Beatrice Signorini - Poesie e Racconti

AUGURAMI LA BUONANOTTE

 

Augurami la buonanotte

Che il sogno possa cullare

Ciò che il giorno frastaglia

Nel vento di una vita ritmata da curve

E riverberi sospesi

Al di là

Del più buio sgomento

Che il sogno

Lasci liberi di andare

I pezzi della mia luna

Nel giorno costretti insieme a vibrare

Che il sogno

Li lasci andare

Che siano pezzi del mio cielo

Non bende per il mio cuore


 

DIVENTA RONDINE

 

Diventa rondine

Vola leggera

Inebriati, lascia qui ogni cosa

Ogni giorno, ogni vita

E plana

Plana ancora

Sulle praterie, sulle steppe

Sulle distese ghiacciate delle tue alture

Che pesano un grammo

Di pura felicità


 

ANIMA DI PURISSIMA CARTA

 

Come roccia fusa e solida

Risplendi di fortezza

Oh mia stella polare

Come cuore di panna montata

Trasformata in solido diamante

Oh mia stella polare

Come uragano

Alzi i toni del tuo sentire

Che troppo affondi in te

Senza lasciar mai andare

Oh mia stella polare

Come anima di purissima carta

Scrivi la tua strada

Intrecciandola sempre con la mia

Oh mia stella polare

 

A mia sorella Federica


 

CAMMINO SULLE NUVOLE

 

Come una favola

Dove tutto si storpia, si immagina, si sogna

Cammino sulle nuvole pensando ad Utopia

Vivendo di albicocche secche e profumo di felicità

Non svegliarmi, no

Continua a cantilenare la mia storia

Continua ad amarne il ricordo

Non restare senza parole

Fai una nuotata dentro le tue emozioni

E lanciamele

Come petali di ciliegio


 

SEI PERFETTA NOTTE

 

Sei perfetta Notte

Ma i tuoi giorni

Non riesco ad incastrare

Tra le guglie dei miei contrasti

Che non voglio appianare

Vorrei ridere

Mi ritrovo a scrivere

Imprimo sul nero di seppia

Il sorriso che cercano di arginare

Nel buio delle tue stelle


 

ECCOLA, UNA DONNA

 

Eccola, una donna

Che guarda oltre il mare

Ha due occhi stropicciati dal sentimento

I capelli che si innamorano del vento

Il naso che si arriccia per qualche tormento

Eccola, una sognatrice

Che sulla bocca

Porta un fiocco nero

Tramandato dal violento retaggio

Dell’u-omo ostentato


 

SAPEVA DI AMORE

 

Sapeva di amore

E di cioccolato

Sapeva di comprensione

E anche caffè caldo

Guardava il mare

Senza pensare

Quali onde

Dover fermare

Sapeva anche di un giorno in più

Come un cucchiaino di tiramisù

Sapeva perdersi

Tra le foglie di una vita toccata

Sol da farfalle


 

CENTO FIORI                                                          

 

Dentro il fuoco di mille dolori

Sentivo brulicare almeno cento fiori

Frutto vivace dell’amore sconfinato

Portato da Ermes su un piatto dorato

Orchidee, tulipani, rose e violette

I colori amorevoli della mia mente

E se di nero e gramigna verrà colorato il cielo

Poco importerà

Al nostro arcobaleno

 

Alla mia famiglia


Il racconto dei racconti

 

Nasce oggi il racconto primigenio, in una sera difficile. Una di quelle sere così limpide eppur nebulose.

È la storia di una giovane di nome Dafne. Una Dafne senza Apollo. Che combatte coraggiosa senza essere inseguita. Perché ti chiederai, attento lettore?!

Perché non vive nella mitologia e come tutti noi, insegue sé stessa. Dafne ogni giorno ci prova. Senza mai scappar davvero.

Corre su un litorale oppure lungo un sentiero di montagna, poi scende a ridosso delle colline ed infine corre veloce in pianura. Corre e corre… E più correrebbe.

Tanto si stanca, oh sì, quanto si stanca. Ma è una stanchezza che dà energia. Non v’è energia più vera di quella data dalla disperazione e dall’ansia. Giri e giri senza una meta, percorrendo un labirinto che crei girovagando. E lo sa Dafne. Ma pur sapendolo…vaga.

Vagando, inizia la sua storia. Quella di un sogno reale quanto erroneo che prende vita da lei stessa.

Al calar del sole, correndo a più non posso, incontra il primo ostacolo. La Pazienza, per gli amici Pazi. Un gran soggettone, un carattere mansueto quanto perturbabile. Pazi vuol parlarle ma Dafne corre troppo veloce. Eppure, nel momento in cui Pazi si blocca, Dafne rallenta. Come presa da un istinto che lei stessa mal concepisce. Così nasce la prima chiacchierata di Dafne e Pazi.

D: dimmi cos’hai da dirmi, perché non posso fermarmi. Devo correre per trovarmi.

P: ma sei proprio qui.

D: sì ma non mi vedo. Sono alla ricerca della me che mai ascolto.

P: ti ascolto io.

D: mmm ma vai così piano.

P: corro quanto rallento. Non faccio del tempo un gran nemico.

D: il tempo, il tempo è sì nemico. Mi mangia, sta sempre appresso. Mi soffoca vederlo, nelle ore, nei giorni ed anche nel mio riflesso.

P: mah…non mi ha mai dato una gran noia. Lo trovo piuttosto malleabile. Mi scorta nelle riflessioni, mi spinge quando vivo di passioni.

D: non ti agita per nulla?

P: no, anzi scandisce le mie scelte. Dà un peso specifico ad ogni momento che scalfisco nella mente. È un amico fedele.

D: perché non riesco ad andarci d’accordo?

P: lo vedi al di fuori di te. Quando invece è parte di te. Richiamalo. Credo possiate ancora chiarirvi.

D: ma dove lo trovo?

P: tu corri…lo sai far bene no?!

Vedrai, si paleserà.

D: non vieni con me?

P: mi vuoi?

D: sì, credo di aver bisogno di te. Sai, mi sono dimentica di te, vecchia amica. Ma in fondo, ci sei sempre stata. Con te al fianco, potrò imparare il giusto andamento per ogni passo.

E così, le amiche ritrovate presero a corricchiare. Un passo semi veloce, Dafne faceva fatica ma si sforzava e Pazi ogni tanto accelerava, sapeva di non poter pretendere ancora il giusto.

Ad un tratto la pianura si fece discesa, Dafne cominciò ad agitarsi, Pazi a dimenarsi…era arrivato Tempo.

T: eccola qui, la grande ribelle.

Costretto a cambiare ogni frequenza per starti dietro, per parlarti ma tu mai provi a degnarmi di un pensiero ponderato. Solo veloci battiti di ciglia, fremiti e grande rabbia.

D: ma che dici? Sei tu che arrivi tutto ad un tratto. Mi rincorri e mi affanni. Mi fai paura ogni volta, finché aumento il passo e ti perdo, così come t’ho incontrato.

T: Dafne, Dafne. Io mai ti perdo come mai ti cerco.

D: allor che fai?

T: ti accompagno. Mi agito nei tuoi turbamenti. Mi arrabbio quando troppo pensi, poco vivi e mal respiri.

D: ma sei tu a provocare tutto ciò.

T: Io? No, no. Io sol mi paleso. Mi esprimo con il soffio della vita. Nasco con te e seguo ogni tuo passo.

Ma non mi vedi? Sono nelle tue scelte, sei tu a darmi il ritmo.

D: io? Non credo. Non credo di essere in grado di condizionarti. Non condiziono veramente neanche me stessa.

T: ma l’hai appena fatto. Hai ritrovato Pazienza.

Tempo così si congedò, lasciando Dafne non ancora pronta ad accettarlo come amico ma più consapevole della sua vera inclinazione.

Tornando indietro, ripreso il suo passo, Dafne trovò Pazi che l’aspettava, senza aspettarsi nulla davvero.

P: sei tornata!

D: sì, ma dobbiamo proseguire. Il tempo ancora non l’ho veramente accettato anche se ne ho meno paura. Pian piano lo vedrò più chiaro e meno fragoroso. Apprezzerò magari il suo passo come il tuo, quando forse apprezzerò il mio.

Insieme ripartirono. Parlando del più e del meno. Mangiando momenti e assaporandone degli altri, senza fremiti, con grandi respiri.

Tempo mai più si palesò. Aveva trovato pace nei passi di Dafne e nel suo cadenzare.

Ma Dafne ancora correva. Correva sulle note delle questioni irrisolte che si palesarono tutte insieme: Ansia, Inadeguatezza e Amore.

D: ecco qua il trio delle meraviglie o forse delle disgrazie. Per quanto corra di voi mai mi libererò.

P: lasciale parlare. Lascia che affiorino in ogni dove. È inutile tu faccia finta non esistano.

D: oh, oh quanto la fai lunga. Ad ognuna di loro devo una sconfitta.

P: tacerò, sol perché tu possa capire. Laddove la parola crei tormento che si lasci spazio al silenzio.

Così, nello spazio creato da Pazienza, si infilò il trio AIA.

AIA: Dafne, non ti agitare. Guardaci in faccia, avvicinati. Vibriamo sol dove cerchi nello sconforto un motivo per correre avanti. Ma ti devi fermare. O forse rallentare. Assapora ogni passo, ogni caduta ed ogni bruciatura. Non ci dai il tempo di assimilare la sconfitta perché le passi oltre e noi restiamo indietro, cadendo nelle buche scavate dai solchi che crei correndo all’impazzata.

D: ma io non me ne accorgo. Mi sento sempre e solo inseguita. Affaticata dai vostri tormenti. Schiacciata sotto il peso dei vostri disagi.

AIA: noi non siamo che te. Siamo tormenti, ansie e sgomenti. Siamo passione, dolore, tristezza e serenità. Siamo qualsiasi cosa tu viva e ci dica di vivere. Siamo quello che decidi di lasciare indietro senza mai risolvere davvero. Siamo il tuo presente quando ci tieni a farci crescere. Siamo il tuo futuro quando brami nel crearlo con la paura di sbagliarlo.

D: cosa posso fare?

AIA: guardaci in faccia, Dafne. Dà volto alle tue esperienze. Dà voce ai tuoi dubbi. Balla nei tuoi crepacci. Lì, troverai la giusta armonia.

E Dafne le guardò. Poi a loro parlò ed infine sentendo una voce che diceva “Nessuno mi puoi giudicare nemmeno…iooo”, cominciò a ballare.

Ballando sorrise e si perse in quel sorriso fatto di passi ai quali lei non dava più importanza. Seguiva la musica del cuore e la voce della ragione. Prendeva per mano Pazienza per ringraziarla di averla aspettata. Sentiva il tempo dentro che le scorreva su ogni pensiero, ogni ricordo. Guardava Amore ancor con fare sospettoso ma sapeva che ci sarebbe sempre stato anche odiandolo, disapprovandolo, ponendo muri alti come il cielo; lui non l’avrebbe mai lasciata. Poi, salutò Ansia. Sapeva l’avrebbe rincontrata ma l’aveva ascoltata e per ora senza discordie, ognuna prendeva la sua strada.

Quanto ad Inadeguatezza… Beh, qui Dafne per un momento parve risprofondare. Non ci sapeva dialogare. Si scontrava contro gli specchi di Inadeguatezza senza capire dove andare, su che riflesso puntare. Poi, Pazienza le tirò il braccio. Dafne allentò la presa, chiuse gli occhi e provò a respirare. In quel respiro sentì finalmente la pace. Ogni riflesso sapeva di coraggio. Sapeva di cambiamento. Andava guardato, capito, assaporato, amato quanto odiato. Andava letto, come questo racconto ma anche silenziato quando il pensiero si fosse fatto troppo viziato.

Caro lettore, forse ti sarai perso. Tra un presente, un imperfetto, un tempo passato ed un futuro sognato. Ma Dafne questo è. Pur camminando ancora corre. Corre nel passato per saltare nel futuro, passando da un presente che ancora deve davvero capire. Dafne forse è saltata dentro di te. Forse anche dentro di me. O forse Dafne è irreale o un sogno dato per scontato e mai ascoltato.

Dafne è sempre colei che scappando da Apollo trovò rifugio nell’alloro, chiedendo di esser libera seppur costretta piuttosto che costretta seppur libera. Dafne è ogni donna. Lotta contro sé stessa e si perde di vista. Ma poi si ritrova. Perché è Ansia ed Inadeguatezza ma anche Amore e tanta Pazienza.

Dafne è il tempo. Quello che si toglie e quello dal quale scappa. Il suo Apollo, mai voluto, mai sognato, mai amato e nel suo destino, alla fine, stranamente accettato.

Dafne siamo noi. Tutti. Che ogni giorno un po’ moriamo, per imparare a viver meglio in un domani che forse già un pochino conosciamo.


COME IL SALE E LO ZUCCHERO

 

Era una giornata come le altre, in apparenza. Tutto scorreva tranquillo, come il bus delle 13.45. Insomma, tranquillo…il bus un po’ scoppiettava, di tutta la noia degli studenti fuori città costretti a fare scorta di ore inutili che li avrebbero accompagnati nei loro paesini.

Non sapevo bene a cosa pensare o certamente pensavo troppo, come capita ancora oggi. Guardavo quel tragitto ogni giorno nella speranza che durasse poco o non finisse mai… a seconda dei voti presi o della stanchezza. Ma lo scandire del tempo è sempre beffardo, infatti non mi ha mai ascoltata.

Quel giorno successe una cosa strana, mediamente strana. Niente che faccia venire una sincope come ogni puntata di got ma qualcosa che avrebbe segnato la persona che sono oggi.

Dicevo, il bus delle 13.45…

Questa è la parte interessante, di solito ho una memoria molto forte, per lo più legata ai ricordi, credo siano le emozioni a darmi memoria ed a darla agli attimi, alle persone. Ricordo l’emozione e riaffiora tutto di fronte a me come se fosse oggi e non più ieri. Eppure vicino a questo ricordo ho molti vuoti legati ad alcuni particolari perché nel tempo quello che è successo ha lasciato il posto ad un solo istante specifico, capace di brillare di luce propria. Un ricordo stella polare di sé stesso, direi.

Arrivata alla prima destinazione insieme a tutti gli altri annoiati, avrei dovuto solo scendere e poi ripartire per un altro piccolo tragitto, per arrivare alla metropoli formata da casa mia e… casa mia. No, scherzo, il mio è un paese piccolo ma non così tanto. Nella recinzione della Casa Bianca dovrebbe starci. Ironia inglese che scommetto non verrebbe apprezzata dai miei compaesani ma la verità è che il mio paese non sarebbe nulla senza la mia famiglia, per me. È grazioso, collinare, verde a sufficienza da rilassarti, vicino al lago ma sarebbe come tanti altri se non fosse segnato dalla presenza di sette persone che hanno segnato e amano ogni ricciolo biondo che anima la mia sempre scompigliata testa.

Comunque, “Vogliamo scendere da questo bus?”… tipica frase di fine corsa, un mantra che ha accompagnato i miei cinque anni di liceo classico. Come sempre ho preso il mio eastpak “verde unico” (un mix di verdi che non saprei descrivere con un nome esistente) andando verso la scaletta.

Appena scesa ho salutato mia mamma che casualmente ho incontrato mentre andava in pausa pranzo, tra un bimbo e l’altro, tra una donna e l’altra. La pazienza di un’ostetrica è qualcosa di inimmaginabile suppongo. Oltre mamma ho salutato mia sorella. O meglio quella che all’epoca era una sconosciuta distante anni luce dalla mia vita e che in otto mondi paralleli credo lo sia ancora. Una sorella già l’avevo a casa, non andavo in cerca di un’altra, quella che avevo già stava molto in alto, su un piedistallo argentato, quello creato dalle sorelle minori che luccicano le orme delle maggiori. Ancora oggi è così, merito di mia sorella credo e dell’aura di fiducia che mi ha sempre regalato. Eppure, strano incrocio astrale ha voluto che ne acquisissi un’altra. Da quel giorno. Senza che lo sapessimo subito o forse sì. Non che da quel giorno le cose cambiarono ma quel giorno le fece cambiare. Si erano incontrate due persone che avevano tutto da condividere senza saperlo, con due vite lontane quanto vicine, che si erano solo conosciute con una stretta di mano, salutate cordialmente e…mai davvero dimenticate. Mai, sì. Anche non sentendosi per alcuni anni, l’incontro era bastato per farsi delle domande. Tutto quello che nasce da una domanda sicuramente sfocia in oceani più profondi. Oceani forse, oggi più navigabili rispetto a quel giorno. Ho sempre creduto nella bellezza della manovalanza. Quella dell’uomo costretto a remare da solo, fino a quando non trova qualcuno con il quale sia più distensivo remare, seppur non meno doloroso. Siamo semplici scopritori dell’empatia.

Era un giorno come un altro, un attimo come un altro. Se non per il sussulto di quello scontro. Sì, credo sia stato uno scontro. Di incontri se ne fanno di continuo, ogni secondo. Tipo…un poliziotto in borghese che mangia un gelato, sperando non ci sia nessuno da salvare almeno per tre cucchiaini di nocciola e pistacchio; un’amica che non riconosciamo, come l’amicizia che ha saputo legarti per un periodo e poi è sparita; una signora che porta la spesa e urla al marito raccontando la frustrazione di una giornata sempre uguale o due ragazzi che si limonano anche lo stomaco e poi due che si domandano se mai un giorno anche loro troveranno la persona con cui farlo; una ragazza che legge Baudelaire sul tram e poi ancora tutto lo scibile umano che la giornata è in grado regalarci. Ma quello…quello era uno scontro vero. Quello tra due persone non ancora pronte per aprirsi l’una all’altra ma che si sono guardate dentro in modo tanto fugace quanto essenziale. Nessuna delle due aveva il coraggio di chiedere più di quanto lo scontro avesse potuto rispondere. Lo ha fatto il tempo, a volte nemico di entrambe. Io ho imparato ad accettarlo pur non capendolo. Lei lo ha capito ma non ne accetta il ticchettio.

Sul paradosso di quella strana sorellanza in germogliare, è nato col tempo (per l’appunto, sempre lui) un dialogo di due voci che hanno imparato ad essere una quando ognuna di noi, zittendo la propria, aveva bisogno che con la voce non venisse zittita anche la persona.

Non credo fosse una coincidenza, almeno nel suo significato superficiale. Credo nel coincidere, piuttosto. Credo molto di per sé, in modo fedele più che dottrinale quindi credo che lo scontro fosse necessario. Ad entrambe. Che non ci fosse casualità nel coincidere ma che fosse e basta. Stranamente lei che non crede, spiegando e aggiustando tutto in un modo molto schematico e razionale quanto platonico (- che sempre asseconderò perché mi diverte e ci sono molto affezionata), crede in quello che siamo come ad un qualcosa non suscettibile al flusso del tempo.

Quel giorno il bus delle 13.45 non sapeva che arrivando in orario avrebbe acceso la scintilla di un legame cementificato da una sincerità che ha schifato il limite della lontananza e i freni dettati da quel uno nessuno centomila pirandelliano al quale tutti siamo soggetti. Quel giorno non nacque nulla eppure nacque tutto. Quel giorno è il frutto di un’emozione che una sera ci siamo raccontate a vicenda, dalla quale sono usciti pensieri, vite, fiducia, parole impossibili da dire. Non ci siamo trovate per sostituire qualcuno. Ci siamo trovate per ritrovarci. Non abbiamo riempito vuoti. Abbiamo creato spazio per aggiungerci. Perché non siamo essenziali come la farina. Lo siamo come il sale e lo zucchero.