Attilio Matarazzo - Poesie e Racconti

30 agosto 2020

 

Il mio migliore amico si chiama Mario.

Mario è un tizio che è stato spiaccicato in faccia al muro.

Mario ha tre facce e tre personalità,

di cui una malvagia.

Ho creato io Mario,

affinché lui potesse crearmi a sua volta,

per sentirmi meno solo.

Mario è mio padre.

Mario è il mio assassino.

Mario è il traditore di Abramo.

Scialla, Mario.

Grande e grosso mi osserva col suo occhio deforme.

(Troppa coca)

Non mi lascia mai solo.

Adorato invadente panopticon.

Ho tagliato la testa a Maria la lunga,

solo che è ancora viva…

Avevi ragione tu.

Avevi ragione, mamma,

madre,

ero tuo padre.


 

#laluccicanza

 

Si vede anche al buio,

anche il buio la vede.

Ma non può illudersi di illuminarlo,

può solo abbagliarlo.

E il buio può solo abbaiargli contro,

ma non si può mordere la luce,

è energia nuda, elettrica e incorporea,

e non c’è un interruttore per spegnerla.

Scioglie il dolore, riscalda e protegge,

progetta colore,

ma a volte brucia, fulmina, polverizza.

Sgorga purissima dalla sua fonte,

sgargiante di purezza,

come un fiume d’olio bollente,

come un occhio sulla fronte,

scorrazza, scoraggia,

colpisce e scolpisce,

comprende l’errore ma non fa sconti di pena,

va appresso all’orrore finché non è soppresso,

e fa presto,

pura e sicura,

dura per sempre, dura come un diamante,

é amore é amante,

sembra morta quando tramonta ma poi ritorna sempre,

rimonta, ti smonta,

ha una scorta infinita garantisce,

guarisce ogni sorta di ferita,

cura, oscura, mette in ombra, non finisce mai.


 

Broken windows

 

Non mi fai nessuna paura,

vecchio stivale rotto,

ehm, pardon, finestra.

Appartieni al passato,

avrai qualche cartuccia ancora,

ma è già quasi tutto consumato ormai,

eppure ancora bruciano e bruciano.

Ma io vedo solo una gran malinconia,

la finestra di ieri che affaccia sul nulla,

sul vuoto della zucca,

e se il nulla si affaccia dentro si specchia in se stesso

all’infinito,

e tutto questo sta solo dentro la mia testa

(per fortuna).

Finestre vuote che si aprono dentro altre finestre vuote,

e finestre vuote,

e finestre rotte,

questo quando si dice broken windows.


 

Cara Mirna

 

Cara Mirna, mi manchi tanto.

Tu lo sai,

non ci capisco niente io di queste cose.

Niente amaro, tranquilla,

dolce zuccherina.

Io so solo che sto solo

solo senza sole,

ma non è vero,

perché anche la pioggia fa compagnia,

e parla pure,

ma bisogna avere voglia di ascoltarla,

goccia dopo goccia mi spiega il motivo

per cui si trova qui,

poi mi spiega perché tu sei lì,

ma quando lo fa le gocce sono sempre troppo sottili

e non comprendo la sua lingua.

Non importa,

magari sarà la neve a spiegarmelo,

o forse la nebbia,

oppure si divertiranno a confondermi le idee.

Non importa.

Che botta!

Overdose.


 

Joy division

 

Niente da fare,

il Nessun dorma è più forte di me.

Forse sono io stesso che dormo e me lo sogno,

chi lo sa?

Forse sono io stesso lo sbronzo mai sbronzo

che non dorme mai come Satana.

Probabile.

Idiozie: amici nemici micini cimici comici in cornici

e corna a grappoli,

camici verdi e bacini rotti.

Spappolo acini acidi.

La blatta si sbatte,

vocine vicine,

ma meglio a qualcun altro.

Io ho già i miei cari demoni, lei lo sa?

I miei vicini.

Più vicino, un po’ più di sale questa volta,

meno insipido, mostro del solletico.

Già si vede tale e quale ma poi si vedrà meglio,

al risveglio.

O no.

Un altro sbaglio, amico, continua così.

Radio Tigre a quest’ora denigra e passa la palla allo sponsor,

che poi manco ci paga.

Fottuto Occhio di Lynch, giovane Indaco,

tutto fortuito il fortunello.

Ma va là.

Tenente Flanaghan, Joy Division.


Covid

L’autista stava lavorando, un giorno come un altro. L’autobus era vuoto quando passò per la fermata di Via del Destino. C’era un signore che stava correndo sul posto. Indossava una canotta, dei pantaloncini corti da ciclista, scaldamuscoli ai polpacci e scarpe da tennis. Fece un caldo sorriso all’autista quando salì. Aveva i ricci bianchi e dei piccoli occhiali da vista.
– Buongiorno! Tutto bene? –
La scritta “vietato parlare al conducente” era ancora lì nel vecchio autobus, in bella vista sopra lo specchietto retrovisore. L’uomo anziano era in piedi accanto all’autista.
– Non si siede, signore? –
– No, queste vecchie ossa hanno bisogno di muoversi. Sa, la circolazione. L’età… –
– Eh… –
– Bella giornata oggi, nevvero? –
Era vero, una bella giornata di settembre. Ma sono anche cose che si dicono.
– Sì, non fa più tanto caldo ma ancora si può stare a maniche corte. Lei, signore, è andato a correre? –
– Certo. Lo faccio tutti i giorni, ma oggi ho preferito prendere l’autobus per tornare a casa. Lei si ritiene un uomo felice? –
Vietato parlare al conducente.
– Cosa? –
– Le ho chiesto se è felice. –
– Non lo so. Credo di sì. –

– Non c’è qualcosa che desidera, qualcosa che le manca? Non ha dei rimpianti forse? –
Amore.
– No, signore, tutto sommato posso ritenermi soddisfatto della mia vita. Ho sempre lavorato e sono felicemente sposato. Non posso proprio lamentarmi, specie di questi tempi. –
All’autista piaceva quell’uomo, non riusciva a spiegarsene il motivo. Anche a me, autista, aveva detto Indaco tra una chiacchiera e l’altra.
– Bene, sono arrivato. Vieni con me, Indaco? –
L’autobus si fermò.
– Va bene. –
Disse l’autista senza pensarci due volte. Avrebbe seguito quell’uomo ovunque. Parcheggiò l’autobus e chiuse le porte automatiche. Il vecchio prese un mazzo di chiavi ed aprì la porta di una palazzina anonima. Poi condusse l’autista giù per una rampa di scale, fino a casa sua. Era un piccolo monolocale molto spoglio, un cucinino, un letto, un tavolo con un paio di sedie e una porticina che separava il primo ambiente dal bagno, senza finestra.
– Che sbadato, non mi sono nemmeno presentato! Mi chiamo Covid. –
Tese la mano all’autista, che gliela strinse.
– Covid? Come… –

– Già! Infatti. I miei amici mi prendono sempre in giro per questo. Dicono che sono infetto! Ahahah! Ma prego, si sieda. Le preparo un the? –
– Va bene. –
L’autista si guardò intorno: i muri erano spogli, nemmeno un piccolo quadro. Solo un armadio appoggiato a una parete, accanto al letto. Finì per guardarsi i pollici che si inseguivano l’un l’altro come disperati. Intanto il signor Covid aveva finito di preparare il the. Prese un contagocce in uno scaffale sopra i fornelli e mise l’acido nella tazza dell’autista.
(Brano tratto da “L’autista”, Attilio Matarazzo)


 

 

Il padrone di casa

 

2038. Il padrone di casa era a casa sua. Era molto invecchiato. Viveva da solo, sua moglie era morta di covid 29. Stava guardando la televisione in camera da letto quando sentì qualcosa romperglisi dentro, da qualche parte. La tv si fulminò.

- Dannato affare!  -

Pss.

- Chi c’è?  -

Si guardò intorno, ma non c’era nessuno. Era evidente che qualcosa non quadrava. Andò in soggiorno. Sulla parete di fronte a lui, quella col divano buono, al posto dei soliti quadri erano comparsi tanti piccoli quadratini neri con una faccia all’interno. La faccia non era dipinta, ma in rilievo rispetto allo sfondo. Le piccole orbite vuote lo fissavano, la bocca aperta e inespressiva. Partì la tachicardia. Tum tum tum tum tum tum tum. Pss. Il padrone di casa uscì dalla stanza a passo svelto, il respiro affannato. In fondo al corridoio un uomo completamente nudo con una katana in mano gli stava andando incontro. Il padrone di casa si girò e provò a scappare di nuovo in soggiorno, ma la porta si chiuse da sola con un tonfo. Tutum tutum. Si accasciò, terrorizzato. L’uomo nudo lo aveva ormai raggiunto. Lo guardò. Aveva la testa di una tigre tatuata sul petto, sul braccio destro il davanti di un autobus, sul sinistro un omino della Lego con un grembiule e una leva in mano, quella delle macchinette per preparare i caffè ai bar. Sotto entrambi gli occhi due strisce in diagonale disegnate col carboncino. L’uomo gli parlò, indicandolo con un dito, ma dalla sua bocca non uscì mezzo suono. Il padrone di casa riuscì a leggere dal labiale una o e una e a fine frase, forse.

- Cosa dici? Non ti sento.  -

L’uomo nudo stese la mano a mezz’aria, col palmo rivolto verso l’alto, poi pronunciò un’altra parola muta, con una o e una i. Strinse la katana con entrambe le mani e colpì: quattro dita della mano sinistra del padrone di casa furono tranciate più o meno a metà.

(Brano tratto da “L’autista”, Attilio Matarazzo)


 Maria la lunga

 

Maria la lunga

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 Mario

 

Mario

 

 

 

 

 

 

 

 


 Spirale

 

Spirale