agosto 1983, sotto forma di rivoluzione democratica e popolare del Burkina Faso Qui non sono altro che l’umile portavoce di un popolo che rifiuta di guardarsi morire per aver assistito passivamente alla morte del proprio ambiente naturale. Dal 4 agosto 1983, l’acqua, gli alberi e la vita dell’ambiente sono ritenuti fondamentali e sacri in tutte le azioni del Consiglio nazionale della rivoluzione che guida il Burkina Faso. Da circa tre anni il popolo del mio paese combatte la sua guerra contro la desertificazione. Da circa tre anni in Burkina Faso ogni avvenimento felice viene celebrato piantando alberi. Nell’anno scolastico 1986 tutti gli studenti della nostra capitale, Ouagadougou, hanno costruito con le proprie mani più di 3.500 stufe migliorate (a basso consumo) per le proprie madri, che si vanno ad aggiungere alle circa 80.000 costruite dalle stesse donne negli ultimi due anni. Questo è il loro contributo allo sforzo nazionale di ridurre il consumo di legna da ardere e proteggere gli alberi e la vita. Il diritto di acquistare o prendere in affitto uno delle centinaia di alloggi pubblici costruiti dopo il 4 agosto 1983 è strettamente condizionato dall’impegno dei beneficiari di piantare un numero minimo di alberi e curarli come la pupilla dei propri occhi. Dopo aver realizzato più di 150 perforazioni di pozzi che garantiscono l’approvvigionamento di acqua potabile alla ventina di settori della nostra capitale fin qui privati di questo bisogno essenziale; dopo aver portato in due anni il tasso di alfabetizzazione dal 12 per cento al 22 per cento, il popolo burkinabé continua la sua lotta per un Burkina verde. In 15 mesi sono stati piantati 10 milioni di alberi nel quadro del Programma popolare di sviluppo. Nei villaggi situati lungo le valli dei fiumi ogni famiglia deve piantare e curare 100 alberi l’anno. Il taglio e la vendita della legna da ardere sono stati completamente riorganizzati e regolamentati con severità. Tra queste regole c’è l’obbligo di avere un patentino per fare il commerciante di legname, di rispettare le zone designate per il taglio del legno, fino all’obbligo di assicurare il rimboschimento delle aree disboscate. Ogni città e villaggio del Burkina hanno oggi un bosco avendo ripristinato così una tradizione antica. Tutti i criminali atti di piromania che distruggono le foreste sono giudicati e sanzionati dai tribunali popolari di conciliazione di ogni villaggio. Una delle punizioni previste da tali tribunali è l’obbligo di piantare e curare un certo numero di alberi. Dal 15 gennaio è in corso un’ampia operazione chiamata «Promozione popolare dei vivai», per creare 7.000 vivai di villaggio. Riassumiamo queste tre azioni sotto il vessillo delle «tre lotte». Vorrei farvi partecipi della nascita e dello sviluppo di un amore profondo e sincero tra i burkinabé e gli alberi nella mia patria. Ci sembra in tal modo di applicare i nostri concetti teorici agli specifici modi e mezzi della realtà saheliana, nella ricerca di soluzioni ai pericoli presenti e futuri che aggrediscono gli alberi in tutto il mondo. Vogliamo affermare che la lotta contro l’avanzata del deserto è una lotta per la ricerca di un equilibrio fra esseri umani, natura e società. Sono venuto qui per denunciare quegli uomini che con il loro egoismo sono la causa della sfortuna del prossimo. Il colonialismo ha saccheggiato le nostre foreste senza nemmeno lontanamente pensare a lasciarle o a ripristinarle per il nostro domani. Continua impunita nel mondo la distruzione della biosfera con attacchi selvaggi e assassini alla terra e all’aria. E non lo diremo mai abbastanza fino a che punto spargano morte tutti questi veicoli che vomitano fumi. Chi ha i mezzi tecnologici per trovare i colpevoli non ha interesse a farlo, e chi ha quest’interesse manca dei necessari mezzi tecnologici. La creazione in Burkina di un Ministero dell’acqua è segno della nostra volontà di porre chiaramente sul tavolo i problemi, per trovarne soluzioni. Dobbiamo lottare per trovare i mezzi finanziari necessari ad utilizzare le risorse idriche esistenti, per costruire pozzi, serbatoi e dighe. Noi denunciamo gli accordi unilaterali e le condizioni draconiane posti dalle banche e da altre istituzioni finanziarie che ci impediscono di realizzare molti nostri progetti.

Sono condizioni proibitive che provocano un indebitamento traumatico dei nostri paesi privandoci della necessaria libertà di azione. Il Burkina ha proposto e continua a proporre che almeno l’1% delle somme colossali destinate alla ricerca di forme di vita su altri pianeti sia destinato a finanziare la lotta per salvare gli alberi e la vita. Non abbandoniamo la speranza che il dialogo con i «marziani» possa farci riconquistare l’Eden; ma riteniamo nel frattempo, come abitanti della terra, di avere il diritto di rifiutare un’alternativa limitata alla sola scelta fra inferno e purgatorio. Così formulata, la nostra lotta in difesa degli alberi e delle foreste è in primo luogo una lotta popolare e democratica. Una quantità di forum ed istituzioni non rinverdiranno il Sahel, se non abbiamo fondi per scavare pozzi di acqua potabile profondi cento metri, mentre c’è tutto il denaro necessario a scavare pozzi di petrolio profondi 3.000 metri! Crediamo nel potere della rivoluzione per bloccare la morte del Burkina Faso e per aprirgli un nuovo luminoso futuro*.

 

“C’è sempre molto da capire e da scoprire nella vita”, mi sono detto, mentre restituivo, a chi me l’aveva dato, il foglio di giornale. 

Poi,  calando quanto avevo letto nella società dalla quale provenivo, ho pensato:

“E’ proprio vero che non esiste peggior sordo di chi non vuol sentire”. 

 

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* discorso pronunciato a Parigi il 5 febbraio 1986 dal capitano Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, per la Prima conferenza internazionale sull’albero e la foresta.”.



DA “APPUNTI”

 

Ode a una cipolla

 

Mi ricordi la vita,

con il suo gusto forte

e qualche lacrima.


 

Da “IL VOLO DELL’AQUILONE”

UN ASSAGGIO D’EUROPA

 

Confine tra Turchia e Grecia, 16 agosto 2008

 

Dopo aver lasciato a due trasportatori buona parte del denaro che, aiutata Fatima, ancora mi era rimasto, assieme  a dei curdi, afghani, tamil, iraniani e altri ancora, sono arrivato, in piena notte, sul fiume Evros, il  rivo d’acqua, quasi secco per molti mesi dell’anno, che segna il confine tra la Turchia e la Grecia.

Dalla felicità di molti, mi sono reso conto di come il fiume rappresenti, per i disperati come me, una sorta di approdo finale:

la vera frontiera tra la paura e la serenità, l’annientamento personale e il ritorno alla vita, la miseria e la ricchezza, la disperazione e la gioia. 

Quando l’ho attraversato il cuore mi batteva forte nel petto.

Toccato il suolo dell’agognata Europa, come concordato in Turchia con i trasportatori, mi sono messo subito alla ricerca del segnale che doveva indicarmi il punto da dove sarebbe ripartito il mio viaggio:

un drappo rosso appeso ad un ramo.

Mentre, con fare concitato, ero impegnato nella ricerca del drappo e, nel contempo, intento ad evitare possibili zone minate, che i racconti dei trasportatori sostenevano esserci, non ho potuto fare a meno di rimanere sorpreso.

Ero convinto che per sfuggire alla polizia greca tutti avremmo fatto in modo di lasciare in fretta il nostro approdo europeo.

Invece, guardandomi intorno, con stupore  ho notato che in tanti, senza timore alcuno, se la prendevano piuttosto comoda, concedendosi il lusso di una sigaretta e di un po’ di riposo.

“Sono curdi. Essendo perseguitati dal Governo di Ankara i greci riservano  loro un trattamento di favore, concedendo il permesso di rimanere”, mi ha spiegato, senza che gliel’avessi chiesto, Hassan, un compagno di viaggio che proveniva da un villaggio della provincia afghana di Zaranj, invitandomi subito dopo a darmi una mossa.

Li ho invidiati molto quei curdi e avrei desiderato tanto potermi mischiare a loro.

Trovato il drappo rosso, sul cassone di un vecchio camion condotto da un incappucciato passatore, così i greci chiamano i trasportatori di polli, sono giunto alla periferia di Kirki, piccolo villaggio distante qualche decina di chilometri dal confine greco-turco.

“Chi ha consegnato il passaporto lo riavrà ad Atene, dopo aver saldato i debiti. Scendete e seguite la ferrovia. Se non vi prendono ci rivediamo a Salonicco” ci ha detto, improvvisamente, dopo aver fermato il camion, l’autista che ci aveva condotto sin lì.

Nessuno ha protestato e in silenzio siamo scesi sulla strada.

La ferrovia era a qualche decina di metri da noi.

Pochi minuti e … facevo parte di un lungo serpentone che camminava fiancheggiando i binari.

A Salonicco non sono mai giunto, perché una retata della polizia greca mi ha condotto, assieme a tutti coloro che seguivano come me la strada ferrata, alla Stazione di Polizia di Alexandroupoli, dove sono rimasto tre giorni.

Non è stato un soggiorno piacevole, ma, tutto sommato, è  andata bene, perché i difficili rapporti tra greci e turchi mi hanno permesso, ancora una volta in piena notte, sotto stretta vigilanza, a bordo di una piccola barca dove eravamo stati sistemati in venti, di ripassare l’Evros e di ritornare in Turchia da uomo libero.

Per farci passare il fiume, i poliziotti greci, dotati di binocolo,  hanno aspettato che dal lato turco non vi fossero controlli.

Nonostante mi sia andata male sono contento, perché ho evitato il rimpatrio in Afghanistan e potrò tentare nuovamente di spiccare il volo.

Tutto questo mi basta.

Con il poco che mi è rimasto raggiungerò Izmir, come intendevano fare gli amici della casa di Istanbul, ai quali, con il senno del poi, forse avrei dovuto aggregarmi e da lì tenterò di rientrare in Grecia via mare.

Non dovrò preoccuparmi dei campi minati e, forse, a Dio piacendo, il risultato finale sarà migliore.


 

Da “IL BOSCO RACCONTA”

 

Le anatre innamorate

 

 

Mentre passeggiavano

sulla riva di un torrente

due anatre tra loro

conversavano allegramente

su chi avrebbe sposato

il dolce e bel germano

che entrambe desideravano

avere per compagno.

 

Diceva una guardando 

La sua figura snella:

“Certamente vorrà me,

ho una linea da modella.”

 

Rispondeva l’altra

Un po’ più rotondetta:

“Io credo voglia me,

nell’insieme son perfetta.”

 

Interrompendole osservò

Un topolino di campagna:

“La bellezza sola non basta

per sceglier la compagna.”


 

Da “TABELLINE IN CANTO”

 

Tabellina del 7

 

7 sono i giorni della settimana

che trascorro assieme al babbo e alla mamma;

14 sono i sogni che a loro ho raccontato,

21 le carezze che mi hanno regalato.

 

RIT. Mondo, mondo stammi ad ascoltare,

regala ad ogni bimbo una famiglia da amare;

regalaci la gioia e tanto, tanto amore

e fa che ogni uomo ti renda un po’ migliore.

 

28 sono i fiori che oggi io ho trovato

recisi e calpestati in un piccolo prato.

35 sono le carte che ho raccolto per la strada,

42 le lattine a cui nessuno bada.

 

RIT. Mondo, mondo stammi ad ascoltare, 

insegna a tutti noi la natura ad amare; 

regalaci il mare pulito, un bosco col verde colore 

e fa che ogni uomo ti renda un po’ migliore. 

 

49 uomini con il fucile in mano

a 56 persone raccontavano piano

che 63 donne avean visto urlare forte: 

«Basta guerre!», per 70 volte. 

 

RIT. Mondo, mondo stammi ad ascoltare,

insegna a tutti noi gli altri a rispettare; 

regalaci la pace e tanto, tanto amore 

e fa che ogni uomo ti renda un po’ migliore.