Carlo Di Clemente - Poesie

Una di troppo

 

Le cose nuove hanno sentore di vecchio,

la polvere si posa e la sposa è distratta,

la guardo e rido.

La smorfia irriverente sul mio viso 

richiede attenzione,

e riceve parole.

Le butterei, ma non trovo il cestino.

Dunque le conto, a due a tre, 

una mi sfugge, forse era in più,

lor signori lo sanno e ripetono:

“La promessa è scritta sull’arena”

Mi portino il necessario,

ed io erigerà il più sabbioso dei castelli,

da abitare nei giorni festivi,

ma solo se cadono di lunedì

La settimana è finita,

anche la sposa è partita,

la tavola la tengo imbandita,

e se un posto è vacante,

lo lascerò così, 

poiché domani è lunedì.


Noi 

 

Tenace lei, tenace io,
ho le chiavi di un palazzo
che non è ancora mio.
Eppure, in balìa di sensi e contrasti ci sfioriamo a distanza
e sono corpi che vogliono toccarsi. 


Raccolti 

 

Seduti sulle scale di allora, ognuno fa i suoi conti.
Domani li spargeremo come semi, per un raccolto da bruciare. 

Con mani annerite, ferite,
troveremo nelle tasche le ultime braci e la voglia di calore ci farà tremare. 


Thalassa

 

Chi va a fondo o risale,

Chi parte e chi piange,

Bevono tutti lo stesso sale.


Tutto pronto

 

Salutami.

Vorrei tu lo facessi in un’altra lingua,

a me cara.

Ma non lo farai, avara.

Verrei da te, non ci fosse quest’acqua,

e tu sei già altrove, fortunata.

Tornerai, senza portarmi nulla.

Nel mio bagaglio, pronto,

metterà gli ultimi umori d’estate.


Quanto basta

 

Abbiamo ancora tanto,

e tempo ne è passato.

Quanto manca?

Abbiamo ancora tanto,

un patrimonio non speso,

sospeso, nel tempo,

ma il tempo è passato.

Prendo il mio,

ritrovato in una scatola di latta,

dal precedente, diverso uso.

Siamo usi far finta di niente,

badando a non farci male,

a parlare e non dire,

a non obbedire per poi comandare.

Lo dirà il tempo, ma il tempo è passato

e, se non troviamo riparo,

porterà via il mio, il tuo,

la scatola di latta, non mia, non tua,

ma ancora al suo posto.

Chissà quanto manca,

e se basta saperlo.


Quattro mani

 

La vedrei pentagramma,

perché lei è un foglio bianco da scrivere,

troppe volte sgualcito,

una pagina strappata via,

letta in fretta.

Viaggia,

leggendo il mondo a tocco di dita,

leali e leggere.

Averle le ali,

per accompagnarla altrove,

ovunque,

non qui e non ora,

ma domani, sempre,

e a quattro mani vivere la vita.


In busta chiusa

 

Senza mettere indirizzo, 

ti scrivo una storia,

sarebbe quasi un diario,

se ci fossero le date.

Ti scrivo la mia storia,

un po’ comica e leggera,

poiché scivolo, lo adoro,

nella tua vita straripante,

senza avere le scarpe adatte,

attirando i tuoi sorrisi,

luminosi e assai puntuali,

li sigillerei in busta,

per portarli appresso a me,

insieme alla mia storia,

un po’ comica e leggera,

e consegnarli poi a mano,

senza mance te li servo,

e l’indirizzo lo sai tu.


Ancora qui

 

Ritrovo le cose al loro posto.

Rivedo pranzi, cene,

le caramelle nella credenza,

e se questo non è più,

rimane pur nostro.

Lo penso con voce bambina,

mentre sparecchio la tavola,

chiudo i tiretti e mi sembra

la figura piccina di quell’anima bella,

quella che mi salutava e ammoniva,

tutte le sere,

prima d’andar via.


Caduta libera

 

Tu sai come mi sento,

come quando, bambini,

cadevamo dalla bicicletta,

su ginocchia sbucciate

tornavamo a casa ridendo.

Ti lascio libera,

riderò anche di questa mia caduta,

e ora le ginocchia fanno più male,

ma hai trovato le giuste parole,

le stringo in pugno,

e non cadono.