Benedetta Ruggeri - Poesie e Racconti

Estratto dal racconto inedito “Cassandra”

 

1979

Una Chevrolet Camaro blu elettrico del 1970 partita dai sobborghi di Amarillo, Tx, sfreccia sulla 40 con destinazione ignota, e si appresta a varcare il confine quando si trova finalmente nel territorio di Texola, Ok, in un grigio pomeriggio di metà ottobre. Il vento anima ininterrottamente la porta di legno marcescente di una tavola calda abbandonata. Una scritta sul lato lungo dell’edificio dice Nessun posto è come Texola, e poco più in là un cartello conferma Non esiste nessun posto come questo posto da nessuna parte vicino a questo posto quindi questo deve essere il posto. A pochi metri di distanza i resti della First Baptist Church di Texola, Ok, e il cimitero. 

La donna al volante, la faccia allungata e le guance scavate, borse da tennis sotto gli occhi pesti, rossetto viola sbavato e la faccia per metà butterata, si tocca con la mano sinistra  la chioma bionda che tiene su con un’acconciatura che la fa somigliare ad una Dolly Parton reduce da un attacco convulsivo preceduto dall’inalazione di una dose massiccia di freebase, mentre con la destra sistema lo specchietto retrovisore che lascia intravedere due creature che non avranno più di cinque e otto anni che se ne stanno lì dietro, sul sedile posteriore, a fissare con i finestrini abbassati lo spettacolo offerto dal posto più esaltante d’America. 

Lo sapete o no che la Mami vi vuole tanto bene. La Mami non è mica arrabbiata con voi, no no no. La Mami si dispiace per molte cose, ma non è che è ancora arrabbiata più di tanto. Mica come quella volta che la vecchia Eleanor è venuta a visitare la vostra scuola, qualche tempo fa, che la vostra Mami quanto era emozionata all’idea di incontrare la sua vecchia amica, emozionatissima. Ve l’aveva detto o no la Mami che la signora Eleanor era una sua vecchia amica, cioè, amica molto carissima della nonna, cioè non della nonna della Mami ma della vostra nonnina, ve l’aveva mica detto? Ma certo che sì, certo che ve l’aveva detto, la vostra Mami. Che la faccia della Mami quando la signorina Flynn aveva chiamato alla riunione tutte le mami per annunciare della visita la dovevate vedere, da quanto era stupita e felice. Che poi la signorina Flynn forse si era sbagliata nel dire alla vostra Mami l’orario preciso della riunione, perché quando la Mami era arrivata tutte le altre mami già avevano un piede fuori dal teatro della scuola e non la guardavano nemmeno in faccia, alla vostra Mami. La signorina Flynn si era dispiaciuta, e aveva sorriso tanto tanto alla Mami ed era stata così tanto paziente e gentile da ripetere le parole che aveva già detto alla riunione, e sembrava che sudava un po’ e non toglieva proprio-proprio tutte le parole dalla bocca. Ma comunque si era saputo che la cara Eleanor Rosalynn doveva venire a inaugurare la nuova biblioteca della scuola, la settimana dopo quella che c’era la riunione con tutte le mami, e che tutte le bambine della scuola dovevano scrivere una poesia per leggergliela quel giorno, alla cara Rosalynn. Felice felicissima. Non ve l’avevo mica detto che abitavano a nemmeno due isolati di distanza, la vostra Mami e lei, quando la Mami era un po’ più grandicella di voi? E poi la signorina Flynn dice che dopo estraeva il nome di una bambina per darle un mazzo di fiori, a Eleanor, e io volevo tanto che era la mia bambina che le dava i fiori, che già me la vedevo con il suo vestitino giallo e le scarpette bianche e i nastrini colorati sui capelli, alla piccola Cass, la mia bambina, che di fronte a tutti le dava i fiori, a Rosalynn. Vero, amore della mamma? C’aveva un emozione da non dire, la Mami. Quante volte ti aveva fatto provare la riverenza, la Mami? Che ogni volta che vedevamo qualcuno ti facevo Ecco Cass, fai la riverenza come quella che farai alla Signora Carter quand’è che la incontri, ma bene, proprio bene capito? Con l’inchino e il saluto e tutto quanto. Beh, era proprio bellina da matti, la cara Rosalynn quel giorno, così carina con tutti. Non è più tanto arrabbiata la Mami oggi, ma quel giorno proprio guardate. La Mami ve l’ha sempre detto che le manine si devono tenere a posto, ve l’ha sempre detto o no? Certo che ve l’ha detto. Che siamo state tutta la mattina a prepararci e farci belle e a provare la recita della poesia come che la Mami era la Signora Eleanor Rosalynn, e tutto andava bene, e quando che dovevi essere lì di fronte a tutti a leggere la poesia cosa hai fatto? Cosa hai fatto alla tua Mami? Cass? La Mami non poteva proprio più di dormire, dopo quello che è successo quel giorno. La signorina Flynn e il preside Harper e il sovrintendente l’hanno quasi fulminata alla vostra Mami per colpa tua, Cass. Quasi le veniva il dente con la vostra Mami a quella baldracca della mami della vostra amichetta Angela, quando che gli era toccato che era stato estratto il nome della mia piccola per dare i fiori alla cara Eleanor Rosalynn, dopo che gli avevate letto tutte le poesie. Però quando che stava per toccare alla mia Cass di leggere, che te lo ricordi bene Cass e ve lo ricordate tutti e due che non riuscivi a tenere ferme quelle zampette e ti strizzavi tutta, che la Mami te l’aveva detto che non era vero che dovevi andare al bagno un’altra volta prima di uscire di casa che potevamo arrivare in ritardo e che sicuramente tu non volevi tanto andarci, a scuola, a fare la riverenza di fronte a tutti e tutto quanto ed era per questo che volevi chiuderti in bagno, e tu cosa è che le avevi detto alla tua Mami? Che no, che tu dovevi ancora farla veramente la tua pipì e la tua bella cacca, e la tua povera Mami lo sapeva che non era così, povera stupida. E così quando mancavano due poesie a leggere la tua hai pensato bene di ficcarti una mano nel tuo culetto schifoso e quando ti toccava proprio a te di leggere la poesia e hai tolto la tua bella manina dalle mutandine e la cara Rosalynn si è avvicinata a te e tu leggevi e poi ti ha allungato la mano tu le hai dato la tua l’hai tutta imbrodolata di merda, la bella mano di Rosalynn, e hai pure sbagliato la riverenza, e tutti lì intorno con la faccia contorta e schifata, compresa Eleanor Rosalynn, e in quel momento la Mami voleva proprio sprofondare, e tutti avevano le mani sui loro bei nasi del cazzo, sei stata una bambina cattiva Cass, la Mami è arrabbiata arrabbiatissima, ti ho detto mentre ti portavo via che ancora ti colava fuori dal buchino la colazione e la cena della sera prima, perché hai fatto questo alla Mami se non dovevi andarci, al bagno? Ed ero sicura di aver visto la mami della vostra amica Angela ghignare tutta soddisfatta dall’angolo della bocca, brutta porca. Ma la Mami non è mica più tanto arrabbiata per questo, no no no.


Estratto dal racconto inedito “Sunlight” (Incipit)

 

 

L’ultima volta che ci sono andata con quell’intento, dal medico, ho usato la scusa del neo. Una piccola macchia scura appena sotto il labbro inferiore, sul lato destro del viso. Una cosa da niente. Appena mi vide, fece quella faccia che faceva ogni volta che mi vedeva entrare e che sembrava dire Ecco ci risiamo. Perché in fondo sapeva che io e i medici non siamo mai andati mica tanto d’accordo. Sapeva benissimo che avrei rifiutato qualunque cosa mi avesse detto, qualsiasi consiglio o diagnosi o la più semplice parola, per tutto il tempo che avessimo resistito impegnate nella nostra schermaglia dialettica, mentre là fuori, nella sua sala d’attesa, un battaglione di vecchi incontinenti, osteoporotici, arteriosclerotici, catarattici dalla capacità omeostatica ormai prossima allo zero si sarebbe lamentato sbuffando in continuazione visibilmente infastidito dalla esorbitante quantità di tempo che avrebbe perso per colpa mia, che loro di tempo da perdere non ne hanno poi così tanto. E poi qui dentro fa un caldo del diavolo, e se non dovessi riuscire a prendere il bus delle sei e ventisette quello delle sei e quarantadue di solito è pieno come un uovo, per dio, e entrarci con la bombola dell’ossigeno e questo affare sarebbe più arduo di quando dovetti inoltrarmi con la Settima in quell’inferno di Okinawa sotto quella pioggia incessante e armato solo di una Arisaka trafugata al cadavere di un muso giallo, e nemmeno ci provo a telefonare a quel debosciato di mio figlio che è venerdì sera, lo stronzino ha il suo bel daffare il venerdì sera, mica gliene frega tanto del suo vecchio che sta per schiattare, e colpi di tosse forzati, e raschiamenti di gola sempre più intensi, e colpi di bastone sul pavimento in linoleum nero, sempre più frequenti, e casuali o forse no bussate alla porta dello studio mentre all’interno il medico se la deve vedere con un microscopico frammento della mia epidermide e deve convincermi, senza riuscirci, che non si tratta affatto di una neoplasia ma di un semplice neo del cazzo, che un semplice neo del cazzo non ha mai fatto male a nessuno. Le faccio che secondo me c’è qualcosa che non va, in questo piccolo bastardo del cazzo, e lei continua a fissarmi attraverso la sua lente d’ingrandimento, sotto il faretto della sua scrivania. Le dico che già che c’è potrebbe pure dare una controllatina a quella macchia sul naso, che a me pare decisamente più grande dell’ultima volta che ci siamo viste, ovvero due settimane fa, credo, non vede che è anche più scura? Non lo vede? È indiscutibilmente più scura di due settimane fa oltre che più ampia, e lei mi ripete per l’ennesima volta che non ho alcuna macchia sul naso, sono visibilmente contrariata e le prendo la lente d’ingrandimento dalla mano, con molta gentilezza, e le chiedo con uno sguardo supplichevole di osservare per favore ancora una volta, che non ci dormo da settimane ormai, deve esserci qualcosa in questa faccia, qualcosa che non va bene, cazzo per piacere, almeno la faccia la vorrei tenere sana e intatta, se non le dispiace, nel caso dovesse esserci qualcosa che non va credo sia necessario intervenire in tempo, meglio evitare rischi inutili, e continuo così ancora per almeno venti minuti fino a che lei non mi prende la sua lente dalla mano, e sospirando mi conferma che in effetti sì, qualcosa c’è, ma si tratta di una semplice macchia dovuta alla esposizione solare, niente di preoccupante, ma cazzo Dottoressa io il sole lo evito come la peste, lei sa più di me che le radiazioni solari risultano essere estremamente nocive per la pelle, e non che ne voglia fare un vanto ma nella mia famiglia siamo geneticamente predisposti alla contrazione di tumori maligni, non ricorda benissimo come sono morti mio padre, il fratello di mio padre e il padre del fratello di mio padre tutti nel giro di un anno, o ha la memoria corta? No che non ce l’ha, per cui ecco, se anche fosse una macchia dovuta all’esposizione solare, bene, non crede che sia il caso di tenerla sotto controllo? E il piccolo bastardo sotto il mio labbro? Ecco, ci stavamo per dimenticare di lui, mi dica, cosa le sembra dunque? Quanto pensa che mi resti da vivere? Guardi, ho già pronta una lista di cose da fare prima di andarmene da questo mondo (tolgo fuori dalla tasca del mio cappotto un foglio ripiegato in quattro, lo apro e glielo sbatto davanti proprio fra il mio naso e la lente, e lei fa una faccia un po’ così che sicuramente deve aver ingrandito la parte in cui c’è scritto cagarmi su una mano e schiaffeggiare la Dott.ssa G.C.), dobbiamo fare qualcosa, e lei con la sua infinita inesauribile pazienza mi fa che non c’è niente di cui preoccuparsi e che anzi, quel piccolo puntino là sotto è pure molto carino e rende il mio viso perfino più piacevole di quanto già non lo sia, e io le rispondo che sì, vabbé, le sembro mica una modella o un’attrice, Cindy Crawford o Marylin Monroe, per caso, e passiamo almeno altri trenta minuti a guerreggiare in questo modo fino a che lei mette via la lente d’ingrandimento, sposta il faretto dal mio viso e va a sedersi sulla sua sedia, prende il suo blocco e ci scrive nervosamente qualcosa, lo strappa e me lo porge, io lo prendo e le sorrido dicendole Arrivederci e a presto, e lei credo che in questo momento con la sua laurea in medicina vorrebbe meticolosamente pulircisi il culo.


Estratto dal racconto inedito “Invasione” (Incipit)

 

 

Al Tourette’s

Agente speciale Sterling Kane, nome in codice Duchessa, nella data di oggi *******, ore 22:41. Sono stato incaricato di osservare scrupolosamente ogni spostamento del supposto comandante in capo di quelli che sono stati vagamente definiti Loro. Il dossier che mi è stato consegnato mi sembra di averlo intravisto, quando la notte di qualche giorno anzi meglio settimana fa qualcuno l’ha fatto passare sotto la porta d’ingresso del mio appartamento, chiuso in una busta gialla dalla scritta CONFIDENZIALE in caratteri stampatello rosso fuoco da entrambi i lati. Indirizzato a me, postulante aiuto della massima importanza, questione di vita o di morte o di libertà ormai perduta da riconquistare con le unghie e con i denti e con il sangue e col sudore della mia fronte. Sempre dare, mai ricevere. Verrà pagato profumatamente, ecco la somma che le consegneremo nel momento in cui dovesse accettare, il resto a lavoro concluso. Si presenti domani alle ore ventiquattro e zerocinque, solo senza alcuno, accompagnato da nessuno, ci affidiamo alla sua massima riservatezza, alle ore ventiquattro e zerocinque esatte a questo indirizzo, maine street 456° interno b scala 6, ci raccomandiamo ancora una volta il massimo della discrezione, pregato non presentarsi armato, in ogni caso troverà qualcuno ad aspettarla e questo qualcuno provvederà a perquisirla meticolosamente fin dentro il buco del culo, quindi non ci provi nemmeno a tentare di farcela o potrebbe pentirsene amaramente per il resto dei suoi giorni, egregio attendibilissimo reverentissimo Signor Kane, provi a giocarci uno scherzo dei suoi e trascorrerà il resto della sua vita a tentare di rasparsi senza speranza l’uccello con i due moncherini che le saranno rimasti in luogo dei suoi arti superiori, e non dimentichi che per quanto lei sia riconosciuto globalmente come il miglior agente segreto a disposizione noi saremo sempre un passo o più avanti a lei signor Kane che lo voglia o no potrebbe passare il resto dei suoi giorni letteralmente inchiodato per le palle a una sedia chiuso ermeticamente all’interno di un bunker sotterraneo in Malawi, razza di fottuto stronzo, quindi non cerchi di mettercelo nel culo e soprattutto non pensi di poter avere alcun potere decisionale relativamente alla questione riportata in questo dossier perché ATTENZIONE lei non si trova nella posizione di rifiutare questo incarico o le dobbiamo riportare alla mente la morte accidentale del primo ministro italiano provocata dalla incapacità sua e della sua squadra di teste di cazzo, risalente allo scorso anno? No, non gliela dobbiamo ricordare, ne siamo perfettamente consapevoli, come siamo consapevoli perfettamente del suo problema con l’alcol, egregio signor Kane, con l’alcol e con la benzedrina, e per sua informazione col cazzo le verrà pagata quella cifra, haha illuso pezzo di merda, sarà già troppa grazia fornirle GRATUITAMENTE il supporto logistico necessario alla positiva si spera per la sua salute messa in atto e conclusione della missione, e ricordi che qualsivoglia spesa extra le verrà addebitata sul suo conto offshore alle isole Vergini, benché di vergine nella sua persona potrebbe non restarle nemmeno più il buco del culo se dovesse tentare di farcela e vorremmo concludere questa missiva ricordandole e sottolineandole  ancora una volta che è ora in atto una invasione da parte di un nemico enormemente pericoloso ragione per cui per quanto ci roda in misura doppia il culo all’atto di abbassarci a chiedere, o ordinare sarebbe più corretto, il suo supporto, ogni speranza del genere umano è riposta nella sua persona e nel caso di riuscita della suddetta missione questo, può fidarsi della nostra parola, sarà ritenuto sufficiente a cancellare ogni macchia dal suo curriculum di agente segreto spia internazionale rotto in culo succhiacazzi. Attendiamo di incontrarla domani, giorno domini ********, alle ore ventiquattro e zerocinque, ma siamo assolutamente certi che non ci sia alcun bisogno di sperare oltre nel suo buon senso e nel suo istinto di sopravvivenza e nel suo morboso attaccamento alla vita e soprattutto ai suoi testicoli e al suo tanto magnificato pene. 


Estratto dal racconto inedito “Seduta”

 

 

Lindsay, lei si trovava a suo agio in qualsiasi luogo che non fosse il suo bel studio. Il suo studio dagli interni curatissimi, ultramoderno design minimale, unica concessione scrittoio in stile Luigi XIV intarsiato da un tale maestro ebanista francese ereditato da una sua facoltosa zia polacca, o qualcosa del genere. La mia ora di seduta era fissata ogni lunedì e ogni giovedì alle undici del mattino, ma io in quello studio ci ho messo piede solo una volta. Lindsay era sofferente di crisi d’ansia generalizzata e attacchi di panico, così la prima volta che la vidi, che mi aveva dato il suo numero il mio vicino di casa suo collega ai tempi del college, mi chiese Zio, da quanto tempo è che soffri di depressione? Le avevo risposto, a Lindsay, le avevo risposto: Difficile che è depressione, parlerei piuttosto di realismo. Così lei mi disse Zio, forse è meglio che ci andiamo a fare un giro, che qui non è aria. No, il nostro sangue non lega. È che lei battezza tutti così. Lindsay mi mise una mano sulla spalla e mi disse Ti aiuterò a risolvere il problema. Però ho prima bisogno di un drink, se mi vuoi seguire. Con drink Lindsay intendeva cinque vodkatini e tre Prozac, poi si poteva iniziare a sragionare delle mie elucubrazioni mentali. Lindsay aveva tipo sui quaranta, ma pareva che ne aveva navigato il doppio. Il suo studio la opprimeva. Iniziava a sudacchiare e palpitazionare profusamente, rubescente.  Allora dissi che ok va bene, andiamo pure a innaffiarci il gargarozzo. Quella prima volta Lindsay mi ascolta per ore senza proferire verbo, fino a quando mi blocca e dice Zio, mi stai chiaramente scortecciando le tube. Seduti al bancone del bar del Four Seasons, tizi d’affari e tizi di tribunali, tizie di passerelle e tizie di schermo televisivo, Lindsay visibilmente altezzosa o forse alticcia si fruga dentro la sua borsa Valentino in pelle nera borchiata, ne estrae un blocco di carta e una penna e inizia ad arzigogolare con l’inchiostro fino a che strappa il foglio e me lo porge, dicendomi che ci vediamo giovedì. 

Il giovedì ci siamo incontrati al Sapphire. Parlo a Lindsay mentre una squinzia filippina mi sbatte i suoi seni perfetti in faccia, e lei se ne sta lì di fronte a me, seduta sul divanetto in pelle nera, a prendere appunti sgargarozzando un calice di Louis Roederer Cristal con dentro sbrogliate una coppia di pasticche. Le sue belle gambe accavallate, porta un completo Armani grigio chiaro e mi viene da volerle indagare le interiorità che si scorgono da sotto la sottana. La tizia continua frattempamente a tampinizzarmi le parti basse, e il suo culo si muove svelto su e giù che mi viene difficoltoso se non ineseguibile l’arrestare sul nascere l’innalzamento del mio birillo. Secondo Lindsay a occhio e croce soffro di una forma di egotismo particolare, che non permette alla mia persona di vivere una vita normale perché tutta tesa alla ricerca dell’approvazione del prossimo, che mi smemorizzo che in realtà non sono altro che materia organica destinata a marcire, come lei stessa, la bernarda che sta contribuendo all’inturgidimento del mio batacchio, e tutte le persone che mi circondano. Mi fa, Lindsay, sputando fuori del fumo dalle sue narici da toro, mi fa Nessuno di noi alla fine è veramente un cazzo. Quando ci disperiamo lo facciamo solo perché pensiamo di avere chissà quale importanza, che in realtà non abbiamo, né per noi stessi medesimi e di sicuro non per gli altri. Mi vorrei apprestare a recapitarle che le sarei estremamente grato se avesse la compiacenza di conformare il suo comportamento al ruolo e alle responsabilità di cui è stata investita, ma Lindsay si alza, mi molla un altro foglio e mi fa che ci vediamo lunedì. 

Il lunedì successivo ci siamo veduti all’incrocio fra la Baker e Mead St. Lindsay abbigliata disastrosamente, con un paio di pantaloni di tuta ginnica tenuti su da una cintura in cuoio, un paio di pantofole bucate sul davanti. La parte superiore della sua persona coperta da un poncho chiazzato di vomito, roba biancastra tutto sui capelli, porta un paio di occhiali da sole con montatura in plastica a forma di cuore con una lente sola e si pulisce il naso sulla mano lasciando striature di roba verde sul dorso. Mi fa, Lindsay: Zio, tre giorni di merda. Entriamo nel luogo della seduta a disputare, ci insediamo in un tavolo e ci vediamo prontamente recapitati due piatti di zuppa di fagioli e pane secco. Io disquisisco, ma sono piuttosto scetticizzante nell’effondere i parti della mia mente, perché mi appare come se Lindsay voglia dispettarmi per procurarsi inconsulto sollazzo alla ragionevole cifra di centocinquanta dollari l’ora.


Estratto dal racconto inedito “Parità”

 

 

Un pomeriggio ci fece trovare, nelle nostre stanze, degli abiti da sera. Il mio era un Vera Wang vintage smanicato in chiffon nero, accompagnato da un paio di tacchi dodici in vernice nera a punta con applicazioni in diamanti di Jimmy Choo. A Nancy era toccato un completo Valentin Yudashkin con gonna in seta bianca, al ginocchio, chiusura sul retro, con applicazioni di paillette argento sul davanti, e camicia di organza trasparente. Il tutto completato da una coppia di Dolce e Gabbana tacco medio in pizzo bianco arricchite in punta da cristalli luminosi. Mr. Wolf ci desiderava a cena. Puntuali, alle otto. Mentre attraversavamo i corridoi futuristici, che al nostro passaggio cambiavano colore ai nostri piedi, come se avvertissero fisicamente la nostra presenza, dagli altoparlanti si diffondeva una musica soave, delicata, che accarezzava le nostre orecchie. Il Notturno di Chopin. Nancy era tutta eccitata all’idea di doversi mostrare con quel look super elegante. Non che fosse la prima volta, ma di sicuro era la primissima là dentro. Mi faceva Cerca di non farmi fare figuracce, cara. Possibile che qui riusciamo a strappare qualche mega contratto cinematografico, che ne so. Un film sulla mia vita. Tu potresti fare l’antagonista. Magari potresti morire a metà film, o restare paralizzata dalla vita in giù. Trattenendomi dal piazzarle un gomito sulle costole, solo ma solo per non infastidire il nostro padrone di casa, le dissi Non so fino a che punto la mia dipartita possa giovare alla tua immagine. Si sa che una volta che il nostro peggior nemico viene a mancare, viene meno anche la nostra maggiore ragione di vita. Potresti decadere anche tu, senza di me. Non ci hai mai pensato? Lei mi aveva guardata con aria stupita e aveva risposto Dipa-che?

La tavola era apparecchiata e abbondava di ogni ben di dio. Non avevamo idea di chi l’avesse preparata ma non ci azzardammo a chiedere informazioni. Mr. Wolf ci disse di bere e mangiare tutto ciò che volevamo, che a metterci a dieta ci avremmo pensato dal giorno dopo. Questa cosa non mi piaceva tanto, ma ci fidammo. Bevemmo Veuve Clicquot e Moët & Chandon. Mangiammo caviale Almas e filetto di manzo di Kobe. Mr. Wolf ci deliziò con le sue amatissime esercitazioni oratorie prima, con alcuni aneddoti riguardanti la sua vita poi, sempre che quelle storielle fossero vere, e ci esortò a raccontare qualcosa delle nostre vite dopo. Cominciamo dalla nostra stella più luminosa, fece riferendosi a Nancy. Sempre che la nostra qui presente gregaria non si risenta del ruolo assegnatole in questo nostro speciale gioco, aggiunse riferendosi a me. Nancy si lasciò scappare un risolino. Idiota. Versandomi un altro bicchiere di champagne, e conseguentemente suggendo quel dolce nettare, avevo risposto con calma Si figuri. Sono perfettamente consapevole che la mia persona non possa essere paragonabile a quella della qui presente signorina Russell. Aveva risposto, Wolf, mentre l’ego di Nancy sperimentava un rinvigorimento sempre maggiore,  Non può che farmi estremamente piacere che voi due stiate finalmente riuscendo a mettere da parte anni e anni di inimicizia grazie nientemeno che alla mia azione pacificatrice, e si sentì battere le mani aggiungendo Adoro fare bingo. Dopo altre due, tre, quattro portate e altri cinque, sei, sette bicchieri di champagne, bastò a Mr. Wolf mostrarci, riprodotti su un maxi schermo fissato sulla immensa parete della sala da pranzo, alcuni dei momenti migliori, soprattutto per Nancy, e peggiori, per me, dei nostri ultimi scontri per dimostrare che si sbagliava di grosso. La finale dei Giochi Olimpici, sentenziò Wolf, mentre le immagini di Nancy che baciava la medaglia d’oro scorrevano sullo schermo, con me sul secondo gradino del podio, a stringere l’argento. La finale di X, fece lui mentre sullo schermo campeggiava la mia esultanza composta dopo aver battuto Nancy in tre set, sulla terra rossa di X, cosa che non mi riusciva da tre anni. Con la coda dell’occhio cercai di captare la sua reazione. Nessuna. Tutto bene, forse l’alcol le aveva anestetizzato i sensi. Eccoci alla finale del torneo di X, ricordo che probabilmente la signorina Bailey preferirebbe tenere chiuso in un cassetto, disse poi Wolf. Ed ecco scorrere le immagini della più cocente sconfitta mai subita nella mia carriera. Un incubo che mi tenne sveglia per settimane. Stavo male, quel giorno, dissi incrociando le braccia e voltandomi per cercare di evitare lo sguardo di Nancy. Lei era scoppiata in una risata fragorosa, Sì, come no, aveva detto. Avresti potuto ritirarti, ti saresti risparmiata una figuraccia. Due golden set, ma lei stava male, disse. E rise ancora. Stavo male davvero, quel giorno, replicai continuando a evitare qualsiasi contatto visivo con lei. In certi casi i suoi occhi sapevano attraversarti da parte a parte, così bene da lasciarti persino le cicatrici. Forse ti aveva appena mollata quel tizio con cui te la facevi, no, il tedesco. Quello che a quanto pare non era riuscito a scaricare sua moglie per te, se non ricordo male. Dimmi cara, mi sbaglio? Che razza di stronza. Colpo basso. Mi voltai verso di lei, mentre Mr. Wolf doveva godersi la scena chiuso in chissà quale buco si trovava, e risposi il più malignamente possibile Parli proprio tu, carissima… Il fatto che tu abbia cambiato più fidanzati che assorbenti nel corso della tua vita non può che essere indicativo di quanto tu sia una puttana. Le parole mi erano uscite di bocca da sole, io non avevo fatto nulla per fermarle. Nancy era rimasta a bocca aperta. Wolf faceva Signorine, signorine, non è il caso di rompere quell’equilibrio perfetto che si era così faticosamente creato. I miei occhi andavano da lei allo schermo, dallo schermo a lei. L’espressione antitetica delle due Nancy, quella estatica in preda alla gioia che mi aveva appena battuta senza concedermi un punto, e quella piena d’odio che mi guardava dall’altra parte del tavolo in quel momento. Wolf si apprestava a dire qualcosa dal profondo degli altoparlanti, ma Nancy lo precedette urlando Lei stia zitto una buona volta! Mi lasciai scappare un mezzo sorriso, e dissi Wow, finalmente stiamo tirando fuori gli artigli. In una frazione di secondo, si era scatenato l’inferno. Nancy aveva iniziato a lanciarmi contro tutto ciò che aveva a tiro. Bottiglie di costosissimo champagne francese vuote. Piatti in ceramica bianca di Provenza decorati in oro. Un filetto di manzo croccante in salsa di arancia mi finì dritto in faccia, scivolandomi sul vestito. Per farla breve, fu tutto un insultarci continuo, un prenderci per i capelli, un graffiarci sul viso, un tirarci calci e pugni. Praticamente devastammo quella splendida sala ultra chic in design minimale in cui avevamo consumato una cena da chissà quante migliaia di dollari. Per non parlare dei nostri Vera Wang e Dolce.


Estratto dal romanzo edito “Louisiana Swing” (cap. 12)

 

 

12

 

Stanza di motel. 

Carta da parati verde olivastro con fantasia di fiori giallo ocra. Soffitto sempre verde, una specie di verde cinabro che alcune chiazze di muffa qui e là rendono grigio asparago. Pavimento in parquet prefinito doussiè, eccetto il bagno che presenta una pavimentazione in linoleum blu scuro quasi nero. Doccia lavandino specchio armadietto wc. Tendina della doccia, verde acqua quasi trasparente. Pareti del bagno piastrellate a quadri, tutte in bianco. 

Torna alla stanza. Tv color semplicemente poggiato sopra una scrivania in legno d’acero dotata di due cassetti uno dei quali contenente una bibbia, l’altro vuoto. Sotto la scrivania piccolo frigo da forse trenta litri. Contenuto del frigo: Numero 1 bottiglia di Mountain Dew. Numero 2 bottiglie d’acqua frizzante. Numero 3 bottigliette di Jack Daniel’s Tennessee Whiskey. Numero 2 bottigliette di Leopold’s gin. Numero 1 bottiglietta di Tanqueray Ten. Numero 2 bottigliette di vodka Smirnoff. Numero 1 lattina di Pepsi. Numero 3 lattine di Foster’s. Numero 4 bustine di frutta essiccata. Numero 5 barrette Power Bar Ride Energy cioccolato e caramello. Numero 1 confezione di Smarties.

Letto a una piazza e mezzo. Copriletto trapuntato teoricamente di colore beige scuro ma in pratica quasi marrone. Comodino sul lato destro. Poltrona con rivestimento in velluto viola sbiadito sul lato sinistro. Lampada sopra il letto. Ventilatore a due pale sul soffitto al centro della stanza. 

Pala di ventilatore da soffitto incastonata tra la parete della scrivania e il muro.

Che posto di merda.

Avete presente quando pensate che la vostra vita stia ormai trascorrendo così, piana, lineare, e che nient’altro potrà mai succedere di eclatante perché credete di avere già dato abbastanza, in quel dipartimento? Bene, non statevene così tanto tranquilli perché qualcosa capita sempre. Quando meno ve lo aspettate. Le cose possono cambiare da un giorno all’altro. Una cosa che vi sembrava impossibile potesse accadere, può succedere senza che nemmeno ve ne accorgiate. 

Ho scelto la camera più lontana dalla reception, e allo stesso tempo più vicina al parcheggio. Questo perché ho dovuto svuotare il bagagliaio e portarne il contenuto all’interno della stanza, sperando che nessuno mi abbia vista. 

Ora se ne sta lì, sulla poltrona, che ho avvicinato il più possibile al letto in modo che potessi ammanettarcelo. Esatto, ho ammanettato il contenuto del bagagliaio della mia Buick Century Cabriolet seconda serie azzurro chiaro al letto della mia putrescente stanza di motel. 

Provasse anche solo a muoversi di un centimetro, la mia bambina è sempre pronta. 

Se solo potesse parlare, il contenuto del bagagliaio che ormai non è più tale almeno fino a nuovo ordine, se potesse parlare mi darebbe della pazza. Ma non può farlo. Perché se solo si azzardasse, bang bang. 

Mi sento talmente misericordiosa oggi, che prendo una delle bottigliette d’acqua dal frigo e la lascio aperta sul bracciolo della poltrona, insieme a una barretta proteica. Ma per usufruire di questi doni del cielo, il contenuto del bagagliaio dovrebbe togliersi la palla gag dalla bocca da sé. Perché io non ho nessuna intenzione di farlo. 

Mmmpgfghpmpfgh.

Accendo la tv.

Notiziario.

Tizio di colore bianco entra nella chiesa di una cittadina in Alabama e scarica un numero indeterminato di caricatori della sua calibro 38 a tamburo su dodici persone di colore nero, uccidendole. Poi si siede su una panchina fuori dall’edificio e attende l’arrivo della polizia sorseggiando una diet Cola.

Attentato terroristico di stampo jihadista causa la morte di centinaia di persone in un imprecisato stato dell’Africa centrale. 

Terremoto di magnitudo 8 con annesso tsunami colpisce arcipelago localizzato nel sud-est asiatico e causa oltre ventimila morti. 

Nota organizzazione armata terroristica nazionalista separatista d’ispirazione marxista-leninista che si credeva ormai inattiva piazza autobomba all’interno del parcheggio sotterraneo di un grande magazzino nel centro di Madrid.

Astro nascente di Hollywood trovata morta riversa sulla sua vasca da bagno, probabile overdose di tranquillanti. Aveva 27 anni.

Cazzo, ci ho sempre sperato in una fine del genere. Però ho passato i 27 da cinque anni, ho perso il treno.

Cambio canale.

La simpatica Jessica Fletcher impegnata a risolvere un caso di omicidio.

Cambio canale.

Campionato mondiale di snooker. Free-ball.

Cambio canale.

Harold e Maude. Ho visto questo film decine di volte. Dimmi Harold, che cosa fai per divertirti, quale attività ti dà un senso di godimento diverso dalle altre… E che cosa ti soddisfa veramente, cos’è che ti dà una particolare… sollecitazione? 

Andare ai funerali. 

Rido.

Cambio canale.

Telequiz. 

Game show.

Qualcosa del genere.

 

Vai a quando avevo quindici anni. Che la mamma si era messa in testa di farci partecipare a un telequiz per famiglie, o una cosa simile. A sentire mia madre, non solo avremmo per una buona volta fatto qualcosa tutti insieme, come se vivere sotto lo stesso tetto e condividere la stessa aria non fosse abbastanza, ma se avessimo vinto avremmo pure potuto goderci come premio una vacanza alle Maldive, o qualche posto simile cliché, e un cospicuo premio in oddio oddio gettoni d’oro. Ma ci pensate?

Non è che l’idea di apparire in TV mi eccitasse più di tanto.

Anzi, non mi eccitava proprio per niente. 

Ma, per quanto il papà non mancasse di esprimere costantemente il suo disappunto ad ogni reiterata richiesta della mamma che mano a mano che il tempo scorreva da richiesta era diventata un ordine, lei riuscì infine ad averla vinta. 

Potere alle donne.

Il trionfo della vagina sul pene.

E così eccoci un venerdì pomeriggio, dopo un viaggio lungo quattro ore, un giorno di inizio ottobre che quasi era il mio compleanno, arrivare agli studi televisivi in cui si registrava il programma.

La mamma che tipo aveva dormito forse un’ora. Eccitata eccitatissima. Io mi ero fatta tutto il viaggio con le cuffie ben piantate nelle orecchie con la speranza che le Andrews Sisters mi aiutassero a non pensare a ciò che mi stava aspettando. 

Appena arrivati, ci viene incontro una donna sulla quarantina. Giacca rossa con spalline e gonna nera. Scarpe col tacco anche nere. Sulle gambe collant color carne che ne coprono con scarso successo, devo proprio dirlo, le vene in rilievo. Agita il braccio destro e quando ci ha a tiro fa La famiglia di Conte? Io sono la vostra assistente personale per oggi, mi chiamo Dolly. E tende la sua mano inanellata verso il papà, che fa per darle la sua ma è preceduto dalla mamma. 

Dolly, ma che piacere. Io sono Margaret. E le stringe la mano sorridendole a trentadue denti.

A presentazioni concluse, la nostra assistente personale ci invita a seguirla all’interno dello studio, dove ci spiegherà le regole del gioco e come ci si comporta di fronte a una telecamera. La mamma mi dà un colpetto al braccio destro col gomito e mi fa Abbiamo un’assistente personale, non ci posso credere.

Non potevo proprio crederci nemmeno io. Non potevo credere di essere lì, voglio dire.

Quanto vorrei avere la forza di non ricordare. Ma mi torna sempre in mente tutto.

Entrati nello studio, la nostra assistente personale, che più che personale deve definirsi familiare, ci presenta alla famiglia contro cui ci dovremmo giocare il favoloso viaggio di una settimana alle Maldive Hawaii Polinesia qualsiasipostovabene e tutto quel malloppo in gettoni d’oro. Ci sono quattro poltrone una di fronte all’altra, e Dolly ci fa sedere in perfetto ordine chiastico di fronte a quelli che la mamma definisce I nostri avversari. Genitore, figlio, figlia, genitore. Di fronte a noi, seduti in perfetto ordine chiastico anche loro, ecco i Parker. Accompagnati dal loro assistente personale barra familiare, che si presenta con il nome di Glenn. Glenn porta un cardigan smanicato a bottoni nero su camicia celeste. Jeans blu chiaro e mocassini Clarks grigio scuro. Occhiali tondi sul naso. 

I Parker sono esattamente come noi. Famiglia media di quatto componenti, due figli uno maschio una femmina. Credo sia il format a richiederlo. Mentre i nostri assistenti partono con le presentazioni, il mio sguardo cade sul Parker figlio, che suppongo sia il maggiore, in perfetta sintonia con la nostra, della famiglia di Conte intendo, distribuzione gerarchica interna. Data la disposizione chiastica in cui ci troviamo ad essere seduti in riga una famiglia di fronte all’altra, il giovane Parker si trova direttamente faccia a faccia con Teddy, ragione per cui entrambi i nostri sguardi si posano su di lui. 

Gli assistenti ci spiegano cosa succede durante la sigla e durante gli stacchi pubblicitari. Ci sono due pause, dice Glenn, Una dopo le prime dieci domande e una prima della domanda decisiva se ci dovesse essere bisogno di giocare quella manche, il che significa che sarete arrivati in parità. Con il montepremi, s’intende. 

La mamma studia I nostri avversari, che col passare dei minuti sono diventati I nostri nemici. Mentre la Signora Parker se ne sta lì con l’aria tutta annoiata, l’esatto opposto della mamma, ad accennare un sorriso ogni tanto, seduta composta con il suo tailleur blu scuro e la sua pettinatura alla Meryl Streep in Kramer vs. Kramer, la mamma pare abbia esagerato con il Provigil. Se gli viene in mente di farci un controllo antidoping, a questi del programma, garantito al mille per mille che ci becchiamo una squalifica e addio Bali. Addio Seychelles. Addio Barbados. Addio Zanzibar. 

Ogni tanto la mamma mi dà un colpetto sul braccio col gomito, un pizzicotto sulla mano per richiamare la mia attenzione, un calcetto sullo stinco. 

E Dolly ci spiega che staremo in piedi dietro le nostre postazioni, in riga, tutti e quattro. Ognuna delle postazioni avrà un pulsante che dovremo schiacciare quando saremo sicuri di avere la risposta giusta. Nel caso dovessimo schiacciare prima del previsto, senza dare al conduttore il tempo di finire la domanda, non potremmo rispondere e lo faranno i nostri avversari. A noi toccherebbe dopo di loro, se non dovessero rispondere correttamente.

I nostri avversari.

I nostri nemici.

Nel caso in cui dovessimo dare la risposta giusta, aumenteremmo il nostro montepremi. In caso contrario, perderemmo un tot di montepremi. 

Non muoio dalla voglia di essere qui, ma almeno un quarto della formazione avversaria barra nemica è sexy da far paura. Vi starete domandando se per caso avessi iniziato a pensare unicamente ad una cosa, e costantemente, una volta che mi erano spuntate le tette. Mi starete dando della troietta. Non che il vostro giudizio mi interessi particolarmente, però vorrei comunque spezzare una lancia in mia difesa: ero semplicemente consapevole che il mio aspetto suscitasse tutta una serie di sensazioni oltremodo piacevoli negli esseri umani di sesso maschile. E talvolta anche in quelli di sesso femminile. Capita tuttora, per la cronaca. Perché far finta di niente? 

E comunque, non ho aperto le gambe fino ai diciotto anni. Ok, mi sono fatta fregare praticamente subito, che idiota, bla bla bla. 

Mi ricordo, vai indietro tre anni fino a quando ne avevo dodici ed ero appena diventata una donna e la mamma aveva cominciato a riempirmi i cassetti di reggiseni come se non ci fosse un domani, che una mattina mentre facevamo colazione il papà mi aveva chiesto Kelly, tu lo sai da dove vengono i bambini? 

I cereali al miele che stavo mangiando mi erano rimasti sulla gola e dovetti inondarli di succo d’arancia per evitare spiacevoli inconvenienti.

Mi sembrava logico che io sapessi, mi sembrava meno logico che i miei genitori pensassero che io non sapessi. Io gli avevo risposto Non si trovano sotto i cavoli, o qualcosa del genere?

La mamma aveva lasciato i piatti che stava lavando a metà, e si era seduta a tavola con noi. Cara, amore della mamma…

Amore della mamma.

Questa, sinceramente, non la volevo sentire.

Cara, devi sapere che quando un uomo vuole bene a una donna, ma tanto, tanto bene…

Il papà l’aveva interrotta, le aveva lanciato un’occhiata e aveva fatto Anche un uomo può voler bene ad un altro uomo e una donna può voler bene ad un’altra donna, ma sempre tanto tanto bene, s’intende.

La mamma aveva ripreso che Sì, ci sarebbe da discutere su questo, ma comunque. Quando due persone di sesso opposto si vogliono bene ma tanto, tanto bene…

Ed ero andata a scuola, quel giorno, che avevo ripromesso a me stessa che mai avrei più parlato con i miei genitori di certe cose. Tutta la questione dell’inserimento di falli all’interno di determinati orifizi e dello scambio di fluidi corporei, così come mi era stata brillantemente illustrata dai miei genitori, per un certo periodo di tempo non aveva fatto altro che provocare in me una qualche riluttanza mista a disgusto al solo pensarci. Mi divertivo comunque a flirtare, consapevole di possedere un aspetto che poteva permettermi di espormi a giochi innocenti di questo tipo. Poi ok, a diciotto anni c’era stato quel piccolo problemino lì, ma si era risolto subito. Ci aveva pensato una caduta accidentale dalle scale della biblioteca, a risolverlo.

Torna a quando a quindici anni ci apprestavamo a partecipare al quiz televisivo per famiglie perché la mamma aveva deciso così.

La mamma. Tutti dicevano che non le somigliavo per niente. E in effetti in comune avevamo proprio poco. Quasi niente. O forse proprio niente niente. I nostri caratteri collimavano zero per cento. E nemmeno fisicamente, le somigliavo. Tutti mi dicevano Sei tutta tuo padre. Tutti. Forse all’inizio la mamma si risentiva per questo e la conseguenza era stata quel non degnarmi di un minimo di contatto fisico necessario a sviluppare una certa capacità di empatia essenziale per accrescere qualsiasi forma di relazione umana. Ho letto da qualche parte che un bambino privato di qualsiasi contatto fisico è probabile che crescendo diventi un sociopatico e abbia serie difficoltà a provare dei sentimenti, e di conseguenza è assai probabile che risulti incapace di amare. Per la cronaca, ma solo per la cronaca, no, non sono una sociopatica. Me ne starò pure qui stesa sul letto di una stanza di un motel marcescente con una Glock 29 sempre a portata di mano e un indefinito contenuto di bagagliaio ammanettato a meno di un metro di distanza, ma no, NON sono una sociopatica. A prevenire questa evenienza ci aveva pensato mio padre, che mi aveva fatto da papà e da mamma almeno nei primi sei anni della mia vita, da quello che mi posso ricordare.

Non che gliene faccia una colpa, alla mamma. Non si può controllare tutto. 

Dopo che gli assistenti personali barra familiari ci hanno spiegato le regole del gioco, e il mio corrispondente elemento Parker, vale a dire la giovane di forse tredici – quattordici anni che mi siede dirimpetto vestendo una orribile camicetta rosa con un fiocco sul davanti e una gonna bianca a pois sempre rosa così come rosa sono le sue scarpe basse tipo ballerina in vernice, non fa altro che sbavare dietro a mio fratello, non che le convenga, Dolly interrompe quel perfetto equilibrio chiastico e ci accompagna a fare un giro turistico dello studio. 

Cristo quanto non volevo essere lì.

Però c’ero.

Tutte quelle luci al neon mi provocavano un fastidio indescrivibile. La parte centrale, quella in cui si trovavano le postazioni dei concorrenti, era un ovale che si raggiungeva tramite una pedana collegata con il backstage. Tutto intorno lo spazio era del pubblico. Saremmo stati circondati da persone che avrebbero applaudito e riso a comando, secondo le indicazioni dei dieci schermi che si trovavano sopra le loro teste. 

Applauso.

Clap clap clap.

Risata.

Ha ha ha.

Disappunto.

Nooooo.

Sorpresa.

Oooooh.

Ma stando alla mamma, dovevamo essere in paradiso. A quell’età la mia idea di paradiso era più o meno questa: io sdraiata su un mare di marshmallows che sorseggiavo punch leggermente alcolico ma non troppo mentre River Phoenix mi massaggiava i piedi con in sottofondo Easy Living di Billie Holiday. 

Ora la mia idea di paradiso è che non esiste un paradiso.

Comunque la mamma è super elettrizzata. Mentre facciamo il giro dello studio e Dolly ci presenta al conduttore, un uomo sulla cinquantina dai capelli grigi e dalla faccia simpatica, vediamo correre verso di noi un tizio con delle cuffie a microfono e un blocco di fogli in mano, che ci dà la splendida notizia che Stasera non si registrerà, ma andremo in diretta.

Fammi sprofondare.

Il papà che fa Per dio

La mamma che fa Oddio, ci pensate, in diretta nazionale. E mi dà l’ennesimo colpo di gomito. 

Teddy niente.

Al momento del trucco, la mamma ci prende tutti e tre in un angolo e ci fa che Vediamo di non fare stronzate oggi, eh. Tu, e punta il dito contro Teddy, Vedi di fare bella figura. E dalla borsetta prende una confezione di Xanax e glielo fa ingoiare senza nemmeno un po’ d’acqua. Allunga la sua mano verso di me porgendomene uno, e io le dico che no, grazie mamma, sono a posto. Kelly di Conte! mi fa. Va bene, mamma, va bene. E che palle.

Il papà mi guarda con quell’aria come dire Non ci posso fare niente, e si becca uno Xanax anche lui. 

Ostaggi della mamma. Ostaggi di questa sua improvvisa mania di protagonismo. 

La mamma anziché prendere lo Xanax ingurgita avidamente due o tre Pervigil. 

Quando siamo di fronte al pubblico, nemmeno mezz’ora dopo, inizio a sudare come un porco. Siamo disposti nello stesso esatto ineccepibile ordine chiastico che tanto piace alla nostra assistente personale barra familiare Dolly. 

Applauso.

Clap clap clap.

Risata.

Ha ha ha.

Disappunto.

Nooooo.

Sorpresa.

Oooooh.

Per ben quattro volte la mamma, tutta eccitata, aveva schiacciato il pulsante prima che il presentatore potesse terminare di fare la domanda. Quattro volte di seguito, le prime quattro domande. Allo stacco pubblicitario, lui si era avvicinato per chiedere se stesse bene. Lei aveva risposto con quel sorriso a trentadue denti che aveva dalla mattina e non intendeva smettere di portare. Le sue pupille dilatate. Disse che stava perfettamente, grazie. 

Mamma, forse è il caso che lo Xanax lo prenda tu, le faccio. Guardo Teddy e papà e loro sembrano d’accordo. Pensa a Santorini e alle Canarie, mamma.

Pensa ai gettoni d’oro, fa il papà.

Signorina, forse hai ragione, dice la mamma. 

C’è uno schermo dietro la postazione del presentatore, e ogni volta che la mamma si vede inquadrata mi dà il classico colpetto col gomito, e sorride. Teddy impassibile. Il papà regge il gioco, un po’ come cerco di fare io. 

Arriviamo alla ventesima domanda con i Parker, I nostri nemici, in vantaggio. Questo perché Ci avresti dovuto pensare prima di schiacciare quel pulsante, giovanotto, fa la mamma a Teddy. Pare piuttosto nervosa. 

Pensate alle Mauritius. Pensate alle Baleari. Pensate a Honolulu.

Calma e sangue freddo, per dio, dice mio padre. Non so se lo fa perché ci ha preso gusto anche lui, o cosa.

Alla ventesima domanda nessuno si decide a schiacciare il pulsante, se non la sottoscritta. 

Benedette lezioni di letteratura francese della signorina Smith. Sempre siano lodate.

Bovarismo. Condizione che deve il suo nome alla protagonista del romanzo di Flaubert. Emma. Emma Bovary. Si tratta di una radicata insoddisfazione spirituale. Una tendenza psicologica a costruirsi una personalità fittizia, a sostenere un ruolo non corrispondente alla propria condizione sociale o più semplicemente umana. Indica un desiderio smanioso di evasione dalla realtà, soprattutto in riferimento a particolari situazioni ambientali, sociologiche e simili. Quello che, col senno di poi, avrebbe potuto riferirsi a mia madre, specie l’ultima parte. 

Sorpresa.

Oooooh.

Applauso.

Clap clap clap.

Brava, amore della mamma, brava, mi dice la mamma stringendomi le quattro dita della mano destra.

Amore della mamma.

Al secondo stacco pubblicitario, la nostra assistente personale barra familiare, la buona vecchia cara Dolly, ci convoca per un breve brainstorming di due minuti. I miei occhi cercano il giovane Parker, dall’altro lato della pedana. Mi guarda anche lui e sorride. Chissà se ci sarà la possibilità di scambiarci il numero al termine della guerra. Dopo tutto, bisogna tenere stretti i propri amici ma ancora più stretti i propri nemici. L’unica cosa che mi sento stringere ora è la pelle del braccio destro, perché la mamma mi sta pizzicando con forza per richiamare la mia attenzione. 

Dolly ci spiega che l’ultima domanda, quella decisiva, dal momento che abbiamo terminato le venti previste dal gioco con un montepremi in perfetta parità, è un po’ diversa dalle altre. Uno di noi, scelto per estrazione dal conduttore, avrà un minuto di tempo per rispondere ad una domanda riguardante un altro membro della famiglia. Facile, se non fosse che la domanda in questione avrebbe anche potuto presupporre una conoscenza profonda del familiare in questione, che tradotto poteva anche significare che avremmo dovuto essere pronti a svelare in diretta televisiva alcuni dei nostri più reconditi segreti. 

Volete Bora Bora? Creta? Capo Verde?

Volete centomila dollari in gettoni d’oro?

Allora aspettatevi di tutto. Aspettatevi di dover rispondere che il passatempo preferito di vostro fratello è fregarvi i reggiseni e vestirsi con la vostra biancheria intima, impiastrandosi le labbra di rossetto con Like a virgin di Madonna in sottofondo.

Sorpresa.

Oooooh.

Questo, ovviamente, se toccasse a voi rispondere. Ma si dà il caso che a me sia successo il contrario. L’esatto opposto. 

A Teddy toccava rispondere ad una domanda che riguardava me. 

Fammi scappare.

Fammi sprofondare.

Fammi scavare una fossa.

Quindi la palla è nelle nostre mani. Ciò significa, ci spiega il simpatico conduttore, che tutte le pressioni saranno sul giovane di Conte, perché se sbagliamo qui, consegniamo il gioco dritto dritto ai nostri avversari. Ai nostri nemici.

Applauso di incoraggiamento.

Clap clap clap.

La mamma suda freddo. 

Il papà ha già le mani nei capelli. Per dio.

In realtà la domanda non è niente di preoccupante, all’apparenza. Voglio dire, non è preoccupante perché mio fratello non sarà costretto a rispondere di quella volta in cui mi vide prendermi la prima sbronza a base di vodka alla fragola scadente alla festa in piscina di Shaun Porter, quando avevo vomitato sul set di divani bianchi nuovo fiammante dei genitori non prima di essermi lanciata in uno striptease a bordo vasca.

Cazzo, questa non me la volevo ricordare.

La domanda non è di quelle impossibili, comunque. E riguarda me, sì, ma non proprio direttamente. Forse riguarda tutti noi. Teddy, e me, e la mamma e il papà.

La domanda è: Ricordi, fratello maggiore, i giorni felici in cui nacque la tua qui presente sorella? Ci devi dare almeno tre particolari, numero uno dove tu ti trovavi in quel momento, numero due nome dell’ospedale all’interno del quale la qui presente ha visto la luce e numero tre dopo quanto tempo la sempre qui presente e la puerpera in questione, tua madre, hanno fatto ritorno a casa.

Ma che cazzo di domanda è, mi chiedo. Però, non può essere nemmeno così difficile rispondere. Forse un po’ sì, considerato che si dovrebbe far ricorso ai ricordi di un bambino che allora aveva poco più di cinque anni. Ma insomma. 

Tre, due, uno, via al tempo.

Il papà alza gli occhi al cielo. 

La mamma gronda sudore. La vedo che fruga nella borsetta in cerca di uno Xanax. 

Teddy niente.

I secondi passano, inesorabili. Il pubblico sta col fiato sospeso.

Oddio, oddio, fa la mamma al mio fianco.

Cristo, Teddy, per dio, fa il papà a denti stretti.

Credo che la mamma abbia bisogno di sedersi.

Mancano venti secondi, dice il simpatico presentatore.

I Parker sono lì, a sfregarsi le mani. Almeno, il Parker senior. La signora Parker sembra non veda l’ora di tornarsene a da chissà quale posto tristissimo vengono. La Parker figlia si è messa in bocca un chewing gum e fissa un punto nel vuoto con aria annoiata. Il Parker figlio guarda me. Ciao, giovane Parker, ciao. Chiunque vinca, fuggiamo insieme a Guam con i centomila dollari in gettoni d’oro, e lasciamoci tutto alle spalle.

Teddy guarda il giovane Parker prima, me dopo, poi la mamma e il papà e il presentatore in sequenza. 

Mancano dieci secondi.

Teddy rompe il silenzio e dice che, veramente, non riesce a ricordare nulla di quel giorno.

Non vuoi nemmeno provarci? gli chiede il presentatore, già pronto a dichiarare i nostri nemici vincitori della serata.

Sul serio, non ricordo proprio proprio niente di quando è nata mia sorella. E marca la parola niente

Disappunto.

Nooooo.

Cinque quattro tre due uno. 

Dolly si precipita verso mia madre, che nel frattempo ha avuto un mancamento. Il pubblico applaude. Apoteosi. Tutti quegli applausi che avrebbero dovuto essere per la stella della serata, Margaret di Conte, se li becca la signora Parker. Alla quale non avrebbe potuto importare di meno, di essere lì. Un po’ come a me.

 

Mentre riprendo il cammino alla guida della mia Buick Century Cabriolet seconda serie azzurro chiaro verso quelpostochenonvidicoancora per ilmotivochenonvidicoancora, dopo aver riposto con attenzione e senza dare nell’occhio il contenuto all’interno del bagagliaio, penso. 

Forse a questo punto vi starete chiedendo in cosa consista, questo dannato contenuto del bagagliaio. E perché si trovi nella condizione di essere, appunto, il contenuto di un bagagliaio. Ce l’avrà pure un nome? Una natura? Una razza? Un sesso? È ancora troppo presto per dirlo. Io per ora penso.

Penso, mentre mi sfrecciano accanto a tratti solo rocce altissime o colline aride, a tratti ampi spazi aperti coperti da cespugli e erbe bruciate dal sole, a tratti campi verdi coltivati a non so che, e poi di nuovo rocce e colline e cespugli. Penso ai motivi che ci spingono, noi esseri umani, verso altri esseri umani. Probabilmente è una domanda che le persone si fanno dalla notte dei tempi. Ma quali sono le risposte? È solo una? O ce ne sono tante? E perché è facile capire quali sono i motivi che ci allontanano dagli altri e non quelli che ci avvicinano?


Dicembre 2018

 

 

Di tutto quello che sapevo

ho trattenuto veramente poco

percorrendo distanze infinite

molto spesso immaginarie

pensando a tutto e insieme a niente

senza mai fermarmi alla superficie delle cose

sviscerando significati che gli altri

nemmeno intendono dare

 

Una percezione di ogni cosa totalmente diversa

e più profonda

di tutti i gesti e di tutte le parole

Non importa, sarà sempre così

queste parole marchiate a fuoco

nella mia mente

scolpite a fondo in un cuore

schiacciato in una morsa

strizzato come un panno

e lasciato inaridire al sole

o forse no, forse no

 

Non è forse questa

una delle mille contraddizioni 

che ti piacciono di me?

apparentemente

Apparentemente?

Apparentemente non importa, è sempre stato così

Perché a qualcuno dovrebbero piacere?

Perché qualcuno dovrebbe sprecarci il suo tempo?

Perché me?

Perché te?

E perché farmi scuotere così tanto

da fare cadere tutto ciò

che di quasi morto c’era in me?

 

I pensieri si infittiscono

le parole si schiantano in gola

l’eziologia di tutto questo mi è ignota

come quello che provo

C’è una differenza sostanziale

nel bisogno che abbiamo l’una dell’altra

C’è una differenza sostanziale 

nel nostro modo di essere

di pensare

di parlare

C’è una differenza sostanziale nel

C’è una differenza

C’è una

 

E poi c’è una tristezza

c’è una tristezza che mi viene quando ti guardo

c’è una tristezza che mi assale quando ti penso

c’è una tristezza che mi prende quando ti ascolto

perché non riesco ad accettare che le nostre esistenze

abbiano collimato in questo modo

perché non posso accettare di non riuscire ad accettare

di provare tristezza

per una cosa così bella

per la perfezione imperfetta della cosa

tua, mia

 

C’è una tristezza perché ogni volta che parliamo

temo che sia l’ultima

è irrazionale

e non avrei il potere di farci niente

e c’è una tristezza 

perché per qualsiasi altra persona al mondo

niente che ti riguarda

sarebbe tristezza

 

Qualcosa di incomprensibile

arcano e nascosto

inaccessibile

la paura di andarmene per sempre

affogata nella voragine di un abisso

che nessuno sa

quanto profondo possa essere

e incomunicabile

non poterlo esprimere

non poterlo dire

non poterlo fare

 

E aspettare che tutto mi appaia in volto

in silenzio

e nel frattempo bruciare

mentre tento di aggrapparmi

all’immagine che ho di te

e mi chiedo il motivo di tutto questo

 

E la consapevolezza che tu sia consapevole

che in realtà

sicuramente

io ci sarò sempre 


A Hermann e David

 

Dentro la testa un incessante rumore

come di zanzare che hanno preso anfetamine

si potrebbe scambiare per il ronzio

di una scritta al neon che campeggia decadente

DISTRUZIONE COMPLETA DI PENSIERI CONFIDENZIALI

La vista ottenebrata da caratteri artificiali

non dovremmo vedere più nulla

I pensieri di una intera settimana prendono forma

sotto la pioggia leggera di una domenica d’agosto

La domenica, il suo giorno prediletto

E l’odore dell’asfalto bagnato e qualche voce lontana

uomini e donne seduti ai tavoli dei bar

ridotti a pura semplice forzata scenografia umana

ineluttabilmente inconsapevoli del proprio status periferico

gli uni nelle vite degli altri

Una lacerante sensazione di vergogna e inadeguatezza

che i più appagati sono incapaci di percepire

Momenti di pensieri strazianti che si avvinghiano

lottando per trovare una via d’uscita

tentando voli pindarici da un punto all’altro del lobo frontale

ormai quasi essiccato

Dove trovare sollievo? Come dormire, come metterli a tacere?

Sperando che le zanzare fatte di ‘drine

crollino a terra e cessino

quel blaterio furibondo

nel freddo di una domenica notte di agosto

che non diresti nemmeno agosto

una domenica che diventerà la prossima

e quella dopo ancora

E stanca e indispettita e in cerca di un confessionale vuoto

trasportata dal vortice di intuizioni e ispirazioni e sensazioni

Si tratta veramente di una cosa confidenziale? 

Dove eravamo rimasti?

Sussurri che non saranno mai grida

incapacità tossicamente disfunzionale di esprimere

l’indescrivibile inferno interiore

psicodramma e sentimenti e parole e pensieri

come cartucce sparate a salve

sul petto della vita 


Quello che voglio sentire

 

 

Lento il mio dito

sulle tue labbra

modella parole

che tu non dici

 

se lo facessi

non avrei più bisogno

di ascoltare

nessuna altra voce 


Pensavo fosse amore, invece era autodistruzione

 

 

Mi sono innamorata ottantacinque volte, oggi

di solito riesco ad essere ossessionata 

da cinque persone che sono sbagliate per me

allo stesso tempo

Ho avuto numerose relazioni

lunghissime

con persone che non erano a conoscenza

della mia esistenza

Ciao, che ne diresti se bevessimo qualcosa insieme?

Ho veramente bisogno di ossessionarmi di qualcuno

La mia instabilità emotiva ti eccita?

Ti devo avvisare che la mia ansia

si trasmette sessualmente

e che probabilmente

sarò una delusione

Sono sicura che spenderemo il resto delle nostre vite insieme

nella mia testa

Tu pensaci

non ho fretta

ma devi sapere che se non mi rifiuti

lo farò io per te

Potrei amarti basandomi solamente sul tuo ignorarmi

Potresti darmi giusto dieci minuti di preavviso

prima di abbandonarmi per sempre?

Mi sono innamorata ottantasei volte, oggi