Carlo Del Misto - Poesie e Racconti

le basier creole

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

la governante

 

 

 

 

 

 

 

 


 

“STAGIONI DIVERSE”

Racconti brevi

 

Prefazione dell’autore

Questa raccolta di racconti brevi esce dopo l’esperienza per me entusiasmante di “Follie – angoscia e declino dell’ordinaria umanità” per i tipi di BookSprint nel 2020 che ha visto rinascere lo spirito creativo sopitosi per tanti lunghissimi anni già all’indomani della pubblicazione del libro “Ai capricci del tempo” per i tipi de Il Rosone nel 1991 e d’un tratto balzato fuori come un coniglio da un cappello a cilindro. 

Il titolo, “Stagioni diverse” indica che i racconti sono stati scritti in diversi momenti della mia vita, in diverse “stagioni” della mia carriera e vedono la luce solo ora che la vena letteraria ha deciso di riapparire e riappropriarsi del mio ultimo scorcio -spero lungo- di vita che mi sarà concessa. Lo stile dei racconti è vario e risente dell’età in cui ciascuno fu scritto: dai quindici ai cinquantaquattro anni. Accadeva spesso che l’ispirazione del momento portasse a scrivere le prime pagine e ad arenarsi per un tempo lungo di aridità per cui i racconti risentono anche della diversa consapevolezza e formazione che si è sviluppata nelle varie epoche. I sette racconti proposti in questa raccolta sono pressoché brevi, ma ogni storia ha una intensa caratterizzazione. 

La Madre. E’ il più breve dei racconti, ma anche il più intimo e psicologico. E’ raccontato un efferato fatto di sangue: la fucilazione di alcuni uomini nel periodo della dominazione tedesca in Italia e l’ultimo spiraglio di vita di uno di questi che prima di scomparire vede per l’ultima volta la madre i cui contorni sono mitici ed evocativi. Scritto all’età di quindici anni.

Il sogno di Peppinella. E’ il racconto del sogno di una bambina di campagna, i cui genitori come spesso è accaduto da queste parti sono emigrati all’estero e l’hanno affidata ai nonni, per necessità. La piccola è molto legata alle pecorelle che il nonno tiene nell’ovile ed in particolare ad una che è in attesa di un agnellino. Ammalatasi, la bimba cade in un sogno dove inevitabilmente incontra i genitori, ma le belle sorprese non mancano. Scritto all’età di venti anni.

La leggenda di Eistulf. E’ una favola scritta in parte a venticinque anni e in parte a cinquant’anni e argomenta sulle conseguenze degli eccessi presentando un antico regno travolto da una maledizione lanciata da una strega, che sarà annullata grazie al coraggio ed all’ardore di un valoroso condottiero, con un finale a sorpresa. 

Il regalo di Imeneo. E’ un componimento scritto a ventisette anni che irride benevolmente l’aulica stucchevole e sdolcinata del tema amoroso portando al parossismo il rapporto fra due sposi che stanno per unirsi in matrimonio e facendolo esplodere nell’ultimo cantico dove la realtà prende il sopravento in maniera cruda e ferale tanto da modificare totalmente il corso degli eventi.

Lettere dall’inferno rodigino. E’ il racconto crudo e meditato della naja trascorsa dall’autore.  E’ scritta in forma introspettiva epistolare a persone note e a personaggi comunque esistiti con le date riportate in latino, quasi a volerle celare al lettore. Un lungo resoconto via via di semplici fatti accaduti realmente o di considerazioni più impegnate dove la noia e la naja hanno la stessa possibilità di identificare il senso della vita. Scritto a ventotto anni.

La profezia dell’uomo nero. E’ un breve ma intenso racconto iniziato a vent’anni e terminato a cinquantaquattro anni che introduce con delicatezza il lettore in un ampio e meraviglioso panorama collinare, con la descrizione di emozioni e sensazioni visive e multisensoriali che avvicinano indissolubilmente l’uomo alla natura. Ma è anche il racconto di un naufrago africano che si trova di fronte ad una strana profezia che si realizzerà ma in maniera insolita.

Una bella giornata. E’ il racconto esilarante di una giornata qualunque in una famiglia qualunque alle prese con gente qualunque e situazioni al limite del paradosso. Lo sviluppo della storia gira intorno ad un personaggio anonimo che resterà tale sino a quando si svelerà l’arcano della sua presenza in casa Mezzafrasca. Il racconto si articola in quattordici brevi capitoli che sono la riduzione romanzata di una pièce teatrale inedita dello stesso autore, scritta fra i venti e i quarant’anni. 

LA MADRE

Cadde. E gli occhi gli rotearono all’indietro dentro le orbite. Strani suoni gli creavano un senso di paura e di rabbia. Erano parole. Parole. Con afflato vorticoso emergevano modulate da incontenibile, tachifemica logorrea e si abbattevano come un maremoto sommergendo l’aria di grugniti e gorgoglii. Riconobbe la voce del colonnello: “In nome del Fuhrer, fuoco! Fuoco! Fuoco!”

Il silenzio che ne era seguito s’immergeva tragicamente nell’aria rarefatta che non lasciava spirare un alito di vento, mentre il tramonto striava le nuvole di rosso porporino. Caddero tutti. Falciati. come spighe di buon grano. E apparve ad Emilio di avere corporeità eterea che fluttuava intorno alla massa di quella impura materia corruttibile. Vide Giuseppe, Antonio, Luca, Giovanni, Marcello, Bastiano, il piccolo Ottavio, Umberto, Augusto, Valerio, Alessandro, Michele, Davide, Alberto… Tutti giacevano esangui. Le braccia legate dietro la schiena. Le gambe strette in una morsa d’acciaio: intrecciati come le maglie di una macabra rete metallica. Li chiamò per nome uno ad uno, ma non un alito. Giacevano l’uno sull’altro, immobili, silenziosi. Volteggiava su quei corpi martoriati e continuava a chiamarli, ma quanto più intensamente lo facesse, tanto più tutto appariva desolazione. D’un tratto qualcosa si mosse, tremolante, fra quelle macerie umane. Una mano? Un braccio? Una gamba? Continuò a chiamare ma non ebbe risposta: chi poteva udirlo? Come avrebbe potuto essere riconosciuto da quell’interstizio di vita che ancora tentava di aggrapparsi all’ultimo, flebile, spiraglio? Volteggiò ancora e cercò di rintracciare quel movimento, quell’ultima reazione. Ma tutto era fermo, assurdamente immobile… Poi, d’improvviso un gemito, un rantolo! E vide i corpi subire una lieve scossa. C’era ancora vita lì sotto! S’immerse fra le carni disonorate, ma nulla. Il sangue in orrendo stillicidio andava a nutrire una pozzanghera scarlatta. Poi, ancora, un ultimo impercettibile movimento. S’immerse ancora e giunse in tempo per avvertire l’ultimo istante di un’agonia che diveniva morte. Si avventò sui corpi e li chiamò, tese le braccia, cercò di smuoverli. Ma non aveva presa. Pronunciò tutti i nomi dei compagni sperando che al soffio delle sillabe qualcuno dei corpi rispondesse riconoscendo in esse il proprio nome. Ma non ebbe risposta. Tutto era silenzio. Guardò ancora un istante e vide occhi sbarrati in uno sguardo smunto. E vi riconobbe i suoi occhi. Quel suo corpo che ora giaceva inane, nell’attimo in cui diveniva immobilità aveva dato movimento. Tornò a volteggiare e si sollevò dalla massa inerme. Vide dall’alto i soldati tedeschi ancora in posizione. Le armi fumanti e gli occhi del colonnello attraversati da un diabolico riflesso. Sulle labbra aveva stampato un ghigno, il colonnello. A distanza, dietro un recinto di filo spinato, urlavano disperate alcune donne. Dei soldati tentavano con difficoltà di tenerle a bada. Attraversando l’aria volò verso di esse. Volle consolarle. Ma nessuna l’udì. Volteggiò ancora un poco, poi, mentre compiva l’ultima evoluzione, fu attratto da una di esse. Non piangeva come le altre. Lo sguardo Impietrito, livido, fissava la catasta di corpi. Una bella chioma le ornava il capo, densa, bruna, capigliatura di vecchia regina! Come doveva essere profumata, morbida. Volle toccarla. Ma riuscì solo a smuoverne una ciocca come fosse spirato in quel momento un lieve soffio di vento. La vide sollevare la vecchia mano per accomodarsi il ciuffo che le era caduto dinanzi agli occhi. Ah, i begli occhi! Le belle labbra! La fronte rugosa… Madre! Madre! Madre! Ma non rispose. Madre! Nulla. Le volteggiò intorno, volle abbracciarla, ma non vi riuscì. Urlò più volte, ma non venne udito. Ormai era alito di vento. Madre! Furono le ultime sillabe e si perse nella brezza mentre il sole al tramonto striava di cremisi le nuvole all’orizzonte.

IL SOGNO DI PEPPINELLA

 

La piccola ebbe un attimo di sollievo. La nonna le stava asciugando un lacrimone che aveva fatto capolino dai suoi grandi occhi neri. Quella mano, ora rugosa e disidratata, era stata, un tempo, forte, vigorosa, tenace, abile come mano d’uomo, nell’impugnare il badile, il forcone, la affilatissima falce o la pesante zappa e tuttavia sempre docile e umile e delicata. Ora il dorso e le lunghe dita avvizzite scendevano sulla morbida guancia della bambina e pronunciavano una tenera carezza come drappo di seta che avvolga della sua morbidezza la leggera sinuosità di un mobile antico. 

Il dottore stava ancora armeggiando con quella orribile siringa che era stata così insensibile e dolorosa con Peppinella:

- “Avrei bisogno di un po’ d’acqua”.

La vecchia senza far domande andò a procurarla. 

- “Signor dottore, signor dottore…” sussurrò Peppinella, “…mi fa ancora male…”.  

Il buon vecchio sorrise, annuì e poi scosse lentamente il capo: 

- “Vedrai che tra poco ti passerà”. 

La stanza era immersa nella luce soffusa di una lampada a petrolio che pendeva dal soffitto legata ad una cordicella affumicata. Le pareti, di calce bianca ingiallita dal tempo, emanavano odore di umidità e di tanto in tanto fra i giochi d’ombra creati dall’ondulazione irregolare dei muri, spiccavano chiazze di muffa verde e di muschio che odorava di fumo di legna. Sulla cucina l’acqua nel pentolino bolliva e il vapore andava a imperlare di goccioline le pareti vive della povera casa di campagna. 

La signora Pina andò alla credenza, ne trasse un bicchiere di cristallo, la bottiglia di rosolio e cominciò a mescere. Nello stesso istante la porta si aprì e dalla penombra comparve il viso bruno di Antonio. 

- “Don Antonio, buonasera…” disse il dottore mettendosi in piedi come se in quell’istante fosse entrato un generale. 

- “Buonasera a voi, don Liborio! Sono felice di vedervi anche se la circostanza non mi permette di gioire… Come sta Peppinella?” 

- “Guarirà” lo rassicurò il dottore “…guarirà”. Deve stare a letto, non fare sforzi e soprattutto bere una corroborante tisana: di quelle che sapete fare solo voi, signora Pina…” 

La vecchia arrossì, si strinse nelle spalle e gli offrì il bicchiere pieno del rosolio. 

- “Dovete farmi compagnia don Antonio…” 

La vecchia stava già mescendo per il marito. Brindarono e bevvero. 

- “Ero a governare le pecore -disse Antonio sorseggiando il rosolio- e vi ho sentito arrivare”. 

- “Anche se con questo tempo -rispose il dottore posando il bicchiere semivuoto sul tavolo- è difficile riuscire a sentire cosa accade fuori…” 

- “È vero -replicò Antonio- c’è un vento così forte che sembra di avere la banda della festa patronale dentro il cervello!” 

- “A proposito, Antonio, quest’anno lo darete ancora un agnello per la festa?” 

- “Mio caro amico, io sono povero, non ho niente… le uniche cose che il Signore ha voluto darmi sono questa catapecchia e quattro pecore, ma non riesco a privarmi della gioia di donare quel poco che ho. Sapete, Azzurrina è incinta e mi sa tanto che questa volta partorirà nel tempo giusto per la festa. Se avviene come prevedo, darò l’agnello come gli altri anni”.

Il dottore sorrise come di consueto e diede una pacca affettuosa sulla spalla del vecchio: “Voi si, che siete generoso, don Antonio… dovrebbero esserlo tutti a questo mondo, ma…” 

Il vecchio si schermì e sorrise a sua volta fissando negli occhi d’un colore verde bruno il dottore: – “Generoso? Non lo sono! Generoso è nostro Signore che ci sa ricompensare anche quando non lo meriteremmo affatto… Voi, piuttosto, che dopo la tragedia… avete preso a curare i malati senza chiedergli danaro e se non hanno di che sfamarsi, gli date del vostro… Non è da tutti aiutare la gente così. Questa è la più grande forma di amore! Mentre io, guardatemi, io non do nulla di mio. Anzi, sono talmente crudele da privare perfino una povera bestia di ciò che essa ha di suo… Credete vi sia qualcosa di più importante dei figli?”. Il dottore si alzò e indossato il cappotto, tese la mano al vecchio: “È un dovere, don Antonio… è il dovere di ognuno fare ogni cosa sia utile per i propri figli, ma quella capra non ha ricevuto alcun comandamento morale… deve solo continuare la specie nient’altro… pensate che vi porterà rancore?”. Sorrise con garbo e volgendosi verso la cucina salutò la signora Pina -che nel frattempo aveva tirato via dal pentolino la siringa e l’aveva riposta in un fazzoletto candido di lino- e si diresse verso Peppinella. 

- “Mi raccomando, piccola, non fare la birichina!” Le passò la mano calda e rosea sotto il mento e la salutò. 

- “Arrivederci signor dottore” sussurrò sonnolente la bambina. Antonio accompagnò il dottore alla porta e con una forte stretta di mano lo salutò. Peppinella aveva sei anni. Viveva coi nonni da quando ne aveva tre, perché i genitori erano emigrati in Germania. Li conosceva appena. Se non fosse per la fotografia sulla credenza che li ritraeva a mezzobusto uno accanto all’altra in un abbraccio gentile, non si sarebbe ricordata i loro volti. Li vedeva in carne ed ossa una volta all’anno per sei o sette giorni, a Natale, e quelli erano i giorni più belli della sua vita. Le portavano un mucchio di regali quando venivano e la colmavano di premure: lei era tutto per loro e loro erano tutta la sua felicità. Purtroppo sette giorni passano in fretta e Peppinella dopo aver trascorso in gioia e felicità Natale e Capodanno coi suoi, ritornava triste nella realtà fatta di giochi solitari con bambole di legno o di pezza e amiche inesistenti le cui voci provenivano da ogni angolo della casa ed erano talmente chiassose che quasi sempre diventava impossibile continuare a giocare senza perdere la pazienza o annoiarsi. Aspettava, tuttavia, il giorno in cui i suoi sarebbero ritornati per non andarsene più. 

La nonna le stava preparando la tisana come aveva detto il dottore. Il nonno stava armeggiando con un arnese tutto pieno di buchi. 

“Cos’è nonno?” 

“Un flauto, piccola mia… vuoi che ti suoni qualcosa?” 

“Si nonno.”

Il vecchio cominciò. Come d’incanto da quel rudimentale strumento uscì una melodia suadente, una ninna nanna che piombò la piccola in un sonno profondo. D’un tratto scomparve l’angustia di quella stanzetta ed apparve una città piena di luci e rumori. Peppinella stava sognando. Aveva indosso quella mantellina di lana che le aveva confezionato la nonna l’inverno passato e si strinse le spalle dal freddo. Camminava a testa alta e con il naso all’insù osservando con gaio stupore quelle luci che erano entusiasmanti per i suoi occhietti vispi che ne inseguivano ogni colorazione. La notte era fredda ma non voleva entrare da nessuna parte per non perdersi quel susseguirsi frenetico di rilucenze e continuava a camminare. Poi dopo aver camminato ancora un poco, si fermò. Aveva di fronte un palazzo altissimo di cui non vedeva la fine e questa costruzione aveva tante finestre tutte illuminate. 

- “Buonasera Giuseppina” si senti salutare da dietro le spalle. Si voltò, e vide una signora bellissima dai fluenti capelli neri, che indossava una lunga veste bianca.

- “Buonasera. Chi sei?”, domandò incuriosita e niente affatto spaventata “e come fai a conoscere il mio nome”.

- “Io ti conosco da sempre…” rispose quella figura aggraziata.

- “Allora conosci anche i miei genitori?”, domandò Giuseppina, con un filo di voce.

- “Certo che li conosco, mia cara.”

- “E sai dove abitano?”

- “Certamente… ma non vuoi prima fare un giro in questo parco di divertimenti?”.

Giuseppina ebbe un attimo di esitazione… non sapeva cosa fosse un parco di divertimenti ma sapeva che l’unica cosa che le avrebbe procurato gioia era incontrare i suoi genitori. 

- “Puoi portarmi da mamma e papà?”. Peppinella aveva sentito parlare della Germania come di un paese dove tutti abitavano in grandi case dai tetti a punta e dove la sera le strade si illuminavano a festa e per questo chiedeva che quella figura le facesse questa gentilezza, perché credeva che quelle luci fra le quali si trovava immersa fossero “la Germania”. Il cuore le batteva forte forte in petto e quasi perdeva il respiro al pensiero di poter rincontrare la mamma e il papà e così presa la mano di quella signora, la seguì docilmente. Camminando mille pensieri le si affollavano nella mente: cosa avrebbero detto i suoi genitori nel vederla? E lei a chi doveva correre prima incontro: a mamma o a papà? E cosa avrebbe detto loro? Come avrebbe giustificato il suo essere lì in quel momento? Avrebbe raccontato loro che era influenzata e che il dottore le aveva fatto tanto male con quella siringa? Li avrebbe pregati di ritornare a casa o di tenerla con loro in Germania? Era talmente entusiasta di questo incontro che per poco non cadde in terra inciampando in un ciottolo. La signora aveva frenato la sua caduta tenendole forte il braccio cosicché Peppinella poté riprendere il cammino, ma quel ciottolo aveva modificato il senso dei suoi pensieri. Ora si domandava chi fosse quella donna e sentiva che la sua stretta di mano era energica e lo strattone che ne aveva evitato la caduta le aveva procurato male al gomito. Volle lasciare istintivamente la mano della signora, ma la stretta era forte e non riusciva a divincolare le dita. Cominciò ad avere paura di quella donna che continuava per la sua strada senza abbassare lo sguardo verso di lei e allora cominciò ad urlare, ma sentiva che la voce le si fermava in gola e non riusciva ad uscire.

- “Aiuto nonno!” pensava in cuor suo, ma non sentiva la sua voce; sentì di lontano un belato molto lieve che appena si distingueva. 

- “Lasciami andare!” disse ad un tratto con determinazione. La figura non si scompose e la guardò con occhi rasserenanti: – “non voglio farti del male, piccola mia”. Giuseppina si sentì riscaldare il cuore in petto: – “cosa vuoi da me?”.  La donna si abbassò all’altezza del suo volto e lasciatale la mano, le carezzò i capelli e poi le guance: “Voglio farti vedere una cosa… ci tengo che tu sappia quanto siano importanti i figli… anche se io non ne ho mai avuti”. Ripresero il cammino. Ora Giuseppina si sentiva rincuorata da quelle parole dette con voce suadente da quella signora. La curiosità aveva cancellato tutte le ansie e le paure di un attimo prima. Ora il belare si sentiva più intenso e mentre camminavano le luci scomparvero e si trovò d’un tratto mano nella mano con la signora dentro l’ovile dove il nonno teneva le pecore.

- “vedi, Giuseppina, questa è Azzurrina e aspetta un agnellino” disse la signora con voce rotta ma senza tradire l’emozione. “Quando nascerà, questo… figlio sarà portato in un luogo cattivo dove lo faranno soffrire molto di più di quanto hai sofferto tu con la siringa del dottore… Tu vuoi questo?”

- “No, di certo!” esclamò a gran voce la piccola. “Io lo difenderò contro i cattivi!”.

- “Ma quelle persone non sono cattive… Liborio… e tuo nonno sono buoni e generosi”.

Giuseppina guardò scivolare una lacrima dal volto ora divenuto diafano della signora e le chiese se conoscesse suo nonno e il dottore. 

- “Io sono Lea” disse la signora con voce ferma “ed ero la moglie del dottor Liborio. Anch’io aspettavo un bimbo, che non è mai nato e che mi ha portato via con sé. Vorrei che tu dicessi a mio marito e a tuo nonno che anche gli animali soffrono tanto e per questo non devono portare via il figlio di Azzurrina. Puoi farlo per me?

- “Certo che posso! Ora vado a dirglielo!” e fece per allontanarsi ma la donna la fermò con gentilezza e la prese in braccio: “prima devo portarti dai tuoi genitori”. Ricomparvero come d’incanto tutte le luci sfolgoranti della città e dalla penombra Giuseppina vide incedere verso di lei mamma Rosina e papà Francesco. La signora la mise in terra e si allontanò, mentre la piccola corse verso di loro i quali sorridendo l’accolsero in un abbraccio a tre e la fecero volteggiare come aveva sempre sognato di fare. 

- “Giuseppina, la tisana…”, “Giuseppina, la tisana…”, la nonna continuava a chiamare ma la piccola era assorta ancora nel suo sogno con le labbra socchiuse in un sorriso tenero e dolce. Quando i suoi occhietti vispi si riaprirono aveva ancora i riflessi di tutte quelle luci di città nelle pupille, ma un pensiero la pervase con insistenza: parlare della signora e di Azzurrina al nonno. Quando ebbe ascoltato il racconto della piccola, il nonno socchiuse gli occhi con approvazione e promise che avrebbe dato ascolto a Lea e ne avrebbe riferito al Dottore, cosa che fece con grande delicatezza. L’agnellino di Azzurrina era salvo! Il giorno dopo mentre era ancora a letto, Peppinella vide aprirsi la porta di casa mentre i nonni erano fuori a governare gli animali. Udì una voce suadente come quella di un angelo che la chiamava per nome, poi vide due ombre stagliarsi contro la luce e riconobbe i suoi genitori. Non poteva credere ai suoi occhi, ma si alzò in fretta e corse verso di loro abbracciandoli come aveva fatto nel suo sogno meraviglioso che finalmente si era avverato. 

LA LEGGENDA DI EISTULF

 

Un tempo esisteva sulla terra un regno piccolo piccolo ma con grandi mura a difesa del magnifico Castello che si diceva costruito dai giganti. Il Ministro della difesa, un generale dall’aspetto fiero e marziale, non aveva nessuno che pareggiasse con lui nell’arte della guerra e il suo esercito gli era sempre obbediente, seppure dalla sua costituzione non aveva mai dovuto combattere alcuna guerra e dal giorno della sciagura era composto ormai di soli dieci uomini. Il Ciambellano, un grand’uomo reso eunuco in gioventù dal morso di un cane, era un consigliere assai valente e non mancava mai di dare ottimi suggerimenti al Re. 

Gastaldo, questo era il nome del sovrano di quel regno piccolo piccolo, benché giovane in età aveva l’aspetto di un vecchio e si apprestava a declinare il suo percorso di vita e di regnante, sicché il suo posto sarebbe stato preso dalla Regina, anch’essa giovane, ma apparentemente avanti negli anni, seppure dal fulgore mai sopito e dalla bellezza mai sfiorata da una ruga. Vi erano poi nel castello anche due ancelle, l’una più giovane e l’altra più vecchia e completavano la popolazione del regno anche quattro massaie. 

Le giornate passavano lente e non vi era alcuno dei regni limitrofi che osasse avvicinarsi al castello di Re Gastaldo perché si diceva che fosse maledetto. Si raccontava, infatti, che un giorno di un tempo ormai lontano, una strega col sembiante di innocua vecchina, vi si fosse fermata chiedendo da bere e che, respinta in malo modo proprio da un lontano ascendente del Re, avesse deciso di vendicarsi lanciando un maleficio. La maledizione era stata impressa sul portale di accesso alle mura del castello quando la strega aveva pronunciato la formula magica e diceva così: “temete colui che in prigione diventa più forte – est modus in rebus”. Da quel momento nessuno volle più sapere nulla di quegli sventurati e nessuno dei discendenti di quel re era riuscito a dissipare l’enigma ed anche il nostro Re, come i suoi avi, cercava in tutti i modi di venirne a capo, ma senza risultato e così la maledizione copriva ogni cosa col suo manto di tristezza, rassegnazione e tetro vecchiume. 

Resenda, questo il nome della Regina, se ne stava sempre nelle sue stanze a guardare dalla finestra le nuvole che passavano sul castello: le contava e ad ognuna dava un nome diverso a seconda dell’immagine che vi scorgeva. Le ancelle non avevano altro compito che quello di accudire alla Regina e così spesso se ne stavano anche loro a guardare le nuvole che passavano e così quando la regina sussurrava un nome, esse lo ripetevano in coro in segno di approvazione e guardandosi l’un l’altra negli occhi sorridevano malinconiche pensando a quale tragedia sarebbe stata un cielo terso senza più nuvole. Chi in realtà lavorava fieramente erano le povere massaie, donne graziosamente paffute, dai seni generosi e dalle guance rosse come ciliegie, poco più su delle quali facevano bella mostra di sé occhi più neri della notte senza luna in cui rilucevano il sole di giorno e le stelle di notte. Esse dovevano cucinare, lavare, rammendare e in più spolverare tutti i quadri e le suppellettili presenti in ognuna delle cento stanze di cui era composto l’avito castello di Re Gastaldo. 

Un giorno, il ministro della difesa, preso da sacro furore marziale, si recò nella stanza del Trono dove il sovrano era solito rimanere ore e ore a studiare polverosi libri nella speranza di trovare una soluzione all’atroce dilemma, e con voce energico disse al Re: “Maestà, è tempo che io parta per una nuova spedizione alla ricerca della bevanda del maleficio”. Il sovrano tossendo a piccoli colpi annuì sollevandosi dalla lettura: “E’ tempo – disse – che questo regno si risvegli dal torpore in cui l’ha sprofondato il maleficio”. Il ministro gettò un occhio al Ciambellano, si chinò davanti al re, portandosi la mano al petto ed aggiunse: “non tornerò finché non avrò trovato quel che cerco” ed ottenuto congedo dal sovrano, si allontanò dal catello col suo manipolo di soldati cavalcando Erebo, il suo ardimentoso destriero dal manto bianco come la neve. Appena si fu congedato Eistulf, questo il nome del ministro della guerra, irruppe nella stanza del Trono la regina. Il Ciambellano si inchinò e fece un passo indietro. “Maestà – proruppe la regina con la più grande tristezza che potevano esprimere i suoi occhi- muoio…” e senza proferire altra parola si accasciò al suolo con un tonfo sinistro che risuonò in tutta la stanza. Il Ciambellano la soccorse lestamente e sollevatala da terra la depose sul suo trono accanto alla seduta del re. Una lacrima scaturì allora dagli occhi vitrei di Gastgaldo che prese la mano di Resenda e tentò di rianimarla. La regina riprese lentamente i sensi, riaprì gli occhi e sorrise al marito carezzandone la barba. Non c’era tempo da perdere la situazione stava precipitando. 

Intanto Eistulf, con il suo manipolo di uomini stava attraversando le gole della mandragora, luogo che si diceva infestato di esseri mostruosi. Il cielo era cosparso di nuvole grigie e si appressava un temporale, così il comandante ordinò ai suoi uomini di accamparsi in un luogo riparato, lontano dalle gole e al sicuro dalla tempesta che stava arrivando. Piantarono le tende e stanchi del viaggio si addormentarono, lasciando tre sentinelle, una per ciascuno dei fuochi di bivacco che avevano acceso. Durante la notte il comandante non riuscì a dormire ed ebbe incubi tumultuosi che gli giravano intorno in forma di streghe dalle lunghe vesti stracciate che ridevano in coro e bevevano da boccali fatti di teschi d’uomo dai quali scorreva un liquido rosso che pareva sangue. D’un tratto si sentì chiamare dapprima come un sussurro poi pian piano in un vortice di voci deliranti che cantavano il suo nome “Eistulf…. Eistulf…”. Si svegliò di soprassalto e vide dianzi a sé una figura macabra come quelle che avevano infestato il suo sogno. I tratti di costei erano così marcati che sembrava un fossile. Alla sua vista, il comandante si discostò inorridito: “chi sei? – disse con voce flebile ma sicura. L’essere gli si avvicinò lentamente prendendogli la mano e con voce che non sembrava provenire dal quel putridume, tanto era melodiosa e argentina gli disse: “valoroso soldato, mi daresti un po’ della tua acqua, perché la mia gola è ormai secca?”. Eistulf si voltò a cercare il contenitore dell’acqua e lo porse senza dir nulla a quell’essere mostruoso dalla voce soave che, come ne ebbe bevuto si trasformò in un essere angelico per svanire in un fascio di luce nel nulla. Per niente spaventato, pensando che stesse ancora sognando, Eistulf si alzò e memore della promessa fatta al Re, richiamò i suoi soldati ordinando loro di prepararsi a ripartire. Quando ritornò nella tenda si sentì nuovamente chiamare da quella voce angelica che gli chiedeva perché avesse tanta fretta. La figura un tempo mostruosa ora si palesò per essere una leggiadra fanciulla in candide vesti. Eistulf attratto da questa bellissima apparizione non ebbe più l’impulso ad uscire dalla tenda per l’incombente che l’attendeva, ma si fermò a raccontare alla ragazza il motivo del suo viaggio e mentre parlava, vedeva che la ragazza, presa la sacca che conteneva ancora qualche goccia d’acqua, la svuotava per riempirla di uno strano liquido rosso che teneva in un contenitore apparso d’improvviso nelle sue mani. “Bevi – disse la ragazza appena l’ebbe riempita- e la verità fluirà nel tuo corpo come il sangue nelle tue vene”. Eistulf non se lo fece dire due volte e presa la sacca dalle mani della ragazza, ne bevve un gran sorso e più ne beveva, più non riusciva a staccare le labbra da quel contenitore, se non ché un rivolo rosso gli rigò il labbro e la guancia e si sentì bagnare il petto di quel liquido che ora stava tingendo di rosso la sua armatura. Ma come l’ebbe ritratta dalle labbra si accorse che era ancora piena e mentre cercava di capire cosa stesse accadendo, sentì un grande calore attraversargli il petto e le viscere, provocandogli una sensazione di piacere mai provata prima d’allora. Decise di berne ancora e il piacere del primo sorso fu surclassato dal piacere del secondo e poi del terzo e di un quarto fino a che non perse l’equilibrio e cadde. Una strana sensazione ora gli attraversava la testa, la sentiva pesante e vedeva le cose muoversi tutto intorno a sé. Alzò gli occhi verso la ragazza che gli stava tendendo la mano per aiutarlo a rialzarsi e si rimise in piedi per poi sedere nuovamente perché le gambe non lo reggevano. La ragazza si accostò ad un palmo dal suo naso e guardandolo fisso negli occhi sussurrò dolcemente: “…esso è come il fondale profondo del mare, quieto, anche quando sul pelo dell’acqua si scatenano venti e tempeste e le onde danno battaglia ai venti che le riducono in spuma. Ma è più il potente dei nemici contro il quale non v’è rimedio alcuno. Chi se ne lascia avvolgere, ad esso confessa tutti i suoi segreti ed esso lo rende potente sulle cose che lo assillano. Esso penetra nell’intimo della coscienza e si trasforma in fuoco che avvampa arrampicandosi veloce come una pantera dentro le viscere fino al capo”.  Detto questo, scomparve nuovamente. Eistulf tentò di alzarsi, ma non ci riuscì, aveva troppo moto ondoso nelle viscere e nel cervello. Cercò di chiamare i suoi soldati, ma riuscì a far uscire dalla gola solo un suono simile al raglio di un asino e mentre tentava di comprendere cosa gli stesse accadendo, uno dei soldati, Seila, il temerario, entrò in tenda a dire che erano pronti per ripartire. Appena lo vide in quelle strane condizioni, lo sollevò portandolo fuori dalla tenda. Gli altri soldati accorsero tutti insieme e videro il loro comandante in preda a qualcosa di malefico, perché aveva le vesti tinte di rosso, il viso bianco come la calce e una voce gracchiante come quella di un corvo che si sia incrociato con un asino e in più non si reggeva in piedi. Chi mai aveva fatto questo maleficio al loro valoroso comandante? si chiedevano l’un l’altro, senza sapersi dare alcuna risposta. 

Intanto il re nel suo castello attendeva placido il ritorno di Eistulf. Passarono giorni, settimane, mesi ma del suo fido condottiero, neppure l’ombra. Una mattina l’ancella più giovane si recò sulla torre che dava a levante per vedere se di lontano arrivasse qualche nuvola, giacché nelle ultime settimane non se n’era vista neppure l’ombra, ma il cielo era ancora terso, più limpido delle sue azzurre iridi. Abbassò lo sguardo e mentre stava per tornare al castello, scorse in lontananza una figura che si avvicinava barcollando. Scese di corsa e andò a dare la notizia al ciambellano il quale lo riferì prontamente al re che destatosi, raccolse le forze e si affacciò alla finestra della sala del trono. Man mano che quella grottesca figura si avvicinava il re riconosceva in essa qualcosa di familiare. Finalmente l’uomo giunse alle porte del castello, ma non fece in tempo ad entrarvi che cadde privo di sensi. Il ciambellano, che non si era discostato dal re neppure un attimo, fece ordinare alle massaie che andassero a recuperare quell’uomo per portarlo all’interno delle mura. Le rubiconde massaie lo sollevarono con una lettiga e lo portarono dentro. Il forestiero aveva barba lunga e vesti logore. Dormì per de giorni e il terzo, destatosi chiese di parlare col re. Dopo essersi rasato e mutato d’abito fu portato al cospetto di re Gastaldo che ora sedeva sul trono con al fianco la regina Resenda sul cui capo ceruleo e smunto la corona faceva una macabra mostra di sé. Lo straniero fu invitato dal ciambellano a parlare e presa la parola disse: “Maestà, io sono una nave solitaria che se ne va errando alla ricerca della terraferma. Sono come l’aria, calma quando tacciono i venti, in delirio, quando si scatenano come violenti nubifragi le potenti ali di colui che in prigione diventa più forte”. Il re, il cui volto ora appariva sempre più mostruosamente mutilato da strane cicatrici che sembravano vive e la sua pelle invecchiava a vista d’occhio, si pose in piedi con una tal foga che tutti ebbero un soprassalto. “Che hai detto? – chiese con voce tonante allo straniero – chi hai detto di essere?”.  Questi non si scompose e continuò: “Sire, ho compiuto la missione…”. D’un tratto il re riconobbe in quell’uomo il suo valoroso condottiero Eistulf e fece per scendere dal trono, ma le ultime forze le aveva spese per formulare a gran voce la sua domanda e perdendo l’equilibrio cadde proprio ai piedi del suo campione il quale aiutato dal ciambellano lo risollevò per rimetterlo sul trono, mentre la regina se ne stava a guardare pallida ed esangue. 

Eistulf allora trasse dalla sua bisaccia una sacca contenente il liquido miracoloso e ne offrì al re, dicendo: “Bevete e sarete salvo. Ma vi scongiuro, non fatevi vincere da questo liquido che è un amichevole traditore” e svelò il senso della maledizione: “Esso diventa più forte quando è imprigionato nelle nostre viscere e nessuna forza umana vi si può opporre se non la misura dell’est modus in rebus”. Il re guardò la sacca, la girò, la rigirò, lanciò un’occhiata interrogativa al ciambellano il quale annui con deferenza e ne bevve un sorso e poi un altro e subito dopo un altro ancora, fino a che Eistulf non gli tolse con gesto veloce la sacca dalle mani. Il sovrano rimase per un attimo interdetto, ma dopo aver sentito il calore invadergli il petto e le viscere, cominciò a saltellare per la sala del trono. La regina che fino ad allora era rimasta smorta nella sua macabra seduta, ora pareva riacquistare colore e man mano che il calore fluiva nella sua pelle, la carne riprendeva forma e in brevissimo tempo quella donna quasi cadaverica divenne una bellissima giovinetta dal seno prosperoso e dei lunghi capelli neri. Anche il volto di Eistulf riacquistò la sua forma d’un tempo e il ciambellano sentì rinvigorirsi le membra che gli restavano. In men che non si dica tutto era tornato gioviale nel castello, così il re diede una gran festa alla quale invitò tutti i regnanti vicini che accorsero alla notizia dell’annullamento del sortilegio. 

Tempo dopo i soldati partiti con la spedizione di Eistulf e che si erano dispersi errando per il mondo dopo aver bevuto quel liquido, tornarono uno ad uno con le loro famiglie e chi tre, chi cinque, chi sette figli ripopolarono il castello. Dal canto loro le rubiconde massaie ebbero molto da combattere contro le pretese dei contadini dei regni limitrofi, fino a che non ebbero ad assaggiare anche loro qualche goccia di quel nettare che contribuì ad allentare i loro freni e ad accettare la corte dei valenti coloni, cui anch’esse diedero figli e figlie. Tempo dopo anche la regina, ripresasi del tutto, dopo aver preso un sorso della bevanda magica, diede un figlio maschio al re e le cento stanze del castello tornarono ad essere tutte abitate. 

L’incantesimo era rotto grazie alla prode avventura di Eistulf il cui nome è giunto fino a noi avvolto dalle ali della leggenda ed ancor oggi qualcuno crede che al fianco di un povero ubriaco vi sia lo spirito di quel buon soldato bevitore che cerca di riportarlo sulla retta via raccontandogli la sua storia.

IL REGALO DI IMENEO

 

Questa è la triste storia di due poveri amanti, meno povera lei, com’è dato sapere, divisi da un destino crudele nell’attimo in cui erano pronti per diventare un cuor solo.

 

LO SPOSO

(È dinanzi alla porta della sua reggia e freme di partire per andare alla sposa)

Ecco, vedo giungere da lontano il tempo che ho sempre sognato.

Si appresta a me con grande favore batte forti le sue ali in volo.

È come uccello veloce in cielo! Le sue ali mi porteranno via

da questa interminabile attesa! Sarò accanto per sempre

alla fanciulla che amai prima ancora che fosse concepita.

Sarò il palmeto del suo giardino, le mie braccia rami vivi,

le mie dita fronde che si stagliano in cielo sfidando ogni vento.

Le nuvole che portano pioggia non vengano ad inquietare l’aria!

Ecco, Voglio che tutto si fermi! Mi appresto ad affrontare

il sacro rito con fremiti di gioia e timido rossore.

 

LA SPOSA

(È ancora in casa. Si lascia aiutare dalle ancelle ad indossare l’abito e imbellettarsi il viso).

Quale donna è più fortunata di me ora che il mio sogno diventa realtà?

Fui nei suoi occhi prima ancora di essere nata,

prima che le mie audaci chiome dipingessero di ardente desiderio il suo cuore!

Oh, felicità incomparabile! Sei tu che bussi alla mia porta?

Dimmi, sei tu che bussi con tanto ardore alla mia porta?

Vorrei che fosse lui nel tuo sembiante!

Sole che riluci fra le trame del cielo, splendi, ti prego, nelle mie pupille

e si specchi in esse l’amore!

LE ANCELLE

(recano il velo alla sposa)

Il velo è pronto! Con fili d’oro è stato intessuto:

l’han ricamato le docili sarte di Persia, 

le loro dita leggere come piume han volteggiato come rondini su questo tessuto.

E’ pronto l’abito dorato

 

CORO DI UOMINI

(ventiquattro uomini disposti su due file, il venticinquesimo è dinanzi a tutti; reca una grande asta di legno nella mano destra e un piccolo mortaio d’oro nella sinistra)

Lo sposo è figlio delle stelle! Gareggiano con lui tutti i pianeti!

ha il capo cinto di splendide comete!

Quando apre gli occhi è la luce, quando li chiude si addormenta ogni vita.

Egli è il capo dell’esercito del sole che combatte con spada infuocata e dardi roboanti!

 

CORO DI DONNE

(ventiquattro donne disposte su due file, la venticinquesima è dinanzi a tutte; reca una corona d’alloro nella mano sinistra e una corona di rose nella destra)

La sposa nacque da un gran re! È la principessa delle nubi.

Ad essa si prostrano i venti e le rendono omaggio le tempeste

aquile temerarie e rapaci d’ogni sorta le volano intorno come docili fringuelli

intrecciandone i biondi capelli.

 

LO SPOSO

(È in cammino verso il luogo convenuto, lo precedono di poco due uomini con il vessillo dei suoi avi e lo seguono altri due recanti il suo stendardo. A distanza i restanti uomini del coro).

Le rondini che solcano il cielo e i gabbiani che sorvolano i mari

recano la voce della sua purezza! I gigli del campo osannano la sua verginità!

La rugiada che scende alle prime luci dell’alba ha attraversato la sua anima ed è giunta a me splendente come il sole del meriggio estivo! Oh, fragile, tenero bocciolo, sei tu il mio amore, come potrei sbagliare? La tua fragranza giunge a me come sacra libagione alle narici di Imeneo. Quante parole vorrebbero volare da questa bocca come soave melodia dalla cetra di Orfeo, ma la trepidazione di apprestarmi ad incontrarti mi blocca.

 

LA SPOSA

(È in cammino seguita da quattro ancelle piangenti di gioia e dal coro di donne più a distanza)

Oh gioia! È lui! Eccolo apprestarsi accompagnato da valorosi amici.

Il suo corpo è fiero come l’elmo di un immortale eroe, egli ha portamento da gran re.

Oh gioia! Sarò il suo giovane fiore, gli offrirò i miei rosei petali

e li indosserà come scaglie di armatura impenetrabile.

Dal mio verde stelo torrò le spine e mi intreccerò in bella corona.

Il suo nobile capo bruno aspergerò del profumo inebriante della primavera.

I suoi fluenti capelli neri, vigorosi come radici di cedro

cospargerò di unguento prezioso e di olii profumati.

Docile come gazzella mi appresto, seguitemi, ancelle!

 

GLI SPOSI SI INCONTRANO

(i cori di uomini e donne passano ai lati e vanno a disporsi in cerchio intorno agli sposi, recitando i versi che seguono)

Dall’alto della sua regalità giunge lo sposo seguito dai suoi valorosi guerrieri,

due alla sua destra, due alla sua sinistra.

Il clamore delle vittorie li precede, è un grande roboare il loro passo.

Ecco la sposa! Vergini ancelle la seguono, le tengono il velo

E un lieve brusio elevano sommesso cantando le sue fortune.

Hanno al collo fiori d’arancio e i fianchi hanno cinti di calle bianchissime.

 

LO SPOSO

(si pone con i suoi uomini al centro della piazza)

Vorrei correre a te con tutta la foga del mio essere, ma contegno debbo tenere!

Non posso figurare rozzo e insensibile ai tuoi occhi verdi come smeraldo,

regina dei miei sogni.

 

LA SPOSA

(si ferma al cospetto dello sposo)

Oh, finalmente, mio Re, sei dinanzi alla tua serva!

Mi prostro alla tua regale corona Le mie ancelle sono le tue schiave

ed io sarò il tuo occhio migliore.

 

LO SPOSO

(tende la mano alla sposa)

Donna più bella mai fu vista! Il mio cuore è vittima di spasimi interminabili!

Sollevati, mia felicità, che possa contemplare il tuo viso.

Come chiamarti serva se tutto di te è regale? Gli dei mi siano testimoni!

Imeneo trascriva queste parole nel cielo, sulla terra e sul mare.

Poniti fiera alla mia destra, che cominci il corteo nuziale!

 

CORO DI DONNE

(si accoda al corteo dietro le ancelle che reggono il velo)

Imeneo! Imeneo! Imeneo!

Vanno due giovani belli verso la vita,

eccoli, fieri ed eleganti e con passo di fuoco!

 

CORO DI UOMINI

(seguono il corteo verso il luogo del sacro rito)

Albatri e cigni reali, venite a far da seguito al corteo degli sposi.

Sollevate usignoli il velo della sposa, cantate aironi, la magnificenza dello sposo.

 

NOTA DI SCENA

Si alza un gran vento, solleva le vesti della sposa e le scompiglia i capelli. Lo sposo cerca di farle da scudo. Dopo breve il vento furioso cessa ed il corteo può riprendere. Tutti riprendono i loro posti. Ma ecco, si ode una gran voce tuonare, un urlo spaventoso. Le ancelle fuggono atterrite. Giunge di soprassalto un essere grottesco. Ha il viso coperto da una maschera nera. Brandisce la spada contro lo sposo. Afferra la sposa traendola a sé. I quattro valorosi accorrono in aiuto. Si accende un furioso combattimento. Lo sposo è ferito e si accascia a terra. I quattro cadono sotto i fendenti del losco figuro. La sposa sviene tra le braccia dell’aggressore che si dilegua portandola via con sé. Le ancelle si strappano i capelli, si battono il petto.

 

CORO DI DONNE

(disponendosi in quattro file, braccia al cielo)

Imeneo! Imeneo!

Quale scempio, quale scempiaggine!

Erano belli ed eleganti! Fierezza traboccava dai loro occhi, ed ora?

Dov’è la sposa che dicevamo beata? Quale sortilegio, quale beffa?

Il tremendo assalitore chi è? Imeneo, che sarà di loro?

 

NOTA DI SCENA

Il coro di donne continua le sue lamentazioni sino a sera. Al calar del sole si vuota il luogo della tragedia. Piomba il silenzio. La luna domina incontrastata il cielo. Quando volge l’alba si scorge una figura barcollante. È la sposa! È avvolta in un cappotto di Astrakan. Ha i capelli discinti. La mano sinistra regge un fiasco.

 

LA SPOSA

(sollevando il fiasco)

…porca vacca…

Sarà stata l’astinenza, sarà stato un desiderio atavico,

saranno state la paura o il terrore, sarà stata quella piacevole brezza 

che mi accarezzava tutta… mi sono divertita!

Al diavolo quelli che volevano farmi prendere marito!

E’ stato bellissimo, l’amore autentico, senza troppi convenevoli e riti aulici

che riducono le persone in automi. Sono tutte buffonate!

Concretezza ci vuole, peccato ci vuole!

(Detto questo, la sposa stringe le spalle, si chiude nel suo Astrakan e con una smorfia torna indietro dal suo rapitore che l’attende in lontananza fumando una sigaretta).

 

LO SPOSO

(ritorna trafelato tenendosi con una mano la spalla ferita)

Che gran pezzo di poco di buono quella donnaccia!

Che fortuna ho avuto a non portarmela a casa:

avrebbe rovinato la mia vita e sperperato i miei averi.

Grazie Imeneo per avermi aperto gli occhi

E per avermi fatto questo grande regalo!

LETTERE DALL’INFERNO RODIGINO

A Ernest Hemingway

(scrivere è come trovare la consapevolezza che la campana suona anche per me)

SCRIPTOR HORUM COMMENTARIORUM, POSTERIBUS SUIS.

AD VERONAM PROFECTUS AD EXERCITUM III VIG. IV NON. MAI. MCMXCII.

MONTORIO VERONENSE VII ID. MAI. MCMXCII

Maestro,

scribeo hoc ephemeridem e non riesco più a tenere la penna in mano in modo decente, tanto è, o tanto pare che sia il tempo che non scrivo. Dal giorno in cui partii non sono riuscito a fermare le mie impressioni su carta. Dirò dunque dei giorni precedenti a questo e sarà solo frutto di ricordi. Sono accadute tante di cose, probabilmente molte di esse mi sfuggiranno. Hoc malum est, quia mi ero riproposto di trovare almeno cinque minuti la sera prima di coricarmi per scrivere le impressioni della giornata e tracciare un profilo quantomeno verosimile della vita di una recluta dall’immatricolazione alla “vecchiaia”. Partii a mezzanotte e dieci da S. Severo. Alla stazione mi ci avevano accompagnato mia madre e mio fratello, mio padre non poté venire perché il mattino dopo doveva alzarsi di buon’ora per recarsi al lavoro e quindi lo salutai senza rendermi conto che non lo avrei visto per tanti mesi. Ero preso dall’euforia di uscire dall’imbuto della noia casalecchiese. Il treno era zeppo. Buona parte erano ragazzi che come me partivano per il militare. In tutto simili a me: gli occhi lucidi, il morale sulle stelle e la voglia e l’entusiasmo di vedere cosa ci fosse al di là delle loro case. Ma io partivo con un ritardo di circa sei anni, mentre loro avevano appena compiuto la maggiore età. Non trovai posto a sedere e il viaggio sino a Bologna lo feci totalmente in piedi o seduto su un tavolaccio del corridoio. A Bologna il treno si svuotò per un quarto e riuscii finalmente a trovare posto. Dormii circa due ore. Non sapevo che mi attendeva una giornata faticosa a Montorio Veronese e quei centoventi minuti di sonno mi furono di grande utilità. Giungemmo a Verona alle nove e mezza. Ci aggregammo ad un altro gruppo che man mano si ingrossava sempre più con l’arrivo di nuove reclute da ogni parte d’Italia. Appena giunti in Caserma, ci spinsero su alcuni autobus verdi dell’Esercito e fummo portati come un gregge in un piazzale immenso, dove rimanemmo in sosta per circa un’ora sotto il sole cocente e col pesante carico dei borsoni che nessuno si arrischiava a lasciare in terra. Il caldo era insopportabile e il sudore colava su tutto il corpo, appiccicoso sporco e stanco. Emanavamo tutti un brutto odore e nessuno dei militi “anziani” osava avvicinarsi. Ci fecero accasermare presso un enorme stanzone come in un ovile, mentre l’uso suo proprio, seppi poi, era di cinema o comunque, di luogo di ricreazione. Il primo giorno trascorse così, tra un’attesa e l’altra, tra un sogghigno ed una risata, tra uno sbuffo di noia ed un urlo marziale di qualche graduato di truppa che cominciava a rendersi conto di quanto potesse essere ingovernabile e incontenibile una massa di giovani così promiscuamente aggregati. Ci schedarono e ci diedero la destinazione, la mia era Rovigo. Il contrappello era fissato per le ventitré e per quell’ora tutti dovevamo essere pronti dinanzi alle brande per l’ispezione. Non avevo sonno, nonostante la mia immane stanchezza, ma dovetti comunque adeguarmi alla situazione e chiudere gli occhi in attesa del nuovo giorno. Lo spirito di gruppo nasce dalla sofferenza comune. Il giorno seguente c’era una ressa terribile davanti ai lavabi. I caporali istruttori urlavano senza sosta per tentare di ricomporci, ma la massa diventava sempre più amorfa e incontrollabile. Il vocio era urtante e ciascuno sgomitava per tentare di radersi usando uno spicchio di specchio a circa due metri di distanza per sbrigare l’ufficio mattutino dell’igiene personale, in tempo per l’adunata. Mi sentii un leone che si getta sulla propria preda quando i caporali ci dissero che avevamo solo quindici minuti per lavarci, raderci, far la pulizia delle camerate, preparare il “cubo” (disfare il letto e mettere in ordine lenzuola e coperte in modo da formare una specie di parallelepipedo, per rifarlo alla sera, ripristinandolo per dormirci). Terminai l’ufficio a scapito di qualche moccioso che con i miei spintoni avevo scaraventato al largo, e in men che non si dica ero pronto insieme a tanti altri a ricevere gli ordini e gli insegnamenti del nostro caporale di squadra: M., un ragazzo sui diciotto anni riflessivo e malinconico; a tratti faceva pena vederlo così piccolo cercare di tenere in ordine una sconclusionata armata Brancaleone di tredici elementi tutti diversi tra loro: Di. Ca., Ca. Gi., Gh. An., Ci. Al., Di. Ro., Di. Da., Bo. Iv., Fu. Gi., Ca. Si., Gr. Ma. e De. Ag… Quattro toscani, otto pugliesi ed un campano. Non imparai subito i loro nomi, ma poi col tempo riuscii ad assimilarli. 

 

A Ranuccio Farnese

(lo spirito di gruppo mi ha salvato dalla noia della naja)

IV ID. MAI. 

Caro Ranuccio, tento di ricordare chi tu sia, ma non ci riesco. Sei forse un Carneade vagolante tra i meandri della mia mente? Un blocco empatico? Non so, ma scrivo a te e riprendo a scrivere di lunedì. Un groppo mi stringe la gola mentre scrivo ed una lacrima tenta furtiva di rigarmi il volto maschio da duro milite di leva, ma non lo permetto e l’emozione e la nostalgia aumentano. Mi rivedo alla stazione fra migliaia di persone fermo davanti al treno pronto a partire… È straziante continuare, ma devo farlo per superare questo momento. È dura, ma devo farcela! Non mi va di riprendere il mio resoconto da dove ho lasciato, anche perché ormai non ricordo più nulla. Qui le giornate sono diventate tutte uguali, una routine e una monotonia devastanti. Di tanto in tanto ci si diverte marciando. I toscani della mia squadra dicono che gli “garba” marciare, e non posso dargli torto, perché anch’io provo qualcosa di eccitante, una sorta di piacere marziale a battere il passo o la cadenza agli ordini del nostro comandante di plotone. Mi sovviene il tuo nome fra tanti, ma il tuo casato non si può nascondere. Ed ecco che traggo giovamento dal ricordare quel che avevo letto un tempo sul tuo conto, che fosti abile nel capire che il tempo delle prodezze militari era finito. Così ti avvicinasti alla corte papale per entrare nel novero delle grandi famiglie romane, facendo la fortuna della tua. Ma come emulare il tuo esempio qui a naja, dove si insegna ad essere umile tra i potenti e potente in mezzo agli umili? 

 

A Baldasso

(era un ragazzo all’incirca della mia età)

V ID. MAI.

Caro Tenente, è pomeriggio. Ho appena terminato di pranzare dopo essermi sorbito il patimento dell’attesa per entrare in mensa. Questa mattina ho chiesto al comandante di plotone se potevo avere un colloquio con l’ufficiale cappellano. Sento l’esigenza di parlare con qualcuno che non spari cinquanta bestemmie ogni parola -gli ho detto- e lui, il tenente B., un ragazzo che dovrebbe avere all’incirca la mia età, mi ha promesso che mi ci farà parlare con don Ezio, ma non oggi. Oggi ci vestono, ci danno l’uniforme da combattimento e la tanto agognata drop. Non vedo l’ora di averla addosso così potrò uscire in divisa domenica prossima -se non sarò piantone- e utilizzare per le mie sortite galanti ai danni delle aggraziate fanciulle veronesi, tutto il fascino indiscreto della divisa… Sono le tredici. Fra mezz’ora ci sarà l’adunata e come al solito ci si riempirà di polvere eseguendo gli at-tenti e i ri-ppsò che ormai hanno invaso quasi completamente il mio cervello. Solo ora riesco a capire tutto quello che mi raccontava mio fratello quando tornava per una breve licenza da Roma o in “fuga” per qualche ora da Bari. Avevi ragione tu quando dicevi che non ti avrei capito se non quando mi sarei trovato nella tua stessa condizione… Quando tornerò ti racconterò a parole quello che ho vissuto e che sto vivendo giorno per giorno in questo carcere ed Hotel al contempo e forse ci divertiremo confrontando le mie e le tue esperienze…

 

A Diego Abatantuono

(grazie per il tuo Mediterraneo)

III ID. MAI. HORA XII

Ti scrivo per ringraziarti, Diego. Sono quasi tutti in libera uscita mentre io con pochi altri siamo rimasti ad osservare l’attraversarci del tempo. Nel più snervante oziare ci si sdraia in branda o ci si siede su una panchina sulla quale batte l’ultimo sole del meriggio o si bivacca su uno spicchio di verde che è riuscito a non imbiancarsi di questa specie di neve artificiale che cade continuamente. Mi innervosisce. Sto pensando a niente. Alcuni amici sono passati qui vicino di ritorno dalla mensa e mi hanno dato scherzosamente dell’intellettuale vedendomi seduto sulla panchina a scrivere queste righe. Penso che fra meno di mezz’ora andrò al cinema: ho letto che danno “Mediterraneo”; mi sembra interessante, anche se a questo punto tutto sarebbe meglio che stare qui a vedersi invecchiare osservando il coito fra il sole del tramonto e le camerate bianche e gialle che si perdono all’orizzonte. Questo è il secondo giorno che resto dentro ed ho deciso che non uscirò fino a domenica, giorno in cui avrò una breve licenza se la fortuna e i caporali vorranno. Ho deciso di non cenare la sera o meglio di cibarmi solo di una mela o di qualche biscottino conservato dalla mattina: ne ho una buona scorta. Ecco, il film mi ha immerso in ciò che qui non faremo mai e mi ha tratto da quello che qui facciamo sempre. Recitazione impeccabile, Diego, come recitiamo qui noi le nostre misere parti fra i Vitangelo Moscarda e i Principe Miskyn, prezzo da pagare per il tragico errore di vivere questo massacro di talenti.

 

Al Colonnello Slade

(“dammi le coordinate della stanza ragazzo”)

II ID. MAI. HORA VII

Signor Colonnello, è Lei che mi impressiona ed è grazie all’esempio della difesa del Suo attendente che ormai scrivo con una certa assiduità e il diario si empie sempre più di pensieri e desideri. Questa mattina come tutte le altre ci siamo alzati alle sei e trenta, abbiamo sbrigato l’ufficio della toeletta e siamo usciti in adunata nella “U”. Abbiamo marciato per un certo tempo, poi ci hanno fatto lanciare per addestramento la bomba finta mentre con l’altra mano reggevamo i sette chili del fucile. Ci hanno detto di cadere, dopo il lancio, in una certa maniera che evidentemente è la migliore per un soldato che voglia ripararsi dalle schegge della bomba, ma puntualmente tutti cadevano d’istinto, cioè diversamente da come si doveva. Io ho fatto lo stesso (sarà per questo che si è persa la grande guerra?). Dopo ci hanno spiegato, sotto un sole cocente seduti a sudare e a masticare polvere, il fucile “Garand”. Fra non molto ce lo faranno smontare e rimontare pezzo per pezzo e forse allora ci sarà da divertirsi quando all’atto di riassemblarlo avanzeranno i pezzi e sentiremo le urla di rimprovero dei superiori. Sono bivaccato sulla mia branda e penso di concedermi un sonnellino di venti minuti dato che alle tredici c’è l’adunata. Colonnello, ho visto come ballava Lei che non poteva più vedere ed ho scoperto che se si conoscono le coordinate dei propri desideri, nulla impedirà che si realizzino anche di fronte a mille avversari, il più valente dei quali è la cecità intellettuale del “nemico” che qui si chiama naja.

A Ciro Menotti

(il senso patriottico?)

ID SEP, HORA III

Stimatissimo signor Menotti, conosco la Sua storia e le Sue traversie e La ringrazio per avermi dato questa Patria. Ma quante volte ho atteso che venisse il momento di consumare il famigerato trentasei insieme a chi in quei momenti era la cosa più importante della mia vita! Quanti sofferti turni di guardia, sulle altane i primi mesi, poi al centralino, la scatola prefabbricata che ho fatto diventare, non solo per dovere, il mio sarcofago. Quante volte, di ritorno dal Sito, reduce smontante dalla guardia settimanale, sono corso in fureria già pregustando il dolce suono delle parole “concesso il trentasei” pronunciate dallo scrivano di turno e quante volte, ho trovato invece l’amara sorpresa di un diniego del comandante di reggimento che con la scelta di non apporre la sua firma su un pezzo di carta (che per lui era l’espressione della bassezza dei militi moderni, quelli che non avevano fatto la guerra, la figurazione dello spirito serpeggiante dell’antipatriottismo… e che per me, invece, valeva oro e pur di averlo avrei sopportato la costrizione militare del servizio coatto alla Patria e celato con la massima disinvoltura lo spirito di ribellione) rinnovava ogni volta il suo fermo convincimento che il soldato deve maturare, temprandosi lo spirito, perché solo così può essere pronto ad affrontare l’evenienza di qualsiasi guerra, opporsi con abnegazione a qualsiasi nemico, combattere con orgoglio e vincere qualsiasi battaglia offrendo fieramente il petto alle pallottole nemiche. Ma noi, poveri ragazzi imberbi, che colpa abbiamo se non siamo stati in guerra, se non abbiamo dovuto combattere per liberare la nostra Patria dall’oppressore, che colpa abbiamo se viviamo in tempo di pace? Si vis pacem para bellum? E’ per questo che siamo qui… ad addestrarci per finta, per dare l’impressione di essere pronti alla battaglia… ma solo l’impressione. Una finta guerra per una finta Patria che non c’è laddove alcuni marescialli si fanno riempire le proprie auto di derrate destinate a noi, compiendo veri e propri “atti di maresciallaggio”, con tutto il rispetto per il povero “canis aureus”. 

 

A Luca Bonicelli

(ricordo il concorso di poesia cui non partecipammo mai)

IV NON. IUL. MCMXCII  SECUNDA VIGILIA TAB. III

Caro Luca, sono sull’altana e ti scrivo. Un topo di campagna rovista tra lo sterco giallo e verde di piante in agonia. Nell’acquamorta del fossato in sincrono e a volte ognun per sé i ranocchi gracidano -svegli come la mia fantasia. Forse è amore il loro gracidare, forse è litigio, non so. Una luce, il faro del recinto, mi abbaglia, mi viene dritto dentro gli occhi. Ho il timore e l’angoscia di vedere una figura umana: ispezione, non certo il cambio! Sono ancora in dieci i minuti che han brindato. 

III NON. IUL. HORA I TAB. V

Assordante rumore di un radar di mille secoli fa. Trillare di grilli e cinguettii di uccelli. Foschia leggera. Rugiada. Alba…

II NON. IUL. III VIG. TAB. IV

Un uguale raggio mi chiude in questo metallico perimetro fatto di piccoli poligoni bidimensionali. In un cilindro di cemento, vegetando, vivo due ore ogni quattro di teorico sonno. È vano evadere da ciò che mi tiene sveglio. Parole mi giungono in bocca non inviate dal cuore, dalla mente forse, ma evase… È breve lo spazio di questo momento come il sorriso di un angelo nero in agonia. È notte. Mi giunge ingrato il canto di rane e rospi, e nel tacere del vento, il silenzio intermittente ne amplifica l’intensità. Volatili d’un colore plumbeo che appena scorgo di lontano consumano dolci schermaglie d’amore o crude battaglie di suoni presso l’acquamorta del fossato, non so, ma ne percepisco l’ardore. Oltre il recinto colline di erba secca tagliata per foraggio, pianure di erba verde ancora intonsa e tutto intorno pallido giallo di paglia e i riflessi cangianti qua e là delle sparse macchie di libertà incontaminata. In cielo lampi senza tuoni. Ricordi, Luca, il concorso di poesie cui dovevamo partecipare e cui non abbiamo mai inviato i nostri componimenti: il tuo meravigliosamente nobile e radioso, il mio, plebeo e lamentoso… avresti vinto tu il primo premio e avremmo festeggiato con un panino e una birra al bar della naja a Rovigo. Spero che tu stia bene, amico mio.

 

A Jules Verne e Jonathan Swift

(ogni viaggio è una scoperta, ma ovunque approdi, sei sempre un naufrago)

PRID. NON. IUL. I VIG. TAB.III

Signore, devo sottolineare la mia convinzione che Ella abbia prodotto tanti più benefici alla mia fantasia di quanti benefici possano aver prodotto i miei naufragi intellettuali fra i marosi del cordiale. Lo preferisco questo cilindro e la garitta che danno su ampi spazi di verde e di apparati poligonali, radioattivi ma non irritanti. Sempre il faro giallo intenso sparato dentro gli occhi, lo stesso che illumina la rete e il bianco del quaderno. Mi son portato il suono d’una radio da esibire al mio cervello quando sarà stanco di pensare. Ritorna il gracidare ritmico e snervante degli abitatori del fossato mentre già da un pezzo mi hanno invaso le zanzare. Per loro sono un Gulliver un essere mostruoso, un gigante, un orco, un drago, ma loro sono in tante, le sento già levarmi il sangue… vola tremenda la mano ad abbattersi sul collo, fa male, ma è necessario. Non so cosa farò se non si alza un po’ di vento, giusto un poco, tanto per gradire in questo viaggio al centro della naja, ventimila leghe dentro la noia. 

 

A Dario Argento

(bel soggetto per un film horror?)

NON. IUL II VIG. TAB.IV

Maestro, è la prima luna che vedo da quando son sacro e inviolabile. È mezza a ponente, mi è compagna di guardia. Le luci bianche rosse e blu di un aeromobile l’attraversano. Non c’è “calzini bianchi”. I rospi invece sono qui, sempre qui, perentoriamente. Gli occhi, al limite della sopportazione, si tengono appena socchiusi: ho bisogno di dormire! Riesco a fatica nel tentativo di restare sveglio. La luna sta facendosi rossa mentre oscure nubi la divorano lentamente. Appena mi sporgo vedo l’Orsa Maggiore, il gran bel carro che mi trasporta attraverso le galassie della fantasia. Le oscure nubi han divorato la luna mentre facevo il giro delle stelle. Sono sveglio, ma sto dormendo. Lampi di tremenda portata illuminano dall’altra parte il cielo rivelando immani rigonfiamenti. Sono ancora sveglio ma sto ancora dormendo. Domani sarà una bella giornata non foss’altro perché sarò a riposo.

NON. IUL. III VIG. TAB. V

La pioggia scende lieve sul sonno del fossato che rigurgita impietoso teorie di gracidanti ranocchi e rospi serafici. Nugoli allertati di zanzare si confondono all’acquerugiola sotto l’attento sguardo del faro giallo che mi dà le spalle illuminando la scacchiera senza bianchi e neri che corre silenziosa tutt’intorno. Freddo, tensione e nebbia. I fari in processione sembrano venirmi incontro: macabro rituale di ogni sera quando il dito indice di una stella pigia il tasto della luce. Musica della regina senza testa pile scariche la fan sembrare il lamento di un disgraziato ormai prossimo alla terra. Un’ora è già spirata e morrà anche l’altra, poi due di sonno e poi ancora due con gli stecchi a tenere aperti gli occhi finché l’alba non mi verrà in soccorso a ricacciare nella nebbia il terrore di un incontro. Ne farai un altro film? 

 

A Jerome Kapla Jerome

(Pensieri oziosi di una persona oziosa)

POSTR. NON. IUL. HORA I TAB. I

Signore, La ringrazio per il Suo contributo alla mia libertà di espressione e grazie a Lei ora posso riconoscere che questa altana è la più ambita ed ora so il perché: immensi spazi vuoti dominati dal verde che accarezza e invita ad un’ora di sonno. Alba fantastica! Sole rosso mi osserva mentre lo scruto, mentre lo vedo salire. Il camion dalla spazzatura oltre il recinto è venuto a ritirare i nostri rifiuti ed è ripartito: non ho fatto in tempo a lanciargli il mio rifiuto alla noia e mi tocca restarci dentro finché non vada via. La nebbia delle cinque si sta diradando. Sento freddo. L’orizzonte s’indora; la rugiada cosparge di luce la intera distesa copiando il fulgore del sole. È un’alba magnifica: tenera piccola bocca dell’universo! Ormai mi è familiare questo cilindro della tensione. È fin troppo normale viverci per almeno quattro ore ogni notte, ma ogni volta la tensione è diversa. C’è un caldo infernale. Le zanzare mi girano intorno e sembro una parodia del mitico King Kong. Ma una novità sobilla la mia fantasia alla ribellione: il faro che ogni notte mi acceca ora è spento… come il mio entusiasmo. Tutto sembra sedimentare nel fango della mia solitudine. È come se una parte di me si staccasse per andare nell’oltrequando dei ricordi che fanno di tutto per tormentarmi. Sto pensando, chissà come, allo scroscio di un fiume: il suono dell’acqua non è mai presente, sempre collegato all’idea del passato o allo spirito dell’idea di ciò che sarà. Vivo nell’idealizzazione più cinica e questo forse è il mio presente.

 

A Paolo Conte

(la fisarmonica di Stradella)

POSTR. NON. IUL. I VIG. REFICIENDO

Maestro, Calzini bianchi, alcuni barbari di poco cervello radendo l’erba con macchine rumorose e senza cuore, gli han levato via per sempre il candore dalle zampe. Ora tentano di abbatterlo per terminarne la sofferenza. A un amico rendo omaggio. Addio! Possa il vento assecondare il tuo desiderio di reincarnazione! Addio! Mi sento delicatamente romantico questa notte. Mi giunge di lontano il suono di una saga di paese a circa due miglia da qui. Il silenzio della notte amplifica ed infuria le rumbe e le mazurche che sembrano considerarmi un ospite ingrato il quale, invitato a ballare, si tira indietro perché non lo sa fare. La mente va a quelle serate strane a Monterotaro quando più di cinquemila persone si riversano fra le stradine infangate per ascoltare uno di quei complessini improbabili che si concede al miglior offerente. Tutto ha un sapore di purezza che non si può restare a guardare e allora ci si getta nella mischia a tracannare e trangugiare all’antica. Quante volte ho vissuto quelle sere rattristato al solo pensiero che un giorno tutto sarebbe finito. Eccolo il giorno, anzi, la notte! Ma questa musica ha risvegliato in me il ricordo e questo mi basta almeno per due ore ancora, poi tutto svanirà fra le ali del vento che già sento trascinare altrove quella dolce illusione come il suono di una fisarmonica di stradella.

 

A Umberto Eco

(E fu così che vidi il pendolo)

  1. NOV. I VIG. TAB. I 

Maestro, ovunque Tu sia, che questi pensieri ti trovino bene. Le mie argomentazioni non sono considerazioni precostituite, ma valutazioni di gravità. Ed ecco che la trappola della dissacrazione è scattata mentre sono al Sito e mentre i Pooh dalla radio cantano di dei delle città e delle immensità. Gli egiziani cercavano si salvare l’integrità materiale dei corpi imbalsamandoli. I risultati erano Mumh-mih-eh ed è singolare come tanto si sia fantasticato sulla maledizione di Tothan-khamon. A voler cercare connessioni se ne trovano sempre! Vorrei che questa bella frase sia epitafiata sulla mia pietra. Le cimici mi ronzano intorno. Ce n’è a quintali qui al Sito. Altro settimanale da centralinista e vai alla grande! Mi manca tanto Lorenza… non una parola di più. Fumo ancora Marlboro ma da domenica I’ll roll cigarettès papers. Eilà Jacopo, como estas? Bien… e son contento. Certo non si può dire che mi annoi fra tutti questi insetti! La tensione non è una bella donna, è piuttosto un grosso cimice che ti si appiccica all’orecchio e ti si frulla le ali spappolandoti l’attimo di concentrazione che con intensa fatica eri riuscito a raggiungere. E Diotallevi? E Casaubon? Simmenthal… E Lia? E Amparo? Che fine ha fatto Amparo che sembrava dover essere la musa ispiratrice dello Sir Lock e del suo Holmes di turno? Sarò sincero. Mi eccitai leggendola rapita come una baccante al Candonblé. Tuttavia a Rio c’era anche Sangermano sotto mentite spoglie. A Bergamo alta ho incontrato Adso da Melk, c’era anche Lorenza e a pranzo mi ha detto “ti amo”. Abbiamo mangiato la polenta e osei: troppo dolce, da nausea, ma Lorenza era con me. Forse è proprio vero, Guglielmo da Baskerville è la mia unica salvezza. Chissà cosa c’entra il Finnegan con la Veglia di Quark? Historia est magistra vitae! Ma dove? Boh! In qualche dove dell’Universo.

 

A Blaise Pascal (il dubbio…)

POSTR. ID. NOV. VALETUDINE AFFECTUS

Se Vostra signoria si poté permettere di avere un dubbio, io dico solo chissà, il che potrebbe equivalere a dubitare del dubbio. Ma alla fine mi convinco che è inutile avere dubbi o certezze quando ci si rende conto che in un modo o nell’altro si è sempre succubi di qualcosa di indefinito. I sogni sono momenti di vita. Frase storica. Ho sonno. Mi abbandono ai miei momenti di vita e chi s’è visto s’è visto. Abbi dubbi, cantava Bennato… E’ la cosa più semplice il dubbio: il difficile è avere paure e colmarle col coraggio.

 

Al canuto Adso da Melk

(Lorenza è ogni donna che non hai, credendo di averla)

XVII KAL. DEC. VALET. AFFECT.

Mio caro Adso, in questo momento mi piace pensare che Socrate si sia sparato una fucilata in bocca ed Hemingway abbia ingerito cicuta. Potrebbero avere nulla in comune ma e evidente che entrambi hanno contribuito ad ingrassare parecchie generazioni di sorci. Mi ritorna in mente Adso da Melk. L’Adso di Bergamo. Lorenza era con me e quando ha notato il mio stupore riguardo a quell’incontro, mi ha chiesto se Umberto non avesse voluto indicare la bergamasca come luogo dove Jorge da Burgos celava al tempo ed agli umani la voluminosa sapienza di secoli. La mia perplessità fu eloquente e desistette dal trarre altre argomentazioni. Ma se non hai letto neppure il Pendolo, come fai a capire il Nome della Rosa, me lo spieghi – dicevo ad un commilitone che si ostinava a parlarmi di fato? Non esistono misteri insoluti, ma solo segreti ben tenuti o forse inventati. E allora perché ricercare nel misterioso ciò che risiede nella dimensione dell’infinito niente? Interroga il tuo cuore e riceverai una risposta ad ogni tua domanda.

 

A Ponzio Pilato

(quid est veritas?)

XVI KAL. DEC. VALET. AFFECT.

Gubernator, quid est veritas? Chi mai cercando la verità non si è trovato a percorrere un baratro? Non sono nato per imparare ma per dimenticare e poi ricordare. In qualche dove dell’Universo qualcuno starà scrivendo le stesse cose che io ora sto pensando. Io scrivo lui pensa, lui pensa, io scrivo. Parallelismo paradossale. Ma se esistono Universi paralleli, come qualcuno va farneticando, chi mi vieta di essere parte di quell’essere che in un’eiaculazione di microquark primordiali si trasforma nel vuoto in cui si muove il mio pensiero? Quid est veritas? Virtus non timet quod facit. Questa, probabilmente è la verità. Tre stelle brillano più di una, ma una brilla più di tutte. Prova ad osservare Syrio durante il solstizio d’inverno e vedrai la gloria del grande architetto… A Como Lorenza mi disse che non sono stupido. Ma non era con me, come faceva a saperlo? 

 

A Vittorio Gassman

(Che magnifico Brancaleone da Norcia!)

XV KAL. DEC. HORA XII TAB. I

Maestro, mi dico, sei come quel personaggio che agli albori della nuova civiltà portava il lume, la lanterna, la lampada a petrolio lungo le strade e durante il calare della sera illuminava con quella molta più gente di quanto non apparisse dal suo punto di vista ed era quasi oscurato egli che ne era in balia. Un personaggio, un esemplare fulgente di qualche epoca storica, qualunque, dai tratti leggendari. Che valoroso condottiero chi vive ai limiti della tragedia! Ed il tempo della sua leggenda finisce scandito dagli echi del tempo nella dimensione atmosferica dei fenomeni naturali. Quando le carte della tua vita sono giocate e la morte non può cambiarne il senso, a cosa vale dire una qualunque frase storica? Così la lanterna si avvia a diventare il fioco lume che accompagna il lungo silenzio di un Arcangelo verso l’oscurità completa, la desolazione profonda del risucchio profetico di un corpo che non è più senso fisico ma pura emanazione di un’idea. Le cose sono la realtà dei nostri sentimenti che agiscono nel vortice dell’esistenza restando, come nell’atto di un passo improvvisamente arrestato indipendentemente dal nostro pensiero. Così le cose restano immortali, pietra su pietra a formare un muro dove vita e morte sono unite per sempre. Ma non s’era detto che si può credere vagamente nell’Ente Supremo e fortemente nell’Immortalità dell’Anima? Che magnifico Brancaleone sei stato, Vittorio! Quell’impavido della Mancia che io sto diventando di fronte ai mulini a vento della mia fantasia più dissacrante e dissoluta che mai abbia preso la parola nel mio essere. 

 

A Annie Lennox

(A whiter shade of pale – Procol Harum)

XIV KAL. DEC. III VIG. TAB. IV

Dolce Annie, l’Inferno si trova in ogni luogo dove l’essere sconta il peccato di vivere. Un simile territorio è ovunque e da nessuna parte. Le parole sono simboli per esprimere un simbolo. La pioggia interminabile, per un tempo interminabile. La fantasia era una volta da qualche parte. Il cuore? Lo avverto solo nei momenti di dolore fisico. Tuttavia, se ora, in confuso abbandono, ripiego sulla carta è solo per connettere idee, dati di osservazione materiale. Il rifiuto della poesia ora è assoluto. Una sostanza mi invade: la noia. Come un veleno sepolto nel sangue, il corpo ne è saturo quasi paralizzato. Sarà forse la noia infinita, eterna che invade ogni cosa? Mi vedo in famiglia, ammogliato con prole da allevare, educare. I parenti, i mobili di casa, il lavoro sereno. Non è che un miraggio, un miraggio atroce. La Poesia non è stata che un sogno, una invenzione del sogno. I sogni sono incubi ciechi come il sasso.

XII KAL. DEC. IV VIG. TAB. V

La fede che continua a sostenermi ha un nome impalpabile e umano: Memoria. Ero cresciuto come un topo nella farina, ingrassando di malinconia. Ora i miei tratti sono fluttuanti, incerti come di corpo intravisto in acqua stagnante. Medito, dolorosamente seduto, al lume della luna. All’orizzonte i missili terra-aria. L’uno è di tutti, ma anche tutto è di tutti e tutto è dell’uno; potrà mai essere l’uno dell’uno? Avrei potuto spendere meglio il mio ingegno.

PRID. KAL. DEC. VALET. AFFECT.

“scire tuum nihil est, nisi te scire hoc sciat alter”. Chi saresti o cosa, se altri non sapesse cosa tu sei? Privo di senso e paradossalmente vero. Verità tremenda, terribile! Chi mai cercando la verità non si è trovato a percorrere un baratro? E brindiamo con grappa di vinaccia! Follia, chiamala come vuoi, è tua. Nessuno ne ricuserà la proprietà. Follia e Verità vanno di pari passo. Conducono entrambe ad un risultato vero o folle che sia, è il risultato del tuo divenire, di ciò che eri, sei e sarai attraversando infinite metamorfosi.

 

A Lorenza Pellegrini

(con te nessun giorno era come gli altri, ma gli altri per te erano più importanti)

KAL. DEC. VALET. AFFECT.

Signora, nessuna trepida certezza può ricolmare gli avvallamenti del dubbio: le pianure della ragione nulla possono in questo frangente. Ho una bella immagine ora dinanzi agli occhi della mente: la terra posata sulle braccia del cielo. La vedo rilucere confusamente. È lì come Lorenza: mia solo quando dorme sola. Ecco qui, per te, Lorenza, brandelli di pensiero, il fuoco di indomabili ricordi che si spegne nell’ardire di una pagina. La memoria di questi sentimenti va fuori dalla finestra, la, dove, in fondo alla sconfinata pianura bellica nascono le luci del nuovo giorno. Un giorno come gli altri. Guai a quell’uomo il cui sapere non viene valutato in base alla dignità del metodo, ma solo in relazione alla dignità dell’oggetto!

 

A Giuseppe Ungaretti

(Il mattino è probabilmente il poema più ermetico)

IV NON. DEC. II VIG. TAB. III

Maestro, sto osservando la mia prima eclissi. È diabolico. Non che tutto ciò sia opera del demonio, ma non riesco a trovare aggettivo più pregnante. È bellissimo vedere la luna scomparire dietro l’ombra inclemente della terra. La vita non è fatta di cose importanti: sono le futilità che la fanno sembrare importante e degna di esser vissuta. Fra non molto la notte sarà completamente oscura. Vorrei descrivere le impressioni di questo momento, ma sono troppo estasiato per farlo. E se immortalassi questo momento e credessi di farlo rivivere nella mente di chi leggerà, lo farei con parole umane che non possono descriverne l’immensità e per di più renderei per me differito ciò ora è diretto; quindi, esco a guardare e m’illumino d’immenso.

 

A Jim Morrison

(He’s old and his skin is cold)

III NON. DEC. HORA XII TAB. V

Canta ancora Jim, finché non arrivi la fine. Incantesimo sinistro di Sabba pudico, questo luogo così assurdo e tronfio della propaganda militare. Filosofia del niente. Predico a me stesso la sopportazione con instancabile, acre ilarità, ma la ragione precipita, si disfa, dissolve, affonda fra la melma verde di questa puzzolente altana. La luna mi sorride con aloni concentrici sempre più larghi. Temporanea felicita elusiva, viscida… Scorgo di lontano un paese, dovrebbe essere Cona o una sua frazione, ne immagino i labirinti, presepi che confinano con l’inferno. Questa guerra per gioco ucciderà ancora i miei sogni, le speranze, le illusioni, le utopie. Come tagliare l’ultimo albero rimasto sulla terra per farne un po’ di cultura per i posteri. “Mon coeur s’envole”. Viaggiamo nel vecchio schema creato dal buzzurro Carlo V, conosciamo il diritto e il rovescio dell’Universo e giochiamo a far pesare la nostra aggressività sui piatti di bilance sempre più fredde e determinate, sempre meno nobili: “Vae Victis!”. Povere anime vagabonde! È cosi la confusione: tutto si trasforma in danza e marcia verso la fine… “This is the end my little friend”… questo è l’autobus del viaggio senza ritorno: “Venghino, siori, venghino!”. E bevo incessantemente tisane di cuori e rododendri, mentre Tempus fugit. Quando il cordiale è dento, il senno per naturale conseguenza è fuori.

 

A Edgar Allan Poe

(Nemo me impune lacessit)

X KAL. IAN. I VIG. TAB. III

Maestro, non sarà il barile di ammontillado il pretesto per tirarti in ballo, ma il mio limitarmi a peripatire sotto i portici della caserma cercando di capire l’erotismo dei giorni noiosi. Peripateticamente la vita è indigestione: troppi sogni d’amore e di giustizia o vendetta, troppe velleità, troppe conoscenze. Se avessi scritto una poesia presentabile in questi sette mesi di naia e se avessi qualcuno da ricordare, con colto disimpegno scriverei: “Non avendo voglia di scrivere ti mando la sola poesia che ho dato alle carte… ti saluto cordialmente”. Segue firma e testo con eventuale post-scriptum. Eppure non mi rassegno. Ecco: provo ad immaginare, un flash che ho agganciato in qualche dove del mio cervello, una scena, una polaroid, NOWHERE. Un gatto bianco fissa un pesciolino rosso in un’ampolla di vetro. Il pesce boccheggia tranquillo, sa che il gatto non oserebbe mai bagnarsi la zampa e nuoticchiando con sguardo assorto tesse in cuor suo l’elogio dell’acqua e del vetro. Effetto shining, mi allontano dalla scena, il pesciolino diventa un punto indefinito. Poco distante il gatto osserva, sembra assorto, assente in una immobilità statuaria. D’un tratto la punta della coda si contrae e ritmicamente comincia a nuotare nell’aria. Sta per accadere qualcosa che non riesco a mettere a fuoco… ma ecco d’un tratto la zampa lesta del gatto afferra nell’acqua il pesciolino e lo porta alla bocca che si fa voragine e quello non fa in tempo neppure a rendersi conto che è stato tratto dall’acqua. Finirà immediatamente nel liquido gastrico e chissà se tesserà ancora le lodi del vetro: saper giocare d’anticipo è molto più istruttivo che studiare tutta la fenomenologia pura della filosofia husserliana. La radio è un grande catalizzatore di emozioni, ma in che miseria mi ha piombato questa sera che il cordiale mi riscalda le vene. Sto facendo l’inventario di sogni e ricordi, li passo in rassegna uno ad uno e mi sembrano tutti maledettamente uguali! Non siamo il fine di niente, lo strumento di nessuno. Siamo illusione, qualcosa di qualcos’altro. Si può preferire di essere niente all’angoscia di doverlo diventare?

 

A Jacopo Belbo

(se è ancora vivo… da qualche parte con Diotallevi e Casaubon)

X KAL. APR. MCMXCIII CENTRALINO

Caro Jacopo, ho conosciuto la TRESca e non credo siano cattivi. Ora puoi ritornare. Lorenza non ha più l’influenza di un tempo e Sofia si è obbiettivizzata in sofistica. Il flipper è un bel ricordo, nient’altro. Guglielmo si è ritirato in un eremo ed ha inchiodato il suo acume fra le pagine di un’effemeride come si getterebbero perle ai porci. Puoi ritornare da vincitore anche se non t’ha abbandonato mai l’ombra di Sangermano che da sempre ti segue. Il sempre è talmente legato al mai che non riesci a distinguerne la compenetrazione. Il tempo dei ricordi non passa mai, viene sempre il giorno del rimpianto. Essere figli del passato a volte è più vantaggioso che essere genitori del presente: si vive di rendita e l’idealizzazione completa l’opera devastando le coscienze.

Adieu. 

LA PROFEZIA DELL’UOMO NERO

 

Salivo su per quei colli e cercavo nel profondo della loro lussureggiante bellezza qualsiasi cosa che mi fosse familiare, come il guaito di un cane. Ma riusciva a sconvolgere la mia calma ogni rumore, ogni suono che serpeggiava o fluttuando nell’aria mi giungeva lieve e perentorio. Mi irrigidivo ad ogni pulsare di quel grande cuore che stavo attraversando. Tutto il corpo ne era consapevole. Stringevo con la destra un ramo di quercia addossandogli tutta la mia stanchezza e salivo. E osservavo. Radici di piante sbucavano dal terreno coi loro grossi bulbi. Altre sembravano rilucere come monili d’oro: il sole rifulgeva in esse ed esse ne riflettevano un riverbero di energia opaca e calda. Alberi di quercia abbattuti, sfrondati, lasciati a marcire come cadaveri sulla nuda terra, delimitavano il confine tra il bene e il male e mi pareva di scoprire in essi quei fili d’erba che, dopo essere stati calpestati, riescono a divincolarsi dal groviglio dei loro simili per tornare, lentamente, nella originaria posizione al centro del loro universo. Erano il segno del passaggio dell’uomo: camminavo ormai da giorni e quelle carcasse di vegetali mi davano la certezza che di lì a poco ne avrei incontrato qualcuno. E questa certezza diventava sempre più un’esigenza, alla stregua dell’indomito bisogno di correre fra le braccia della madre che avverte il bambino quando un’esitazione, un passo falsato, lo sospingono verso terra nel timore di cadere. Così il mio passo, diventava più veloce ogni volta che sentivo maggiormente pesarmi la stanchezza o pensavo ai pochi sorsi d’acqua che ancora mi restavano. La fitta boscaglia e l’immensa ombra che essa generava, si estendevano su gran parte delle brevi colline. Oltre quel luogo, piccoli monti dalle punte smussate si innervavano complici del cielo che striava di cremisi le nuvole all’orizzonte. Il loro candore ormai sfumava in livore e le soffici volute si perdevano lontano nel fuoco che andava ardendo le sue ultime voluttà al di là del confine tra cielo e terra. Appena poco più giù dell’orizzonte si stagliavano imponenti, brune ondulazioni di terreno. Vi era una fonte alle pendici dell’altura su cui esse si spandevano. L’acqua sgorgava rigogliosa. Argomentai che necessariamente dovevo trovarmi nei pressi di un paese perché davanti alla fonte si espandeva un piccolo laghetto del raggio di circa tre o quattro metri, delimitato da massi perfettamente levigati. Dopo essermi abbondantemente dissetato, mi accampai presso un anfratto dove l’erba era più alta e morbida e come le stanche membra ebbero trovato l’amplesso notturno con quella terra vergine, mi addormentai. Mi parve di sognare ma non ricordo nulla. Quando mi risvegliai il sole non era ancora alto sull’orizzonte e la foschia ancora esitava a diradarsi. Avvertii sul viso come la lingua ruvida e mucosa di un grosso cane che mi si spalmava ritmicamente sugli zigomi e sulla fronte. Mi sollevai e lo vidi: un grosso cane dal folto pelo bianco e poco distante, il gregge e, seduto su un masso, intento a tagliuzzare un bastone, un ragazzo dalla capigliatura corvina a torso nudo. Era di spalle e potei scorgere su di lui il lavorio del sole che si era divertito ad arabescare quella verde schiena incidendo sfumature di bronzo e ambra con la sferza dei suoi raggi. Il grosso cane bianco fu gentile, cosi potei tentare di avvicinarmi al suo padroncino con cautela, ma il ragazzo senza voltarsi diede un comando al cane che andò ad accucciarsi ai suoi piedi. Mi arrestai e cercai di costruire una frase:  “Vengo in pace e ho fame…” almeno queste erano le parole che avevo pensato e a quanto pare dovevo aver detto, perché il ragazzo trasse dalla sacca un grosso pezzo di formaggio e mi invitò ad avvicinarmi. I suoi occhi a tratti nascosti da qualche ricciolo di capelli che ruzzolava sulla fronte allo spirare di ogni leggero soffio di brezza, rilucevano del sole che s’innalzava in cielo ed esprimevano quella pace interiore che da tanto tempo avevo perduto. Divorai avidamente quel formaggio tanto che ne chiesi dell’altro. Il ragazzo non si scompose e mi porse del latte in una ciotola. Bevvi tenendo fissi i miei occhi sugli occhi di lui che parevano sorridere di una giovialità insperata. “Dio ti benedica” mi venne spontaneo porgendogli la ciotola vuota. Il ragazzo rispose con un sorriso cordiale. Gli chiesi il suo nome, ma non profferì parola alcuna, soltanto i suoi occhi mi fecero intendere che non capiva la mia lingua, ma dai gesti concreti comprendeva l’essenziale, come la necessità di bere e mangiare. Sentii il desiderio di abbracciare quel piccolo fratello e quasi gli rompevo qualche costola se il buon cane bianco non mi avesse richiamato all’ordine. 

All’orizzonte il disco del sole si perdeva nel colore biancastro del cielo e lo permeava di un po’ di vita che risorge. Il ragazzo richiamò con un potente fischio gli armenti i quali al seguito di un grosso becco e guardati a breve distanza da quattro cani bianchi, fra i quali primeggiava per corporatura e fierezza di portamento il mio trovatore, si spostarono compatti poco più su dove le macchie d’erba erano più folte e i rovi creavano una sorta di recinto naturale disposto a semicerchio, le cui soluzioni di continuità erano costituite da piccoli anfratti che davano sulla breve pianura dove eravamo. Salimmo anche noi. Lo spettacolo che mi si apriva dinanzi era di una maestosità suprema e un groppo mi prese alla gola pensando alla meraviglia di quelle colline, magnifica visione davanti alla quale non sapevo se ridere o piangere di gioia.

Quando il lontano abbaiare dei cani mi riportò alla realtà, il sole era già sull’altro orizzonte e il cielo si stava tingendo del rosso crepuscolo quando raggiungemmo in vista della città e non esitai ad entrarvi col ragazzo. Nel buio circolo della cinta muraria tutti i rumori si spegnevano, i colori impallidivano e tutto pareva in procinto di dormire o morire. Il sole gettò un ultimo addio da dietro i colli confusi, le luci delle stelle s’accesero nella valle e la luna incomincio a scoprirsi di tra le nuvole e a mostrare il suo pallore. Nonostante avessi dormito abbastanza ero ancora molto stanco e chiesi se potevo avere alloggio da qualche parte. Mi venne incontro un vecchio che mi portò in una specie di torre. Ormai era buio. Quando la vista mi si abituò all’oscurità potei constatare che si trattava di una costruzione non recente, e neppure di pregevole fattura. Pensai che fosse stata progettata come rifugio. Argomentai dalla sua altezza che poteva servire anche come posto di guardia ed avvistamento e che probabilmente dal piano superiore la visuale sui territori circostanti doveva essere amplissima. Ero turbato e al contempo inconsapevolmente felice. E d’altra parte, il cuore dell’uomo non è forse un’enorme solitudine in cui nessuno può penetrare? Le passioni che vi arrivano sono come i viaggiatori del deserto del Sahara, vi muoiono soffocati se nessuno ode i loro lamenti. La notte non giunse inattesa ma mi sorpresi a barcollare in quell’antro alla ricerca di un punto fermo dove poggiare le ragioni del mio essere lì. Dopo un po’ tutto mi fu chiaro. Non potei trattenere le lacrime e alzatomi d’istinto corsi fuori urlando la mia rabbia. I miei poveri giorni trascorsi mi erano ripassati davanti come trascinati dall’inverno in una furiosa tormenta; qualcosa di terribile li aveva fatti rotolare nel mio ricordo con maggior furia di quanto il vento non faccia correre le foglie lungo i sentieri delle campagne. Una strana ironia li sfiorava e li rigirava per darmene spettacolo e poi tutti insieme prendevano il volo e si sperdevano nella profondità di quell’ampio panorama. 

Ora ricordavo perfettamente di essere approdato in queste ambe fuggendo dalla mia terra martoriata dalla guerra. Guardavo le mie mani rosee nelle palme e nere ai dorsi e contavo le mie dita alle cui estremità le falangi terminavano in unghie bianchissime. Quanti giorni avevo trascorso in quel barcone? I miei occhi iniettati naturalmente di sangue, le mie larghe narici, la mia capigliatura fatta di foltissimi riccioli, mi rammentavano che ero un diverso… ero un uomo nero, ma quella gente, quel ragazzo, non mi avevano rifiutato il loro aiuto. La mia pelle non aveva intimorito i loro cuori che s’erano aperti a me come ad ogni altro essere “uguale”.

Il mattino sorse con tutta la sua avvolgente frescura e sentii arrivare alle prime luci un gregge accompagnato da chiassosi cani pastore fra i quali riconobbi la voce del mio valoroso amico bianco, cui sin dalla sera prima detti il nome di Jumla.

Il ragazzo entrò nella torre ormai illuminata da un fitto raggio di sole all’interno del quale aleggiava serafico il pulviscolo sollevato dai nostri passi. Lo salutai con una stretta di mano e cercai di argomentare qualche parola, ma egli mi fece cenno di non parlare ed io rimasi in religioso silenzio attendendo di ascoltare cosa avesse da dirmi. Un attimo dopo entrò anche il vecchio della sera prima che ora potevo scorgere meglio nella sua elegante fierezza. Il viso era scavato dagli anni, ma sprigionava un’aura di forza che faceva tacere l’urlo di ogni ruga che su quel viso si era divertita a disegnare solchi e profonde cicatrici. Mi mise la mano sulla spalla e cominciò a parlare lentamente. Io non capivo cosa dicesse, ma il tono della sua voce pacata e calma mi rassicurava. Ad un certo punto chiesi di poter interrompere il vecchio per articolare un discorso nella mia lingua, ma egli mi invitò al silenzio come aveva fatto prima il ragazzo. Non capivo perché mi impedissero di esprimermi, ma poi sentii dei rumori provenire da fuori la torre e avvertii che Jumla insieme agli altri cani si stava allontanando per portare il gregge più in alto. Il vecchio trasse dal tascapane che aveva con sé, una pergamena e me la porse. Rimasi stupito quando l’ebbi srotolata, nel vedere che il disegno ritraeva un africano del tutto simile a me e quando cercai di portare l’immagine sotto il diretto fascio di luce, mi resi conto che quello ritratto nella pergamena aveva le sembianze di un africano. Guardai il vecchio con gli occhi spalancati e il cuore che cominciava a battermi forsennatamente, poi la voce del ragazzo da dietro le mie spalle pronunciò le parole “unabii…” che nella mia lingua significa “la profezia” e mi voltai di scatto verso di lui afferrandogli le spalle: “unabii… gani?” domandai… quale profezia?

Il vecchio mi prese con delicatezza la pergamena dalle mani e mi mostrò un’altra immagine in cui era ritratta una torre e un laghetto e riconobbi la torre in cui ora ci trovavamo noi tre e la fonte che mi aveva dissetato. La ripresi e cercai di leggere quello che c’era scritto, ma le parole non erano facilmente riconoscibili. Il sole intanto era già alto in cielo e io feci cenno di voler uscire per guardare meglio la scrittura. I due mi precedettero e quando uscii, dopo di loro, mi dettero ciascuno una leggera pacca sulla spalla e mi invitarono a guardare l’orizzonte, mentre il vecchio si riappropriava della pergamena.

Rividi così dall’alto il panorama che avevo visto salendo e mi parve più ampio e grandioso di quanto non avessi potuto scorgere la sera prima. Ma una domanda mi salì urgente dalle viscere: “Unabii gani…?” ripetei ad entrambi, con apprensione. Il vecchio fissò il ragazzo, rimise nel tascapane la pergamena e cominciò a parlare, ma erano parole incomprensibili… scossi la testa e ripetei con insistenza afferrando con le mie mani le loro braccia “Unabii gani?” e mentre finivo la frase, un rombo ed un vento impetuoso ci spinsero tutti e tre, come se un terremoto avesse scosso le viscere della terra. La terribile folata di vento si stava propagando in tutta la zona e vidi gli armenti fuggire spaventati, inseguiti dai grossi cani bianchi. I miei interlocutori lestamente si misero alla rincorsa degli animali e io rimasi solo e spaventato col cuore in gola e una domanda ancora senza risposta: quale profezia?

Quando ebbi perso di vista i due, mi allontanai dalla torre avviandomi verso la città dov’ero stato la sera prima. Ora quell’abitato mi appariva in tutta la sua maestosa sembianza di serafico saggio disteso su un fianco a guardare da quelle colline la vastità della valle sottostante.

Le case, alcune imbiancate dalla calce, altre coi mattoni scoperti, altre annerite dalla fuliggine erano addossate l’una all’altra senza soluzione di continuità e sembravano osservarmi con il loro sembiante antropomorfo. Alcune parevano sorridere, altre avevano un aspetto minaccioso, altre ancora parevano indifferenti al mio passaggio. La strada che percorrevo era deserta, immaginai che tutti gli uomini fossero nei campi o a pascolare gli armenti e le donne fossero in casa a badare ai figli. Forse per questo non c’era nessuno. 

Avevo fame, e non badai al problema che potesse creare il colore della mia pelle e mentre camminavo osservando porte e finestre, pensavo a quanti miei compagni erano morti nel naufragio. Quanti ragazzi poco più che ventenni erano stati stipati come me su quel barcone. Quante vite spezzate. Quanti saranno sopravvissuti? 

Ma più mi addentravo fra le viuzze della città, più si faceva imperante, insieme alla fame, il desiderio di sapere della profezia.

Un uscio che sembrava aperto attirò la mia attenzione, ma mentre mi avvicinavo per chiedere se potevo entrare, sentii sbattere fortemente la porta. Così accadde poco più avanti. Ora riuscivo a scorgere da dietro le finestre delle donne che mi osservavano e appena si accorgevano di essere state scorte chiudevano i battenti. Camminai a lungo, ma non trovai alcuno che mi aprisse. 

E mi venivano in mente piano piano i volti di tutti i miei compagni di viaggio. Ricordavo la voce di ciascuno, il loro volto scavato dalla fame, i loro occhi iniettati di sangue come i miei, la loro pelle nera come la mia, il nostro destino crudele come i signori della guerra che avevano distrutto le nostre case e ucciso le nostre famiglie e avevano preso noi per venderci come schiavi. La fame si assopiva man mano che pensavo agli eventi tragici da cui ero scappato, ma non si assopiva il desiderio di sapere quale fosse la profezia della quale mi avevano parlato il vecchio e il ragazzo. Stanco di camminare mi fermai in un luogo riparato dal sole, all’ombra fresca di una rientranza ricavata fra due case. Quando mi fui seduto, guardai a ovest e scorsi di lontano una figura minuta che si avvicinava rapidamente a me. Ero molto stanco e non mi alzai. Pian piano mi resi conto che si trattava di una bambina dai capelli lunghi intrecciati ai due lati del capo con indosso una veste di cotone il cui colore indefinito passava tra diverse sfumature di beige e marrone, come la sua pelle bronzea. Le sorrisi con garbo quando vidi i suoi grandi occhi neri le cui vezzose pupille donavano ordine e graziosità ad un viso che tuttavia non riusciva a nascondere un sembiante simile al mio. Le vidi sollevarsi la mano destra e con essa offrirmi un pezzo di pane. Lo fece con un sorriso che non dimenticherò mai. Presi il pane e la ringraziai senza abbassare lo sguardo, portando delicatamente le mie pupille nelle sue. Mi sorrise e stette un attimo a fissarmi come un angelo celeste, poi si allontanò così com’era venuta, richiamata da una voce lontana che pronunciava il suo nome: “Shasa…”. Era il secondo mistero… prima la profezia, ora quel nome… che nella mia lingua significa purezza…

Consumai avidamente quel pane e pensai a quanti dei miei compagni pur scampati all’annegamento, ora naufraghi in qualche dove, non avevano neppure quello. Mi rialzai e ripresi il cammino. La strada ora si faceva più larga e man mano che proseguivo, le case diventavano più alte e sontuose con decorazioni e variopinti colori. Mi sentii perso in mezzo a tutta quella magnificenza: il mio paese era fatto di capanne costruite con fango e paglia e quel mondo mi atterriva. Percorsi fino a sera molte strade di quella città, ma non ci fu alcuno che mi aprisse. Decisi, allora, di tornare alla torre e ripresi la via a ritroso: qualcosa avevo mangiato e potevo ritenermi fortunato. Sulla via del ritorno, quando giunsi nella parte periferica della città dove le case erano imbiancate di calce, mi venne nuovamente incontro la bambina che mi diede un altro pezzo di pane ed una ciotola di latte. Mentre prendevo dalle sue mani quei doni, uscì furtivamente da una di quelle case una donna che aveva la mia stessa pelle e che mi pareva conoscessi da sempre. Si avvicinò alla bambina e le carezzò delicatamente i capelli, poi sorridendomi prudentemente la portò con sé in casa ed io rimasi con la ciotola nella mano sinistra e con il pane nella mano destra. Ebbi timore di opporre una qualunque reazione e vidi richiudersi la porta dietro di loro senza fare alcuna domanda né profferire alcun cenno di ringraziamento. Ero turbato dal colore della pelle di quella donna benché fosse come il mio, perché sentivo che lei era una di loro mentre io ero straniero e clandestino. Ma ora il mistero s’infittiva perché alla profezia si aggiungevano quelle due figure così diverse fra loro eppure così indubitabilmente simili a me. Quando fui nella torre cercai il giaciglio dove mi ero coricato la notte precedente e provai a riflettere dopo essermi sdraiato sul pagliericcio. La donna e la bimba dovevano essere madre e figlia e potevano aiutarmi a capire. Maturai così la decisione che il giorno dopo sarei andato di nuovo in città per parlare con loro. Mi addormentai con difficoltà quella notte perché pian piano riaffioravano nella mia mente come sospinte da una forza invisibile, tante immagini del naufragio che girando lentamente intorno a me andavano poi come ad incanalarsi in un vortice che le ingoiava facendole sparire nel suo nero orifizio che stava ingurgitando tutto il paesaggio circostante. All’indomani udii di buon mattino i cani e realizzai che di lì a poco sarebbero passate le greggi. Uscii e vidi il sole già a metà dell’orizzonte. Quella notte non mi era riuscito di riposarmi per via degli incubi e mi sentivo tutto indolenzito. Vidi scendere dalle alture della città i primi armenti e riconobbi a distanza il ragazzo che li accompagnava al pascolo. Gli feci cenno di fermarsi e lo raggiunsi sul ciglio della strada. Gli parlai nella mia lingua cercando di proferire lentamente ogni parola nella speranza che capisse il mio linguaggio, ma invano e dopo avermi sorriso nuovamente corse a raggiungere Jumla e i suoi assistenti.

Mi riassettai e mi diressi verso la città per raggiungere nuovamente la casa dove dimorava la ragazza con la bimba. Nel percorrere la strada in salita sentivo tutta la stanchezza della notte e mi tornavano alla mente immagini nuove: il viso dolce e sereno di una donna avanti negli anni che mi fissava negli occhi con amore di madre tenendomi il capo e poi, una stanza enorme in cui un uomo vestito in abiti regali dava ordini a uomini armati e poi ancora il fuoco che incendiava ogni cosa e la corsa verso l’esterno e l’incontro con esseri truci dai volti macchiati del sangue delle loro vittime e poi la cattura e la grande traversata del deserto… immagini raccapriccianti che mi facevano battere fortemente il cuore. Dovetti fermarmi e prendere fiato anche perché non avevo ancora toccato cibo e il mio corpo era fortemente debilitato. Dopo una breve sosta ripresi il cammino e quando intravidi un po’ celato dietro un grande rovo un albero di mele, lo raggiunsi in gran fretta e ne feci cadere quante bastarono a calmare la mia fame. Ora era la sete che mi affliggeva. Appena giunsi in città andai a bussare alla porta dove abitavano la donna e la bambina. Dovetti bussare più volte, sempre con garbo e lentamente, prima che si aprisse uno spiraglio, poi vidi gli occhi vispi della bimba sortire dal buio e la sua mano che teneva una ciotola di latte. Non osai aprire più di tanto lo spiraglio della porta ed accettai il latte bevendolo con avidità. Poi chiesi se potevo parlare con la signora e mi accorsi che la bimba mi aveva capito, perché vidi il suo capo annuire. Dopo qualche istante la raggiunse la signora che aprì la porta ponendosi al fianco della bimba. Il suo sguardo fiero era magnifico. I suoi occhi fissi sui miei mi comunicavano tutta la sua grande forza interiore insieme ad un vago timore per la mia presenza. Le chiesi se potevo entrare ma mi fece comprendere che non era possibile. Incoraggiato da questo primo approccio, tentai una seconda domanda, questa volta più diretta e precisa. Volevo sapere della profezia e mentre parlavo gesticolavo tanto che si scoprì il tatuaggio che avevo sul braccio sinistro: uno scudo inscritto in un cerchio traversato da una lancia. Appena lo vide, il suo sguardo serio si fece radioso e mi fece cenno di mostrarglielo. Lo feci e sentii le sue dita passare sulla pelle del mio braccio come un drappo di seta. Non capii all’istante, ma questo era un buon segno. Quel tatuaggio lo avevo da quando ero ragazzo ed era la testimonianza che avevo superato l’età adolescenziale, diventando un uomo. Ricordai anche il dolore lancinante che mi aveva provocato quando Muganda me lo impresse con un arnese arroventato. La donna aveva riconosciuto quel simbolo e sembrava comprenderne il grande valore, ma non mi consentì di entrare, né mi parlò, pur dando a vedere di aver ben compreso quello che avevo detto. La bimba invece, non mi lasciò andar via senza regalarmi un altro sorriso e mentre mi accomiatavo da loro sentii la sua vocina candida pronunciare queste parole nella mia lingua: “tu sei l’uomo della profezia”. Mi fermai impietrito e attesi che la donna confermasse, ma quella ritraendo a sé la bimba, richiuse con gentilezza la porta. Bussai più e più volte, questa volta con insistenza, ma non mi fu aperto, fino a quando una mano rozza e potente non mi si posò sulla spalla. Mi girai di scatto e vidi il vecchio che con sguardo serio e deciso mi invitava a desistere. Ci allontanammo da quella casa e ci incamminammo verso la torre. Il sole era già alto nel cielo e io ero in preda a mille interrogativi e sentivo che dovevo trovare la risposta in quella casa. Chiesi al vecchio perché non potessi parlare con la signora, ma non mi capiva e l’unica cosa che io intendevo invece dal suo gesticolare era che dovevo stare calmo e aspettare. Mi riaccompagnò alla torre e mi fece cenno  di attendere con pazienza, lasciandomi un tozzo di pane e del formaggio che divorai senza moderazione appena se ne fu uscito. Dopo quel frugale pranzo mi allontanai dalla torre per raggiungere la fonte che avevo incontrato salendo su per quelle colline e dissetarmi. Mentre ammiravo la lussureggiante bellezza di quel paesaggio mi venivano in mente sempre più particolari della mia esperienza dei giorni addietro. Ricordai che il villaggio di mio padre, Mugambi, era stato attaccato dai mercenari feroci al soldo del malefico Arune che guidava le truppe del regno di Gumando e che tutti i giovani del villaggio, me compreso, erano stati fatti prigionieri. Venduti, poi a mercanti di schiavi e portati in carovana attraverso tre stati fino alle coste della Tunisia, eravamo stati stipati come animali in navi dal puzzo di morte. Mi sovvenne la tempesta in mare e il terrore negli occhi dei miei compagni legati come me, mani e piedi alla nave con cordame di kapok. E poi il tifone e il maremoto e la barca che si ribaltava e il naufragio… Sentivo fitte al cuore man mano che questi ricordi mi apparivano nella loro cruda realtà e ringraziavo Dio per essere sopravvissuto anche se mi chiedevo perché proprio io?  Le parole della bambina si erano, infatti insinuate nel mio intimo tanto profondamente da farmi pensare che la profezia parlasse proprio di me… 

Dopo essermi dissetato alla fonte mi incamminai nuovamente verso la torre. Il sole cominciava la sua discesa verso l’orizzonte e mentre salivo udii l’abbaiare di Jumla. Il ragazzo stava tornando con gli armenti dal pascolo. Lo attesi sulla strada. Quando mi vide di lontano Jumla mi si avvicinò abbaiando selvaggiamente, poi quando fu più vicino cessò di minacciare e mi girò intorno annusando le mie mani ed i miei piedi con circospezione, per poi ritornare a coda alta allegramente verso il suo padroncino. Quando arrivò il ragazzo, Jumla mi passò vicino alla gamba e si fece scorrere sulla testa la mia mano che tenevo a penzoloni, leccandomi poi il palmo. Io istintivamente la ritrassi, sentendo il suo naso freddo e umido, ma poi lo carezzai su tutta la schiena fino alla coda che teneva ritta e fieramente rigida. Il ragazzo mi mostrò un uccellino implume che aveva raccolto perché caduto dal nido e che teneva teneramente sul palmo di una mano accostata al petto, carezzandolo con le dita dell’altra mano. Mi sentii come quell’animale: caduto dal nido e al contempo coccolato. Quell’uccello ero io e la mia vita si apprestava a un nuovo inizio. Mentre mi attraversavano questi pensieri il ragazzo mi diede un saluto col suo solito sorriso e raggiunse Jumla che nel frattempo stava conducendo gli armenti verso la città. Stetti ancora a rimirare quel magnifico paesaggio per lungo tempo tanto che quando mi risvegliai da quell’incanto, il sole già stava striando di rosso l’orizzonte e ci volle poco a che scomparisse dietro la linea di demarcazione fra il giorno e la notte. Quando fui nella torre il buio mi conciliò velocemente il sonno. Non ricordo quanto dormii, ma solo rammento che udii un rumore fuori che mi fece risvegliare di scatto. Mi spaventai perché non avevo un’arma e non potevo difendermi. Afferrai un sasso e lo brandii attendendo che da un momento all’altro entrasse qualcuno o qualcosa nella torre. Entrò invece prima uno spiraglio di luce fioca, poi le ombre dei sassi si allungarono accogliendo una luce sempre più viva fino a che vidi una lanterna e un braccio scuro che la sorreggeva e poi vidi entrare la donna seguita dal vecchio. Sbalordito e un po’ tramortito dal sonno feci loro cenno di sedersi e mi sedetti su un sasso anch’io attendendo che si svelasse il motivo di questa inattesa visita notturna, foriera di grandi novità. Invitata dal vecchio, la ragazza cominciò a dire: “la nostra gente è malata” e ai miei orecchi si svelava tutta l’armonia di parole note e di suoni ed accenti familiari che da tempo non udivo; ma quelle parole erano macigni. Come la nostra gente? Pensai fra me e me, riconoscendo che la ragazza non era una di loro. Il vecchio intuendo la mia domanda sorrise e la invitò a continuare. “Io ero la moglie di Antonio, il fratello maggiore di Giuseppe” e mentre lo diceva, passava una mano sulla spalla del vecchio che istintivamente gliela stringeva con dolcezza celando un sorriso triste. Compresi che un dramma aveva colpito quella famiglia e congiunsi le mani portandole alla fronte in segno di rispetto. “Il male che trafigge la nostra gente ha portato via il mio uomo ed io sono rimasta sola con mia figlia, la bimba che hai conosciuto”. Seppure lacerato dal dolore di apprendere della tragedia, ero spinto con impeto a chiedere della profezia, ma non lo feci, per non rattristare ancor di più il vecchio. Tuttavia la mia ansia fu colta da quel vegliardo che disse delle frasi a me incomprensibili nella sua lingua alla donna la quale dopo un lungo sospiro riprese: “da dieci anni la nostra gente è malata e non sappiamo come curarla. I giovani invecchiano in fretta e i vecchi scompaiono dopo aver raggiunto i cinquant’anni. Io e Shasa, mia figlia, siamo immuni, ma mio marito ha contratto la malattia e in pochi anni è invecchiato ed è scomparso”. Abbassò il capo e vidi una lacrima sortire dai suoi larghi occhi e solcare la pelle del viso resa ambrata dalla luce della lanterna che ora rischiarava l’interno della torre facendo vagolare le nostre ombre sui muri di pietra. Poi con voce dignitosa e fiera riprese: “esiste una profezia che parla di un uomo nero che porta in sé la salvezza per il nostro popolo”. La profezia, dunque, parlava di un uomo nero… immune al contagio, che avrebbe salvato tutto il popolo, ma come? Feci cenno al vecchio di voler parlare e lo vidi annuire, al che domandai alla ragazza cosa in particolare dicesse la profezia e soprattutto cosa fosse scritto in quella pergamena che ora il vecchio stava estraendo da una bisaccia per consegnarla alla ragazza.  “Nella pergamena è scritto che un uomo nero, come te -e avvicinandomi la pergamena mi mostrava i tatuaggi che quella figura aveva disegnati sul braccio: uno scudo inscritto in un cerchio traversato da una lancia, esattamente uguale al mio – dovrà combattere contro il maleficio e sconfiggerlo per ridonarci la giovinezza perduta e la vita”.

Ma come sarebbe stato possibile questo? Io combattere contro un maleficio? E con quali armi? Il vecchio colse le mie perplessità e invitò la ragazza a continuare: “domani sera verrai al consiglio dei saggi e ti sarà detto quello che devi sapere. Ora dobbiamo andare”. Come erano venuti così se ne andarono e rimasi solo mentre le ombre dei sassi presenti nella torre si diradavano man mano che la lanterna si allontanava coi due visitatori notturni. Il cuore mi batteva forte in petto per le rivelazioni ricevute e mi accorgevo sempre più che non erano solo quelle a farlo palpitare così allegramente, ma il pensiero della ragazza e il ricordo della sua voce, prima ancora che delle sue parole. Era una voce melodiosa e calda che mi traversava da parte a parte tutto il corpo e mi faceva tremare le gambe tanto ne ero invaghito. Con l’immagine, dunque, della ragazza che vagolava fra la mente e il cuore mi coricai di nuovo e dopo un tempo breve, mi riaddormentai senza abbandonarmi a sogni o incubi giacché l’unica immagine che mi rimase impresa nelle pupille era il volto ambrato di lei che mi sorrideva dolcemente. Sul far del martino udii Jumla passare col gregge e poco dopo il fischiettare allegro del ragazzo che in breve si confuse allontanandosi con l’abbaiare e il belare di quella massa di animali in movimento. Non mi alzai per andare a salutare il mio giovane amico, perché avevo ancora negli occhi l’immagine cara della dolce signora che mi aveva fatto compagnia tutta la notte. Non trascorse, molto, però, che dovetti obbedire alla forza impetuosa che mi ordinava di liberare il corpo della zavorra, benché non avessi mangiato tanto nei giorni addietro. Quand’ebbi espletato il doveroso ufficio, ritornai alla fonte e mi immersi nel piccolo laghetto che essa formava laddove l’acqua scrosciando velocemente creava una buca dove un uomo della mia statura ci poteva stare immerso col capo fuori dall’acqua solo se si fosse posto in ginocchio e così feci. L’acqua era fredda e vi rimasi poco, il tempo di compiere accuratamente tutti i lavacri necessari per non apparire lo sciatto naufrago che ero diventato.  Mi rivestii dopo aver gradito il passaggio delle gaie brezze sul mio corpo assicurandomi che non emanasse afrori di sorta e mi ricomposi per tentare nuovamente una sortita in città. La torre in lontananza, mentre salivo, mi appariva ora sempre più come una reggia e mi ripromisi che l’avrei ripulita all’interno per renderla una dimora adeguata, al mio ritorno. Quando giunsi alla casa dove dimorava la piccola Shasa, bussai e mi venne ad aprire proprio lei, la dolce bimba che doveva avere circa dieci anni. Un attimo dopo la madre mi fece entrare. Era una casa povera. Mi colpiva l’essenzialità di ogni cosa, dal tavolo di legno, alle sedie, alla mobilia che non aveva alcuna pretesa di fasto, ma che conteneva dignitosamente ogni utensile. Mi fecero accomodare e la bimba dopo avermi sorriso con amabilità, si recò in quella che doveva essere la cucina per ritornare con del pane e una grassa fetta di formaggio. La madre, della quale ancora non conoscevo il nome, mi portò del latte in una ciotola e vi inzuppai il pane che divorai con malagrazia mentre ella si allontanava verso una stanza interna. Poco dopo la donna tornò con dei vestiti ben piegati: un pantalone di colore blu e una maglia di cotone di colore bianco. “Mi occorrerebbero anche delle scarpe”, azzardai guardando le dita dei miei piedi impastate di polvere che invano avevo provato a scuotere prima di entrare in casa. La bimba corse in un’altra stanza e un attimo dopo tornò con un paio di scarpe e due calze: “queste erano del mio papà – disse dopo aver chiesto con grandi occhioni dolci e ottenuto il condiscendente consenso della madre- sono per te, perché tu ci salverai”.

Ancora la profezia. Ringraziai con un gran sorriso quell’amabile gesto e chiesi se potevo accomiatarmi da loro per tornare alla torre e mutarmi d’abito. La donna mi rammentò che all’imbrunire dovevo recarmi in città, al centro della piazza principale dove sarei stato prelevato e portato al consiglio dei saggi. Anuii e salutai con svariati inchini quelle due figure cosi generose, dirigendomi poi verso la torre. Quand’ebbi indossato abiti e scarpe mi parve d’essere un principe nel suo maniero: la mia vita stava cambiando e così il mio destino fra quelle meravigliose colline che in nulla somigliavano al paesaggio cui ero stato abituato sin dalla nascita: radure e deserti e qualche baobab, col pericolo quotidiano di venire aggrediti dalle fiere selvagge. Come mi ero ripromesso, ripulii la torre e la resi molto più accogliente. Quando all’imbrunire mi avviai verso il centro cittadino un vento caldo sentii sospingermi nella salita e considerai questo un buon segno. Salivo e pensavo a cosa avrei ascoltato e soprattutto cosa avrei detto al consiglio degli anziani se mi avessero chiesto di “salvare” la loro gente. Come? Io povero naufrago senza più una patria, senza più un luogo natio, senza più un’identità e senza più una famiglia? Si fece sera senza che me ne accorgessi, il sole scomparve lentamente senza però privare il cielo di quanta luce bastasse per consentirmi di raggiungere il centro cittadino. Ero ansioso ed emozionato. Ripercorsi la strada maestra ed arrivai in piazza dove mi attendevano alcuni uomini. Erano tutti apparentemente adulti, ma tutti parevano giocare come bambini e quando mi videro, mi corsero incontro come una chiassosa masnada di fanciulli. Inorridii a quello spettacolo tremendo: uomini dai lunghi baffi e dalle barbe intonse che mi gironzolavano intorno in un girotondo di voci adulte che cantavano canzoncine allegre da bambini. Rammentai le parole della ragazza quando mi diceva che quella gente era malata e vedevo chiaramente che la malattia era uno strano invecchiamento precoce. Quegli uomini che mi facevano festa come ragazzini, erano dei giovincelli la cui macabra sorte era quella di invecchiare in breve tempo e sparire come la polvere soffiata dal vento. Ad un certo punto attirò la mia attenzione una luce proveniente dai finestroni posti in alto di un grande portone marrone che campeggiava maestoso sulla piazza in quella che doveva essere la casa della persona più importante del luogo. Il gruppetto di festanti si allontanò continuando a cantare allegramente ed io fui libero di avvicinarmi ad esso e più mi appressavo, più l’anta si apriva illuminando un ampio triangolo di piazza. Ne sortì il buon vecchio Giuseppe, colui che mi aveva accolto sin dall’inizio e che ora mi tendeva la mano invitandomi ad entrare.

L’interno della casa era stupefacente. Un’ampia scalinata partiva dal centro della stanza e portava al piano superiore i cui ampi ballatoi che preludevano ad altrettanto ampi corridoi sorretti da robuste colonne erano delimitati da potenti balaustre e portavano sicuramente a grandi stanze di cui se ne indovinavano le porte sin dal basso. La stanza al piano terra aveva pavimenti di pietra nera lucidissima tanto che ci si poteva specchiare e grandi colonne innervate di verde erano sapientemente posizionate ai quattro angoli a delimitare l’ingresso di quella che al confronto della “mia” era veramente una reggia. Giuseppe mi fece cenno di seguirlo verso l’interno e così intraprendemmo la traversata di un lungo e largo corridoio con le pareti dipinte di giallo sul pavimento sempre d’identico colore, illuminato a giorno da candelabri che parevano dorati.

Giungemmo, così, in un’ampia stanza interna dove mi attendevano disposti a semicerchio dieci anziani dalla barba bianca e dagli occhi incavati che appena mi videro cominciarono a parlottare tra di loro generando un brusio che Giuseppe interruppe garbatamente richiamando l’attenzione di tutti. Si fece silenzio nella stanza e mentre cercavo di capire come avrei potuto farmi comprendere da quelle persone, udii la voce della ragazza alle mie spalle che entrando, salutava con riverenza gli anziani. Mi invitò quindi a sedermi su una sedia a pochi passi da quella in cui si accingeva a sedersi lei e mi disse che mi avrebbe parlato per il gran consiglio nella mia lingua. La ringraziai con un sorriso liberatorio e portai le mani giunte alla fronte chinando lievemente il capo in segno di approvazione e ringraziamento verso l’assemblea.

Prese la parola Giuseppe e raccontò al consesso degli anziani come lui e il ragazzo mi avevano trovato nei pressi della torre stanco e affamato e di come mi avevano accolto facendomi dimorare in quella che loro chiamavano “la torre dei briganti”. Poi aggiunse che Nyeusi, questo il nome della ragazza, che udivo risuonare dolcissimo alle mie orecchie, aveva riconosciuto un segno sul mio braccio che poteva ricondurre me alla profezia.

Mi alzai d’un tratto in piedi udendo quella parola e stavo per chiedere “quale profezia?”, quando uno degli anziani, che si era messo in piedi anche lui, ma tenendosi in equilibrio con un massiccio bastone, indicò un arazzo alle mie spalle che non avevo visto entrando e che mostrava gli stessi elementi della pergamena: la torre, il laghetto e un giovane dalla carnagione come la mia che vi si immergeva. Mi sovvenne il bagno che feci nella piccola fonte alle pendici della collina dove sorgeva la torre, ma allontanai ogni più rosea deduzione e  pensai piuttosto che potesse trattarsi di un uomo che tornando dalla fatica dei campi, madido di sudore, si era talmente inzaccherato di polvere e fango da sembrare nero di carnagione e per questo prendeva il bagno nel laghetto. Dissi questo a Nyeusi, raccontando l’impressione che mi dava quell’arazzo, ma lei non tradusse le mie parole al che Giuseppe la incitò a chiedermi cosa ne pensassi. Per la prima volta dopo tanto tempo ebbi lo stimolo di ridere, ma per fortuna o per lo sguardo penetrante della ragazza che si insinuò attraverso i miei occhi fin dentro le midolla, non lo feci. Era quella la profezia…? Un ragazzo macilento che torna stanco dai campi, annerito dalla polvere e dal fango, che si va a lavare alla fonte…? E loro avevano scambiato quello sporco come pigmento della pelle tanto da pensare che fossi io quell’uomo e che la “profezia” si fosse avverata col mio arrivo… Niente di più ridicolo! Tenni comunque un atteggiamento serioso e non diedi a vedere di essere divertito dall’ingenuità di quegli anziani che dovevano rappresentare la parte saggia della città. Poi mi venne in mente che a causa della strana malattia di cui mi aveva parlato Nyeusi, quella gente apparentemente così vecchia e rugosa non doveva avere più di cinquant’anni e il mio spirito si andò nuovamente interrogando su come avrei potuto aiutarla. “Potrei vedere la pergamena – dissi allora a Nyeusi e lei di rimando lo chiese a Giuseppe, il quale la estrasse dalla sua sacca e me la fece portare dal ragazzo che nel frattempo era entrato e si era andato a posizionare in un angolo della grande sala. Aprendola, l’attenzione cadde sul simbolo che il ragazzo ritratto in essa aveva sul braccio e che ora guardando l’arazzo vedevo corrispondere per posizione, forma e dimensioni a quello che appariva sul braccio del ragazzo ritratto nel grande quadro di tela alle mie spalle e sul mio. Un groppo alla gola allora mi prese e mi piombò in uno stato di semicoscienza, tanto che dovetti sedermi. Nyeusi si accorse subito del mio malore e mi soccorse chiedendomi cosa avessi avuto.

Credo di sapere come guarire la vostra gente, ma prima ho bisogno di tornare alla torre”. Nyeusi tradusse la mia richiesta e subito si elevò una grande confusione, perché tutti protestavano per la mia richiesta di andarmene. “Il consiglio degli anziani – aggiunse Nyeusi- ti ha convocato per farti delle domande e non te ne puoi andare senza aver dato loro delle risposte”. Mi rialzai e chiesi di parlare. “Il mio nome è Kuokoa -dissi attendendo che Nyeusi traducesse- e sono un naufrago. Non so come sia arrivato fin qui, ma le vostre colline sono quanto di più bello io abbia mai visto e la vostra ospitalità è magnifica”. Mostrai il tatuaggio e ripresi “ho visto la sofferenza del vostro popolo e tanto più vedo la sofferenza nei vostri occhi. Ma devo tornare alla torre per comprendere come potervi aiutare; questo segno che ho sul braccio mi autorizza a pensare di poter fare qualcosa per ringraziarvi perché è lo stesso segno che ha il ragazzo sul quel grande tessuto che è alle mie spalle e che si trova ritratto in questa pergamena” e così dicendo feci un cenno a Giuseppe che la riprese “se non torno alla torre e alla fonte, non potrò darvi alcuna risposta”- Nyeusi tradusse e tutti fecero silenzio, riprendendo il loro posto. Uno di essi, rimase in piedi e si diresse verso di me. Quando mi fu vicino tanto da poterci vedere entrambi il colore delle iridi, con un movimento del capo chiese il mio braccio ed io istintivamente glielo porsi. Guardò il tatuaggio, passò le dita ruvide sulla ferita mai rimarginata lasciata dal metallo rovente, alzò gli occhi a guardare il segno identico che aveva il ragazzo che era ritratto nell’arazzo alle mie spalle, pretese la pergamena da Giuseppe, la ispezionò attentamente e dopo qualche attimo si rivolse agli altri anziani con voce grave e distesa parlando loro nella lingua che non conoscevo, ma non mi sfuggirono le parole “kijana” che vuol dire ragazzo e “unabii”, la profezia… al che guardai negli occhi Nyeusi ed ella mi sorrise ammiccando. Tutti annuirono e Giuseppe mi parlò guardandomi negli occhi “cosa dobbiamo fare per ottenere il tuo aiuto”, tradusse Nyeusi. Gli risposi che avevo bisogno di lui per comprendere come fare e quando la ragazza gli ebbe tradotto le mie parole egli annuì e comunicò all’assemblea tale necessità. Tutti approvarono e l’assemblea fu sciolta. Gli anziani allora si allontanarono prendendo direzioni diverse e noi uscimmo da dove eravamo entrati, ripercorrendo il lungo corridoio. Quando fummo fuori la luna era già alta nel cielo e rammentai che la stessa luna era riprodotta nell’arazzo al che chiesi a Nyeusi di comunicare a Giuseppe che avrei voluto che lui mi accompagnasse alla torre quella sera stessa. Giuseppe comprese la mia domanda anche senza traduzione, per via dei gesti e prendendomi per il braccio invitò la donna a tornare a casa, conducendo me verso la torre. Quella si accomiatò con obbedienza e mentre la guardavo allontanarsi pensavo al suo sorriso e ai suoi occhi dolci. Il tragitto sino alla torre fu silenzioso, benché animali d’ogni sorta facessero sentire i loro versi mentre le ombre degli alberi lungo la strada si accorciavano man mano che procedevamo, per allungarsi nuovamente appena vi eravamo passati accanto. La torre si stagliava imponente davanti all’orizzonte visibile solo per metà essendo coperta dalla sua stessa ombra l’altra metà. Quando vi giungemmo feci cenno a Giuseppe di proseguire verso la fonte e lui comprese disegnando un sorriso rugoso sul volto canuto. Volevo fargli bere dell’acqua dopo essermi immerso: era questo l’esperimento, ma mi domandavo come avrei fatto a farglielo comprendere? Giungemmo, quindi, alla fonte: lo scrosciare ritmico ne dava il senso di purezza mentre la luna ne colorava d’argento le increspature e i cerchi concentrici che si spandevano dal centro fino a raggiungere la terraferma dove i fili d’erba tremolavano continuamente e la fanghiglia raccoglieva ogni goccia che osasse andare oltre l’argine di pietre lisce. Mi liberai dei vestiti e mi immersi al centro della fonte mettendomi in ginocchio tanto da rimanere solo col capo fuori dall’acqua. Giuseppe guardava con attenzione ogni mio gesto e quando lo invitai a dissetarsi dell’acqua dov’ero immerso, lo fece senza profferire parola e dopo aver bevuto si immerse anche lui con i vestiti indosso mettendosi in ginocchio ed entrando completamente sottacqua per uscirne un attimo dopo. Aveva capito il mio intento! Riuscivo a scorgere il lucore dei suoi occhi: erano lacrime, quelle che gli rigavano il viso, le distinsi dall’acqua in maniera chiarissima. Del resto, se la profezia si fosse avverata, lui sarebbe stato il primo a giovarsene… Ero ancora un po’ scettico uscendo dall’acqua, ma quando lo guardai meglio, vidi che le rughe del viso si stavano distendendo. Mi rivestii e mi accostai a lui che stava asciugandosi i capelli che pian piano tornavano da bianchi a brizzolati a scuri mentre la barba si ritraeva e il suo volto assomigliava sempre più al ragazzo, il padroncino di Jumla. Non potevo credere ai miei occhi: la loro profezia si era avverata… ed io ero la loro “medicina”. Avrebbero dovuto immergersi tutti con me, bere della fonte mentre la mia pelle nera annullava il maleficio che aveva colpito la loro pelle bianca. Quando anche Giuseppe comprese che la profezia si era avverata sul suo corpo, mi abbracciò con tutte le forze e lanciando un urlo liberatorio prese a correre dapprima lentamente, poi, man mano che il vigore rivestiva il suo corpo, sempre più velocemente, tanto che non riuscivo a stargli dietro. Raggiungemmo la città in men che non si dica, ma Giuseppe era ormai così agile che lo persi di vista e così giunto col fiatone presso l’abitazione di Nyeusi, bussai con forza per farmi aprire. La donna mi vide col fiatone, ancora un po’ bagnato e mi fece entrare. Le raccontai l’accaduto e appena ebbi finito, mi saltò al collo avvinghiando le sue labbra carnose alle mie. Non dimenticherò mai quel bacio che mi ridiede la vita. “Ora verranno tutti per farsi curare da te”, disse con voce calda e sensuale e non finì di profferire le ultime parole che udimmo bussare. Mi fece accomodare ed andò ad aprire. Entrò il giovane Giuseppe col ragazzo e comunicarono che fuori c’era tutta la città che attendeva di essere risanata. Sentivo quella gente come fosse il mio popolo ed io, un nero naufrago senza più patria e famiglia, potevo guarirla, non comprendevo come, ma era assodato che la mia pelle aveva qualcosa di straordinario oppure era solo il tatuaggio e loro non avrebbero dovuto fare altro che bere l’acqua di quella fonte mentre io vi ero immerso e immergersi con me, senza provare ripugnanza per il colore della mia pelle. Lo fecero tutti, uno ad uno quella sera stessa e nelle sere a seguire, senza alcuna obiezione e ora che sono ormai trascorsi due anni e la popolazione è tornata a vita nuova, anch’io ho trovato una patria e una famiglia: la piccola Shasa ha un fratellino, cui io e sua madre abbiamo dato il nome di Maisha che nella nostra lingua significa “vita”, perché ho ritrovato e ho dato la vita fra queste meravigliose colline. Il nome della città che mi ha accolto come un figlio, rimarrà nel mio cuore e non sarà svelato, perché ciò è doveroso e saggio.

UNA BELLA GIORNATA

 

Capitolo Primo

Dove incontriamo Ciccillo Mezzafrasca detto “U Lione”

 

È fra le tre perle del preappennino dauno settentrionale che divide la provincia di Foggia dal territorio campano, che in una casa di modeste dimensioni, modesta fattura, modeste finiture, modesta condizione economica, ma pur sempre confortevole, arredata senza troppi mobili e quelli presenti disposti alla meglio, una notte di agosto sul finire di un’estate torrida e capricciosa, un losco figuro si introduce furtivamente nella cucina-soggiorno e si dirige con sicurezza verso un mobiletto che nasconde al suo interno una cassaforte. È Francesco Mezzafrasca, detto Ciccillo, il padrone di casa. Perché entri di nascosto in casa propria, al buio e cercando di non far rumore, avremo modo di scoprirlo a breve. È vestito con Pantaloni neri, camicia bianca, gilet e papillon slacciato. Armeggia con apprensione nei pressi del mobiletto cassaforte e dopo qualche tentativo, riesce ad aprirlo e ne estrae un lungo laccio d’oro e gioielli vari che nasconde nelle tasche dei pantaloni, quindi, allegro come una Pasqua esclama sussurrando sottovoce: «Questa sono sicuro che sarà la volta buona! Lo devo ridurre in mutande! Non hanno ancora capito chi è Ciccillo Mezzafrasca detto “U Lion”! Sono il re delle carte da gioco e se ho perso sino ad oggi è perché la sfortuna si è accanita contro di me. Ma da oggi in poi tutti dovranno sapere che Ciccillo è uno che fa sul serio! Questo servirà alla mia riscossa! Andiamo Lio’» e correndo a passettini silenziosi guadagna l’uscita senza che alcuna della casa si accorga della sua sortita. 

Una casa umile non sempre si addice a persone tristi e Ciccillo è una via di mezzo fra il principe Myškin di Dostoevskij e Vitangelo Moscarda di Pirandello e ci si può aspettare di tutto, anche che svesta i panni di Edmond Dantes per vestire quelli vindici del Conte di Montecristo. 

In effetti, la casata una volta nobile dei conti di Mezzafrasca-Epifaino, che si dice provenisse dall’Epiro, aveva dato origine in un vuoto di sobrietà ad un ramo cadetto che distinguendosi per ingordigia ed alterigia, aveva provocato la caduta della casa madre e sperperato tutti i beni ricevuti, cosicché i conti decaduti e ormai trasformati da corpulenti gozzovigliatori a gracili scioperati, avevano diviso il titolo nei rami della famiglia Epifaino, che continuava a mantenere qualche contatto con la buona società pur non potendo spendere neppure più il nome, e della famiglia Mezzafrasca che dell’antica nobiltà aveva rimosso finanche il ricordo e pertanto il mite ed ingenuo Francesco Mezzafrasca, l’ultimo superstite di questo sventurato lignaggio, non sapeva nulla degli antichi fasti e delle vestigia ormai sepolte sotto la polvere del tempo, ma si vantava del soprannome che gli amici e i compari gli avevano affibbiato di “Leone”, ovviamente con tono canzonatorio, perché di quell’animale egli non aveva proprio un bel niente.

Francesco giunto all’età di 35 anni aveva preso moglie non già perché spinto dal desiderio di mettere su famiglia e, possibilmente “la testa a posto”, ma perché si era semplicemente innamorato. Era la donna dei suoi sogni e lei lo corrispose sin dall’inizio, dandogli due figli che erano la gioia di quel matrimonio. 

La coppia tuttavia destava qualche ilarità per via dei cognomi. S’intenda, Immacolata, questo il nome della graziosa fanciulla, ora signora Mezzafrasca, non aveva nessuna colpa se la sua famiglia, di umili origini arricchita con il commercio, portava il cognome Ramoscelli, ma come spesso accade il nome è un presagio cosicché al pronunciarli i cognomi Mezzafrasca-Ramoscelli sembravano fatti apposta come Bocca e Trombetta, suscitando ironia, benché Immacolata fosse una donna ben piantata, con sale in zucca da vendere, florida e con un carattere vivace ed uno spirito fortemente materno. 

Dunque, dopo che il temerario “Leone” è sgattaiolato fuori di casa con la “refurtiva”, ancora nottetempo, entra in soggiorno trascinando i piedi un ragazzetto fulvo, come la madre che apre il frigorifero, beve un sorso di latte e torna a letto. La notte silenziosa non concede spazio neppure ai grilli, affaticati dall’aria afosa, mentre la luna sconvolge i piani delle nuvole con la sua pienezza d’una brillante luminosità. Poco più tardi è la volta di una ragazzina coi capelli arruffati, anch’essa fulva e anche piena di lentiggini che, guadagnato il frigorifero ne trae il brick del latte e lo versa in un bicchiere per dissetarsene. Effettuata la premurosa ed attenta operazione, ad occhi semichiusi si dirige poi verso la sua cameretta per ruzzolare nuovamente fra le braccia di Morfeo. 

Capitolo Secondo

Dove incontriamo Immacolata e uno strano tipo messo fuori con garbo

 

L’alba, tenera piccola bocca dell’universo, non tarda ad arrivare e come se si accomiatassero le stelle e si accendessero contemporaneamente tutte le luci, in casa Mezzafrasca entra sua maestà il sole. E con esso ecco entrare Immacolata Ramoscelli detta “Macola`”. Indossa una vestaglia da camera a fiori, capelli rossi discinti e borse sotto gli occhi, evidente segno di una notte passata insonne. «E pure stanotte è rimasto fuori», afferma con disdetta riferendosi al marito. «Sicuramente sarà andato a giocare a carte… Ma quando rientra gliele faccio vedere io le carte! Adesso basta! Aveva ragione mia madre <tu commetti il più grande errore della tua vita sposando quello sfaticato… Quello non ha né arte né parte… Quello la miseria ce l’ha nel sangue>! E io come una stupida gli rispondevo <Ma io lo amo alla follia> E si capisce! Ero così ingenua… Mi ha fatto perdere la testa quel farabutto! Bastava che mi dicesse qualche parolina dolce, una rosa e io partivo… Ah, i consigli dei genitori! se non si pagano non si ascoltano!».  

Trafficando con maestria tra fornelli e tavolo del soggiorno prepara in men che non si dica la colazione. «Sono le sette e mezza ed è ora di svegliare i ragazzi». Li chiama ad alta voce: «Margherita! Pierpaolo!». Dopo qualche secondo, ancora «Pierpaolo,  Margherita! Sveglia! È ora di andare a scuola!». Come ogni donna capace di far cento cose in una volta sola, Immacolata traffica sui fornelli, ramazza, toglie la polvere dai mobili, lava qualche stoviglia rimasta della sera prima, chiude l’anta del mobiletto della cassaforte, comincia a pelare le patate per il pranzo, apre le finestre per arieggiare e prepara il caffè il cui odore in pochi minuti invade tutto il soggiorno e il vicinato. Ma ecco suonare alla porta. 

Immacolata va ad aprire e si trova dinanzi un tipetto magro, smorto, smunto e con una barbetta rossa che gli spunta dalle gote, dello stesso colore e forma delle sopracciglia che fanno bella mostra di sé su due occhi grandi e sprofondati in orbite di un vago pallore, divise da naso ossuto che sembra voler arpionare le sue stesse labbra esangui. Vestito di tutto punto, all’inglese, reca in mano una valigetta di pelle e balbettando alquanto fastidiosamente cerca di salutare: «Bu-bu-buongiorno…Èèèèè que-questa la casa del signor Fra-fra…». Ma il poveretto non termina di dire la frase che viene interrotto da Immacolata: «Chi siete?»

«So-so sono il… il co-co…»

«Co..co..co.. cosa?» chiede Immacolata alquanto con garbo.

«Nn-nno… ce-ce, ce-cerco Fra-fra». Ma il poveretto ha un brutto destino e nuovamente viene interrotto da Immacolata: «chi siete, che volete? Decidetevi che oggi non ho tempo da perdere…» e socchiudendo sempre con garbo la porta d’ingresso lascia fuori il povero ragazzo, il quale però non si dà per vinto e risuona il campanello. Immacolata sta perdendo la pazienza, ma sempre con garbo lo invita ad andarsene. Il giovane mostra però una risoluta caparbietà e così suona ancora alla porta, ma più dello zelo per gli ospiti, Immacolata sente forte l’ansia di non far arrivare tardi i figli a scuola e pertanto, aperta e chiusa nuovamente la porta in faccia al ragazzo, sempre con garbo, ritorna alle sue faccende: «Ma tutte a me devono capitare…», sbuffa mettendo le tazze di latte fumanti sul tavolo. Poi guarda l’orologio appeso al muro, prende fiato dai polmoni e comincia ad urlare: «Pierpaolo’ Margherita! Sveglia!»

Capitolo Terzo

Dove incontriamo Margherita e Pierpaolo

Immacolata quando alla mattina prepara la colazione immette nel latte tutta l’energia di cui è portatrice sapendo che quella bevanda infonderà il coraggio e il brio per affrontare l’intera giornata ai propri figli. Così la sua voce cui nessun ostacolo fu mai due volte pronto ad impedirne il diffondersi, lievemente soprano, ecco che raggiunto l’orecchio assonnato di Margherita, se ne impossessa definitivamente e non lo lascia, gironzolandogli intorno come una fastidiosissima zanzara che abbia deciso di modificare le sue zeta in effe.

Margherita ha 15 anni e come tutte le ragazze della sua età porta i capelli lunghi. Il cuscino glieli ha arruffati e sembra avere un diavolo riccio per capello. Entra sbadigliando e molto stranamente le prime parole che pronuncia sono: «Buongiorno mammina!» Ora, chi conosce i giovani d’oggi non si sognerebbe mai di attendersi un saluto così cordiale e cortese che intenerisce il cuore di una madre, bensì un grugnito, un lacrimevole miagolio o il silenzio più assoluto rotto solo dallo strascicare delle pantofole sul pavimento. Questo significa dunque che Margherita si è alzata di buonumore e ciò fa ben sperare per l’andamento della giornata, perché se c’è un cervello che funzioni perfettamente come un orologio svizzero in casa Mezzafrasca è proprio quello di Margherita… Immacolata, piacevolmente sorpresa da un saluto così ben promettente, accoglie con amorevole enfasi l’ingresso della figlia: «Buongiorno Margherita brava, ti sei già vestita per bene. Ti sei lavata il faccino». Sbadigliando assonnata, Margherita si profonde in altre inattese giocondità: «Si mammina!». Il cuore di mamma è un contenitore che non fa distinzione fra caldo o freddo, ispido o morbido, cruento o dolce, accoglie ogni cosa con amore e tutto trasforma in un abbraccio fatto anche solo di sguardi. Così, Immacolata, incoraggiata dalla sua adorata figlioletta aggiunge con dolcezza suadente: «Su, da brava, vai a pettinarti e poi vieni a far colazione senno fai tardi per la scuola». Margherita esegue con indolenza, ma non si sottrae al dolce comando e la giornata appare proprio cominciata bene.

Ma ne resta ancora uno da mettere in piedi e mandare a scuola e non è certo il compito più facile… Immacolata lo sa e chiama ad alta voce il dormiglione: «Pierpaolo! Si fa tardi!».

Intanto Margherita è tornata tutta pronta per la scuola, con i suoi jeans strappati alle ginocchia e una blusa verde che le scende sulle cosce. Siede e sorseggia il latte che Immacolata ha preparato e messo in tazza sul tavolo apposta per lei. La povera ragazza è ignara di quanto le sta per accadere ed ecco che mentre afferra la tazza per portarla lentamente alla bocca e suggerne il contenuto sente vibrare fortemente nelle trombe i Eustachio il martelletto sul cilindro. E’ la voce irritata di una madre che ha deciso di passare alle vie di fatto: «Pierpaolo!». L’urlo coglie di sorpresa la malcapitata che ha un soprassalto e si lascia scivolare la tazza il cui contenuto le si riversa addosso e Margherita comincia a singhiozzare. 

Proprio in quel mentre entra Pierpaolo con indosso un pigiama a righe che gli sta grande. Non può fare a meno di notare la scena e tra lo spavaldo e il ridicolo lancia il suo «Buongiorno a tutti! Margherita si è pisciata sotto!»

In effetti Margherita è ancora lì in piedi a guardarsi i pantaloni bagnati in maniera piuttosto equivoca e singhiozza senza prender alcuna iniziativa.

Pierpaolo che una ne pensa e cento ne fa, comincia a ridere allegramente: «Buona questa». Immacolata che non s’è accorta di nulla, si avvicina a Margherita e comprende in un attimo il dramma della ragazza. 

“Che è successo?”

“Questa è da raccontare!” ridacchia Pierpaolo… “Margherita che si è pisciata sotto…”

“Madonnina bella, Margherita fatti vedere” e gira intorno alla figlia. Poi rivolta al mascalzone urla: “Un malandrino! Ecco cosa sei! Tale e quale a tuo padre! Siediti e bevi il latte!”. Con altro tono si rivolge poi alla figlia: “Su, Margheritina di mamma, fammi vedere… Ah, poverina di mamma tua, ti e caduto il latte addosso… Su andiamo a cambiarci bella di mamma..” ed entrambe escono.

Capitolo Quarto

Dove Pierpaolo, la nonna e Immacolata ci fanno divertire un po’

 

Pierpaolo ora sta facendo colazione, ma non riesce a rimanere serio e sorride motteggiando la madre… “su andiamo a cambiarci bella di mamma…”. Nel mentre sorseggia il latte fumante intravede con la coda dell’occhio che dall’altra porta sta entrando la nonna e medita uno scherzo. Il tempo di alzarsi da tavola senza farsi vedere ed è già nascosto. La vecchia nonna è tutta vestita di un nero integrale come si usa per una vedovanza stretta anche se il marito, il povero Tonino è mancato trent’anni prima… ma una volta vedova, nei piccoli paesi, la donna rimane tale a meno che non sia piacente o facoltosa nel qual caso i pretendenti sono sempre dietro l’angolo. Ma la nonnina al suo tempo non fu né particolarmente attraente, né ritenuta un buon partito, ma non si sa come piacque a Tonino Mezzafrasca, altro grande genio di famiglia, che la sposò e ne nacque il nostro Ciccillo, figlio unico, di madre vedova.

La vecchia nonna porta sulle spalle uno scialle di lana nero e in testa un fazzolettone nero slacciato tanto che le punte ondeggiano mentre cammina a tratti aiutandosi col bastone. Mormora qualcosa alludendo all’artrosi o alla sciatica e cerca di guadagnare il centro della stanza dov’è il tavolo per sedersi. Pierpaolo, malandrino, uscito dal suo nascondiglio le va dietro e per qualche secondo mima i suoi gesti, poi con un balzo felino le si pone davanti urlando a squarciagola e spaventandola atrocemente. La povera vecchia urla come una forsennata: “Oh Gesù, Giuseppe e Maria salvate il cuore e l’anima mia! Il diavolo! S Luigi, S Marco e S Giusto, scacciate il maligno da questo posto!” Visibilmente impressionata, la vecchia nonna ha recuperato le forze di gioventù e ora brandisce il bastone dimenandolo contro il nipote che crede sia il diavolo… “Torna all’inferno brutto serpente, torna all’inferno…!”

Pierpaolo intanto si piega in due dalle risate che richiamano l’attenzione di Immacolata, la quale entra trafelata: “Che sta succedendo?”

La nonna sta ancora inveendo contro il nipote “Vattene via diavolo tentatore! Traditore malandrino! Se ti prendo brutta peste! Maleducato irriverente ti faccio vedere io!”. Per il ragazzino è però giunto il momento di sgattaiolare via perché al bastone della nonna si è unita la scopa della madre entrambi branditi contro di lui per dargli la sonora educazione che si merita e che a quanto pare egli proprio non vuole e così scivolando fra una sciabolata e un tocco di fioretto Pierpaolo fugge via indenne guadagnando la libertà. Se voglia recarsi a scuola oppure no, pare domanda retorica questa mattina: la giornata è splendida, il sole brilla alto in cielo e nessuna nuvola impensierisce il cuore, sicché, fionda alla mano, il ribelle sarà pronto in men che non si dica per una nuova avventura. Intanto, la vecchia nonna, seduta alla sedia, conta gli acciacchi: “Ah, Tonino, Tonino”… rivolge gli occhi al cielo e guarda un punto fisso della volta dove immagina che ci sia l’anima del suo defunto marito… “hai visto che succede in questa casa? Hai visto come mi trattano da quando mi hai lasciata sola e te ne sei andato in Paradiso?… Poi motteggia se stessa… “in Paradiso…. al massimo in Purgatorio…”, le pare più consona come approdo… per l’anima del marito e riprendendo il tono lamentoso prosegue: “Tutta colpa tua!!!” rivolgendosi alla nuora “che non gli hai saputo dare l’educazione! Se fosse stato mio figlio gliela avrei insegnata io l’educazione…”.

Punta nel suo amor proprio, Immacolata non può che replicare con sarcasmo: “Ah, e avete pure il coraggio di parlare voi che avete cresciuto uno sfaticato!”

“Bada a come parli! Quello mio figlio e sfortunato! E la più grande sfortuna e che si è sposato a te… Quello si doveva prendere la figlia di Rocco Strepone! Quella sì che era una brava donna!

Come si sa fra suocera e nuora non corre mai buon sangue e in questa casa la saggezza dei proverbi non fa eccezione. Intanto Margherita è rientrata ha fatto colazione e sta per andarsene: “Io vado a scuola Ciao!”

Ma Immacolata non ci sta a interrompere questo bell’idillio e riprende: “Io non vi rispondo soltanto per quelle creature innocenti…” additando Margherita che sta uscendo “Vostro figlio quando si e sposato a me ha cambiato la sua vita da così a così” e fa il gesto con la mano. “Se si sposava a quella racchia della figlia di Rocco Strepone finiva in mezzo a una strada come c’è finito quel sant’uomo che se l’è sposata. Dopo sei mesi di matrimonio lei si era già finita tutta la dote che il padre le aveva lasciato e se n’era andata con un altro… bell’esempio… La nonna ha evidentemente accusato il colpo e legandosi le punte del fazzolettone nero sotto il mento, medita vendetta, biascicando “e non finisce qui…”. 

Capitolo Quinto

Dove Ciccillo “U Lione” ritorna a casa da pecora 

 

Margherita apre la porta per uscire e si trova davanti il padre che sta rientrando.

“Ciao papy” e si dirige verso la scuola.

Ciccillo entra a capo chino, con le braccia ciondoloni, non risponde al saluto della figlia perché evidentemente ha altro a cui pensare e si dirige verso la moglie.

“Eccolo qua il nottambulo! Parli del diavolo… Eccolo qua il vostro figlio sfortunato!” motteggiando sarcasticamente la suocera. “Buongiorno don Ciccillo” accenna una riverenza e poi compiacente e con voce soave si rivolge direttamente al marito fissando la suocera: “Guardatelo il signorino… Quanto siete bello stamattina, don Ciccillo”; ora fissa negli occhi il malcapitato che si fa piccolo e vorrebbe sparire, ma ormai deve rimanere a subire tutti gli improperi che si preparano per lui in quella giornata e come un fachiro che sieda nudo sui chiodi, Ciccillo ha praticato sulla sua volontà la forza del Karma secondo il quale tutto ciò sente se lo fa scivolare di dosso senza dare risposta, perché è scientificamente provato che qualunque cosa volesse azzardarsi a dire, sarebbe comunque sbagliata. Ciò conferma che a volte anche un singolo neurone, anche per una singola sinapsi alla volta, può essere utile alla bisogna.

“Sentiamo un po’… dove siete stato stanotte? Anche il pantalone strappato…”

Intanto la vecchia nonna che ha evidentemente inteso prepararsi anche per lei un brutto quarto d’ora, cerca di sgattaiolare, ma Immacolata che ormai ha preso il sopravvento sui presenti, la intercetta con voce ferma e minacciosa: “Andate pure, che fate meglio! E salutatemi a quel sant’uomo di vostro marito!”

“Sciagurata!” cerca di difendersi la nonnina colpita così crudelmente.

“Ah io non ci sto più con la testa… Non capisco più niente! Se rimango un altro giorno in questo manicomio io esco pazza!” si lamenta Immacolata…

“E vatténn!” Urla adirata la vecchia nonna che, intravisto uno spiraglio per inserirsi nel monologo della nuora, ha subito stilettato una frase in dialetto per non dargliela vinta e prendersi così la sua piccola soddisfazione giornaliera. Soddisfatta della vindice esortazione lanciata alla nuora, esce poi dalla stanza.

Capitolo Sesto

Dove Ciccillo si confessa 

“Allora, sentiamo la scusa di oggi… Naturalmente sei stato a giocare a carte e hai perso come sempre… Ormai ci sono abituata! Figurati che so anche quanti soldi hai perso… Venti no, che dico, questa volta ne avrai perso almeno cento…È vero don Ciccillo che avete perso il vostro bel centone anche stanotte? Oh, ma forse mi sbaglio… Magari questa è la volta che te ne torni con una buona notizia, magari hai vinto le tue briciole e la sfortuna ha voluto che le perdessi per strada, magari a causa di una tasca bucata nel pantalone…Ma dalla tua faccia comprendo irrimediabilmente che hai perso anche stavolta. Su avanti dimmi come ha passato la notte il mio caro marito…? Non ti chiedo nemmeno con chi perché so benissimo che insieme a te c’erano come sempre: Tonino U’ Pappajall, quello che ripete sempre due volte le cose che dice, Peppin U Recuttar e stendiamo un velo pietoso sull’origine del nomignolo, Gjuann U’ Fetus anche qui ce poco da ridere e infine il qui presente Ciccillo Mezzafrasca detto U’ Lion… Ma mi dici tu che razza di compagnia è questa? U’ Pappajall, U Recuttar, U Fetus e U’ Lion… Tre sfaticati, senza soldi, morti di fame e pieni di debiti e con quelli ti vai a mettere tu… ma ti sei guardato allo specchio?

Ciccillo, tenta una difesa per liberarsi dalla morsa del ragno “Macolà”

“Avanti, dimmi”.

“Mi sono giocato…”

“L’anello di fidanzamento?

“No”. All’udire questa negazione Immacolata ha un sospiro di sollievo e intanto Ciccillo tenta di proseguire con voce tremula ma decisa… “il…”

“Il servizio di posate d’argento?”

“No” All’udire questa seconda negazione Immacolata ha un altro sospiro di sollievo più evidente e intanto Ciccillo tenta di proseguire con voce meno tremula e più decisa… “il…”

“Il laccio d’oro…?”

“Eh”. 

Quest’affermazione, da che mondo è mondo, non è un sì secco che non lasci adito a dubbi, ma può apparire a seconda dei casi e dello stato d’animo degli astanti come concessiva, come un sospiro, come un gemito di rassegnazione e a quanto pare Immacolata non gli dà lì per lì, lo stesso significato che quell’affermazione ha invece per Ciccillo e dunque, ha un sospiro di sollievo che sembra far ringalluzzire Ciccillo il quale a questo punto è portato con pacato ottimismo a pensare che potrà trovare un qualche scampo: pare, infatti, che la moglie non abbia dato peso al laccio d’oro che lui ha perso ed eccolo che tenta di proseguire con voce non più tremula, ma decisa quanto basta… “il…”

“Il Servizio di pia…”

D’un tratto Immacolata ritorna indietro di qualche secondo e rammenta d’aver sentito pronunciare un sì alle parole laccio d’oro e capisce che il danno è irreversibile “CHEEEEEEEE? Cicci’ che hai fatto’? Cicci’ che hai fatto’? Cicci’ che hai fatto’? Madonna mia no…” e si accascia sulla sedia dov’è seduta.

Ciccillo non osa alzare il capo, perché ha capito che la sua fine è vicina e allora non avvedendosi dello svenimento della moglie, rilascia come davanti a un pubblico ministero la piena confessione di tutto quanto ha sottratto dal mobiletto cassaforte la notte precedente: “Ho perso anche la collanina d’oro che ti ha regalato zia Rosinella quando ci siamo sposati… ho perso anche gli orecchini e il bracciale che ti regalò zia Sofia, l’orologio, la collanina di zio Pasquale, il bracciale di zia Maria, gli orecchini di zia Angiolina e l’anello di zia Celestina…” Il silenzio di Immacolata è però strano e Ciccillo che si aspettava un uragano dopo la confessione, alza il capo per vedere perché non si sia ancora innescato e si rende conto dell’accaduto. “Macolà, Macolata bella che ti succede?”. Urla e dà dei buffetti alla moglie per farle riprendere i sensi, ma il colpo è stato troppo forte per Immacolata che resta riversa sulla sedia. Intanto la vecchia nonna ritorna richiamata dalle urla del figlio e vede la nuora priva di sensi…”Uh, e morta?”

“Presto, mamma, l’aceto!”

“Il prete? Dobbiamo chiamare il prete? Don Pasquale Don Pasquale” e guadagna a piccoli passi l’uscita per andare ad avvertire il prete della tragedia. Intanto Ciccillo si è munito di aceto e lo passa sotto il naso della moglie che rinviene allontanandogli la mano.

“Macolà, Macolata bella, finalmente!”

Dopo un breve stato di incoscienza, Immacolata pronuncia le prime parole: “Madonna mia, Cicci’, che mi hai combinato?”

“Come stai?”

Ora questa domanda dell’uomo non è fine a sé stessa, perché tende a sviare la domanda della donna; ma la donna dal canto suo essendo svenuta e non avendo sentito la confessione del marito, è fermamente intenzionata a sottrarre dalle grinfie di lui i gioielli di famiglia che lei crede siano ancora nel mobiletto, prima che questi ne faccia vendemmia. 

“Prendi i gioielli e le altre cose care, le voglio vedere voglio vedere il sudore e gli stenti della mia famiglia, fammi vedere la collanina d’oro di zia Rosinella, gli orecchini e il bracciale di zia Sofia l’orologio e la collanina di zio Pasquale, il bracciale di zia Maria, gli orecchini di zia Angiolina e l’anello di zia Celestina prenditi dalla cassaforte dove stanno conservati e fammeli vedere, li voglio toccare prima di morire… tieni, questa è la chiave.., e cava dal reggiseno una chiave… li voglio toccare, prima che li fai fuori.., apri la cassaforte…

“Macolà, nella cassaforte non ci sono più nemmeno le ragnatele…”

“Come? No, non può essere, solo io ho la chiave…” 

“Io mi sono fatto un doppione” ed estrae la sua dalla tasca.

“Madonna mia! Parla, farabutto parla delinquente che ne hai fatto dei gioielli?” Te l’ho detto, li ho persi…”

Immacolata borbottando qualcosa di incomprensibile afferra per il gilet il marito e gli urla in faccia: “Cicciiiii…, quindi cade svenuta fra le sue braccia. Il pover’uomo non sa cosa fare. Sorregge la moglie svenuta e cerca di trasportarla in camera da letto, ma proprio nel momento meno opportuno suonano alla porta. Ciccillo che non è una grande cima, riporta la moglie sulla sedia, la rimette a sedere, curando che da quella posizione non possa cadere e si affretta ad andare ad aprire.

“Buo… Buo… Buo…ngiorno!” Lo stesso ragazzo della mattina è ritornato alla carica e balbettando sempre più ansiosamente cerca l’attenzione del padrone di casa, ma Ciccillo preoccupato per la sorte della moglie non lo lascia finire: “Chi siete, che volete? Non ho tempo da perdere” e chiude la porta.

Il giovanotto risuona alla porta e Ciccillo che nel frattempo aveva ripreso fra le braccia la moglie per portarla in camera da letto, la riporta invece sulla sedia e la rimette a sedere curando che non cada e ritorna ad aprire la porta ritrovandosi di nuovo di fronte lo sfrontato giovanotto. 

“Buo… Buo… Buo… ngiorno!” 

“Chi siete?”

“So… so… sono il… il…co… co… coll…”

“Che volete?”

“Cerco Fra… Fra…

“un Frate? Adesso non ho tempo” e richiudendo la porta in faccia al giovine ritorna dalla sua Immacolata. Ma ecco che risuonano alla porta. Ciccillo che nel frattempo è riuscito a posizionare Immacolata sul letto, va ad aprire: – Ancora Voi? Ve ne dovete andare avete capito!?”

“Ma no asp… ett…asp… ett… aspettate! io ho qu ququ qualcosa da di didi dire a Fra Fra- Francesco”

“Qua non c’è nessun Francesco! Arrivederci!”. Il Povero Mezzafrasca, abituato a sentirsi chiamare Ciccillo, con l’appellativo che sappiamo, non pensa minimamente che quel giovine possa chiedere di lui, tanto più che ora la moglie giace quasi esangue sul letto, lui si trova nel bel mezzo di un guaio grosso grosso e i suoi due neuroni fanno una fatica incredibile a pensare due cose contemporaneamente, per cui accompagna alla porta il giovane e fa per ritornare ad occuparsi della moglie. “Ma tu guarda a questo…”. Alle volte, quando sono di buon genio i due neuroni fanno il loro lavoro e riescono a mettere insieme due pensieri nella testa gloriosa del nostro Ciccillo il quale si ferma di colpo e comincia a pensare: “Ma Francesco… Ciccillo… sono io…”. Purtroppo chi nasce tondo difficilmente muore quadro e Ciccillo non fa eccezione, per cui il suo pensiero invece di elevarsi a deduzioni argomentative, prende la via più breve, la più corta e la più comoda: “Vuoi vedere che quello era l’ufficiale giudiziario che ha mandato don Gesualdo “u Galantuomo” per pignorare tutto in casa mia? Meno male che l’ho mandato via!” e mentre questi similpensieri aleggiano nella sua testa come farebbero degli ectoplasmi in una stanza buia e vuota, apre la porta per sincerarsene e dopo averla richiusa con delicatezza, si dirige verso la camera da tetto, ritornando dalla moglie: “Immacolata, Macolata bella come stai’?”

Capitolo Settimo

Dove conosciamo Adelaide, la vicina di casa

 

La povera Immacolata non ha preso bene la bravata di Ciccillo ed ora giace distesa sul letto sofferente: “Che tragedia! Che tragedia proprio in casa mia!”. Ciccillo le tiene la mano e le asciuga la fronte: “Macolà, come ti senti?”.

“Li hai presi proprio tutti?” 

Ciccillo che ha inteso a cosa si riferisca quel “tutti”, annuisce col capo chino… 

“Anche l’orologio?”

Ciccillo annuisce sempre col capo chino ed ora tiene anche l’indice fra le labbra, ma lo salva il campanello, altrimenti avremmo visto non lacrime di coccodrillo, ma le lacrime di un leone…

Suonano ancora alla porta. 

“Hanno suonato, vado ad aprire” Ciccillo trafelato tenta di riacquistare un minimo di dignità davanti alla moglie e corre ad aprire. Dopo qualche secondo eccolo ricomparire con un ospite inatteso. Eh si, come si dice, la casa in rovina aspetta visite… L’ospite è Adelaide, una vicina di casa, la più pettegola e la più ingenua. Il suo visino angelico, i suoi capelli biondi ed il suo fisico mozzafiato darebbero ragione a tutte le dicerie sulle bionde, ma l’ospite è sacro e anche se vanesio, va accolto. Adelaide indossa un tailleur a fiori che ricorda vagamente la vestaglia da camera di Immacolata, un ampio cappello ed una borsa che richiama le dimensioni del medesimo. È tutta trafelata e con un filino di voce tremula si rivolge a Immacolata: “Signora Immacolata, come state? Vi vedo bene. Meno male! Che spavento! Figuratevi che mi avevano detto che eravate in fin di vita!”.

“E chi ve l’ha detto?” irrompe Ciccillo senza moderazione!

“Ma vostra madre”, risponde Adelaide. “Questa mattina sono uscita per portare questi indumenti in lavanderia” e mostra una busta a fiori anch’essa “sapete non si possono lavare in lavatrice altrimenti si rovinano e figuratevi se dovessi lavarli a mano come si rovinerebbero le mie dita e le unghie poi, non ne parliamo. Luigino, mio marito, dice sempre che un giorno o l’altro me le taglia. Dunque, stavo dicendo, sono uscita per portare in lavanderia questi indumenti, quando ho incontro la signora Margherita, vostra madre, che mi fa: «Uh che guaio signora Adelaide, mia nuora sta morendo anzi e già morta» e di corsa si è diretta verso la canonica. Allora, capite bene, non potevo andare in lavanderia senza prima passare a farvi l’ultima visita” e così dicendo prende una sedia e siede accanto al lettone.

“L’ultima visita? Il prete? Ciccillo, che ha combinato tua madre? Vai a vedere… vai presto! Non stare lì come un cetriolone! Ah, beata voi Adelaide, non avete pensieri per la testa…”, così dicendo Immacolata squadra da capo a piedi la vicina e soprattutto guarda con occhio sbieco le simili infiorescenze della sua vestaglia e degli indumenti di lei.

“Altroché se ne ho di pensieri! Sapete quanti calzini ho dovuto rammendare oggi? Mio marito ne rompe un paio al giorno e io li a cucire e ricucire” 

“E così passa la giornata… non è vero?”, soggiunge ironica Immacolata

“Esatto mi avete tolto le parole di bocca”, continua Adelaide.

“Eh, anche quel sant’uomo di vostro marito ha la sua croce e che croce!”. Dicendo questo Immacolata guarda al cielo e poi ritorna a squadrare con occhio sbieco la sua ospite.

“Eh, sì, la sera torna sempre stanco morto. Lavora assai sul camion, sempre col tarallo in mano a saltare sul sedile dice lui…”.

“Anche mio marito e un grande lavoratore. Solo che la sera non torna stanco morto, anzi non torna proprio”.

“Ah, ha trovato il lavoro finalmente… e lavora di notte?”

“Eh, si lavora di notte lui. Torna la mattina verso le sette le sette e mezza, le otto e qualche volta anche verso le nove. Meno soldi ha in tasca e più torna presto”.

“Ma che strano lavoro… Però anche Luigino, mio marito, poveretto, si ammazza di fatica”.

“Ah, state pur certa che mio marito non è il tipo che si ammazza di lavoro”. “Devo chiedere a compare Ciccillo se vuole lavorare con mio marito”.

“No, per carità! Quello vostro marito ha già una croce grossa! Sentite a me, lasciate stare”. Ed entrambe restano in silenzio a squadrare l’una i fiori dell’altra. 

Capitolo Ottavo

Dove il prete viene ad officiare il sacramento dell’unzione 

 

Mentre le due donne rimangono immobili come un gruppo marmoreo, Immacolata distesa sul letto con gli occhi chiusi e le mani giunte sul ventre, Adelaide intenta a guardare la propria effimera immagine in un cerchietto di vetro a specchio appena estratto dalla borsa, suonano alla porta. Adelaide come destandosi da un torpore letargico esclama con malagrazia: “Vado ad aprire” e corre verso l’uscio. Qualche secondo dopo entra in camera da letto facendo passettini corti ma veloci un uomo in talare nera e stola di colore viola, accompagnato da uno stuolo di chierichetti vestiti in uniforme di tutto punto ed in assetto da “lavoro”. Al vederlo Adelaide esclama spaventata: “Signora Immacolata, signora Immacolata, e venuto il prete…!”

Immacolata riapre gli occhi cerca di guadagnare la posizione seduta sul letto, ma al vedere l’uomo in nero dà un urlo e sviene accasciando il capo sul cuscino.

“Sia la pace in questa casa! Pecorella smarrita, povera cara anima prediletta! Stai per rendere l’anima a Dio, ma prima occorre che tu prenda i conforti religiosi. Sii felice perché il Signore ha deciso di chiamarti accanto a Sé. Pecorella sei ben disposta ad abbandonare le amarezze della vita per acquistare il tesoro che ti è stato riservato in Paradiso? Orsù confessami tutti i peccati che affliggono la tua anima?”. Non ottenendo risposta da Immacolata che è svenuta, il prete le si accosta per sentirne il respiro, ma prima che possa rendersi conto della realtà dei fatti, Adelaide esclama stordita “l’abbiamo persa!” e comincia a piangere. Il Prete prende per buona l’affermazione di quella così bella persona ed urla ai chierichetti: “Presto, portate gli arnesi!”. Ma i chierichetti sono in disparte a giocare a carte: “scopa” 

“non vale, toccava a me tirare!”

Il prete spazientito si dirige verso uno di loro e gli dà uno scappellotto memorabile al che tutti come d’incanto gettate vie le carte assumono la posizione strategica assegnatagli dal parroco ed ognuno tiene in mano un “arnese del mestiere”. Vista la pronta reazione dei ragazzi, il prete rincara la dose: “È questo il momento di giocare? Quante volte vi ho detto che non vi dovete distrarre? Dovete stare assorti in preghiera! In ginocchio, mani giunte e pregate! E tu a passami il breviario e l’incensiere”. Si pone, poi in ginocchio e con il breviario comincia a pronunciare parole in latino.

Ma ecco che Ciccillo entrando di gran carriera, trafelato, cerca la moglie: “Macolà, Macolà”. Vedendo la scena si arresta a bocca aperta. “Che è successo?”

Il prete non accetta interruzioni e infastidito silenzia Ciccillo “Sssst! Per favore, fate silenzio sto officiando!”

Ma Ciccillo, con gesto eroico degno del suo appellativo si avventa sulla moglie e con dei buffetti sulle guance tenta di farla rinvenire: “Macolà, Macolà, che ti hanno fatto?”.

Dopo un simile trattamento con l’energia di un marito disperato, Immacolata riprende coscienza e comincia a guardarsi intorno, spaesata: “Cicci’, dove mi trovo e chi e questo coso nero?”

Il prete, assorto nelle sue preghiere, appena vede Immacolata risorgere dà un colpo di reni e balza in piedi spaventatissimo esclamando a gran voce: “Ma allora e viva? Sia lodato il cielo! Come vi sentite signora? Perdonatemi, ma mi era stato riferito che in questa casa vi era un moribondo, anzi un morto”. Immacolata fa le corna. “E così mi sono precipitato per fare il mio dovere. Ma vedo che le cose si stanno risolvendo per il meglio. Bene ragazzi, raccogliete l’attrezzatura e andiamo! Pace a voi” uscendo con lo stuolo di chierichetti benedice urbis et orbis.

Adelaide che per tutto il tempo non ha fatto altro che ammirare la sua immagine nello specchietto, esce seguendo a ruota il bel pretino “Anch’io vi saluto. Devo proprio andare ora. Arrivederci!”

Ciccillo che è un essere semplice, rimane accanto alla moglie impassibile di fronte all’avvenenza dell’ospite ed è questo l’unico punto di forza che lo potrà salvare.

Capitolo Nono

Dove la provvidenza manda un dottore a visitare Immacolata

 

Ora sono rimasti in casa Ciccillo ed Immacolata, l’uno di fronte all’altro: lei seduta sul letto, lui con un ginocchio in terra di fronte. Si guardano, si scrutano, Ciccillo cercando di capire se le vicissitudini ultime hanno fatto passare di mente alla moglie il fattaccio e Immacolata cercando di vedere nel volto di quell’uomo che in fondo lei ama e che ha sempre amato, uno spiraglio di luce che possa farlo rinsavire e lasciare il giuoco prima che la ludopatia diventi un’ossessione non più controllabile e la famiglia si sfaldi. 

“Macolà” esordisce Ciccillo prendendo delicatamente la mano della moglie e guardandola negli occhi. 

“Ciccì”,  replica Immacolata a sua volta fissando negli occhi il marito che già cominciano ad inumidirsi. “Macolà… Macolà ti voglio bene…”.

Si aspettava altro Immacolata per riprendere le redini della faccenda? “Tu sei un delinquente! Ma anch’io, ti voglio bene Ciccì”.

“Io non sono un delinquente, Macolà, Sono un fallito, un buono a nulla. Ho sbagliato sempre tutto nella vita…”

“Non hai sbagliato proprio tutto. Una cosa almeno l’hai indovinata… hai sposato me… non dire che è stato un errore anche questo!?”

“Macolà ho perso tutto…, ma mi è rimasta la cosa più preziosa” e così dicendo Ciccillo accarezza teneramente il viso della moglie.. “tu”.

“Eh… Sono vecchia… allora ero giovane… i ragazzi mi fermavano per strada e mi dicevano che ero la più bella del paese. Io non sapevo a chi pigliare… fra tutti quei buoni partiti, proprietari con ettari ed ettari di terreno, Ragionieri, Maestri di Scuola, e anche un Avvocato venuto da Milano… E invece di chi mi dovevo innamorare? dell’uomo più scalcagnato e morto di fame del paese… non so proprio come ho fatto… io, una ragazza di buona famiglia, educata e istruita… ho fatto fino alla terza media… come ho potuto innamorarmi di te… Ma in fondo ora che sono vecchia capisco che era questo il mio destino, la mia croce…” e così dicendo accenna ad un malore, porta la mano al capo e si sdraia nuovamente sul letto

“Macolà, Immacolata bella, che ti senti?”

“La testa, Ciccì, mi gira la testa…”

“Vado a chiamare il dottore”. Poggia teneramente le sue labbra sulla fronte di lei ed esce di corsa. Una brava donna di casa si preoccupa sempre di non far accadere mai che si avveri il noto proverbio: «casa sporca aspetta visite» e così Immacolata, pur nella sua condizione debilitata e sofferente pensa subito che il dottore non dovrà trovare la casa in disordine e così, compiendo uno sforzo sovrumano, che un uomo nelle sue condizioni non avrebbe potuto compiere, si rimette in piedi e comincia a rassettare il letto e in men che non si dica ogni cosa che in teoria poteva far apparire in disordine la casa, ritorna magicamente al suo posto. 

Come un fulmine entra di corsa Ciccillo trascinando un giovanotto molto impacciato, il quale indossa un abito molto vistoso e reca in mano una valigetta da dottore. “Màcolà, Macolà, ho portato il dottore!”

Immacolata sorpresa ritorna a letto imbarazzata. “Così presto…?”

“Appena sono uscito di casa l’ho incontrato, anzi mi sono scontrato con l’illustre qui presente”.

Il dottore sorride ripensando all’incontro e conferma: “Si, in effetti, io ero di passaggio da queste parti per fare la solita visita ai miei pazienti anziani ed infermi ed eccomi qua”.

“Ed eccoci qua”, conferma Immacolata un po’ indispettita. Ma il medico, poco incline all’ironia e molto pragmatico, inizia da subito la sua visita domiciliare alla poveretta.

“Allora, signora, cosa vi sentite? Affanno, debolezza, nausea, cefalea, secchezza delle fauci, disturbi gastro intestinali, cosa?”

“Mi sento male”

“Bene” replica il medico mentre estrae uno stetoscopio dalla borsa e comincia ad armeggiare: “dica trentatré…”

“trentatré…”

“Ora apra la bocca”, con un attrezzo le abbassa la lingua e con una piccola torcia elettrica fa luce dentro le fauci.

Ciccillo che sta a guardare tutto senza capirci nulla domanda preoccupato: “È grave?”

“Non direi… la signora e molto stressata. Ha bisogno di riposare e soprattutto di non subire emozioni forti che potrebbero farle molto male. Mi raccomando. Ora le prescrivo questa medicina e vedrà che in pochi giorni starà subito meglio. Scrive sul suo taccuino e intanto ripete a voce bassa, BETAMEDITETRACIL.

“Betache?” domanda Ciccillo.

“Lascia perdere, Ciccì, non è cosa tua…”

“Ma io pensavo…”

“Ciccì, non ti affannare a pensare, non è cosa per te”.

“Mi raccomando, signora, ne deve prendere 20 gocce al giorno per tre giorni. Bene io ho finito”

“Quanto è il disturbo dottore?”, domanda Ciccillo un po’ timoroso di sentire la cifra. 

“Oh, nessun disturbo. Pensi solo a curare sua moglie. Auguri signora e arrivederci!”

I coniugi si guardano l’un l’altra con un sorriso ebete stampato sulle labbra e dopo aver stretto entrambi la mano al dottore, Immacolata lo ringrazia con riverenza: “Arrivederci e che Dio gliene renda merito!”, mentre Ciccillo lo accompagna alla porta sciorinando i migliori salamelecchi che abbia mai sentito pronunciare in vita sua e si reca in farmacia a comprare la medicina.

Capitolo Decimo

Dove Gesualdo Ferro passa a riscuotere la vincita e fa delle avances

  

Intanto Immacolata si rialza e si rimette all’opera in casa. Ma i guai non sono finiti per questa povera donna che non ancora ristabilita, deve affrontare un’altra catastrofe. Suonano, infatti alla porta e Immacolata sovrappensiero va ad aprire non immaginando minimamente chi si troverà di fronte.

“Buongiorno! Donna Immacolata… Che piacere… Voi non sapete quale onore mi fate ad aprire questa porta…”. È Gesualdo Ferro, detto “U Galantuomo” ed entra senza chiedere il permesso, guardando fissa negli occhi la donna che si ritrae ed abbassa subitaneamente lo sguardo. “È in casa il farabutto?”

“Che è successo, come farabutto? Chi siete?, Che volete? 

“Vostro marito… voglio vostro marito.”

Immacolata è stata presa alla sprovvista e non sa come reagire di fronte a quest’uomo così invadente e così dice la verità: “Ciccillo è uscito giusto un minuto fa”. 

“Bene, Gesualdo Ferro detto U Galantuomo sa aspettare. Dovrà rientrare prima o poi”. 

Gesualdo Ferro è un noto donnaiolo, dedito al gioco anch’egli e molto arrogante e presuntuoso. Ha ereditato qualche immobile da suo padre, un contadinotto arricchitosi senza troppi scrupoli ai danni dei suoi pari, e si pavoneggia citando qualche autore ecclesiastico latino imparato a forza di scappellotti dai preti dove lo aveva mandato a studiare il padre volendolo avviare alla carriera politica, che lui però non ha mai iniziato, non avendone proprio alcuna voglia né capacità. La vista di Immacolata timorosa e spaurita induce il “galantuomo” ad osare una avance: “…ma a questo punto visto come stanno le cose sarebbe preferibile che rientrasse poi”.

“In che senso… che volete…”

“Suvvia, non fate finta di non sapere…”

“Che volete da mio marito?”

“Mi basta un vostro sorriso e non vorrò più niente da vostro marito… Se permettete mi accomodo. Dunque, quel poco di buono mi deve una cifra esorbitante”

“Ommadonna Mia Santissima!!!”

“Debiti di gioco. Ma, vedete, io sono di un’altra pasta. Io so come far felice una donna…”

“Ma che dite…”

“Voi lo sapete… la mia fama di galantuomo… non è gratuita. Io lo sono davvero un galantuomo… E voglio farvi una proposta”

“Io non accetto proposte da voi… Andate via…”

“Voi non sapete a quale fortuna state dando un calcio…”

“Se non ve ne andate lo do a voi un calcio e non aggiungo altro per decenza”

“Bene la signora fa la sostenuta ma io non gioco mai senza posta e questa volta il piatto è ricco, mia bella signora…”

Immacolata non riesce più a tenere testa a quest’energumeno e il suo fisico crolla inevitabilmente. “Aiutatemi” e così dicendo sviene tra le braccia di Gesualdo.

Capitolo Undicesimo

Dove la vecchia nonna scambia Gesualdo Ferro per il prete del paese

 

Gesualdo non si aspettava questa reazione da parte di Immacolata e tutta la sua boria viene meno. L’afferra giusto in tempo prima che si accasci in terra svenuta e l’adagia gentilmente su una sedia, guardandosi intorno e non sapendo cosa fare. Proprio in quel mentre la vecchia nonna entra in soggiorno e vede Immacolata su una sedia e Gesualdo che tenta di rianimarla. “E voi chi siete?” domanda la vecchia con tono impertinente all’uomo.

“Sono Gesualdo Ferro”

“Chi?”

“Don Gesualdo Ferro U Galantuomo!”

“Ah, Don Gesualdo… e ditemi, Don Pasquale come sta? È un bravo ragazzo, ma qualche volta urla così forte come se le persone fossero sorde… Voi siete il nuovo parroco?”

“No, signora, vi sbagliate, io sono Gesualdo Ferro detto U Galantuomo”.

Ma la vecchia è sorda ad entrambe le orecchie e l’udito le torna solo quando ode il tintinnio di una monetina in terra e dunque comincia a fare il terzo grado al “don” Gesualdo. “Allora, caro don Gesualdo, come va la Parrocchia? E, lo so, lo so questi benedetti giovani non ne vogliono sapere di venire in chiesa e che vogliamo fare? Siete venuto per le offerte?” Estrae dalla tasca un borsellino piccolissimo e ne trae qualche monetina. “Ecco, questi sono tre centesimi, accendete un cero a S. Antonio” così dicendo fa per porgergli il denaro, ma visto che quello non ha recepito, gli afferra la mano, mette i soldi nel palmo e gliela richiude generosamente.

“Ma come vi permettete?”

“Eh, non alzate così la voce, mi sembrate don Pasquale! Vi ho dato tre centesimi che volete di più?”

“Io non accetto simili affronti!” urla Gesualdo irritatissimo e getta con rabbia i soldi in terra. “Ora me ne vado, ma ricordate che ritorno e se non mi darete i soldi che mi dovete, per voi saranno guai seri, parola di Don Gesualdo U Galantuomo”! e così esce sbattendo la porta.

“Eh, che diamine tre centesimi… che si trovano per terra i soldi… Ma tu guarda un poco…” e si china con sforzo immane per raccogliere i soldi gettati da Gesualdo: “Questo prete non mi piace. Meglio don Pasquale. Lui, almeno non li butta via i soldi…”. Poi si avvicina alla nuora e tenta di rianimarla: “Macolà”

“Aiutatemi ad alzarmi…” Immacolata è davvero allo stremo delle forze e non resiste più lasciandosi andare in un pianto lamentoso: “Chi mi ha messo questa corda al collo? Chi è stato?” Entrambe le donne si dirigono verso la camera dove Immacolata si sdraia nuovamente sul letto, mentre la nonna si reca in cucina a prendere un bicchier d’acqua, ma mentre sta rientrando in camera da letto con il bicchiere in mano attenta a non farne cadere il contenuto, suonano alla porta e la nonna va ad aprire con il bicchiere in mano.

Lo stesso giovanotto della mattina è ritornato alla carica ed ora è molto più determinato a farsi ascoltare, ma la sua balbuzie ha trovato un tremendo nemico: la sordità della nonna.

“Bu… Buo… Buongiorno…”

“Che?” urla la nonna portando la mano libera all’orecchio.

“Bu… Buo… Buongiorno… sono il co… co….”

“Come? che avete detto?”

Allora il giovane per niente intimorito dalla situazione tragica comincia a canticchiare e facendolo non balbetta: “Buongiorno signoraaaa… Io devo parlareeeee… col signor Mezzafrascaaaaaa”.

“Chi Tonino? Ma Tonino non c’è più. È andato in Paradiso… Paradiso… al massimo in Purgatorio…”.

“Ma signoraaaa, al Comune mi han dettoooooo, che egli è vivoooooo e che abita quiiiiii!”.

“Ah, ma voi cercate a Ciccillooooo?” comincia a canticchiare anche a nonna presa dalla verve canterina del ragazzo.

“Si io cerco Francescoooooo, Francesco Mezza e frascaaaaaa”. Ormai il giovine ha preso il liscio e si profonde in evoluzioni canore che gli fanno sperare di poter portare a termine la sua missione. “Se permetteteeeeee dovrei comunicargli una notiziaaaaaaaa di estrema importanzaaaaaaaa. E da qui non me ne vadoooooooo se prima non gli ho parlatooooooooo” e così entrato siede su una sedia con la valigetta sulle gambe.

La nonna scuotendo il capo e borbottando parole incomprensibili lascia il giovine e si dirige verso la camera da letto per portare il bicchiere d’acqua ad Immacolata.

Capitolo Dodicesimo

Dove Ciccillo si trova faccia a faccia con Gesualdo

 

Il giovane con la valigetta resta solo nella stanza e si guarda intorno aspettando che Ciccillo rientri in casa per dargli la notizia. Ciccillo entra un attimo dopo che il giovane ha finito di rileggere per l’ennesima volta tutto il testo del messaggio che gli deve dare. Entra correndo come se qualcuno lo stesse inseguendo. Cerca di nascondersi. Un attimo dopo Gesualdo entra furioso brandendo una pistola. Inizia un inseguimento, prima intorno al tavolo, poi verso una delle stanze, poi di nuovo intorno al tavolo. Alla fine esausto Ciccillo si ferma per riprendere fiato e proprio di fronte a lui Gesualdo; a dividerli il tavolo del soggiorno presso cui è seduto il giovine con la valigetta. 

“Volevi farmi fesso, ah?” sogghigna Gesualdo

“Don Gesualdo lasciatemi spiegare…”

“Avanti parla!” e punta la pistola verso Ciccillo. 

Il giovane stringe i gomiti ai fianchi e le ginocchia gli si irrigidiscono nella posizione seduta. Suda freddo, come se la pistola l’avesse lui alla tempia. 

Ciccillo allora comincia a raccontare: “Io stavo venendo da voi ieri sera, con il fagotto dei gioielli in mano per pagare i debiti di gioco e fare un’ultima partita, quando ad un certo punto un cane, ma che dico, una bestia feroce, ha cominciato ad inseguirmi. A dire il vero già da alcuni giorni mi faceva la posta. Aspettava che uscissi di casa per rincorrermi fino a che entrambi non fossimo esausti. Così anche ieri sera mi ha rincorso per circa un chilometro; lo sapevo che più di tanto non poteva resistere, così ho cominciato a rallentare, ma più io rallentavo più lui accellerava e insomma per farla breve mi ha raggiunto e mi ha dato un morso giusto qui” e indica il gluteo sinistro “per giunta strappandomi anche i pantaloni. In quel momento la paura era più forte perfino del dolore, così ho mollato tutto e sono corso a rifugiarmi su un albero. Quella bestia, non contenta, e rimasta per tutta la notte sotto l’albero ad aspettare che io scendessi. All’alba poi, non so come, ha girato le spalle e se n’è andato. Così sono potuto scendere e mi sono messo alla ricerca del fagotto, ma non l’ho più trovato. Ecco, questo e tutto. Quando mi avete incontrato poc’anzi stavo venendo proprio da voi a raccontarvi questa storia ed a promettervi che comunque vi avrei pagato. 

“Non ti credo! E una scusa per non pagare!”. Il tuo misero stipendio da spazzino non potrà mai consentirti di pagare tutti i debiti che hai con me”

“No, vi assicuro, è la verità!”

“Adesso te la dico io la verità se non mi dai immediatamente i soldi che mi devi o i gioielli, ti sparo seduta stante e senza indugio!”

Ciccillo messo alle strette e non sapendo cos’altro raccontare, lancia un urlo da animale ferito e fugge via di casa. Gesualdo lo insegue brandendo la pistola ancora più incollerito.

Capitolo Tredicesimo

Dove la nonna ha un colloquio esilarante con Adelaide

 

La casa dei Mezzafrasca non è mai stata così movimentata come oggi e ne fa le spese il giovine seduto al tavolo con la valigetta sulle ginocchia che dopo aver vissuto in prima persona la minaccia di una pistola, ora ode le urla insane di una donna che entra in casa invocando aiuto. È Adelaide che urla a squarciagola sapendosi inseguita. Poi vedendo il giovine, si ferma, ammutolisce e si guarda circospetta intorno cercando di accertarsi che l’aggressore non la stia inseguendo. Richiamata dalle urla di Adelaide la nonna fa capolino dalla camera da letto e vedendo la ragazza in chiaro stato di alterazione fobica le si avvicina per calmarla.

“Che è successo?”

“Ossignore, Ossignore, mio marito!”

“Calma… Calma…”

“Mio marito, mio marito mi vuole bastonare. È pazzo, e pazzo! Aiuto! Aiuto! Aiuto! 

“Ma che hai combinato?”

“Niente, nel senso che non ho fatto niente da mangiare…”. Poi guardando il ragazzo, chiede alla nonna “Chi è quello?”.

“E che ne so… uno che aspetta a Ciccillo… e fallo aspettare… campa cavallo.. 

“Vi prego, nascondetemi, mio marito è capace di uccidermi!”

“Esagerata! Io li conosco bene i tipi come tuo marito. Lo conoscevi a Tonino?” 

“Chi?”

“Tonino, il mio povero marito, pace all’anima sua”.

“No, non ho avuto il piacere”.

“E che piacere! Quello menava che era una bellezza… siediti, che ti racconto qualche fatto che mi e successo. Dunque, devi sapere che il mio povero marito, quando era vivo, perché è morto, è andato in Paradiso… Paradiso… al massimo in Purgatorio… devi sapere che quando tornava dal lavoro -allora si lavorava la terra con la zappa- mica con giacca e cravatta come fanno adesso. Erano altri tempi insomma, quando tornava stanco dal lavoro, pieno di sudore e con la faccia tutta nera, si sedeva e aspettava. E io mi mettevo di fronte a lui e aspettavo con lui. Poi si alzava, andava in cucina, cucina, quella una stanza sola era e serviva da cucina, sala da pranzo e camera da letto…

“E il bagno?”

“Il bagno non c’era Per fare i propri bisogni uno doveva andare fuori dal paese, in un posto dove vi si recavano tutti per lo stesso motivo e per questo bisognava stare attenti a dove si mettevano i piedi per non avere sgradite sorprese. Allora, vedeva che non c’era niente da mangiare e si metteva a ridere…”

“Ummado’ pure mio marito fa così…”

“Eh, ragazza mia tutti gli uomini sono uguali, visto uno, visti tutti. Quello, Tonino, rideva perché pensava a come si doveva divertire a bastonarmi. Anch’io, come te, le prime volte pensavo che fosse scemo. Altro ché… a lungo andare ha preso l’abitudine e quando tornava da lavoro non andava per niente in cucina che subito mi menava, anzi una volta non è nemmeno entrato in casa, mi ha chiamato fuori e mi ha fatta nera di botte in mezzo alla strada. Ma io comunque gli volevo bene…”.

Adelaide è entusiasta di avere trovato un’anima pia che la pensa come lei e vuole profondersi nel racconto delle sue gesta: “Eh, anch’io a mio marito, pensate che più mi mena e più lo amo. Eh, l’amore, l’amore… Sapete che ha fatto una volta? Avevo circa trenta paia di calzini da rammendare, così, rammenda qua e rammenda là è passata la giornata e non ho preparato la cena. Quello quando è tornato, stanco, tutto sudato, puzzava come una capra, si è seduto e aspettava che io gli mettessi davanti il piatto da mangiare. Allora io gli ho detto «mi dispiace ma stasera non ho potuto prepararti la cena per via dei calzini»“ E sapete che mi ha risposto? “Tu ti devi decidere!”. E io sapete cosa gli ho detto? “No, sei tu che devi decidere, o le calze o la cena” e sapete che ha risposto? Niente. Ha preso la scopa e ha cominciato a bastonarmi più forte di prima…”

“Ah, tale e quale, proprio come Tonino”.

“Ma poi, voi l’avete risolto il problema?”

“No che vuoi risolvere, quello la testa non la cambia stai sicura”.

“Ma allora è durato per tutta la vita questo guaio?”

“Certamente no! Quello, il mio povero Tonino dopo cinque anni di matrimonio se ne andò al creatore… Il fegato… Io glielo dicevo sempre “non ti arrabbiare sennò ti gonfi il fegato, la bile si in grossa. Non mi ha voluto ascoltare ed è schiattato”

“Madonna mia che brutta fine! Povero marito mio come lo vedo male!”.

Capitolo Quattordicesimo

Dove si svela il mistero del giovanotto con la borsa

 

Adelaide e la nonna se la intendono in fatto di uomini e quei poveri mariti che hanno scelto la malasorte di averle in moglie pagano il contraccambio prima con dolori di stomaco e poi col trapasso. Mentre parlano le due dame, il giovane smunto seduto con la borsa sulle ginocchia ascolta tutto in religioso silenzio ed ora va considerando che sarebbe meglio non prender moglie vista le cateratte di maledizioni che incombono sul malcapitato che non scelga quella giusta… eppur quando giusta ogni tanto qualche capriccio deve pur farlo, perché è nata dalla costola e non dal piede: per stare all’altezza del cuore e non essere schiacciata, per stare sotto il braccio protettivo e non sotto il tallone oppressore. Mentre fantastica questi pensieri, il buon giovine viene attratto da urla di aiuto che vengono da fuori la finestra: è una voce d’uomo che invoca soccorso. Un attimo e si spalanca la porta di casa: entra Ciccillo correndo affannosamente. Si ferma, guarda il giovine, poi Adelaide e infine la nonna, poi cerca di nascondersi sotto il tavolo, dietro la madia alta, dietro il televisore, ma nessun posto è sicuro e allora si ferma di fronte al giovanotto che dal canto suo si è alzato in piedi e vorrebbe profferire parola per espletare finalmente il suo ufficio, ma non fa in tempo a formulare una sillaba che entra in casa Gesualdo brandendo la pistola. Ciccillo tenta di nascondersi dietro il giovine che smilzo com’è non potrebbe celare neppure l’ombra di Ciccillo e così ricomincia l’inseguimento, prima intorno al tavolo, poi verso una delle stanze, poi di nuovo intorno al tavolo. Alla fine esausto Ciccillo si ferma a riprendere fiato. 

La nonna infastidita da tutto il trambusto si alza e urla: “Ma che succede?”

Adelaide sale sulla sedia come se in quel momento fosse passato di lì un topolino: “Aiuto!”

Immacolata si è finalmente ripresa e richiamata dal baccano entra in soggiorno e rivolgendosi a Gesualdo lo apostrofa con indolenza: “Ancora voi? e con la pistola?”

Si apre la porta ed entra Margherita: “Ciao a tutti! Sono tornata da scuola!”. 

Non s’era detto che doveva essere una bella giornata perché Margherita si era alzata di buon umore? 

Manca solo Pierpaolo per riunire tutti tragicamente in un unico luogo. Ma la questione non può finire così e allora il giovanotto comincia a cantare: “Insomma bastaaaaaaaa!”. 

Il richiamo canoro mette tutti sull’attenti e tutti guardano il giovane attendendone una rivelazione. “Oh… finalmente posso spiegarmiiiiiiiiiiiiiii.. Io sono il collaboratoreeeeeeeeeee del Notaio Camillo Denariiiiiiiiiiii…

Non par vero a tutti che quel ragazzo sia il collaboratore di un notaio, perché in casa Mezzafrasca non c’è nulla da spartire.

“Devo comunicarviiiiiiii che il mio principaleeeeeee il notaio vi aspettaaaaaa presso il suo studioooooo per delle cose importantissimeeeeeee che interessano il sig Francescooooooo Mezzafrascaaaaaa. Chi di voi è Francesco Mezzafrasca?”

Gesualdo sempre con la pistola alzata ad altezza di occhi indica con un ghigno Ciccillo: “È lui…”

Ciccillo atterrito cerca di sviare l’attenzione per potersi dileguare, ma la moglie conferma: “È luì è lui…”. Anche Margherita conferma: “Papy sei tu…”.

Visto che non può più negare Ciccillo esce allo scoperto e con un tono di voce solenne chiede: “e di che si tratta?”

Il giovine ha indicazioni ben precise: “Beh non ve lo posso dire in presenza di estranei…”

Gesualdo riponendo la pistola in tasca e guardando di sottecchi Ciccillo afferma con boria: “Non vi preoccupate, qui non ci sono estranei… siamo tutti una grande famiglia che ci vogliamo tutti bene…”

Ciccillo rimbrotta fra sé e sé: “si proprio così”.

“Beh allora, se e così, vi informo che il Notaio deve dare lettura del testamento del defunto Conte Giovanni Mezzafrasca. Dopo lunghe ricerche siamo riusciti a risalire all’unico erede che è lei, sig. Francesco, o meglio sig. Conte”.  

Ciccillo non ha capito nulla e mentre sta cerando di mettere insieme i due neuroni per comprendere le parole che ha udito, entra finalmente Pierpaolo che, ovviamente dopo aver fatto lo scherzetto alla nonna, vestitosi in fretta è uscito di casa e non è andato a scuola. Egli reca in mano un fagotto: “Buongiorno a tutti! Oggi è proprio una bella giornata!”, si dirige verso il padre: “Papy guarda cosa ho trovato” mostrando il fagotto a Ciccillo senza sapere che quello è lo stesso perduto da Ciccillo quand’era inseguito dal cane.

Ciccillo al vederlo abbraccia il figlio con una gioia incontenibile.

Gesualdo rimane impietrito di fronte alle due notizie: “Allora era vero che stavi venendo da me per pagarmi”… 

Ciccillo annuisce, Immacolata al vedere il fagotto con i gioielli, abbraccia il marito dimenticando tutti guai trascorsi. Adelaide scesa dalla sedia corre fuori per dare la notizia. La nonna afferra il giovanotto per un braccio e lo trascina verso un angolo della stanza sussurrandogli qualche domanda. Don Gesualdo che alla parola Conte si è ricordato delle sue umili origini, lascia la stanza con lo sguardo impietrito, dirigendosi verso la parrocchia per raccontare un po’ di faccende al vero “don” che lo attende da anni.

Margherita e Pierpaolo guardandosi negli occhi con gioia incontenibile si abbracciano e cominciano un girotondo intorno ai genitori cantando allegramente: “Evviva! Oggi è proprio una bella giornata”!.

*LE MIE STAGIONI*

Traspare dal tuo viso 

 

La nobile pretesa di teneri entusiasmi. 

 

In un palmo tieni stretto un cuore, 

 

nell’altro una giumella di vento 

 

I tuoi baci settembrini, sono lacrime d’ottobre, 

 

carezzevoli note di novembre,

 

sorrisi aprichi di dicembre. 

 

Sono vecchio di boria

 

Mi commuove il tuo grembo.

 

A primavera il so¬le rivelerà il suo genio 

 

Alle mie foglie, 

 

il vento lancerà i suoi dardi 

 

sul sentiero dei miei ricordi 

 

e la tua voce volut¬tuosa luciderà le mie radici 

 

e mi donerai gli arpeggi dell’ambrosia

 

e mi sublimerò fra la tua siepaglia 

 

dimenticando che in¬vecchiamo in fretta…

*L’ASSENZA (epitaffio)*

Se muoio, sopravvivimi con tanta forza

 

Da risvegliare i miei sogni.

 

Nel pianto alza i tuoi occhi durevoli

 

E canta una nenia alla mia anima.

 

Non voglio che vacillino il tuo sorriso,

 

né i tuoi passi.

 

Non voglio che si spenga con me la mia eredità di gioia.

 

Non bussare al mio petto, sarò assente,

 

ma vivi nella mia assenza come in una casa.

 

Puoi entrarci attraversando i muri 

 

E appendere i nostri quadri ai chiodi dei nostri ricordi più vivi

 

Se ti vedrò vivere in questo modo nella mia assenza, 

 

vivrò con te e ogni attimo sarò un tuo attimo

 

ma se soffrirai, amore mio, morirò nuovamente.

*A GIOVANNI PASCOLI*

Cantar più non puoi,

 

Maestro, del fratel muto

 

E del pargolo riccioluto,

 

or che non sei più tra noi.

 

Ma del cader dei loro corpi 

 

Sotto l’infame metallo affilato

 

Del truce dio degli storpi,

 

soavi carmi hai cantato:

 

del triste scandalo che giace

 

fra quattr’assi di pino

 

e del tenero bambino

 

che non gioisce più, ma tace.

*TEMPESTA SUL MARE*

Sopisce la luna le guerresche vampe 

 

Mentre l’astro biondo s’inabissa

 

Stridendo gabbiani e volteggiando

 

E inquieti pescatori temerari sui legni di balsa

 

Lenti oscillando vite silenziose.

 

D’un tratto è la battaglia!

 

Sudicio manto, rena e fanghiglia 

 

Lo specchio del cielo oscurando 

 

Con tenebre di notte profonda.

 

Lampi di Dio e Maestrale 

 

Assalendo l’infinito orizzonte 

 

E dimenando delfini corpi lucenti

 

Onde su onde!

 

Avvolgendo l’aria schizzi e biancheggiando spume!

 

Vortici!

 

E respiri in superficie di alghe sferzate!

 

Tormenta di sale e sabbia!

 

E’ la Tempesta sul mare

 

Che mima la tempesta del cuore

 

Quando si va oscurando

 

Vittima della ragione prostrata.

*LA POESIA*

Io dormivo, 

 

udii picchiare alla finestra.

 

Irruppe la tempesta.

 

Ero semivestito,

 

mi alzai biascicando improperi.

 

Un passo e ancora un altro

 

Nel buio rotto dal lume.

 

Richiusi. 

 

Avevo quattordici anni

 

Ed ella entrò così nella mia vita…

 

Non ne è più uscita,

 

never more…

*ANDROMAQUE (Rovigo 28/08/1992)*

Andromaque, je pense à toi!

Poesia del dolore sull’altare della memoria

 

Dove effondo incenso con le mie dita di cera 

Andromaque, je pense à vous!

Albatro o cigno, che importa? Quel che mi duole 

 

È vederti trascinare le ali sulla polvere delle ossessioni urbane

Andromaque!

Il tuo nome ripeto ad ogni palpito, eco di peana 

 

Da una caserma nascosta in qualche dove dell’universo.

Andromaque!

Solenne il dolore avvolto nel vessillo

 

Vellutato della memoria

Andromaque!

Lenta salmodia di accenti, sere illuminate da tizzoni ardenti

 

Nebbie velate di rossi paesaggi.

Andromaque!

Mio dolore, dammi la mano,

 

attraversa con me questa notte rosso rubino!

 

*CASALVECCHIO*

Nel ricordo dissotterrato odo il passo lieve di fantasma

 

Delle foglie autunnali erranti per le tue vie 

 

È la terra che parla dal suo cuore profondo.

 

Come remoto specchio, 

 

come sudario malconcio dei miei ricordi,

 

come freddo sorriso, di una lucente e pallida notte.

 

Per le bianche strade ardeva come vivido fuoco 

 

Il mare ondoso delle presenze infantili 

 

Ed era limpida ogni fiera linea di quei volti, ora, 

 

splendidi sepolcri che raggiano intorno ai capricci del tempo.

 

Come foglie d’inverno, modellate nella neve 

 

E come il suono cristallino del silenzio 

 

Le tue vie cullano dolcemente la mia angoscia.

 

Io in te e tu in me siamo liberi! 

 

Come soffio di vento sul petalo 

 

D’un fiore appena sbocciato…

SINOSSI DEL LIBRO

Il titolo indica che i racconti sono stati scritti in periodi diversi della vita dell’autore che ha identificato in “stagioni” caratterizzate da diversi stili di scrittura. La Madre è il più breve dei racconti, ma anche il più intimo e psicologico. Il sogno di Peppinella è il racconto del sogno di una bambina di campagna. La leggenda di Eistulf è una favola che argomenta sulle conseguenze degli eccessi. Il regalo di Imeneo è un componimento che irride benevolmente l’aulica stucchevole e sdolcinata del tema amoroso. Lettere dall’inferno rodigino è il racconto crudo e meditato della naja trascorsa dall’autore.  La profezia dell’uomo nero è il racconto di un naufrago africano che si trova di fronte ad una strana profezia che si realizzerà ma in maniera insolita. Una bella giornata è il racconto esilarante di una giornata qualunque in una famiglia qualunque alle prese con gente qualunque e situazioni al limite del paradosso. 

INDICE

Prefazione dell’autore……………………………………………………………… pag. 1

LA MADRE ………………………………………………………………………… pag. 2 

ILSOGNO DI PEPPINELLA……………………………………………………….. pag. 4

LA LEGGENDA DI EISTULF……………………………………………………… pag. 9

IL REGALO DI IMENEO ………………………………………………………….. pag. 14

LETTERE DALL’INFERNO RODIGINO ………………………………………… pag. 19

LA PROFEZIA DELL’UOMO NERO …………………………………………….. pag. 33

UNA BELLA GIORNATA ………………………………………………………… pag. 48 

SINOSSI DEL LIBRO ……………………………………………………………… pag. 73