Augusto Gaspari - Poesie e Racconti

FIOCCO

 

 Di Fiocco 

sono rimaste

le macchie sul muro

Lucide immobili foto

di movenze feline

 fissate su  opache meningi

 per trarre ricordi

di presenze smarrite

Ma ogni notte torna 

 soffuso rumore di fusa

conciliante sonnifero d’un sogno sperato.


LA  STRADA

 

D’una corona di legno

porto in tasca 

un Cristo spezzato

silente testimone del mio fare

Cammina con me

 tra trepide dita

incerte sudate

su scelte di vita

muove il suo corpo rotto

mi sostiene

sulla giusta strada. 


GIORNATE VUOTE

 

Trascorrono le ore

con mutamento alterno

 di noia  di cose senza tempo.

 E’ un trascinarsi supino 

su nubi fuggevoli 

spintonate dal vento

 di un cervello bacato.

Cavalloni di pensieri

su mare tempestoso 

di cose non fatte

 che s’addensano e spingono

fino al sonno

Con sogni ricorrenti

anch’essi noiosi

 con un ritorno

nel piatto normale

 dove finisce il giorno 

e tutto rinviene tale e quale.


 

IL MOMENTO

 

Quando verrà

sarai solo

occhio stupito

grido d’aiuto strozzato

gorgogliante ricordi

rimorso di male compiuto

di bene non fatto

sarà tardi 

sarai solo.


 MAMMA

 

 Lo so, te ne andrai in un giorno

caldo d’estate

 su campi d’erba ingiallita

dove il sole scompare

rossastro morente

Rivedrò il tuo viso

gli argentei capelli

ormai radi

il rimpianto di parole taciute

nel fugace saluto d’addio.


 

PENSIERI

 

Dall’umida notte

di pianti sommessi

sale l’armonico canto

di speranze deluse

voci lontane

quali galattici astri 

d’un mondo sognato

perfetto equilibrio 

di magnetiche stelle.


POLITICA ( Partito Democratico )

 

Parole dure

mitragliate da bocche calunniose

su popolo di corpi scheletriti

capo chino da pesi d’incerto futuro

menzogne assorbite con rabbia

masticate tra denti cariati

 tra aride labbra 

screpolate dal freddo tempo difficile

 vane proteste

 urlate su sordi muri

ove ristagna il silenzio

del grido inascoltato.


RICORDO  DI ENRICO  MATTEI

 

Nei visi di pietra

del popolo di Gela

corrono le tue parole

a spianare annose rughe

 di lavoro non trovato

di cibo mancato.

Come una frusta di verità

 il tuo discorso

apre bocche affamate

che ora mangiano speranza 

di vita diversa.

Sul posto di casa

 avranno fatica e dignità.

Tu invece avrai 

compagna la morte

sventura d’invidia 

di gente malvagia 

che preferì ucciderti

 piuttosto che sentirti parlare.


 

FAVOLA PER BAMBINI  DI  VALENTINA GASPARI PELLEI

B I A N C H E T T A 

 

 

 C’era una volta una donna di un falegname, la quale non faceva che piangere perché non aveva figlioli: sarebbe stata felice con una sola bambina, magari  bruttarella, stortina, purché fosse stata una creatura  –  diceva eresie,  povera donna! ! –

Il suo desiderio non la faceva più riflettere se i suoi pensieri fossero giusti e non faceva che piangere, pregare e dire cose senza senso comune.

La sera, quando il marito tornava a casa stanco dal lavoro e affamato, non trovava preparato il desinare; ma doveva sentire i lamenti e gli spropositi di sua moglie. Era buono, poveretto e pazientava scotendo la testa. Era matta, matta da legare quella donna !

– Ebbene sarò matta, ma voglio un bambino fosse di legno .

E tormentava il marito perché le facesse una pupattola. Quasi quasi il pover’uomo ci si era piegato. Era tanto buono.  

– Ma se la pupattola non si fosse mossa, allora !  Meglio una bestiola: un gatto, un canarino, un sorcetto. –

Diceva eresie, povera donna !

Le comari del vicinato la canzonavano e le dicevano sempre sghignazzando:

– Ebbene, niente di nuovo ?-

- Niente di nuovo . –

Erano anni e sempre così.

 

La povera donna aveva dato quasi mezza volta al cervello eppure continuava a pregare tutte le fate, a far voti a tutte le anime,  a recarsi da tutti gli indovini e da tutte le maghe e sperava, sperava sempre e  – magari un sorcetto –

Diceva eresie povera donna.

Una sera il marito era tornato a casa, che aveva trovato vuota col fuoco spento, e aveva atteso parecchio, ma la moglie non veniva.

Di certo quella poveretta s’era finita d’impazzire ed era caduta in qualche precipizio.

.

Povera moglie, povera moglie; – 

e il falegname piangeva. Ma tutto ad un tratto, che è che non è, il brav’uomo sente un gridio fuor dell’uscio, che s’apre con strepito, e vede entrar la moglie, che gli salta al collo, gridando che pareva invasata.

– Maritino mio, maritino mio bello, avremo una figlia, avremo una figlia. –

Al pover’uomo si riempirono gli occhi  di lacrime. Aveva indovinato !  La sua povera donna s’era finita d’impazzire.

, Ma  che pazza, o non pazza. Parlo del migliore senno del mondo. – 

E preso il marito per le mani, cominciò a raccontare che, disperata, era salita alla rocca del mago Merlino, dinanzi al quale s’era messa ginocchioni gridando:

  • Dammi un figlio, dammi un figlio. Magari una sorcetta, magari una sorcetta. –

E il mago alzando una mano, aveva detto:

  • Avrai una figlia. Tra nove mesi avrai una sorcetta. –

La povera donna era corsa a casa felice. Avrebbe avuto alla fine anche lei la sua creatura e le comari sarebbero crepate d’invidia.

Ma il falegname montò in bestia: non ci mancherebbe altro  una sorcetta per figliola. Essere egli il padre di una sorcetta,  che gli avrebbe dato anche la parrucca. Se il mago dicesse il vero sarebbe fuggito di casa. Ma la povera donna piangeva tanto, che egli, per compassione, promise di diventare  ilpadre della bestiola.

Giusto per contentare la moglie ! 

Quella sera cenarono allegri e andarono a dormire.

E la mattina le comari: – Ebbene, niente di nuovo ? –  

  • Si, -rispose la brava donna  e via di corsa.
  • Si ? Oh che c’era di nuovo davvero ? –

E creparono di invidia.

Passarono così nove mesi e una notte la moglie del falegname dette alla luce una bella sorcetta bianca.

  • Le metteremo nome Bianchetta, – disse felice la madre.

Il povero falegname scoteva la testa. Non gli garbava punto di avere per figliola una sorcetta; ma quella bestiola era così carina !  Dopo pochi giorni ci si affezionò anche lui e tornava a casa contento per vedere la sua Bianchetta.

La buona donna era pazza dalla gioia. Ella aveva per la sua sorcetta tutte le premure che si hanno per i bimbi. Aveva comperata una catinetta di bel cristallo per farle il bagno, gli odori più grati e le ciprie più fine per profumarla e una vestinetta di musso così sottile, che sembrava velluto.  Chi sa dove era andata a scovare quelle cose tanto delicate. Era  pazza dalla gioia. Ogni mattina faceva tutte le pulizie alla sua Bianchetta e poi le metteva un bel nastrino profumato al collo. Ogni giorno un nastro nuovo e un colore nuovo.  Non si badava a spese. Non era la loro creatura ? E il mangiare ? Bambini miei, quante leccornie ! Le frutte secche più rare, e i bombons, i marzapane, i canditi, il latte, lo zucchero, il miele. Avreste davvero diviso un pranzetto con la figlia del falegname. E non crediate che mangiasse rozzamente e senza le dovute convenienze. Tavola apparecchiata de’ lini più fini e ricamati: una tavolina alta così, con stoviglie e piattini d’argento. Una tavolina da regina !

Il falegname lavorava e taceva. Era così graziosa la bestiola. Gli montava sulle spalle, sulla testa,  gli entrava nelle tasche del suo giaccone, ed ora gli tirava la salvietta,  ora gli dava un affettuoso morsetto. Le mancava la parola ! 

Le vicine si struggeranno di voglia per sapere cosa era accaduto nella casa del falegname. Se fosse nato un bambino davvero avrebber, per rabbia, magari dato fuoco alla casa. 

Creparono di invidia !

Una di quelle comari poté sapere che la creatura era invece una sorcetta. Ne fecero matte risate: una scusa come avrebbero mandato volentieri un gatto nella casa del falegname. Crepavano di invidia !

Ma si! Tutti gli usci erano sempre chiusi, le finestre poi non si aprivano mai. Solo alla mattina se ne spalancava una, presto, presto e giù…… la brava donna gettava una catinella d’acqua per la finestra e poi, tappete, subito la finestra serrata.

Ora accadde che una mattina passava sotto la finestra il Reuccio col suo seguito……………………….quando d’un tratto la finestra s’aprì e un secchiello d’acqua balzò nella via. Poco mancò che al Reuccio non cadesse tutta l’acqua sul capo ! Cos’era mai ?

Proprio allora Bianchetta, come sempre docile e quieta, aveva fatto un tiepido bagno profumato di cento vaghi odori, qualche goccia di quell’acqua aveva persino bagnato al Reuccio il suo vestito di raso e di gemme!  Figurarsi, bambini! Il Reuccio !

Fu una confusione. I cavalli del seguito si spaventarono e il Reuccio per non cadere, dovette reggersi sul suo cavallo mentre si fermò d’un tratto indignato. Ma fece appena in tempo ad alzar la testa, che già la brava donna aveva richiuso le imposte  gridando:

  • Non è nulla,  l’acqua di mia figlia. –

Acqua di sua figlia ? Quella ! Che mandava un così soave profumo  aveva d’un tratto imbalsamata l’aria tutto intorno di tanti odori gentili? Quella! Che aveva l’essenza di tutti i fiori più odorosi e sembrava avesse sparso per la via rose e viole e candidi mughetti? Chi era la fanciulla che si lavava con un’acqua così profumata? Se era bella quanto era soave il suo profumo non poteva essere che meravigliosa. Certo.  Non poteva essere che una principessa. Il Reuccio era pazzo.  Voleva veder la fanciulla. Voleva veder la reginetta che gli aveva turbato il cuore. Subito. Era il Reuccio, lui!

Ordinò al seguito di fermarsi. Fece cenno a due ufficiali stallieri di avvicinarsi e con un balzo smontò da cavallo. Chiamò due vecchi ciambellani che avevano il petto coperto di medaglie e di decorazioni, e , ordinato a quattro alabardieri  di seguirlo, entrò nella casetta del falegname.

Ma la casetta non era come quella di una principessa. Era la casetta di un falegname, bimbi miei. La scala buia,  aveva qualche gradino rotto e il Reuccio dovette badare di non cadere prima di arrivare all’uscio del falegname.

In quel mentre Bianchetta, già uscita dalle tenere cure della toeletta mattutina, che le faceva la mamma amorosa, tutta lieta e vezzosa, col suo bel nastrino nuovo e profumato al collo, sedeva nella sua seggiolina a far la prima colazione. Cioccolato, burro, latte, marmellate. E quanti teneri panini,  quanti dolci biscotti! Una gioia. Una festa.

Bianchetta godeva di tutto quel ben di Dio e rispondeva,  a suo modo, con dei piccoli gridi, alle tenere premure della madre, che le parlava con l’accento più affettuoso. Tra le sue zampettine  teneva gli inzuppati biscotti, che la brava donna le offriva e li mordeva gustosamente, dando ogni tanto, con la sua linguetta rosata, una leccatina al piattello del latte e del cioccolato. E come stava composta, come attenta ai dolci richiami della madre, che le insegnava premurosamente tutte le garbatezze che deve avere un bimbo buono e ubbidiente. Era un amore !

Il suo babbo, il povero falegname, dall’alba lavorava nel suo bugigattolo con la pialla e la sega e il martello e faceva di tutto perché nulla mancasse  alla casa, alla sua figlioletta. Povero babbo! Era egli che provvedeva e dava tutta quell’abbondanza e quella felicità alla povera casetta! Si poteva essere ingrati e non ubbidienti, non affettuosi ? No, di certo.

Bene! Bene! Due colpi al piccolo battente del povero usciolo fecero balzare la donna e la sorcetta, che si rintanò sotto il cestino de’ biscotti:

il cuore le batteva forte forte con i rossi occhietti larghi e scintillanti, tenendo con una zampetta il ricamato tovagliolo, di sotto il cestino spiava ansiosa, guardando l’uscio della stanzetta.

La mamma non avrebbe aperto, pare!

Che spavento, bambini miei!

  • Chi è? – gridò la brava donna.
  • Il Reuccio, aprite. – Il Reuccio !!

Bianchetta non capiva chi fosse il Reuccio, né che cosa si volesse all’uscio, ma vedeva lo spavento sul viso della mamma, la vedeva confusa e tremante e sentiva il suo cuoricino battere di commozione e di ambascia. Povera mammina! Quasi quasi le veniva di piangere, a lei che non aveva mai pianto, povera topolina!

D’un tratto fu sul collo della sua mamma che con le zampettine abbracciò più che potè, dando con una leccatina, un bacetto al suo occhio sinistro. Bisognava vederla con quel salviettone, che quasi la copriva tutta, con quanta tenerezza, mostrava, nel suo silenzio, il suo amore alla mamma.

  • Il Reuccio. Aprite. –

Era il Reuccio! Bisognava aprire. Cosa mai avrebbe voluto? Come fare? Prima di tutto bisognava nascondere Bianchetta, la sua figliolina! Se fosse venuto per imprigionare lei, povera donna, il Reuccio? Bianchetta non si sarebbe divisa dalla sua mamma. Bisognava allontanarla.

La prese rapida e,  mormorandole dolci parole affettuose, la portò nella sua cameretta, la coricò nel suo lettucciolo, raccomandandole di star buona e silenziosa, richiuse l’uscio ed uscì.

Non ci sarebbe stato pericolo che Bianchetta avesse gridato, o si fosse mossa da dove la sua mamma l’aveva messa. Era ubbidiente!

Giacché aveva il timore e il dolore di avere il Reuccio con le sue guardie all’uscio di casa, almeno, per la sua figlioletta, poteva star tranquilla, povera donna!

E corse ad aprire tremante. Il Reuccio,  coi ciambellani e gli alabardieri entrarono. La povera donna si chinò fino a terra e restò in quell’atto dinanzi al Reuccio, che girava lo sguardo intorno alla stanza. Misera stanza. – E la Principessa? – 

  • Voi avete una figlia, disse serio il Reuccio. Con l’acqua della sua lavanda mi avete bagnato il vestito. –
  • Perdono….- mormorò la povera donna, inginocchiandosi.
  • Dov’è cotesta vostra figliola? Voglio vederla. –

Bimbi miei! Che spavento per la povera madre!

Far vedere la sua Bianchetta, una sorcina. Il Reuccio l’avrebbe presa per una canzonatura e gliel’avrebbe uccisa sotto gli occhi. E lei, la sbadata, l’aveva anche bagnato con l’acqua della sua sorcetta!

  • Ah! Me infelice, me infelice! – diceva in cuor suo la povera donna.

Ma il Reuccio attendeva impaziente e già batteva il piede in terra e stringeva con la mano lo spadino d’oro, che aveva al fianco. Che fare? Bisognava disubbidire e morire, o ….o inventare qualche cosa.

Una bugia, bambini miei, una brutta bugia! Ma per salvare la propria creatura, povera mamma!

  • Maestà – balbettò tremante la donna – la mia figliola non può vedere raggio di luce. Ella vive nelle tenebre. Se un bagliore qualunque illuminasse la sua candida fronte, ella si scioglierebbe come neve al sole e morrebbe.! –
  • Morrebbe…? – mormorò il Reuccio – No, che non l’avrebbe voluta far morire la sua bella principessa. No. –

Aveva cuore, bambini, il Reuccio. Un gran cuore. – Vuol dire che se non l’avesse potuta vedere, avrebbe parlato con lei, sarebbe venuto a trovarla di notte e l’avrebbe condotta con sé. Per sempre con sé. –

Era stato peggio così! Ora il Reuccio sarebbe venuto di notte con i paggi e le guardie e avrebbe voluto la fanciulla. La povera madre avrebbe dovuto consegnargli la sua sorcetta! Povera Bianchetta! Povera Bianchetta!

Ma il Reuccio ordinava! Era il Reuccio! La povera donna non ebbe fiato per replicare. Però il cuore, il cuore come gridava e piangeva!

Il Reuccio disse che sarebbe tornato la sera ed uscì. Tutto il seguito gli fu appresso. La via, ancora tutta profumata, risonò del calpestio di cavalli. Poi tutto fu silenzio.

Allora la donna s’alzò e, portando le mani ai capelli, andò a gettarsi sul letticciolo della sua Bianchetta e dette in un dirotto pianto.

  • Ah la mia creatura, la mia creatura!!- ripeteva tra i singhiozzi – la mia Bianchetta, il mio tesoro.-

Povera bestiolina, quanto soffrire! Vedeva la sua mamma così disperata, forse capiva la ragione del suo dolore e non poteva consolarla. Pure cercò in ogni modo di calmarla. Le saltò al collo, le dette tanti morsetti gentili sulle guance e sulle labbra, le sfiorò con la linguina le mani, corse e ricorse dalle braccia  alla bocca della donna, si drizzò sulle sue zampette amorosamente, fece anche tre o quattro capriole sul letto. Tutto inutile. La mamma singhiozzava sempre!

Che dire a quel pover’uomo del marito, che tornava a casa per desinare e doveva apprendere quella brutta notizia? Che dirgli, a lui che adorava la sua Bianchetta e tante volte aveva detto alla moglie: – Bada! –  E lei giù….sempre quella benedetta acqua per la finestra. – Ma le vicine sentiran quel profumo e creperan di rabbia.- Lo faceva per le vicine! E adesso? E piangeva. Piangeva come una vite tagliata, povera donna!

La sorcetta non sapeva più cosa fare. Il fuoco restò spento. Suonò il mezzodì e il falegname tornò alla sua casetta.

  • E il pranzo? Neppure la tovaglia sulla tavola? Ma chi avrebbe mangiato con quella nuova ricevuta? 

Ah, la nostra Bianchetta! Ah, la nostra sorcina! E di loro cosa sarebbe stato? Di certo il Reuccio avrebbe fatto loro mozzare il capo. Dargli un topo invece di una fanciulla! E si strappava i capelli ……povero falegname, povero babbo!

Era un vero pianto. Le pietre si sarebbero intenerite alle lacrime di quei due genitori.

Bianchetta sentiva scoppiare il suo cuoricino. Avrebbe voluto fare, avrebbe voluto dire…dire.. sì dire! Che è che non è …..le sembra come di poter parlare. Apre la boccuccia e….

– Babbo, mamma ….- ripete teneramente.

- Oh Dio, ed ora? – Il falegname e la moglie si guardano come trasognati. La loro sorcetta parla, la loro Bianchetta  li chiama….li chiama co’ dolci nomi di babbo e mamma. Ed ora che parla la loro figliolina, la devon dare al Reuccio! Ora davvero che c’è da disperarsi.

- Mi farò ammazzare – grida il falegname, – mi farò tagliare a pezzi piuttosto di dar via la mia creatura!…-

- No – ripete la donna. – Io piuttosto mi farò tagliar la testa, ma confesserò tutto al Reuccio. –

E si abbracciano e confondono le loro lacrime!

Questa volta davvero, bambini miei, s’accertò che anche la sorcetta piangeva! 

Ma non c’era tempo da perdere. La sera stava per venire. Era il Reuccio, non si scherzava.

Bianchetta si mise in mezzo ai suoi genitori e con la vocina più dolce disse loro:

- Sentite…Qualche buona fata, mi ha fatto parlare, perché ha avuto compassione del mio dolore. Son certa che non m’abbandonerà. Datemi al Reuccio e vedrete che non accadranno disgrazie. –

I genitori la guardarono stupefatti. Ma era la loro figlioletta che li persuadeva e li pregava. Bisognava ascoltarla.

Le fecero ancora una gran pulizia, la profumarono con gli odori più raffinati, le dettero un monte di dolciumi e attesero la sera. Ogni tanto le davano un tenero bacio e sospiravano, poveri genitori! Tra poco sarebbero restati soli e disperati…..Che strazio, bambini miei!

Non voglio nemmeno raccontarvi la scena del distacco per non rattristarvi! Beati i bimbi, che non debbano mai dividersi dai loro genitori!

Venne la notte,  per ordine del Reuccio furono spenti tutti i lumi della via e delle case. Ecco tutto il seguito del Reuccio. Ecco la sua dorata carrozza, tirata da dodici cavalli dai magnifici pennacchi. Ecco il Reuccio vestito in gran gala. Che abito, fanciulli miei. Le fate non avrebber potuto farne uno migliore. Sfido! Era per andare a incontrare la sua principessa! Potevan risparmiarsi le sete, i velluti, le gemme, le piume?

Due staffieri aprono lo sportello della carrozza. Il Reuccio con un balzo è già arrivato in fondo alla buia scaletta.

 L’usciolo s’apre e la donna tremante mormora:

- Maestà, ecco la mia figliola. –

- Dov’è – sussurra il Reuccio, tendendo le braccia e cercando a tastoni la fanciulla.

- Sono in fondo alla scala. – risponde una gaia vocetta.

- In fondo alla scala? –  E via a precipizio con tutto il seguito allora.

- Son per la strada.. –

Il Reuccio cerca la fanciulla per aiutarla a salire nel cocchio.

- Sono in carrozza.- ripete quella vocina. Via in carrozza dunque. E tende le braccia, cerca sui sedili, tasta qua e là.

- Sono in serpa col postiglione. –

- Col postiglione? In serpa? – E il Reuccio sporge le braccia fuor della carrozza.

- Sono nella coda di un cavallo.  Sono sul predellino. Sono sul timone. Sono sulla sella dell’ultima pariglia. –

- Ma cos’era? Come faceva quella fanciulla ! Chi era? –

 Il Reuccio sembrava pazzo. La carrozza correva. Il seguito trottava dietro il cocchio e intanto i  poveri genitori di Bianchetta avevano sprangato l’uscio e s’eran gettati a piangere sul letto.

Al palazzo reale eran tutti in attesa, ma tutti al buio. Sfido! La Principessa non poteva vedere un raggio di luce!  Ecco son tutti in moto. Si sente il rumore della carrozza e dei cavalli. Si schieran le guardie, squillan le trombe, si pongono in fila fanti e scudieri. Ecco il cocchio, ecco  la principessa!

Il Reuccio smonta agitato, ma fa appena in tempo a cercar la fanciulla,  che la solita voce impertinente:

- Son daccapo allo scalone, sono nella galleria degli arazzi, son nella sala delle statue, sono nel salone del trono, sono nel colonnato degli ambasciatori. –

E via, via di fuga il Reuccio con tutto il  suo seguito, via affannati, come tanti pazzi dietro alla svelta Bianchetta, che corre corre…. Chi poteva arrivare una sorcetta?

- Son nella camera reale. –

- Ah, alla fine! – mormora il Reuccio. – Potrò finalmente abbracciarla, da qui non fuggirà. –

Ed entra a precipizio e richiude l’uscio. Di fuori restan le guardie e i cavalieri.

- Da qui non fuggirà, – aveva detto il Reuccio.

 Ma sì, bimbi miei! Era una sorcetta! Come raggiungerla, prenderla, trovarla? Non era possibile! Che scena!

- Sono sul cornicione. Sono sul baldacchino. Sono sulla corona reale, sono sotto il letto, sono sopra lo stipo. –

 Il povero Reuccio correva, volava, s’arrampicava dove sentiva la voce, era ormai mezzo morto. Sudato, trafelato, con gli abiti tutti impolverati, i capelli scomposti, non ne poteva più!

Era quasi trascorsa la notte e non aveva potuto toccare una mano della fanciulla. Stava quasi per far venire torce e lumiere. Ma se poi avesse ucciso la bella fanciulla? Sentì il bisogno di riposarsi e si sdraiò su un ricco sofà. La stanchezza lo vinse e s’addormentò. Anche le guardie dormivano. Tutto il castello era in sonno.

Allora la povera Bianchetta si fermò e pensò ai cari suoi. Aveva detto ai suoi genitori che stessero tranquilli, ma quando fosse venuto il giorno cosa sarebbe stato di lei? Di certo l’avrebbero uccisa e, accorti dell’inganno, avrebbero ucciso anche il suo babbo e la sua mamma. Era meglio morire.

Dalla tasca dell’abito del povero Reuccio addormentato usciva un piccolo mazzetto di minuscole chiavi dorate. Eran le chiavi del castello, con quelle sarebbe potuta fuggire.

Scese leggermente, coi suoi dentini afferrò il mazzetto, aprì l’uscio e fuggì. Ma avrebbe forse incontrato qualche gatto reale,  che le avesse fatto la festa ? Che paura, figlioli? Infine però non doveva morire? Morire sì, ma tra gli acuti denti d’un gatto! No, no, mammina mia, proteggimi! E via di fuga, tra le guardie addormentate, via di fuga fino al giardino.

Proprio in mezzo al giardino c’era un pozzo. Sembrava che l’aspettasse.

Bianchetta mandò un ultimo addio al suo babbo e alla sua mamma e, senza dir più una parola, senza neppur lasciare il mazzetto delle piccole  chiavi d’oro, spiccò un balzo e giù….. Era disperata, povera Bianchetta! Sarebbe morta alla fine. 

Ma giunta in fondo al pozzo lo trovò asciutto e il tonfo che fece con le sue chiavi risuonò in tutta la profonda cisterna! Che tonfo! Eppure era così leggerina lei e così poca cosa! Bisognava proprio che quel pozzo non fosse un pozzo comune! Sfido, era fatato!

Era fatato e in fondo ad esso eran tre fate: una cieca, una zoppa, una gobba!

Al tonfo che fece Bianchetta , le fate saltarono in piedi tutte e tre ad un tempo. Quando si misero a sedere la cieca vedeva , la zoppa s’era raddrizzata, la gobba era divenuta dritta come un fuso! Un vero prodigio, del quale, era stata la causa la povera sorcetta! Che fare dunque per lei? 

Le tre fate le furono intorno, la coprirono di carezze e di baci:

- Che vuoi? – le domandarono.

Bianchetta raccontò la sua storia e piangeva.

- Non piangere – le dissero – t’aspetteranno. – Quella stessa fata che ti dette la parola è quella che ti manda a noi, perché facciamo la tua felicità. Tu sei stata una brava figliola, amorosa co’ tuoi genitori e hai reso a noi un gran servigio. Ti faremo del bene. –

-Io, disse la prima fata, ti farò creatura umana. –

- io, continuò la seconda, ti farò la più bella fanciulla del mondo.-

- Io, disse la terza, ti darò la più bella camicia, che mai sposa abbia avuto. La camicia della felicità. –

Così dicendo alzarono la loro bacchetta e, in un istante, si trovarono tutti nella camera reale.

Il Reuccio dormiva ancora. Le tre fate distesero la bella fanciulla nel letto del Reuccio, la copriron co’ lini della felicità  e poi, baciatela in fronte, scomparvero. A quel bacio Bianchetta s’addormentò.

Di lì a poco sorse il giorno e il Reuccio si destò. Si rammentò della fanciulla che non aveva potuto baciare, sorse d’un tratto, la cercò. E la vide bella dormente nel suo letto. La luce del giorno non l’aveva uccisa. Bella! Com’era bella ed egli c m’era felice.

Corse dai suoi genitori e con loro e le dame più giovani e belle  andò incontro alla sua sposa, che s’era destata sorridente e felice.

Bisognava far subito le nozze, le feste, i tornei. Cento araldi sarebbero partiti a gridare pel mondo che il Reuccio aveva trovato la sua principessa, che il Reuccio era sposo.

E bisognava anche avvertire i genitori della sposa! Povero falegname! In quale ansia era stato quella notte con la sua compagna, bambini miei. Quante lacrime!

E come egli e la sua moglie rimaser sorpresi e paurosi quando si videro comparire due arcieri del Reuccio, che li chiamava al palazzo reale. Di certo era per far loro mozzare il capo!

- No, non sarebbero andati. Meglio farsi uccidere in casa. –

Avevan la cattiva coscienza, bambini, avevano ingannato il Reuccio!

Ma che coscienza, che inganno, che uccidere. Si volevano al castello reale per le nozze del Reuccio con la principessa loro figliola……

- C’era da ammattire! La loro figliola principessa. Una sorcetta?

Si trasportarono quasi a forza, sbalorditi e mezzo morti. E qual fu la loro sorpresa, la loro dolce meraviglia nel veder, su in alto,  in cima allo scalone reale, una fanciulla bella come una fata che li chiamava: Babbo e Mamma!

- Quella, la loro Bianchetta? No, che era una bianca topolina.- 

Le guardie li spingevano su per lo scalone ed essi guardavano trasognati.

  – Son io, – mormorò  a loro Bianchetta, – poi vi conterò. Ora sono la Principessa Bianca, la sposa del Reuccio. –

Il falegname e la moglie rimaser di stucco. Miraron la fanciulla, la strinsero al cuore, piansero d’allegrezza.

Poi furono vestiti anche loro con abiti principeschi. E il falegname, pover’uomo, rideva, rideva. Lui Principe. Ma le fate, le buone fate, così avevan voluto.

Furon fatte le nozze, le feste, i tornei e la principessa Bianca, a ricordo della sua prima origine, volle che nessun topo fosse ucciso nel suo regno.

E sapete come fece, bambini miei?

Fece esiliare in un’isola tutti i gatti e mai più neppur oggi, in quel regno, se ne troverebbe un solo, neppure a pagarlo con tanto oro sonante.

 

FATTO E SCRITTO DI PUGNO,  IL 26 AGOSTO 1921,  DA MIA ZIA VALENTINA E DA ME TRASCITTO AL COMPUTER. 


 RACCONTO FELINO 

 

Sono disubbidienti i gatti di casa mia. Gentili solo per mangiare. Neanche strani, comuni come nei nomi:  Fiocco – Silvestro –Macchia – Mimma – ma ce n’è qualche strambo, dovuto a mia moglie, Limpiao – Veneranda – Tegone – Tinta ed altri che non rammento ma le facce invece sono foto infisse nel cervello.

Mia moglie ci parla e quei sornioni sembrano ascoltare: fanno finta. A loro basta strusciarsi di fianco, sulle gambe, un miagolio sommesso, un ronfare più mirato per avere la sedia migliore, il caldo cuscino, il salto sul letto. Gatti comodi, pigri, ne abbiamo avuti sino a 14 . Alcuni proprio strafottenti, quasi fossero loro i padroni, ma forse è proprio così: noi schiavi e i gatti liberi di svegliarti al mattino presto, quando il dormire è più dolce, con sogni piacevoli. 

Durante il giorno qualche moina per avere il cambio dell’acqua, il tegamello pieno di cibo, alcuni vogliono il latte, fresco, possibilmente intero, non scremato, poi si scelgono il posto dove dormire, prima però vanno al cesso. Davanti casa c’è un bel giardino, con diversi spazi di erba che masticano per disintossicarsi e vomitare. Ma non ci cacano né pisciano. Ho dovuto prendere un contenitore di plastica, piatto, liscio, con le sponde basse e l’ho riempito di breccette, lì ci fanno i bisogni. Così sono loro servoper tenerlo pulito: non vanno in giardino ma sul contenitore e lo vogliono sempre in ordine, se c’è traccia di qualche porcheria, si mettono seduti,  lì davanti e aspettano sin quando non vai a pulire.

Ma quando sei stufo, quasi nervoso, si mettono a fare i graziosi con caprioline e inarcamenti di schiena. Fanno tenerezza e tu, servo loro, li perdoni e sorridi della tua debolezza.

Al ritorno  dalla spesa ti controllano. Vengono a schiera per vedere cosa hai comprato, Intanto che cammini con le sporte ti stanno intorno miagolando, strusciando, ansiosi di un assaggio. Allora tu li accontenti,  non metti a posto la spesa ma prendi qualcosa da dare ai gatti perché ti hanno convinto: sono cari nell’attesa, inarcano la schiena, piccole corse sbilenche, gambe dritte non flesse, con capriole e mille movenze feline che  ti inducono ad accontentarli  con bocconi di assaggio. Alcuni sono svelti, hanno già mangiato mentre altri che paiono svogliati vanno a rilento,  quasi a farti capire che tu sei più importante del pasto. Ma come giri la testa  ti fregano rubando il pezzo che dovevi mettere in frigo. E’ inutile minacciare, correre dietro al ladro. Il loro è un lavoro di squadra, ti battono sempre. Alla fine del giorno trovi il letto occupato. Ti fai posto, ma non se ne vanno, cambiano posizione e come ti sei aggiustato tornano vicini, facendo le fusa, e si mettono tra le gambe  o di fianco alla schiena, stai scomodo , prendi sonno tra un ronfare sommesso e dormi contento.