Bruno Navoni - Poesie e Racconti

Affanno

Faceva molto freddo, ma aveva deciso lo stesso di uscire per un giro in città. Aveva corretto compiti, letto alcune pagine di Hanning Mankell, il suo preferito dopo George Simenon. Sotto la doccia e poi in fretta i jeans, il maglione grigio e il cappotto blu. A piedi nudi aveva cercato per casa le chiavi dell’auto e s’era infilata le scarpe col tacco più alto. S’era accorta che suonavano male. ‘Mi fermerò dal calzolaio’, si disse.

Quando entrò dal calzolaio un tizio sulla cinquantina stava mettendo in tasca il resto e prendendo il sacchetto con le sue scarpe. Lei notò che vestiva elegante e che l’aveva guardata come uno che non vuol farsi accorgere. ‘Ahahah, non ci sei riuscito. Ti ho visto.’  L’uomo uscì e lei si levò una scarpa. La diede al calzolaio. 

“Faccio in un attimo”, le disse.

L’uomo che era appena uscito rientrò.

“Siete aperti il lunedì mattina?”, chiese al calzolaio.

“No, signore. Dal lunedì pomeriggio. E poi gli altri giorni, orario continuato”.

Uscì dando un’altra occhiata alla donna.

‘Non sei proprio bravo a fingere’, pensò lei. ‘E che scusa sciocca’.

Dopo qualche minuto era di nuovo per strada.

Il cinquantenne la seguì dentro due centri commerciali. Lei si voltò verso di lui parecchie volte. Si guardavano a distanza. Una volta furono persino vicini. Si sfiorarono. Lui si portò via il profumo di lei, cercando di indovinarne aroma e persino la marca. Non ci riuscì. Ad un tratto lei si mise a correre, ma con quei tacchi, non era possibile. Tuttavia le sembrava di averlo perso. Entrò in un negozio del Commercio equo e solidale. Quando lui la vide entrare lì (lui non l’aveva mai persa) gli venne da sorridere. Quando lei uscì se lo vide davanti. Si fissarono. Lei non disse nulla. Lui la prese per un braccio: “Venga”. Lei non fece resistenza.

Camminava piano. La teneva come si tengono gli innamorati. Nel trambusto della via sentivano solo il rumore dei loro abiti. Sentivano solo il loro fiato. Lui stava ancora pensando a quale profumo usasse. Lei non pensava. Contava mentalmente i passi.

La portò in un bar. Era capitato bene. Poca gente, luci tenue e tavoli divisi da piccoli separé.

Lei stava per piangere. 

“Non lo faccia”, le disse.

Lei cercò di controllarsi, ma era troppo spaventata. Respirava  a fatica.

“Devo andare in bagno”, disse.

“Vada”.

Non ci mise molto. Nel frattempo lui ordinò per entrambi del vino bianco.

“Va meglio?”, chiese lui.

Lei non rispose.

“Cosa vuole da me?”, disse dopo aver bevuto un po’ di vino. “Vuole violentarmi?”

“Non mi interessa fare sesso con lei”.

“Non sono abbastanza bella?”

“E’ molto bella”.

“Non sono tipo per quelle cose?”

“Io non sono tipo per quelle cose”.

“Allora che vuole da me!?”, stava alzando la voce.

“Non c’è bisogno che si scaldi. Beva il suo bianco”.

Rimasero in silenzio per qualche tempo. Si fissavano.

“Lei ha l’aspetto di uno che non dovrebbe fare fatica a trovarsi una donna. Perché dunque seguirmi per tutto il pomeriggio?”

“Era iniziato proprio per il suo fascino. Poi mi ero accorto che lei mi aveva scoperto, ma che non aveva fatto nulla per seminarmi. Non aveva usato il cellulare. E anche adesso, è andata in bagno lasciando qui la borsa. Per strada non mi si era mai rivolta né aveva chiesto l’aiuto di qualcuno. Che cos’ha da nascondere?”

“Perché dovrei nascondere qualcosa?”

Lui aspettò a rispondere. 

“Le hanno fatto del male o ne ha fatto lei. È così?”

Lei non riusciva a stare ferma. Prese la borsa e mise dentro la mano decisa. Lui notò che non la toglieva. Pensò che avesse afferrato qualcosa.

Ora era lui a respirare con affanno. Ma disse:

“Non ci si comporta come ha fatto lei se ci si sente seguiti. In lei avrei chiamato qualcuno. Avrei sbraitato, chiesto aiuto, avrei affrontato in mezzo a tutti chi mi seguiva. Ha avuto più di un’occasione”.

“Perché mi dice queste cose? Chi è lei per dirmi queste cose? Sa qualcosa della mia vita? Lei non sa proprio niente. E ha fatto un grosso errore a seguirmi”.

“Quanto grosso questo errore?”

“Si sono invertite le parti. E poi questo, come chiamarlo, gioco…non mi interessa più”.

“Era quindi interessata?”

“Non più”.

Tolse dalla borsa una pistola e fece fuoco. Tre colpi col silenziatore. Lui si piegò di lato. Come se avesse assunto una posizione per osservarla di sbieco. Era ridicolo.

Lei si alzò in fretta. Andò dritta alla porta, e uscendo disse al barista: “Paga l’amico, là in fondo”.

“Buona serata”, disse il barista.


 

Anna

Le tremava la mano quando scrisse la cifra sull’assegno. La cifra intera, a coprire il costo totale dell’auto. Non voleva lasciare debiti, e voleva che quella macchinetta, pur piccola, pur poca cosa, fosse da subito cosa sua.

Quando guardò in faccia il venditore gli fece pure un tenero sorriso che lui archiviò come un successo personale, ma che di fatto esprimeva solo la gioia di aver realizzato un atto in piena autonomia. Finalmente. ‘E dopo quanti anni?’, si chiese fra sé, Anna. ‘Non importa’, si rispose, prendendo le chiavi della sua utilitaria e lasciandosi accompagnare nel parcheggio a prendere possesso della sua emancipazione da una zona di perpetuo disagio.

 

Anna aveva vissuto, dopo la morte del padre, sempre accanto alla mamma. L’aveva protetta e ubbidita, si era subita i rimproveri e le minacce. Non aveva mai replicato, mai un momento di ribellione o di semplice autodifesa. Quando poi la madre si era ammalata, ed era stata costretta a letto, Anna non si era fatta pregare per accudirla. L’acquisto delle medicine, le visite dal medico, le corse per prenotare gli appuntamenti dagli specialisti, l’accudimento per l’igiene personale. Se la tirava su dal letto da sola, se la portava in bagno. Aveva cura che tutto fosse prima pronto, così da non aver dimenticato nulla e non dover ripercorrere prima a mente e poi con i gesti i passi necessari. Dalla preparazione della colazione mattutina fino a quando, a sera, dopo aver spento la televisione in camera, si sdraiava nel letto accanto alla mamma (sì, perché Anna dormiva nello stesso letto, caso mai avesse avuto bisogno di aiuto immediato) tutto era stato programmato, ordinato per l’intera giornata.

 

E tutto questo le veniva naturale. Non era senso del dovere, negli affetti non c’è un vincolo amministrativo. Negli affetti ci sono quei legami che hanno come fonte, così almeno credo, una certa maturità. O c’è o non c’è.

Pur non nascondendosi che il compito che si era assunta fosse pesante, e molto, le veniva spontaneo fare quelle cose e nel modo che aveva stabilito. Come se ci fosse un ordine. Non ordine nel senso comune di comando, ma solo come se tutto dovesse essere disposto in un certo modo. L’esistenza le aveva dettato l’agenda, le priorità. La sua vita se la vedeva giù in fondo. Eppure la vedeva, e sarebbe venuta. Non importava se fosse venuta dopo. Già, ma dopo quando? Questa fu l’unica domanda che si pose quando la madre morì.

Ora che aveva terminato quell’agenda, ora che tutto era stato lasciato in ordine dietro e attorno a sé che avrebbe dovuto fare per riprendersi la vita?

Fu questa domanda che la spinse per caso a rivolgersi ad una psicologa, lei così timida e riservata, così casta e timorosa, lei che non aveva avuto amicizie, ma solo conoscenze occasionali, lei che non aveva potuto mai confidarsi con un fratello o una sorella poiché il destino l’aveva lasciata figlia unica (e i pochi parenti vivevano in altra città). Confidarsi con una sorella? Un fratello? Mah,  forse nemmeno l’avrebbe mai fatto. E perché da una psicologa, allora? Il narratore non lo sa. Non in questo racconto, comunque.

 

Si recò in un anno solo cinque volte dalla psicologa. Solo cinque. E ricordava bene l’ultimo colloquio.

Era salita un’ultima volta e entrata nella stanza della dottoressa aveva tolto dalla borsa un pacchetto e lo aveva posato sulla scrivania.

“E’ per lei”, aveva detto. 

La psicologa aveva scartato il pacco, ne aveva tolta una borsa in stoffa molto colorata. Arancione con un grosso fiore dai petali verdi e gialli.

“Sono sicura che sono i suoi colori”.

Non era vero, ma andava bene così.

La psicologa le aveva sorriso e l’aveva ringraziata, e mentre stava per prendere la parola, Anna aveva detto:

“Ma guardi che non è tutto lì. Guardi dentro la borsa”.

La psicologa allora aveva ripreso la borsa e l’aveva aperta. Ne aveva tolto un pacchetto e dentro c’era una scatola azzurra che conteneva un bracciale.

“Non è di valore, sa. Si figuri che l’ho preso al mercatino. Ma mi sembrava che anche questo potesse essere adatto a lei. Volevo ringraziarla”.

L’aveva detto tutto d’un fiato.

Ci fu poi una pausa e un imbarazzo reciproco. O forse più della psicologa che guardava con occhi premurosi di non tradire l’emozione.

“Come sta oggi Anna?”

“Sto bene, sa. Mi ha fatto bene parlare con lei. Lei non mi ha mai detto questo sì o quello no. Lei mi ha fatto capire che dovevo fare qualcosa solo per me. E l’ho fatto. Mi sono comperata un’auto. E se l’ho fatto lo devo anche a lei. Sono venuta a dirglielo, dovevo dirglielo subito, ma non potevo certo venire a mani vuote”.

 

Non l’aveva mai fatto, prima di quel momento, ma quella sera, la psicologa si sentì di abbracciare una sua paziente. Si strinse Anna così forte che quella per un attimo pensò di ritirarsi, ma poi si lasciò andare fra quelle braccia.

Si sorrisero e si salutarono.

Quando la psicologa scese le scale incontrò il suo capo, sempre in vena di spiritosaggini o di aneddoti, non sempre opportuni.

“Dottoressa Quaresmini, la psicologia?”

“Solo buon senso, dottor Renzi. Solo buon senso”.

“E quindi perché laurearsi?”

“Perché le letture personali pare non abbiano valore di mercato”.

E quella sera se ne uscì allegra dallo studio.


 

Banalità del male

 

“Sai quando è nata la tortura?”

“Non me ne frega niente. Adesso però stanno esagerando. La passano persino in Tv. Che è il non luogo per antonomasia”

“Come un non luogo! Lì sai benissimo chi fa cosa. Il presentatore fa il presentatore, e lo pagano come migliaia di operai e migliaia di impiegati. Il pubblico fa il pubblico, e pagano anche quello, anche se pur di andare in Tv… E poi direi che, sì, non è proprio come in quel libro… In realtà non esistono i non luoghi. In ogni luogo ognuno è quel che è. Sempre. Umanamente e relazionalmente. E quindi anche per quanto riguarda i ruoli. E quindi, anche se sai che i luoghi hanno influenza, fanno le abitudini di quel luogo, non è detto che tu debba sparire come persona”.

“E allora? Che cosa vuoi dire?”

“Vieni che facciamo il ripassino più veloce. Andiamo su Google. Leggi lì. Il neologismo non-luogo (o non luogo, entrambi modellati sul francese non-lieu) definisce due concetti complementari ma assolutamente distinti: da una parte quegli spazi costruiti per un fine ben specifico (solitamente di trasporto, transito, commercio, tempo libero e svago) e dall’altra il rapporto che viene a crearsi fra gli individui e quegli stessi spazi. 

Il termine  fu introdotto dal sociologo francese Marc Augé nel 1992…Marc Augé definisce i non-luoghi in contrapposizione ai luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Fanno parte dei non-luoghi sia le strutture necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (autostrade, svincoli e aeroporti), sia i mezzi di trasporto, i grandi centri commerciali, gli outlet, i campi profughi, le sale d’aspetto, gli ascensori eccetera. Spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione…bla…bla…bla. Mi verrebbe da chiedere…no, mettiamola così: se tu sei in aeroporto e ti si scagliano addosso le forze dell’ordine tu rispondi: ‘Eh, no, carini. Io non esisto. Sono in un non- luogo. Carine le vostre divise’. Te la immagini la scena? Quelli se ne fregano di Marc Augé, e per la verità anch’io, ti prendono e ti mandano a cagare”.

“Ripeto. E allora?”

“Di tutto quel che qui è sintetizzato, e, devo ammettere, sintetizzato più che bene, cos’è che ti colpisce?”

“Ma che mi frega. La gente è matta. Scrive su qualsiasi cosa”.

“Ok. La gente è matta. Scrive e fa qualsiasi cosa. Ma sei tu che hai detto, sì, che il male non ha nulla di banale…”

“E non è così?”

“Certo che è così. Per chi lo subisce. Non per chi lo procura”.

“Vuoi dire che chi fa del male…sì, le so quelle spiegazioni psicologiche…”

“Lascia stare. Mica siamo facendo vetrina a un convegno. Ce la giochiamo io e te. Una partita a carte, no?”

“Ok. Quindi?”

“Quello lì, l’autore, Augé, parla in un modo che non mi è nuovo, ma che non c’entra con la vita…lui dice che i non-luoghi, non hanno niente di antropologico…dai…e cosa hanno di antropologico i carceri, le stanze dove la gente viene torturata… anche lì, in quegli spazi nascosti e dimenticati non c’è più identità…l’identità: in carcere è la prima cosa che ti tolgono, le relazioni sono solo quelle di sopravvivenza…”.

“Beh, questo anche fuori”.

“Non proprio con la stessa urgenza, ma…sì, anche fuori. E poi dice che lì non c’è storia. A parte che qualcuno è pure riuscito a raccontarla, se ce l’ha fatta ad uscire vivo, e aveva ancora forza per poter prendere in mano una penna o andare davanti a una macchina per scrivere o mettersi al pc e copiare…”.

“Copiare?”

“Sì, copiare. I sentimenti erano già tutti lì sul tavolo. Come degli appunti involontari. Non doveva far altro che trascriverli”.

“E questo che c’entra con quello che dicevi prima sulla tortura?”

“E secondo te quello che vien torturato e il suo aguzzino, non hanno identità? Vero che il primo la perde appena viene condotto in quel luogo, che è fisico e ben preciso, altro che non-luogo, e il secondo acquista sempre più identità  mano a mano che quel che fa gli garantisce il ruolo e in quello si identifica, ma per far quel…come la chiamiamo quella roba lì…torturare cos’è? Una ‘professione’? Uno stile di vita? Passavo di qui?… che definizione possiamo dare di uno che fa quello per vivere e tiene famiglia…va a casa e che dice ai suoi…”

“Ma è chiaro che hanno una copertura. Che vuoi che uno vada a casa e…ah, sai cara chi ho maciullato oggi?… Non saprei, caro… Ma il tipo qui sotto… Non mi dire…Te lo sto dicendo, proprio lui…Chi l’avrebbe…eh, t’ha detto quello che volevi sapere?…non ha dimenticato nulla…e come è finita?…beh, sai che non lascio mai il lavoro a metà…dovremo allora, quando si saprà che non torna  più andare a porgere le condoglianze…ma è nostro dovere, cara…ecco, non può certo raccontarsi così. Ti vedo perplesso. Davvero pensi a quella cosa orribile in chiave di ‘professione’? In questo caso anche a Dacau potevi dare le ISO 9000, eh. Il processo loro lo seguivano proprio alla lettera. Entravano bambini e usciva sapone…”

“In un certo senso siamo arrivati al punto della banalità del male…sì, ci siamo, credo”.

“Ti dispiacerebbe spiegarmi?”

“Ti faccio un esempio. Se tu prendi una pistola e vai in strada e ammazzi…toh, ammazzi anche la più carogna che c’è su questo pianeta…quello che tutti avrebbero voluto morto…non è che compi un’azione che rientra nella categoria ‘banalità del male’…lì, il male è esplicito…e finisci in galera, sputato…se invece tu sei nella condizione di poter eliminare…ma non dico fisicamente, eh…eliminare nel senso di rendere chiunque impossibilitato a nuocerti…perché sei tu  la persona che tutti o quasi vorrebbero morto, perché sei tu che sei una merda, ma sei una merda con un sacco di potere…eh, allora…”

“Allora?”

“Mettiamola così. Se dico narcisismo a chi pensi?”

“Tutti o quasi tutti”.

“Restringiamo il campo. Narcisismo ostentato”.

“Artisti”.

“Meno profondi. Meno, meno”.

“Presentatori di talk, direttori di Tg”.

“Più servili”.

“Eh, cazzo, cosa c’è di più servile di quelli lì…”.

“Vero. Ma è un servilismo diverso. Come dire, meno mediato. Con un’ aurea di distinzione”.

“Dunque…narcisismo, ostentazione, servilismo elegante…”.

“No. Non elegante. Più adatto è dire: cortigiano”.

 “No, dai, non mi dire che adesso mi vuoi portare…”.

“Non voglio portarti da nessuna parte…vedi che ci arrivi da solo”.

“Ma tutto sto giro per dire che i politici sono delle merde…”.

“Non sono solo delle merde. La merda è concime. È utile, non è dannosa. Questi pretendono di stabilire la tua Qualità della Vita. Te la riducono fino all’accattonaggio e si permettono di farci pure sopra dell’ironia. Queste persone non sono solo cattive, sono la normalità grave. Sono davvero la banalità del male. Distribuiscono male come se creassero aiuole di margherite…e lo fanno sopra il tuo cadavere e quello dei tuoi cari. E poi vanno in televisione e dicono: ‘Visto che bei fiori? Tutto grazie al vostro contributo’”.

“Stai dicendo che la banalità del male e la tortura sono la stessa cosa? Via…”

“Tu avresti bisogno di torturare una persona se quella persona di sua sponte facesse già tutto quello che ti garba? Non credo. Si ricorre alla violenza fisica quando quella psicologica non da più garanzie. La violenza fisica è più diretta. Tutti capiscono il senso di una pistola puntata alla testa…per il lavaggio del cervello ci vogliono anni…ed è quel che hanno fatto in Occidente…”.

“Già perché in Oriente, ci sono andati giù leggeri, secondo te?”

“No. Ma preferisco parlare di ciò che conosco direttamente. Io ho vissuto qui, e qui ho visto quel che è successo…hanno ridotto la maggioranza delle persone a molluschi, e a loro interessa la maggioranza non la totalità…mica vogliono sentirsi dare del dittatore, a questo almeno ci arrivano. E questa lenta agonia del pensiero che si sta spegnendo è il male che viene assorbito senza grandi obiezioni. Dai più. Sì, qualcuno fa eccezione. Ma lo isolano. Dicono che è matto. E il male, reso nella sua forma più banalmente assimilabile (come somministrare una medicina gradevole, dolcificata, aromatizzata) viene ingerito con noncuranza. Con disposizione fiduciosa, ottimistica. Ed è come una voce, anche. Una voce piacevole alla quale tu provi a ribellarti…ma hanno massacrato un giudice e sua moglie facendolo saltare in aria sull’autostrada…e la voce: certo, che brutta cosa, ma non si ripeterà…s’è ripetuto pochi giorni dopo e prima ne erano già successe…e la voce: certo ma non si ripeterà più (almeno speriamo di non dover ripetere)…come? come avete detto…e la voce: nulla, nulla, va tutto bene, va tutto bene…va tutto bene un corno, stanno massacrando la Costituzione, che è la nostra carta d’identità…e la voce: va bene…no va male, è il male…e la voce: è il male, certo, ma fra un po’ non farà più male, farà bene, è il male che si muta in bene…ma cosa sta dicendo…e la voce: va tutto bene, dormite, sognate, andate tranquilli, il male è dappertutto, il male non c’è più, dormite, sognate”.



Il Sindaco e la cacca

Caro Sindaco sono veramente dispiaciuto di dover portare alla Sua conoscenza un fatto davvero increscioso, anche se iniziato con una semplice distrazione e poi proseguito per effetto del contagio che le mai risolte questioni della specie (insofferenza verso gli appetiti più bassi, gola, lussuria, invidia, ecc…ma non ultimo la cieca acquiescenza al dettato abitudinario) producono sulla strada della vita comunitaria.

“Che cosa è successo”, si chiederà giustamente ignaro, caro Sindaco, “di così grave?”

Rimediamo subito. Si ricorda la delibera comunale, di quest’anno, n. 1984 (ohi, che strana memoria evoca quel numero) di quest’anno? Certo che la ricorda, l’ha firmata lei. La delibera con la quale si istituiva la w.c.card, per regolarizzare le deiezioni liquide e solide, al fine di tutelare la salute di tutti i concittadini. 

Prima della produzione e distribuzione di detta carta il Consiglio Comunale, all’unanimità, con qualche piccola dissidenza, subito bollata di ‘fanatismo intransigente’ (Le ricordo che “ogni intransigenza è fanatica”, lo diceva Piero Gobetti nel 1924…Lei conosce, vero?) ha votato la costruzione di un complesso RFA (che non è una nuova benzodiazepina calmante, per quelle necessità democratiche funzionano benissimo le Benzo-Tv e i Benzo-Giornaloni di Stato), ma trattasi del Reticolo Fognario Addomesticante, che visualizza e smista ogni, come dire, prodotto di scarto del nostro intestino. Reticolo Fognario Addomesticante costato una fortuna, con quei soldi, e Lei lo sa bene, essendo un accorto amministratore, si poteva sanare qualche punto percentuale del debito pubblico: ma si sa, è più importante sapere cosa passa dal culo delle persone che nella loro testa, soprattutto quando in questa non c’è più nulla da controllare.

Quindi la Vostra (Sua e del Consiglio) iniziativa di scoprire di cosa si nutre la specie urbana e provinciale ha avuto luogo in tempi rapidissimi. Solo la merda ormai rimaneva da sezionare politicamente. Pipì e cacca, avete detto, nascondono chissà quali sostanze, così che si possano stanare anche gli ultimi frequentatori di sostanze illegali. Vedi mai che ci siano sfuggite droghe che illuminino il cervello. Quale cervello, di grazia? Va  beh, lasciamo cadere questo dubbio e veniamo ai fatti.

 

Dopo l’istituzione del Reticolo Fognario Addomesticante siete passati, casa per casa, a blindare cessi e bidé (vuoi mai che qualche manigoldo con la fissa della disobbedienza civile decida di evacuare dove di solito ci si rinfresca) e a consegnare la famosa w.c.card. Ma non avete fatto bene i Vostri calcoli, e ora il mio racconto Vi renderà edotti Lei e la Sua Giunta). Tengo subito a dichiarare che io sono del tutto estraneo a questo episodio che mi è stato narrato da persona di grande fiducia, anche lui come me prono ad ogni comando. Ehia Ehia Allallà!!! Come suggeriva il vate. Devo precisare che trattasi del grande Gabriele D’Annunzio? Non credo. Non me lo faccia dire, caro Sindaco.

 

Com’è, come non è…succede che una sera, verso le ore 18 il signor, che chiameremo, con indulgenza da privacy (tipo l’omertoso contributo nascosto ai partiti, anche di questo Lei sarà informato credo, fa parte del Pd), Matteo, essendo in flagrante bisogno di evacuare e accortosi all’ultimo momento di non trovare la tanto sospirata w.c.card, decide – non potendosi permettere una seduta stante, cioè immediata – di correre dall’amico, dirimpettaio Fedele. Già il  nome è una porta aperta, che dico aperta, spalancata.

Matteo dà un primo colpetto delicato al campanello e attende. Poco, ma attende. Siamo talmente abituati ad obbedire e aspettare, ma… l’urgenza del bisogno fa perdere la democrazia e le buone maniere. Insomma il Matteo si attacca al campanello e non smette fino a quando l’amico Fedele gli socchiude la porta.

Matteo e Fedele si guardano, ognuno sospettoso dell’espressione altrui.

“Che c’è?”, chiede Fedele.

“Devo entrare”, bisbiglia Matteo.

“Come sarebbe che devi entrare…”, afferma un po’ indignato e un po’ sbalordito Fedele.

“Mica ti posso spiegare qui sulla porta…non sarai in compagnia sconveniente che stai a fare il prezioso”, dice Matteo.

“Ma quale prezioso, mi sto cagando addosso”, sbotta il Fedele.

“Anche tu!”, esclama il Matteo.

Panico. I due non sanno che fare nel mentre stringono la mano sulla pancia.

Il primo a fare la domanda crudele è Fedele: “Non dirmi che anche tu non trovi più la carta magnetica”.

“Si chiama w.c.card”, precisa Matteo che vanta un diplomino. Non stiamo a sottilizzare su quale materia.

“Chissenefrega come si chiama…cosa facciamo adesso?”

“Andiamo da Mario, no. Lui ha i doppi servizi”.

“Via. Da Mario, da Mario…Ehia,Ehia,Allallà”.

“Guarda che ci vuole una sola ‘elle’”, insiste il diplomato.

“Fanculo, ce la stiamo facendo addosso e tu…”.

“Hai ragione, scusa”.

In men che non si dica sono alla porta di Mario. Ma anche Mario è lì che si tiene la pancia ed è paonazzo.

“Cosa ti succede?”, chiedono in coro Matteo e Fedele.

“Ah, non parlatemene”, e si porta la mano alla fronte. “Sapeste…”

“Sapere cosa?”, sempre in coro.

“La Giulia…”

“La Giulia, cosa? Dai sbrigati”.

“Siamo separati in casa da due giorni”.

“Ecchesaramai!”, esclama Matteo.

“Come ecchesaramai! È chiusa in camera con quelle carte…”

“Quali carte?”

“Quelle del cesso e me la sto facendo sotto da tanto, ormai”.

“Un’altra vittima della tecnologia. Vagli a spiegare al Sindaco che le storie famigliari non hanno gli stessi tempi della scienza. Le incomprensioni sono più veloci di un bancomat”.

“Anche le corna”.

“Cosa hai detto? Non è mica per il sesso che abbiamo litigato”.

“E per cosa?”

“Giulia voleva la cardrosa. Quella del bagno di sopra. Sai che ci sono di vari colori. Quella di sopra è gialla, e a me il giallo mi provoca prurito. La volevo io quella rosa”.

“E intanto come fate a cagare?”

“Dall’altro ieri…dall’altro ieri lo fa solo lei. Sai che io sono un po’ stitico, ma quando poi vado…devo correre, eh”.

“Allora cosa si fa? Fra poco ci sarà un odorino…”.

“Andiamo da Piero”.

“Ma Piero è dei Cinque Stelle”.

“Appunto. Una delle stelle è proprio l’ecologia. Saranno stronzi, ma ci terranno alla pulizia, no?”

“Non dire quella parola…”

“Cinque Stelle?”

“L’altra, l’altra…lascia stare. E poi non è ecologia, ma ambiente”

“Ma sei proprio del Pd. Vuoi che con ambiente non intendano ecologia”.

“Ma quello è Sel”.

“Oh!!!…oh!!!…oh!!! Che ci frega di cosa si tratta…guardate là quel boschetto…”

“Sei matto…hai presente che fine ha fatto Stefano Rho?”

“E chi è?”

“Quello che ha pisciato dietro una pianta…l’hanno licenziato”.

“Ecchisenefrega, mica dobbiamo fare una vertenza sindacale proprio adesso. Via, si va da Piero”, ordina risoluto Fedele.

Ma quando Piero apre loro la porta è chiaro a tutti che quella faccia dice solo una cosa: non si piscia, non si caga, nemmeno qui.

Il primo a parlare è Matteo: “Piero, non dirmi che anche tu hai perso quel cesso di carta!”

“Fosse solo quello”, disse Piero ancora più afflitto.

“Oh, mio dio, che ti è successo? Epperò anche tu ti tieni la pancia”, disse Fedele.

“Quella non me l’hanno rubata due neri portandomi via il portafogli. L’avranno presa per l’American Card…eh, è verde la mia. Comunque, quello e anche qualcosa di più grave”.

“E cosa c’è di più grave di non avere dove …”.

Così avrebbe detto l’amico di Balzac, Théophile Gautier: “La stanza più utile di una casa? Ma il cesso, ovvio”.

“E allora, che ti è accaduto, Piero?”

“Voi sapete che io voto Grillo…”

“Sappiamo, sappiamo. Passiamoci sopra, va!”

“Ho perso la carta… che dite? Ero al computer…sapete che noi facciamo tutto col computer…”.

“C’hai cagato sopra?”

“Ma no. Ho chiesto al Sacro Blog se potevo sfasciare la calotta sulla tazza del bagno, e…”

“E?”, tutti insieme.

“Mi è saltato il collegamento. E adesso come faccio?”

“Questo è più scemo di noi”, bisbigliò Mario all’orecchio di Fedele.

“Beh, non è che noi si sta proprio brillando. Abbiamo tutti votato, anche la minoranza,  per farci saldare persino il cesso”.

“E allora che si fa? Nessuno con la…come cazzo si chiama?”

“Si chiama viabbiamochiusoancheilbucodelculo”, disse Matteo che sembrava essere il più eccentrico e disinvolto, area weltroniana per intenderci, perché diceva spesso “…il partito va bene, io Tenzi, proprio…no!”. E quando gli chiedevano: “Va bene, ma cosa voti?”, lui serafico: “Voto Pd”. “Ah, quindi Tenzi”. E lì iniziava un pistolotto che…

Intanto i cinque…ma non erano quattro? Se ne era aggiunto un altro che veniva da un’altra via, anche lui senza la w.c.card.

 

Caro Sindaco, gliela faccio breve, perché quel giorno, chi per aver smarrito la carta, chi per aver litigato con la moglie, chi perché c’aveva il figlio anticonformista, chi per gli effetti devastanti della psicopatologia della vita quotidiana, erano alla fine una ventina, dietro le betulle con le braghe calate a cantare, stonando, l’ Internazionale

Non è, caro Sindaco, che dobbiamo aspettare un nuovo Stepan Maximovich Petrichenko per ritrovarci persone un po’ più normali?

Distinti saluti, anche a nome di tutti gli intestini libertari.


 

Che cos’è un politico?

Aveva chiesto alla scorta di fermarsi. Doveva andare in bagno. Anche loro hanno bisogni che non possono delegare.

Quando uscì dal bagno si sentì chiamare:

“Lei è l’onorevole Soldi, e non sbaglio. Nello Aldino Soldi”.

L’onorevole e due guardie del corpo nemmeno si girarono. Proseguirono verso la porta. Lui estrasse una pistola e prese la mira. Un colpo secco che si conficcò appena sopra la maniglia della porta. L’onorevole si gettò a terra. Anche le guardie del corpo. Non si capiva chi dei tre tremasse di più. L’onorevole aveva una macchiolina che colorava i calzoni di frescolana. Ah, che peccato per quella macchiolina, erano calzoni da mille euro, come la giacca. Quell’uomo vestiva cinquemila euro, pochette compresa. Ma senza il calcolo dell’orologio. A occhio lui stimò valesse 15mila. Un onorevole di peso, quindi. La Repubblica doveva esserne fiera.

“Alzatevi!”, lui urlò. 

Intanto, fuori, il resto della scorta si stava agitando ai cellulari. Altri due erano arrivati fin dentro il bar e avevano subito alzato le mani.

“Ora tutti in ginocchio con le mani sulla testa. Mi pare inutile dire che io sono in una posizione di vantaggio. Perché, vi chiederete? Perché sono più veloce di voi tutti a sparare. Vi faccio il quadro. Devo fare delle domande all’onorevole. Lui mi darà le risposte e poi ve ne andate. Se lui non risponde vi ammazzo tutti. Vero che l’onorevole onorerà l’articolo 54 della Costituzione?”

La paura non gli fece nemmeno aprire la bocca.

“Su, con calma. Parta recitandolo. Come fosse una persona perbene”.

“In ginocchio?”

“In ginocchio, davanti alla Costituzione sulla quale lei ha giurato”.

“Lei è…”.

“Lasci stare chi sono io. Chi sono io…chi siamo noi…a uno come lei non gliene può fregare di meno”, e dicendo questo mosse la mano che non teneva la pistola verso le altre persone dentro il bar. Indicandole quasi una ad una, ma senza guardarle. Aveva ben presente dove fossero.

“Sto aspettando che lei parli”, aggiunse.

L’onorevole, sarà stata la paura o l’ignoranza non  ricordava quell’articolo. Allora lui iniziò:

Tutti i cittadini… su, prosegua lei”.

L’onorevole balbettò, come un ripetente alla terza prova:

“Tutti i cittadini”, ma si fermò.

“…hanno il dovere di essere fedeli…a cosa onorevole Fresco Di Lana”.

“Cosa sta dicendo?”, un improvviso rialzo di coraggio.

“Il suo abito da più di duemila euro. Quindi?”

“Quindi cosa?”

“Come prosegue, quell’articolo?”

“A cosa devono essere fedeli i cittadini come lei?”

“Lei, invece può permettersi…”.

“Non faccia lo sbruffone. Non è in Tv  e non è in Parlamento. Lei, qui, in questo momento è in Italia. In una Repubblica”.

“Sì, certo…con una pistola puntata”.

“Vero. Vuole tenerci un corso sulle armi che usate voi…voi che non avete bisogno di nulla e andate persino al cesso scortati, tanto siete amati”.

“Questa è demagogia”.

“No, questa è giustizia. Demagogia la fa lei. Dal momento che il demagogo è colui che sfrutta il potere che possiede per imbrogliare. Si compri almeno un vocabolario”.

“E lei con quella pistola, allora? Non è in condizione di potere…l’ha detto lei prima…”.

“Il potere dei senza poteri. Facciamo così, io le ammazzo uno della scorta, poi le faccio il conto dal Primo Maggio 1947 a oggi di quanti ne avete fatti fuori voi per la cosiddetta ragion di stato. Bene…visto che ha capito, proseguiamo. Le do un altro aiutino…alla Repubblica…”.

“Cosa vuole dimostrare con questa buffonata”.

“Che lei non sa chi è”.

“So benissimo chi sono e cosa faccio”.

“Davvero? Sentiamo. Che cosa fa lei per vivere?”

“Tengo in ordine lo Stato e lo proteggo da gente come lei”.

“Primo. Lo Stato siamo noi. Secondo. Non c’è modo di tenerci in ordine. Questo è storia, quella che lei conosce solo quel tanto che basta per farsi i cazzi suoi. Terzo. Lei fa uso improprio di democrazia: tutto ciò che noi, con le vostre tasse, le permettiamo di beneficiare. So che detta così non fa alta letteratura, del resto lei fa bassa politica. Quindi siamo quasi pari”.

“Lei cosa sa di quel che faccio io?”

“Mi guardo intorno e vedo le condizioni dei miei simili”.

“Secondo lei dovrei risolvere tutto io?”

“Le sto dando una mano. Pulisco. Ma non divaghiamo…Ho capito che il primo comma non lo sa. Ricorda qualcosa del secondo?”

“In questo momento non sono nelle condizioni di essere me stesso, né di fare il miglior uso delle mie risorse. Di tutte le mie risorse”.

“E secondo lei, i cittadini di questo Paese in che condizioni sono? Nelle condizioni di poter far uso delle loro risorse?”

“Lei è un terrorista”.

“In questo momento, con le sue parole…voi abusate delle nostre…, sono solo un sequestratore di persone. Posso passare alla condizione di omicida. La cosa finisce lì. Non appartengo a nessuna organizzazione e ho un lavoro sul quale non ho mai lucrato e ho…osservato la Costituzione e le leggi. Almeno fino a questo momento”.

“E perché non continua a farlo?”

“Perché il caso mi ha fatto incontrare lei”.

“E io che le avrei fatto?”

“Collabora”.

“Cosa vuol dire?”

“Collabora con gli altri a schiacciare la vita delle persone comuni. Questo è terrorismo. E i terroristi vanno fermati. Se è il caso abbattuti. Credo si possa dire che questo è un caso speciale del secondo comma: I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge. Ed io, liberando il Paese da persone come lei, svolgo con disciplina e onore una funzione pubblica”.

“Lei è pazzo”.

“Sì. Ma non sono scemo. Dia un’occhiata attenta, molto attenta a questo luogo. Le persone che vede non esistono. È tutto immaginario, qualcosa di diverso dalla finzione, che è ciò che fate voi. Lei sta sognando. Quando si risveglierà, lei sarà quello di sempre. E io non sarò mai stato qui. Se ci fosse rimedio io l’avrei già uccisa. Anche se solo in sogno”.


 

Cinque iPhone e un vecchio

Quando entrarono quei cinque, lui aveva appena chiuso il giornale. Finì di bersi il bianco e stava per alzarsi quando rimase colpito da quel che fecero quei ragazzi.

Presero posto intorno a un tavolo e tolsero dai loro giacconi cinque cellulari. Tutti e cinque uguali. Ordinarono, ovviamente, cinque birre. Adesso i cellulari erano distesi sul tavolo e un attimo dopo erano nelle loro mani. Poi ancora posati sul ripiano del tavolo. L’atteggiamento, lo sguardo, la postura, persino, al vecchio dava la sensazione che quei ragazzi avessero concluso un grosso affare. Notò che tutti i telefonini erano dello stesso colore. Notò le giacche appoggiate allo schienale delle sedie: avevano la stessa etichetta. Gli scappò un sorriso e tenne per sé l’osservazione: ‘E’ tornato Stalin?’

Uno disse: “Dopo qualche giorno di ‘prova su strada’, il nuovo smartphone Apple finisce per confermare le aspettative. Cazzo che telefono”.

Un altro: “Hai visto il corpo di alluminio… è leggerissimo”. E lo teneva in mano soppesandolo. 

Un terzo: “Una figata…e, nonostante le polemiche dei giorni scorsi, offre una piacevole sensazione di solidità”.

Iniziarono a bere la birra senza togliere lo sguardo dai telefoni.

Silenzio. Uno prese il pacchetto di sigarette dal giaccone e si mise in bocca una Malboro.

Uno disse: “Fumi ancora quella merda lì…”.

Risero tutti e cinque.

Uno dei due che ancora non aveva parlato aprì la bocca: “Il passaggio dai 4” del modello precedente ai 4,7” di iPhone 6 non causa problemi di ingombro, ma offre la possibilità di visualizzare più icone per schermata (6 righe al posto di 5)”.

Ci fu un’altra sineddoche, molto strascicata. “Figaaaaaaaaa!”

Quello che non aveva mai parlato ordinò una seconda birra. Guardò gli altri che annuirono. “Per tutti”, disse.

Ne fecero tre di giri di birra. Poi cominciarono a mandarsi messaggi.

“Ci porti dei toast”.

 “Per tutti?” chiese il barista.

“Per tutti”, disse uno.

Smanettavano e bevevano. Smanettavano e bevevano. 

Poi uno riprese: “L’iPhone 6 Plus, invece, si conferma per quello che sembrava a prima vista”.

Un altro: “Sì”.

Un terzo: “Un classico Phablet, ovvero un dispositivo a metà tra un telefono e un tablet. Le dimensioni dello schermo non sono sufficienti per renderlo un concorrente dell’iPad mini”.

Il quarto: “Non sai dove mettertelo”

Il quinto: “In culo lo metti. Dove vuoi metterlo”.

Altra risata.

“E’ troppo impegnativo. Portarselo dietro, almeno per chi non usa normalmente una borsa. Insomma: se si indossano abitualmente i jeans, trovare un posto per l’iPhone 6 Plus può essere un problema. A meno che non si abbia il fegato (o l’incoscienza) di infilarsi lo smartphone nella tasca posteriore”.

Alternavano il linguaggio. Cinque Gadda in sedicesimo. Il vecchio sorrise.

Un altro: “Te lo fottono subito se lo metti dietro”

“Dietro dove?”

“Nella tasca dei jeans, coglione”.

“Coglione tu, se lo infili lì”.

“Al di là del rischio taccheggio e dell’effetto psicologico legato agli allarmi bendgate, però, pensare di sedersi con disinvoltura su uno smartphone che costa poco meno di 1000 euro è per lo meno surreale. Nell’utilizzo lo schermo maggiorato offre notevoli vantaggi. Non tanto per il numero di icone visualizzabili in una schermata (le stesse di iPhone 6) quanto per la tastiera ‘estesa’ e la visualizzazione della posta in stile iéPad”.”

Andarono avanti così per altre due birre su prestazioni, autonomia, coprocessore, foto e video, il nuovo chip A8 a 64 bit (che uno ci tenne a specificare si trattasse del ‘cuore dell’iPhone 6’) di registrazioni che erano in full HD (1080P) a 60 frame per secondo.  

 

Uno si svaccò sulla sedia e bestemmiò. “Con questo…con questo…”, ma non disse altro. Rideva e si girò proprio dalla parte del vecchio.

“Vecchio, che c’hai da guardare? Sei scemo?”

Gli altri si voltarono con poca convinzione.

Uno disse: “Lascialo perdere. Non vedi che è matto? Un vera testa di cazzo matta”.

Risero sguaiati.

Poi si girarono di nuovo a smanettare e a bere. Ogni tanto uno di loro si girava dalla parte del vecchio e, ridendo, si palpava la patta.

Uno cercò una foto di una donna nuda, si alzò e si diresse verso il vecchio. Ma doveva essere successo qualcosa perché ritornò subito al tavolo degli amici imprecando.

Uno dei cinque prese il cellulare e rimise a posto tutto, perché quello rimasto in piedi, il proprietario, disse: “Ah, ecco…vuoi mica che sia stato quello stronzo giù là”.

Tutti risero.

Si sentì il rumore di una sedia che grattava sul pavimento. Il vecchio si era alzato. Andò dritto, anche se lentamente, al tavolo dei ragazzi. Questi non fecero a tempo a capire quel che stava accadendo.

Ne prese uno per i capelli e lo tirò su dalla sedia come fosse un sacchetto vuoto. Con due testate rapidissime lo fece crollare a terra in un lago di sangue. Poi si scagliò su quello più vicino. Altre due testate in successione rapida. Altro ragazzo a terra. Altro lago di sangue. Prima che gli altri tre potessero prendere il giaccone e scappare, partì un pugno talmente forte nella schiena che il primo non senti più il suo fiato, poi fu raggiunto da un calcio nello stesso punto. Crollò all’indietro. Respirava a fatica. Prese i due che restavano e li inzuccò uno contro l’altro finché non li vide piangere e sanguinare.

Poi prese i cinque cellulari, li gettò a terra, e quasi come in un rito, in una danza feroce li distrusse calpestandoli.

Se ne usci dal bar.

Si sentiva bene e gli sembrava, chissà perché, di avere in qualche modo vendicato Pasolini.


 

Cosa c’entra l’etica?

Il narratore si permette di lasciare al lettore quello che potrebbe essere stato il dialogo fra un vecchio di quasi 71anni, anche se non li dimostrava e un giovane di 17, e li dimostrava tutti. Un dialogo qualsiasi. Che se lo scelga il lettore. Ma il narratore ci tiene alla conclusione, che fu quella dopo i puntini di sospensione.

Sì, sì, vi do comunque la mia. Altrimenti che ci starei a fare qui davanti a questo pc?

 

(…)

 

Il vecchio guardava il ragazzino che premeva sui tasti del cellulare.

“Che hai da guardare?”, disse.

“Le parole conducono ai fatti. Credo si dica così”, disse il vecchio.

“Che cazzata”.

“Non è una cosa mia. L’ho letta in un libro. Santa Teresa diceva così”.

“Sei vecchio e pure stronzo”.

“Perché?”

“Santa Teresa. Che cazzo c’entra. Sto prendendo un appuntamento”.

“Vedi, le parole…”.

“E c’è bisogno di una santa per chiedere se quella esce con me?”

“Quella…sarebbe la tua ragazza?”

“Ci vuoi provare tu? Eh, quanto tempo è che non vedi due cosce bianche e morbide? Eh, vecchio, quanto tempo è che non ci metti sopra le mani?”

“Magari ti insegno qualcosa. Magari insegno qualcosa anche a lei”.

“A una minorenne? Ma sei proprio da schifo. Quelle robe da gialli serali per gente come te”.

“Che gente…sono io?”

“Gente da niente. Sbavate dietro al primo culo che passa”.

“Anche al secondo. E non mi dispiace nemmeno il terzo”.

“Vuoi fare quello che la sa lunga e mi prende in giro?”

“Faccio solo ciò che so fare”.

“E cosa sai fare…ti viene ancora dritto? Dico senza le pastiglie…ahahah”.

“Com’è quella che vuoi invitare?”

“A te nemmeno ti vede”.

Poi arrivò una tipa, una sui quaranta che ne dimostrava trenta e che aveva curve in ogni posto. Baciò il vecchio e disse: 

“E quello lì è tuo nipote? Che carino. Ma sa…”

Il ragazzino guardò prima lo smart, poi si guardò intorno. Sembrava perso.

“Tesoro”, disse quella che aveva e non aveva 40anni, “…tesoro, se guardi in quel coso non trovi niente. Vuoi venire in macchina con me?”

Il ragazzino scappo’.

Dopo qualche giorno incontrò di nuovo il vecchio. Faceva il bullo. Faceva quello che a settant’anni avrebbe continuato a fare il bullo, e disse:

“Voi avete ammazzato l’Italia”.

“Vero. Lo diceva anche Pasolini. Ma voi avete ammazzato l’etica, il costume, i bisogni, lo stile per risolverli. Avete ammazzato l’etica”.

“Cosa c’entra l’etica?”, disse il ragazzino.

E il vecchio rispose: “Capisco e…e posso scusarti. Tu sei stato a scuola, vero?”

Il ragazzino sghignazzando gli scattò una foto col cellulare.

“Dai, scemo. Oggi ti metto su feisbuc. Avrai anche tu ancora qualche momento di vita. Magari ti invita la De Filippi. Tu dalla De Filippi…ahahah. Certo che il mondo va proprio a puttane. Tu fra tutta quella figa e quei muscoli…ahahah”.

 

Il narratore deve ammettere che il ragazzino almeno sapeva ridere. Non sapeva di cosa, ma sapeva ridere. 


 

Così, ci si deve proprio nascere

Non gli andava bene niente. Ma proprio niente. Aveva una famiglia? Certo che aveva una famiglia. C’erano tutti quelli che compongono una famiglia numerosa. E avevano in casa anche i nonni, il gatto, il canarino, le formiche e gli scarafaggi e quattro tv. C’era di tutto in quella famiglia. E non tutti erano uguali. Ognuno aveva una propria idea. Ma si rispettavano, e non è che lo guardassero male. Anzi, cercavano di capirlo. E gli stavano vicino. Si cresce tutti insieme, eppure si è diversi. Ma lui era particolarmente diverso. Anche lui stimava i parenti, eppure qualcosa lo rendeva come stonato lì dentro.

Non esistevano argomenti tabù. Si parlava di tutto. A lui piaceva ascoltare, e intervenire. Non si sentiva quindi chissà dove. Era lì. Era lì con loro. E stava bene. Eppure c’era qualcosa che lo portava fuori da quel calore.

Sentiva freddo. Ecco, a volte sentiva freddo dentro e lo diceva anche e ne parlava. Poi passato il momento di quel freddo, tutto tornava normale. Non è vero che non stava bene in quella famiglia. Era molto positivo essere con loro, ma venne il giorno che disse: “Ho deciso di andare da qualche parte”.

“E cosa vuol dire…da qualche parte?”, disse suo padre.

“Non so bene ancora dove, ma credo che vivere sia come scrivere. Ci vuole talento e sapere qual è il momento giusto per fare una scelta. Quando uno decide di mettere nero su bianco quel che ha in testa fa una scelta di vita. Prende quella strada…”.

“Sì, ma tu hai detto che non sai ancora qual è la tua strada”.

“Vero. Non sotto i ponti e non da mantenuto come un po’, non offenderti papà, mi sento qui. Un lavoro in un giornale mi è stato offerto. Magari con quello ci campo, il resto lo si dovrà vedere giorno dopo giorno. Fanno tutti così, no? Un’azione, poi un’altra. Un’azione che ne provoca altre”.

“Non ti sembra di ragionare tipo: vediamo cosa mi riserva il caso?”

“Quelli che programmano o vogliono diventare politici o sono arrampicatori sociali”.

“Io ti sembro un arrampicatore sociale?”

“Per niente. Infatti tu sei andato a caso. Cos’hai programmato scusa? Il matrimonio? La mamma te l’ha portata il caso, mica un rito, che è poi un altro modo per dire ‘faccio un contratto’. Mi sembra funzioni così. E anche il lavoro, sei partito in un ufficio e ora sei in un altro. Prima votavi un partito, poi un altro, poi un altro ancora. Fammi capire: da te, dalle tue scelte dipende forse qualcosa?”

“Certo, la vita della mia famiglia, di cui anche tu fai parte”.

“Papà, la vita, meglio, la sopravvivenza delle famiglie in questo Paese non dipende dalle famiglie. Te ne sarai accorto, voglio sperare”.

“Sei il solito polemico”.

“Non capisco perché tutte queste attenzioni per me. Se Carla dice quello che dico io è solo una cosa detta da Carla, è il suo pensiero, ma se lo dico io, non nego che mi rispettate, ma è come se ci fosse della condiscendenza, un eccesso di gentilezza che sconfina nell’indulgenza”.

“Ma non è vero”.

E fu su questo sgradito regalo di tolleranza che lui sentì ancora una volta il suo freddo. Una specie di pugnalata.

“Papà, tu dici delle cose che sembrano proprio un imbroglio. Si vede, sai. Si vede”.

“Cosa si vede?”

“Lascia stare. Penso che scriverò. Ho in testa una serie di romanzi”.

“E chi te li pubblica?”

“Mi cercherò un…come si dice quando si fa la cresima? Un ‘padrino’? Del resto non esistono romanzi se non quelli pubblicati, e pubblicati con successo è meglio”.

“Non stai già sognando? Un po’ come sempre…”, disse suo padre sghignazzando.

“Certo ci vuole culo, altrimenti non vendi”.

“Tu vuoi arrivare subito al successo?”

“Sognando, dicevi? Voler una vita propria non è sognare”.

“Tu stesso hai detto che non dipende da noi la nostra vita”.

“Vero, ma sono disposto a seguire l’onda”.

“Vuoi dire a venderti?”

“Basta che mi paghino bene”.

“Guarda che lì fuori…”.

“Li fuori è la guerra. Vedrò di prendere bene la mira e sparare per primo”.

“E non importa su chi farai fuoco?”

“Non importa. Il freddo me lo porto già dentro. Non possono farmi più male di così. Il peggio è che muori. E se muoio non ci sono più. È inutile pensare alla morte. Se ci sono io non c’è lei e se ce lei non ci sono io. Non si prova nulla, nel secondo caso”.

“Ti rendi conto di quello che dici?”

“Sì, mi faccio schifo. Ma devo accantonare in qualche modo il freddo che sento. Ci posso convivere, solo se fuori c’è un altro che non ha tempo per pensare a quel freddo lì…altrimenti tanto vale che mi tiro un colpo subito”.

“Ma cosa stai dicendo?”

“Dico che mi va bene, adesso, tutto quello che vedo in Tv. Voglio quella vita lì. Hai presente? Stanno tutti bene, sono tutti allegri, copulano, papà, copulano sempre. E mangiano e ogni dilemma esistenziale diventa, com’è che dicevano?…ah, sì, diventa plin…plin…dai, dove si può stare meglio…va, beh, scherzo”.

“Mi hai fatto prendere uno spavento…”.

“Comunque o la vita in Tv o un mitra. E, credimi, in mezzo non c’è niente”.

“Ma questa è follia pura…”.

“O forse realismo immediato”.

“Ma come ti vengono certe idee, dico io…”.

“Hai ragione…così ci si deve proprio nascere”


 

Dedicato a chi non ama i poeti

Rocco aveva scritto un Manifesto per Bukowski, e non trovava nessuno che glielo pubblicasse. Fece due conti, vuol dire che conteggiò quanti soldi gli rimanevano in tasca e andò dal tipografo di sua conoscenza.

“Ehilà, Rocco”, gli disse il tipografo. “Dove butti i tuoi soldi, oggi? Puttane o politica, che poi non fa gran differenza”.

“Un poeta”, disse Rocco.

“Un poeta? E chi legge più i poeti”, disse il tipografo.

Rocco gli mandò un non verbale che voleva dire:

  1. hai ragione;
  2. non ho abbastanza soldi per pagarti;
  3. eh, non so far altro che leggere poeti, andare a puttane e occuparmi di politica;
  4. l’amore per me è cosa troppo alta;
  5. me lo fai questo favore?

 

Il tipografo che voleva bene a Rocco come a un fratello (a cui, però, si vuol bene davvero) gli rimandò un non verbale che voleva dire:

  1. sei un asino;
  2. ho capito, mi pagherai quando li avrai…se li avrai, e se non te li sputtanerai con la prima dalle gambe mozzafiato.

Ed ecco il testo del Manifesto, che Rocco andò poi ad incollare per la città. Chissà che credeva di fare. L’autore abbraccia Rocco. Ah, l’autore garantisce, per dovere di cronaca, che questo scritto è del 3 marzo 2003, no, in verità molto prima. Mai credere ai narratori.

Raramente ho letto giudizi, non dico entusiastici o lusinghieri, ma appena passabili su Charles Bukowski. Un autore lontano da quelli che voi potreste leggere (lontano nella scrittura e nella forma degli eccessi, ma solo nella forma), forse amato da pochissimi critici. Bukowski è ricordato dai più come un grande bevitore, uno che quasi s’è ammazzato a forza di vino e birra e intrugli di vario genere. 

 

Quando pensi a lui ti vengono in mente quattro cose: sporcizia, linguaggio scurrile, disordine, fancazzismo. E questa è la crosta, e se getti lo sguardo da un’altra parte ne vedi altre quattro: musica classica, buone letture, concretezza, riposo. Per me Bukowski è il poeta del riposo, e per lui la poesia è stata una continua ricerca di tregua e di distanza. 

La tregua che la vita privata non gli ha dato (almeno fino al successo editoriale) l’ha cercata nei suoi versi, nei suoi racconti, la trovi nelle lettere. Così è della distanza dalle ‘cose pubbliche’ (politica, parole d’ordine altisonanti, mischiamenti ideologici), tanto amate dai cosiddetti autori impegnati. Bukowski, si sarebbe detto una volta, è un autore della vita privata, un indifferente ai movimenti di contestazione, di partecipazione sociale. 

 

E’ vero, ci vuole tempo per lavare i pavimenti, far da mangiare, ascoltare Mozart, chiavare, rispondere alla posta, essere educati, lavorare, leggere, tirare giù poesie, detestare con la mira giusta. Ci vuole tempo per tutte queste cose. “S’incomincia a salvare il mondo, salvando un uomo alla volta. Tutto il resto è magniloquenza romantica o politica”. La pensava così, p. 233 di Storie di ordinaria follia. Bukowski pensava che l’uomo, cioè la specie, dovesse arrangiarsi, e che dovesse capire in fretta questa ‘necessità’, allo scopo di evitare un totale risucchio nella programmazione sociale dei politici sempre ben intenzionati.

    

La vita di Bukowski e la vita secondo Bukowski sono la stessa cosa: una continua ricerca di situazioni da porto franco, realtà-rifugio, isole di assoluta calma. E questo luogo di tregua non ci viene regalato, ce lo dobbiamo costruire, è di questa situazione ideale che dobbiamo saper parlare, questa situazione ideale deve avere una voce. Ecco, è con quella voce, a volte cattiva e sgradevole, che Bukowski tagliava a fette la realtà. Bisognava saper attraversare il peggio diceva. “La maggior parte di noi si aggrappa al proprio posto di lavoro meglio che può, vende scope porta a porta, lavora in uffici postali, mattatoi, agenzie di riscossione crediti, tutta questa merda…in continuazione. Io non mi meraviglio più che Rimbaud trafficasse armi e andasse in cerca d’oro e si mettesse a fare il pazzo in Africa. Voleva soltanto del tempo per scrivere poesie, credo. E lo desiderava così tanto che non riuscì a scrivere più niente. La fame può rendere artisti oppure no”(1 ott. 1963). 

Forse l’interpretazione che Bukowski fa del silenzio poetico di Rimbaud è discutibile (a Rimbaud non gliene fregava più niente dell’arte), ma che anche il poeta francese cercasse, furiosamente, una sua forma di pace è incontestabile. 

 

Possedeva un progetto Bukowski? Nemmeno l’ombra. Il successo, qualsiasi meta da raggiungere arriva un po’ così. In questo si trovava d’accordo con quel che sosteneva Borges: “I successi vengono solo dall’amicizia, dall’intrigo, dalla fatalità” (1952). Nessun progetto di vita, caso mai un metodo di lettura (la poesia), ma programmi, zero. Scriveva, novembre ’64: “Non c’era nessun grande programma dietro tutto questo (dietro il suo disordine, n.m.), nessun senso globale, non stavo cercando niente di niente. C’era soltanto la luce del sole, la pioggia, la neve, gli incubi, i vagabondaggi e il bicchiere che avevo di fronte”. Ma tutto questo avrebbe dovuto avere pure una fine, o forse no. Non è detto che la tregua venga per necessità o come risarcimento del già dato. La vita non ci deve niente. Qualcosa i cosiddetti ‘contratti sociali’, il resto è frutto delle nostre manine. 

 

Quante poesie ha scritto Bukowski? Qualcuno le avrà anche contate, e da qualche parte c’era scritto: 3000. Io ne avrò lette trecento. Tantissime finiscono con “mi accesi una sigaretta e aspettai”, oppure contenevano espressioni tipo “è quello il posto per un giocatore dalla vita difficile?” In altre ci trovi  l’augurio che “la morte contenga meno di questo”. Era fiducioso di un buon riposo Bukowski, e lo scrisse. “So che una certa notte/ in qualche camera da letto/ presto/ passerò/ le dita tra capelli soffici e puliti/ canzoni che nessuna radio trasmette/ tutta la tristezza si scioglierà/ in un sorriso”



Del senso della vita

“Ma mica ce l’ha un senso la vita, oh. Sei scemo!? Vorresti scrivere un racconto sul senso della vita? Fai così: registra quello che stiamo dicendo noi. Credo sia sufficiente. Lascia a quelli che cercano fama questo stupido compito”.

“Va bene. Registriamo. E da dove si parte?”

“Vai tu, no? Sei tu che hai messo questo titolo. Che poi non è giusto”.

“Perché?”

“Come perché. Sai bene anche tu che la vita non ha senso. Una macchina ce l’ha. Il frigorifero, un tostapane, le scarpe. Sono tutte cose che hanno una funzione, ma la vita? Che cazzo di funzione ha?”

“Ok. Mettiamola così. Non ha senso e quel che tutti fanno è cercare di darle un senso. Ti va bene se la mettiamo così?”

“Eh, vai avanti. Sei tu che ci volevi far sopra un racconto. Sai la novità”.

“Allora…diciamo che sono solo tre le opzioni per cercare un senso alla vita: la famiglia, la carriera, le passioni o gli interessi, chiamali come vuoi”.

“Passioni o interessi? Non siamo l’Accademia della Crusca. Non stiamo a sottilizzare. Uno vale l’altro quando intendi che ti frega solo di quella cosa. E può essere qualsiasi cosa. La figa, il cazzo, le macchine, l’astrologia, la chimica, i Nibelunghi, l’antisemitismo, le farfalle, la droga, i fiori, i quadri. Che vuoi che ne sappia. Siamo così futili che le distrazioni ci impediscono di morire. Questa non è mia, sia chiaro. Quindi?”

“È di Céline”.

“Dai, cazzo, vai avanti. Lo sapevo anch’io di chi era”. 

“Partiamo dalla famiglia?”

“Partiamo dalla famiglia. Partiamo immagino da quella che tiene, perché i dati parlano chiaro. Al nord, intendo al nord Europa due su tre vanno a puttane. Da noi la metà circa. Pare che le seconde, o meglio le terze…ahahah…dai scherzo, ma mica tanto. Uno, adesso non ricordo più chi, ha scritto un saggio su questa roba e l’ha chiamato Provando e riprovando. Eh, già il titolo…”.

“Me lo ricordo io”.

“E figuriamoci se non se lo ricordava lui. Dai su, bruci dalla voglia di fare la citazione”.

“Sei una merda”.

“Anche tu. Ma tanto…ce l’hai lì sulla punta della lingua…allora prima mi ricordi il nome di quello che l’ha scritto, prima si va oltre”.

“Marzio Barbagli”.

“Nel…”

“Nel 1990 e rivisto nel ’96”.

“Bravo!”

“Bravo, sì. Hai detto le statistiche tutte sbagliate. Nord-Europa e Usa 40% dei matrimoni finiscono in divorzio. Europa centro-settentrionale, per capirci Belgio, Francia, Germania, ecc. 25/30%. E da noi, solo il 3/10%”.

“Sti cazzi. Ma le sai proprio tutte. La pagina te la ricordi?”

“No, cioè sì. Ma non ti do la soddisfazione di dire altre stronzate. E poi è un lavoro di vent’anni fa. E ti ricordi invece, visto che ti piace scherzare, come iniziava quel libro?”

“Aspetta…aspetta…aspetta. Ci sono. Con una battuta che voleva essere allo stesso tempo qualcosa di ironico e di amaro sulla realtà nostrana…aspetta…aspetta…ecco, più o meno faceva così…non tutti sanno che Gesù era italiano. Italiano? Certo. Perché solo un figlio italiano può essere tanto coglione da arrivare a credere che sua madre sia vergine. Perché solo una madre italiana può essere così vanitosa da pensare che suo figlio sia un Dio. E infine perché solo un figlio italiano è costretto a sopravvivere fino a trentatré anni con i genitori. Ho passato l’esame?”

“A pieni voti. Il senso era quello che hai detto”.

“Allora che dici sulla famiglia?”

“Che ti devo dire…lui e lei fanno del loro meglio. Se hanno la fortuna di arrivare alla pensione, farsi la casa e tirar su figli in sagoma è fatta. Poi però…”

“Però…”

“Metti che a lui o a lei, o a entrambi cadano sulla testa, e non si sa come, certe domande…”

“Tipo?”

“Tipo…metti che lui o lei si chiedano…possono chiederselo anche tutti e due…che si chiedano, alla fine…”

“Come, alla fine…che vorrebbe dire alla fine…alla fine di cosa? Quando stanno per morire?”

“No. Non è detto. Stai bene in salute eppure ti viene da chiederti, fai a cinquant’anni, a sessanta, ‘Ma era quel che volevo’? oppure: ‘E adesso?’ Cose di questo genere”.

“Ma sono cagate da intellettuali. Se uno s’è fatto una famiglia e c’ha vissuto bene mica si fa quelle domande lì. Non ha senso farsi quelle domande se sei stato bene”.

“Quindi un senso la vita può averlo?”

“Mavaffanculo. Te e le tue domande”.

“Ahahah, ora rido io. Abbiamo stabilito che anche se la vita non ha un senso, noi possiamo creare qualcosa, qualcosa di molto limitato nel tempo, certo…si deve crepare, no?…eppure…che siano figli, relazioni, interessi, passioni…”

“Va bene, va bene. Ma cosa resta di tutto quel lavorio, di quella fatica…perché ogni cosa…ogni cosa fatta bene richiede impegno, attenzione, stile”.

“Non lo so o meglio, sì. Qualcosa resta. La letteratura, ad esempio. E che ne dici dell’arte?”

“Sì, certo, e pure le scienze e le religioni, i carri armati e l’atomica, le malattie e l’idiozia. E tutta questa merda dove ci ha portati? Ci ha portati ai lager e alla tv. Al computer. Cazzo, che figata. E tutta sta roba perché la vita deve essere cosa? Migliore? Civile?  E cosa resta di tutto? Niente. Non resta niente. E non è servito a niente. La specie si odia così come quando era nata. E si odia perché quando uno si guarda attorno vede tanti se stessi che lo guardano e si rispecchiano. E per un po’ si sopportano e si abbracciano pure, e un altro po’ e si sputano addosso e si massacrano. E sono ugualmente contenti quando si abbracciano e quando si massacrano. Ed è questa la vita. E secondo te tutte questi sorrisi e queste lacrime hanno senso? La specie non sa che farsene della specie. Non sa che farsene di tutta questa gente che gli sta attorno”.