Barbara Arioli - Poesie

UN NUOVO GIORNO

 

Piove.

Gocce amare scendono da un cielo plumbeo

fondendosi in un inestricabile intreccio

con le lacrime che solcano il mio viso.

Lo scricchiolio dei miei passi sulla ghiaia

rompe il silenzio di questa notte sempre troppo nera.

Nessuna stella,

nessuna luna,

nessuna luce.

L’attesa spasmodica di una nuova alba

mi blocca il respiro,

mi soffoca e mi confonde.

Mi sento in un labirinto,

un dedalo infinito in cui sono

sola e inerme.

Ma il destino mi attende

ineluttabile e severo,

imperscrutabile e folle.

Ed io devo essere pronta.



SENZA VOCE

 

Urla la vita, tu che puoi.

Tu che hai ancora voce.

Tu che riesci ancora a ridere.

Tu che hai negli occhi la gioia della gioventù.

Urla la vita.

Grida finché puoi.

Perché tutti ti possano sentire,

perché tutti possano voltarsi a vedere,

perché il mondo possa scuotersi

in una danza eterna.

Arrabbiati, esaltati, sprigiona il tuo io.

Abbraccia, sogna, ama.

Lotta, piangi, fremi di passioni e desideri.

Affinché la tua vita sia piena,

affinché i tuoi sogni si avverino,

affinché la tua voce sia ascoltata.

Urla la vita, tu che puoi.



OSCURITA’

 

Se ci fosse il sole, oggi, forse, sarebbe diverso.

Il sole,

coi suoi raggi incandescenti,

il suo calore appagante,

immenso ed immaginifico.

Se ci fosse la neve, oggi, forse, sarebbe diverso.

La neve,

con la sua profonda soffice chioma,

il suo segreto tepore,

accecante e lucente.

Persino se ci fosse la pioggia, oggi, forse, sarebbe diverso.

La pioggia,

con il suo inconfondibile acre profumo,

i suoi benefici influssi,

tranquilla e rilassante.

Se così fosse, forse, tutto, oggi sarebbe diverso.

Forse riuscirebbe a scomparire.

Quella malefica oscura nebbia che mi opprime e confonde.

Che mi impedisce di vedere ed essere vista.

Che mi soffoca e mi divora.



CAMPAGNA 2.0

 

Granturco che nasconde l’orizzonte,

risaie che rispecchiano i colori del cielo,

profumo di erba tagliata e fieno.

Cascinali diroccati ma resistenti,

mandrie lente,

trattori temerari,

contadini coraggiosi.

È l’alba nella campagna lombarda.

La luce fioca del sole illumina il naviglio,

che corre piano,

imperterrito ed immutato.

Una donna passa con la testa china,

le buste di plastica piene di erbe appena raccolte,

mentre con la corona del rosario

prega, affinché quello appena nato sia un giorno buono ed utile.

Il mandriano è già al lavoro,

mani screpolate,

sudore sulla fronte

e quella stanchezza che non va mai via.

Ed è campagna, ancora una volta.

Anche se siamo nell’era dei computer,

anche se si parla solo inglese,

anche se la realtà virtuale sembra più vera della vita.

E mentre osservo, comprendo.

Il mondo non finirà domani.

Domani è troppo presto.



INSONNIA

 

La luce argentea della luna

buca le persiane appena socchiuse.

Sul letto disfatto

briciole di pane e fogli di giornale

a mitigare la noia di una notte troppo lunga.

L’orologio scandisce il tempo,

acerrimo nemico,

in un ritmo lento ma inesorabile.

Sono lì,

appoggiata ad un cuscino madido

di sudore e lacrime,

a guardare una parete nera e spoglia,

cercando di non pensare

alla vita,

al futuro,

a domani.

Cercando di non pensare

e basta.

Insonnia.



FABBRICA

 

Odore di gomma bruciata e ferro incandescente,

fra rumori di macchinari e

fumo di ciminiere.

Si intravedono lì le loro ombre,

sparse in capannoni freddi e grigi di

un inverno padano rigido e severo.

Hanno mani ruvide e callose,

passi stanchi ma decisi,

sguardi intelligenti ma lontani.

Portano uniformi uguali, lise e stinte,

divise che li uniscono al loro destino ma

che nascondono animi completamente diversi.

Li vedi così,

presi dal loro lavoro,

riposare solo per pochi minuti davanti

ad un caffè caldo,

a parlare di mondi lontani,

di sogni, di famiglia,

coscienti che la loro vita migliore è altrove.

Al di fuori di questa benedetta e maledetta officina,

avara di soddisfazioni e gonfia di amarezza.

Operai.



UNA GIORNATA PERFETTA

 

Nulla in questa giornata limpida

mi sembra impossibile.

Le fronde degli alberi dondolano dolcemente

al passare del caldo vento primaverile,

muovendo all’unisono le foglie

in una danza eterna.

Nel cielo terso,

stormi di uccelli si librano nell’aria,

fischiettando incomprensibili melodie

e volando verso mondi lontani.

Le donne chiacchierano tra loro

da adiacenti balconi,

i bambini giocano e si rincorrono per la strada,

i cani abbaiano,

gli anziani leggono il giornale riposando

le loro stanche membra su antiche panchine di legno.

Il mio cuore è gonfio di malinconia,

il mio animo obnubilato da pensieri troppo ingombranti.

Ma al rintocco della campana della chiesa grande

i miei occhi si illuminano ed il mio volto

finalmente sorride.

È tutto incredibilmente perfetto.



INQUIETUDINE

 

Fa freddo oggi sulla spiaggia.

Il mare è agitato,

onde profonde si infrangono sulla riva.

L’acqua ghiacciata rispecchia il cinereo

colore del cielo

mentre nubi minacciose

rendono indefinito l’orizzonte.

I miei piedi scalzi proseguono il cammino,

incuranti della sabbia umida che,

come carta vetrata,

gratta la mia pelle.

Ho gli occhi velati,

una patina spessa sugli occhiali,

i capelli annodati al vento,

le mani screpolate,

la schiena piegata da un’atavica stanchezza.

Ma vado avanti.

Un giorno, lo so,

sarà ancora caldo,

sarà ancora luce,

sarà ancora sole.



TI RICORDO NELLE CIABATTE (in ricordo di mia madre)

 

Ti ricordo nelle ciabatte,

quelle vecchie,

quelle bucate,

quelle che non volevi buttare.

Ti ricordo nei panni stesi ad asciugare,

quelli bianchi,

quelli freschi

quelli profumati di pulito.

Ti ricordo nella bicicletta,

quella blu ruggine,

quella troppo rumorosa

quella senza freni.

Ti ricordo nell’enigmistica,

quella facile,

quella che ti divertiva e rilassava,

quella per cui servivano penna in mano e

occhiali da lettura inforcati.

Ti ricordo nelle canzoni,

quelle dall’anima rock,

quelle poco dolciastre,

quelle uniche del nostro amico di Zocca.

Ti ricordo nei film,

quelli d’avventura,

quelli senza fronzoli,

quelli che ti tenevano sveglia fino a tardi.

Ti ricordo nei miei occhi verdi,

mentre mi guardo allo specchio,

tristi e sinceri,

solitari e intelligenti,

coraggiosi e veri.

Come lo sei sempre stata tu, mamma.



L’AUTOGRILL DELLA FELICITA’ di Barbara Arioli

 

Molte volte facevo quella strada.

Ero autotrasportatore ormai da più di vent’anni.

Quando percorrevo la B3 in direzione sud mi fermavo quasi sempre a quell’autogrill.

Era una di quelle stazioni di servizio ancora di una volta, non so se avete presente.

Non quei posti iper-moderni che attraversano due autostrade e che non si sa più da quale parte uscire per trovare il tuo mezzo. Era un luogo piccolino e famigliare.

La signora al banco all’ora di pranzo era praticamente sempre lei, la Betty, bella donna gentile e formosa che ricordava le lattaie di quando ero bambino.

Ogni tanto le parlavo di me, della mia infanzia, dei miei problemi, era divenuta una sorta di confidente.

Quel mezzogiorno di un Luglio infuocato mi fermai quasi per obbligo.

La sete mi stava attanagliando e anche i miei bisogni a dire il vero.

Così parcheggiai ed entrai. Il fresco dell’aria condizionata subito mi rigenerò.

Salutai la Betty. Con un gesto della mano le feci intuire che poi avremmo chiacchierato e mi avviai verso i servizi. I bagni di un autogrill, a volte, lasciano a desiderare.

Ma questo no, era sempre ben pulito ed ordinato, sicuramente c’era lo zampino della Betty.

Nel corridoio d’ingresso grandi stampe in bianco e nero illustravano quelli che dovevano essere i paesaggi dei dintorni di qualche tempo fa.

Tutti i bagni sembravano liberi: non c’era mai molta gente in quell’autogrill, forse perché un po’ datato, forse perché molte volte sprovvisto di scelta nei panini e nelle bevande.

Solo uno, però, aveva la porta già aperta, ciò mi spinse ad entrarvi.

La prima cosa che mi colpì fu una scritta.

Una scritta in un bagno di un autogrill certo non era una cosa eccezionale.

Ma in questo sì perché non ce n’erano e se anche qualche buontempone le metteva, qualcun altro con olio di gomito e detersivo le toglieva quasi subito.

Forse era appena stata fatta e la signora delle pulizie non aveva fatto in tempo a toglierla.

“La ricetta della felicità? Chiama il n. xxxxxxxxx”. Sorrisi.

Va a sapere cosa avrebbero proposto, sicuramente massaggi orientali o roba simile, magari scambio di coppie, la mia mente troppo regolare mi impediva di andare oltre con la fantasia.

Non ci badai più di tanto.

Rientrai nella sala ristorante, mi presi un Brooklyn Sunrise e tè freddo, dieci minuti a parlare con la Betty, consumai e me ne andai.

Passò circa un paio di settimane prima che ebbi l’occasione di rifermarmi a quell’autogrill.

Era un altro giorno molto caldo, si avvicinavano le tanto sospirate ferie e non vedevo l’ora di spegnere il camion per un po’.

Non c’era Betty quel giorno ma Jonathan (dal nome sul cartellino).

Salutai e mi fiondai alla toilette. Entrai anche questa volta nell’unico bagno aperto.

La prima cosa che vidi fu di nuovo la scritta:

“La ricetta della felicità? Chiama il n. xxxxxxxxx”

Vabbè, probabilmente nessuno l’aveva ancora tolta, magari Betty era andata in ferie e gli altri, si sa, non tutti sono ligi ai loro doveri.

Ma poi pensai e ripensai e mi convinsi che l’altra volta non ero entrato al bagno di mezzo ma nel primo.

Allora uscii ed aprii la porta del primo ma la scritta non c’era.

Forse l’avevano tolta in tutti tranne che in questo.

Un flash mi balenò alla mente: e se provassi a chiamare?

Dai G. sei grande e grosso, un omone di quasi 50 anni e cosa fai credi alle scritte nei cessi?

Beh, ma cosa poteva esserci di male?

Al massimo avrebbe risposto una donnina suadente o una perfetta sconosciuta a cui qualcuno aveva fatto uno scherzo. Uscii: all’aperto mi sarei schiarito le idee.

Invece nella piazzola, a 40 gradi all’ombra, senza un filo di vento, e preso da un’ansia incomprensibile, chiamai. E non mi rispose nessuno.

Ecco ben fatto G. cosa pensavi che sarebbe successo?

Così, a dire il vero un po’ deluso, mi rimisi in marcia.

Poca gente sulla strada, le ferie già iniziavano a portare i loro effetti.

Meglio: si viaggiava con più serenità.

Il mio cellulare squillò dopo non più di dieci minuti. “Parlo con G.M.?”

Voce femminile, timbro locale, silenzio di sottofondo, seria e professionale.

Non sembrava la solita vendita.

Stavo per riagganciare e invece dissi “Sì, sono io”.

“Lei ci ha chiamati qualche minuto fa. Se vuole ancora la ricetta della felicità si presenti all’incrocio del km. 3,5 in direzione B. alle 16.00 e attenda sulla piazzola”. E riagganciò.

Quel luogo non era molto lontano ma pensai nuovamente ad uno scherzo.

La curiosità, però, era veramente troppa, e visto che alle 15.00 il mio lavoro era concluso pensai di recarmi all’appuntamento, in fondo non avevo nulla da perdere.

Nella piazzola c’erano altri mezzi: saranno stati lì tutti per il mio stesso motivo?

Non ebbi il coraggio di chiederglielo e neanche loro visto che nessuno scendeva dal rispettivo camion.

C’era una strana aria intorno, sembrava quasi essere salita una leggera nebbia che, ad agosto, era alquanto anomala.

Ma ancor più inquietante fu che alle 16.00 in punto tutti i mezzi si accesero contemporaneamente il mio compreso e, giuro, io non avevo mosso un solo muscolo.

Il mio camion in completa autonomia prese la C22: era tanto tempo che non la percorrevo più, mea culpa.

Da quando, da ragazzo, rientravo dalla discoteca a casa.

Sempre privo di volontà imboccai l’uscita dall’autostrada in direzione V. e mi avviai verso la statale.

Riconobbi subito quei campi, il grano, il riso, gli alberi da frutto, il profumo del fieno appena tagliato e delle mandrie al pascolo.

Presi la stradina sterrata che mi portava al casolare.

A fatica parcheggiai il camion nell’aia.

Li vidi arrivare piano entrambi incuriositi dal rumore del mio motore.

Lui col bastone, invecchiato ma all’apparenza ancora arzillo.

Lei con una gonna a fiori ed il sorriso già sul volto.

“Quanto tempo G., cosa ci fai da queste parti?”

“Son solo passato a trovarvi mamma, voi come state?”