Caterina Carusone - Racconti

Sonata in La Maggiore D 959

                         Franz Schubert

 

 

La Sonata in La maggiore D959, fu composta negli ultimi mesi di vita del grande musicista austriaco, e costituisce una grandiosa ricapitolazione di tutti gli elementi stilistici della musica schubertiana. Si tratta della penultima sonata per pianoforte di Schubert, scritta nel settembre 1828, circa tre mesi prima della sua morte.

La vita di Schubert si chiuse, a soli 31 anni; trascorse quasi interamente la sua breve vita nella propria città natale Vienna, città in cui emergeva il mito di Beethoven.

Gli spazi a cui si dedicava, erano quelli di riunire serate musicali con una ristretta cerchia di amici, in più quello di allietare con la sua musica alcuni salotti nobiliari.

Le critiche che gli venivano rivolte erano comuni a molti grandi compositori, di scrivere in modo complicato, eccessivamente difficile tecnicamente, di usare modulazioni troppo audaci e un accompagnamento pesante. Schubert veniva trattato dalla stampa, se si degnava di recensirlo, come un giovanotto ambizioso, il cui stile doveva ancora maturare notevolmente. Ciò fa notare che Schubert era quasi ignorato al suo tempo, e soltanto undici anni dopo la sua morte, nel 1839, le ultime sonate, rimaste inedite, furono pubblicate da Diabelli, e nello stesso anno il musicologo George Grove confermò la grande bellezza delle sue opere. Sta di fatto che tutte le sue Sonate incontrarono scarsissimo interesse, e per oltre un secolo gli unici lavori pianistici che ebbero ampia diffusione furono gli Improvvisi e i Momenti musicali, mentre le venti sonate, iniziarono ad avere attenzione dagli interpreti e dal pubblico, soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ai giorni nostri, esse sono considerate tra i lavori più maturi e riusciti di tutta la produzione schubertiana e appartengono di diritto al grande repertorio concertistico.

La sonata 959, fa parte delle tre ultime sonate di Schubert, che sono tra le massime opere di tutta la letteratura pianistica, in esse si è soliti vedere l’influsso di Beethoven ed effettivamente le grandi dimensioni e l’energico e ritmato tema iniziale della Sonata in la maggiore D 959, possono far pensare all’autore dell’ “Appassionata”, ma sono solo somiglianze superficiali, poiché in Schubert, la tensione drammatica senza respiro di Beethoven, si scioglie in un diffuso lirismo e il suo percorso formale si allenta e lascia spazio ad impreviste divagazioni, come nella sezione di sviluppo di questa Sonata, che si basa interamente su temi nuovi, non presenti nell’esposizione, assumendo un andamento libero e un carattere di ballata.

Molti sono soliti ad avvicinare la musica di Beethoven a quella di Schubert, sicuramente entrambi avevano una pressante esigenza artistica, ma le strade erano diametralmente opposte.

Beethoven aveva bisogno di trovare la sostanza della materia musicale, che contenesse non solo l’essenza di un processo compositivo, ma soprattutto di un pensiero artistico che potesse risultare logico anche attraverso una non facile comprensione, che troverà poi nella scuola di Vienna il suo sblocco culturale definitivo; Schubert invece aveva l’esigenza di ‘dire’ e raccontare nel modo più ampio possibile tutto ciò che le sue emozioni personali lo spingevano a fare, concependo la musica nell’incanalare la propria soggettività attraverso un fluire senza tempo. Sicuramente entrambi rappresentano i punti di partenza per la formazione di aeree culturali che saranno alla base della cultura musicale del Novecento.

La Sonata in la maggiore è un’opera di una altezza sublime, che raggiunge le più elevate vette di espressione. Il primo tema possente e grandioso afferma con energia la tonalità di impianto, ma presto l’energia viene lasciata per delineare disegni scorrevoli di terzine che compariranno e scompariranno nell’arco dell’intero movimento. Una transizione di sospensioni armoniche audaci cariche di forti dissonanze conducono al secondo tema, una melodia lirica dal carattere nobile e sereno, che dopo nuovi momenti di forte tensione armonica, conclude l’esposizione in modo tranquillo e contemplativo. La successione sezione si distacca dalla precedente, e si sviluppa su un nuovo tema lirico scritto con semplicità e limpidezza. Questo tema si dissolve ed un movimentato crescendo prepara la ripresa dell’esposizione, fino a una coda di un motivo trasognante che conclude questo movimento iniziato così vigorosamente. L’ampio primo tempo è seguito dal canto dell’Andantino in 3/8 nella tonalità di fa diesis minore. Un’ondeggiante melodia raffigura una desolata e dolce infinita malinconia, immersa in una luce di serenità ultraterrena. Un tono assorto, ipnotico è interrotto da un episodio centrale drammatico, da cui nasce dagli scontri armonici una agitazione senza via d’uscita. L’Allegro vivace è pervaso dallo spirito di danze popolari austriache. Il finale è un Allegretto in forma di Rondò, è frammentato da modulazioni improvvise e interrotto da pause sospese. Le musiche di Schubert sono intessute di affinità nascoste, di richiami tematici appena ombreggiati, di sottili relazioni quasi non percepibili. Schumann definiva la musica di Schubert “celestiale lunghezza”, la forma si rilassa, diviene più statica, gira intorno a se stessa senza tendere con unicità di propositi verso un’unica meta: “egli ci offre un’opera di forma assai leggiadra eppure assolutamente nuova, senza mai allontanarsi troppo dal punto centrale, riportandoci sempre ad esso”.

 

 

Caterina Carusone


 

 

IDOMENEO

 

Idomeneo re di Creta, su libretto di Giovanbattista Varesco, rappresentato a Monaco nel 1781, con musica di Wolfgan Amadeus Mozart, mostra la tendenza al rinnovamento dell’opera seria che puntava essenzialmente all’imitazione nel melodramma francese. Infatti fu con ogni probabilità la stessa corte committente di Karl Theodor, particolarmente aperta al gusto moderno, che propose a Varesco il modello di una vecchia tragedie lyrique, Idomeneé di Antoine Danchet, rappresentata a Parigi nel 1712 con musica di André Campra.

Ci furono due diverse edizioni a stampa: la prima che comprendeva 121 pagine, fu stampato a Monaco, un mese prima dell’esecuzione, avvenuta il 29 gennaio 1781; questa edizione riporta il testo completo di Varesco con testo tedesco a fronte. Ed una seconda edizione con il medesimo titolo, che comprende 52 pagine, con frontespizio uguale alla prima edizione, ma senza contenere il testo in italiano, e stampata a ridosso dell’esecuzione.

La trama racconta di Idomeneo re di Creta, che tornando per mare viene sorpreso da una tempesta, vinto dal timore di naufragare, fece voto che se si fosse salvato, avrebbe sacrificato a Nettuno, il primo uomo che avrebbe incontrato sulla terra ferma. Incontrerà Idamante suo figlio, che aveva lasciato bambino alla sua partenza. Idamante è innamorato di Ilia, figlia del re di Troia Priamo. Elettra figlia di Agamennone re di Argo, innamorata di Idamante, ma non ricambiata. Attraverso questi personaggi si narrano i diversi affetti recitativi: lo scoprimento del padre e del figlio, l’amor paterno in contrasto con il suo dovere verso Nettuno, l’infelice situazione di Idamante che ignora il suo destino. La gelosia di Elettra.

L’argomento mitico-eroico dell’opera s’imperniava sul dramma individuale di Idomeneo e sul conflitto tra religione e natura, antica tematica lucreziana, recuperata dalla cultura illuministica e già celebrata da Gluck con scultura potenza nell’Iphigénie en Aulide. Notiamo in questa opera, come elemento soprannaturale, impiegato solo nei punti necessari: la pantomima di Nettuno, ossia la comparsa del mostro alla fine del secondo atto, intesa come voce sotterranea che interviene: ‘deus ex machina’, nella scena del tempio, provocando la sorte del terremoto. E’ importante la configurazione formale e stilistica, che trasforma la tragédie lyrique in dramma per musica di tipo italiano. La partitura di Mozart mostra con inequivocabile chiarezza, le esigenze drammaturgiche e musicali che determinano in quel periodo, i vari tentativi di uscire dal guscio ormai scheletrico del libretto metastasiano. Mozart come Gluck, tenta di eliminare il tagliente divario tra aria e recitativo, sostituendo il secco con l’accompagnato, non solo nei monologhi ma, talvolta anche nei dialoghi. In alcuni casi il compositore opera una saldatura ‘organica’ tra le arie e i recitativi secchi che sovente, verso la fine, coinvolgono l’orchestra, mentre l’incipit del pezzo chiuso, attacca immediatamente, in uno stile di canto sillabico, più vicino alla declamazione che una vera melodia. Risulta fondamentale la concentrazione del dramma sulla vicenda umana, nel quartetto: Idomeneo- Idamante- Ilia- Elettra, e l’esplorazione, sia pur embrionale, dei loro conflitti interiori. La presenza della natura non più vista, come mera occasione di sfarzo scenografico, secondo i canoni della tragedie lyrique, ma come cornice di un dramma umano ( quello dei naufraghi nel primo atto, e della popolazione minacciata  dall’ira divina, alla fine del secondo): sono tutti elementi che pur nella comunanza di temi e di soluzioni formali, distaccano l’Idomeneo  di Varesco, tanto da Metastasio come da Calzabigi.

Eliminare il tagliente divario tra aria e recitativo, non significava per lui ribaltare il dramma in una sorta di solenne celebrazione rituale, ma tentare, invece, la rappresentazione in musica del continuum temporale e psicologico, in cui è immersa la successione degli eventi interiori ed esteriori  che costituiscono la vita umana. Tutto ciò manifesta una grande genialità da parte del compositore.

A proposito della seconda aria di Ilia (II, 2), Mozart dichiara di voler scrivere un’aria che scorra molto naturalmente, in un diverso rapporto tra musica e poesia. Mozart non sente le strofe del testo, come rappresentazione di affetti colti nella loro universalità, ma interpreta la singola parola, componendo l’aria, attraverso una continua sfaccettatura dello stile vocale e strumentale. Questo nuovo rapporto col testo nasce da una mentalità nuova e dal tentativo di trapiantare  nell’opera seria, ciò che l’opera comica italiana stava coltivando da parecchio tempo: la rappresentazione in musica della vita che scorre. L’opera è basata tutta sulla rappresentazione  di un continuum narrativo, psicologico, sentimentale, ossia l’opposto del teatro metastasiano. L’Idomeneorappresenta inoltre, in modo lampante, la dialettica tra conservazione e innovazione, che caratterizza in quegli anni le scelte poetiche  e musicali del melodramma serio. Non la tragédie lyrique, ma l’opera buffa italiana, fornirà al teatro musicale le strutture adatte per stringere sempre più, il rapporto tra musica e azione drammatica, uscendo dall’ambito dell’estetica razionalistica e spalancando le porte, alla successiva esperienza del melodramma romantico.

 

 

Caterina Carusone


 

 

Charles Burney 

                          “Amo la musica ma ancor più amo l’umanità”

 

Gli studi musicologici, di storiografia musicale e di teoria musicale, esigono oggi come nel passato un alto grado di competenza e di specializzazione. La storiografia e la critica musicale, nata già con un certo ritardo rispetto alla critica letteraria, è rimasta per lungo tempo ad uno stadio primitivo, priva di metodologia rigorosa e di una solida tradizione a cui far riferimento. Charles Burney è stato tra i pionieri della storiografia musicale, e si può considerare uno dei fondatori della nuova disciplina. Burney è stato fra i primi studiosi di storia della musica, ad intuire di compiere un lavoro letterario o culturale in senso lato, relazionando la musica a tutte le altre attività umane, senza confinarla in un limbo accessibile solo a pochi specialisti. La musica è un elemento fondamentale nella storia della civiltà, a cui si collega attraverso mille ramificazioni. Burney ha sempre aspirato a rivolgersi ad un pubblico, il più vasto possibile, e non solo ai musicisti, ben cosciente di colmare con la sua opera una lacuna importante nella cultura del suo tempo. Come migliore testimonianza alla luce di queste aspirazioni vanno letti i suoi Viaggi musicali attraverso l’Europa, questo a rendere noto non solo, la sua ampiezza di interessi, il suo spirito aperto, la sua attenzione e sensibilità ad ogni aspetto del vivere civile, ma anche al suo gusto artistico, al suo amore per la musica e per tutte le arti.

La sua costante aspirazione era quella di far uscire dall’isolamento in cui la società del tempo tendeva a confinare il musicista.

Burney nel 1770, dopo aver consultato  i più grossi Autori storici, e dopo aver esaminato un incredibile numero di libri e trattati sull’argomento, provò un enorme disappunto e scrisse:

”E’ un caos, e Dio solo sa se avrò vita, tempo e capacità per porvi ordine. Vi sono connessioni con la religione, con la filosofia, la storia, la poesia, la pittura e la scultura, con le manifestazioni della vita pubblica e privata. Come l’oro che si può trovare in piccole quantità, persino nelle miniere di piombo e di carbone, così può accadere di trovare materiale di valore nei grossi e noiosi Autori, pieni di ruggine e di notizie superflue”. 

Poiché capì di aver bisogno, per procedere i suoi studi, di ricerche più dirette, nel Maggio del ’70 prese la decisione di volare verso l’Italia, e di soddisfare così la sua sete di conoscenza alla sua pura fonte. Il viaggio in Italia sarebbe stato fondamentale ed indispensabile, perché gli avrebbe permesso di procurargli sia nelle biblioteche e sia dalla viva voce degli studiosi, notizie relative alla musica degli antichi, e d’altra parte di potersi rendere conto di persona, ascoltando musica e conversando con i più eminenti musicisti italiani sulle condizioni attuali della stessa musica. Burney era un uomo moderno, curioso di tutte le manifestazioni della vita artistica contemporanea, che vede nel passato la preparazione dei tempi nuovi. L’Italia in quel tempo era considerata la patria delle belle arti e soprattutto della musica. Questo viaggio durò ben sei mesi, dal 7 giugno del ’70 sino al dicembre: la sua penna ci narra giorno per giorno, nel suo diario, gli avvenimenti di quel lungo  ed avventuroso itinerario. Venezia, Roma e Napoli sono le tappe più importanti del suo viaggio per le scuole musicali, Bologna, per la presenza di Padre Martini, il dotto storico di fama europea. I suoi viaggi musicali sono un’opera viva e significativa e rappresentano una preziosa testimonianza, sulla vita del Settecento, nei suoi aspetti non solo musicali, ma civili in senso lato. La vita di Burney rappresenta una immagine di operosità eccezionale, di una volontà energica, di una vastità di interessi non comuni. Egli predilige l’arte chiara, lineare, ben costruita, che parli al cuore di ogni uomo colto e raffinato. La sua stessa vita di studioso, dedicata alla ricerca di documenti per ricostruire la storia di questa arte, vista in una prospettiva di costante progresso è già una vivente testimonianza dell’aspirazione a riscattare la musica dall’oblio storiografico, in cui era stata lasciata sino ai suoi tempi. La musica è per Burney una funzione diretta della civiltà; la musica è un lusso, un ornamento della nostra vita talmente integrata al vivere civile da non poter essere disgiunta dalle altre attività umane, quali la politica, la religione, la filosofia, ecc.; eppur se può essere un innocente lusso, è necessaria alla nostra esistenza. Il credo critico ed estetico del Burney, è che la musica si appella ai nostri sentimenti, ed essi sono in una certa misura indiscutibili e irriducibili ad un ragionamento. Burney era legato per la sua formazione culturale a Hasse e Metastasio, sia per le sue naturali propensioni sia per il gusto, portato a preferire i valori sentimentali e passionali su di un piano bucolico e pastorale. La musica deve essere espressiva, senza superare certi limiti, oltre i quali rischia di uscire da quella norma di compostezza, di civiltà, di equilibrio che rappresentavano in fondo l’ideale musicale artistico del Burney, i suoi gusti musicali sono quindi tipicamente settecenteschi  e illuministici. Egli ha avuto il merito di aver inserito la musica nel tessuto vivo della cultura, facendola emergere dall’isolamento in cui era stata relegata dai teorici precedenti. Il significato della sua opera era di fare del musicista un umanista, di elevare al rango di uomo di lettere lo storico della musica, di ridare alla musica la sua piena dignità di arte, in piena indipendenza rispetto alle altre arti, e al tempo stesso elemento costitutivo e di non secondaria importanza allo svolgersi della civiltà umana, contributo essenziale al suo progresso.

 

                                                                                            Caterina Carusone

 


 

Lo Schiaccianoci 

 

 

Lo Schiaccianoci è un balletto in due atti e tre quadri, composto da Per Ilic Cajkovskij, sul libretto di Marius Petipa, la cui prima rappresentazione  fu eseguita il 18 dicembre 1892, nel Teatro Mariinskij di San Pietroburgo.  Il balletto racconta la storia di una bambina di nome Clara che riceve, tra i doni di Natale anche uno schiaccianoci, dall’aspetto grottesco di uomo, anzi di soldato, regalatogli dal suo padrino, il dottor Drosselmayer. Clara sente un’inspiegabile e intenso trasporto per quest’oggetto alquanto mostruoso, e quando scende la notte, la bimba sogna che il suo schiaccianoci è minacciato da un’orda di topi. Si scatena una battaglia violenta, la piccola corre in aiuto dello schiaccianoci; questi diventa all’improvviso un principe, che la porterà via in paesi incantati. All’alba il sogno svanisce e la bambina stringe a sé il suo schiaccianoci. Si tratta di una bambina vicina all’adolescenza con la paura, quella della vita adulta e dell’amore. Il padrino, e in parte, soprattutto lo schiaccianoci, sono il temuto e amato principe azzurro che la aspettano al varco, i topi sono l’incarnazione delle forze ostili e bestiali, e il sogno è la dimensione in cui la vita, forse la felicità sono possibili; vita e felicità che svaniscono all’alba, lasciando più che la speranza, l’angoscia. L’amore in un certo senso è sentito come un bene irraggiungibile, l’infanzia come un paradiso perduto, la realtà fitta di fantasmi ostili, da cui il sogno soltanto è capace di tirarci fuori, fino a sollevarci nel cielo di una idilliaca, perfetta letizia da favola. Lo Schiaccianoci è considerato, insieme con Il lago dei cigni (1895) e La bella addormentata nel bosco (1890), uno dei balletti fondamentali dell’Ottocento e di tutti i tempi. Anche se il libretto dello schiaccianoci è sempre stato criticato più o meno da tutti: ballerini, coreografi, critici e pubblico. Tutti hanno parlato della sua scarsa coerenza drammatica, della fragilità del racconto, della futilità della vicenda. Probabilmente il vero racconto di Hoffmann, non giustifica le pesanti accuse, mentre ne era certo più responsabile, l’impostazione coreografica narrativa di Petipa. Infatti sulla falsariga di Dumas, Petipa volle farne prevalentemente uno spettacolo bello e fantastico di Natale, adatto per grandi e piccini come piaceva alla corte di quell’epoca. Nello Schiaccianoci esiste una congiunzione di temi e di tinte espressive, dalle inflessioni crepuscolari, alla delicata nostalgia per l’infanzia, tale da farne l’opera più compiuta della maturità di Cajkovskij, ed anche forse il più sfaccettato e poliedrico dei suoi capolavori. Dono precipuo della partitura è il gioco dell’ambiguità e dell’intersecarsi del comico con il malinconico, dell’ingenuo e del fiabesco con una calibrata sapienza formale del momento decorativo e apparentemente divagante, con l’essenzialità della scrittura. E’ stato spesso osservato che queste caratteristiche si devono al modo in cui Hoffmann si adopera nel racconto, in cui il bizzarro e complicato intreccio mal si prestavano a una traduzione teatrale, e che la coreografia del balletto rimase, nell’ambito della trilogia, senz’altro quella più travagliata, soggetta a ripensamenti e a nuove versioni che hanno lasciato incerti, sulla sua forma originaria. Ma queste debolezze, per quanto influiscano sull’esito complessivo della drammaturgia, non hanno potuto inficiare la compiutezza  e l’interna perfezione della musica. Lo Schiaccianoci risulta fantastico per la sua efficacia nell’instaurare un’atmosfera teatrale che resterà peculiare, specifica e irripetibile, quella che Verdi chiamava appunto, con icastica espressione, ‘la tinta dell’opera’. Tale impronta pervasiva e dominante nello schiaccianoci balza all’attenzione con felice continuità, a differenza del lago dei cigni o della bella addormentata , dove essa emerge soprattutto nei grandi squarci sinfonici e nei momenti culminanti della trama. Sotto il tratto di una apparenza nostalgica, l’ultimo balletto di Cajkovskij, si distingue anche per una nota di modernità, che consente di incorporare le componenti mimiche nel flusso più vivo della vicenda; inoltre già si annuncia l’oggettivismo, ovvero il distacco dall’espressione viscerale del sentimento, di cui testimonia la netta avversione del compositore per Wagner, e che invece troverà i suoi immediati proseliti in Stravinskij e, nel balletto, in Balanchine. Cajkovskij avvia una apertura al futuro in cui vi è ancora una visione classicheggiante dell’arte, e inizia un sereno distacco, forse di consapevolezza, del tramonto di un mondo ottocentesco, in lento declino, quanto ai suoi valori e alle sue certezze. Al di là della armoniosa grazia che pervade l’intera partitura, a esternarla nel repertorio anche sinfonico hanno contribuito i suoi lati sfuggenti, la sua risposta magica, l’incantesimo natalizio del bianco della neve che si estende su ogni cosa con la sua soffice confortevolezza, ma anche col gelo dell’inquietudine. Il mondo poetico dello schiaccianoci è diviso tra la nostalgia per una infanzia che volge alla fine e l’incertezza per una adolescenziale felicità del cuore, che resta nel vago di una primavera promessa. Il cuore della poetica di Cajkovskij è rimasto a volte solo sfiorato, per la sua eccessiva vicinanza alla fanciullezza, vista però non solo per un nostalgico ripiegamento, ma in quanto fase esistenziale ineludibile, supremo dei misteri; il presupposto stesso dello schiaccianoci ricalca  la paradossale vicinanza del mondo infantile  alla memoria dell’artista adulto, il suo essere certezza di radici, ma anche oscurità di origini. Questo territorio familiare  mai davvero esplorato fino in fondo come si conviene ad ogni paradiso perduto, ha una mappa ambigua, non ne potremo mai capire il segreto, ma appunto le sensazioni, i modi di una manifestazione che passa attraverso gli oggetti più che le parole: un linguaggio di oggetti (non più) quotidiani, che lasciano spiare di soppiatto qualcosa di noi stessi. Questo balletto è poesia, intesa come sensazione del mondo, che ha in sé un che di impreciso e sfuggente, ma che d’altro canto posa il suo influsso su qualcosa di ben riconoscibile attraverso le varie arti, per l’intima affinità tra gli artisti e le cose di cui si è nutrita la loro vita. 

 

 

Caterina Carusone


 

 

La città ideale

 

« FEDERICUS MONTEFELTRUS DUX URBINI MONTIS  FERITRI AC DURANTIS COMES SERENISSIMI REGIS SICILIE CAPITANEUS GENERALIS SANCTEQUE ROMANE ECCLESIE GONFALONERIUS MCCCCLXXVI »

 

La favolosa città ideale, cantata dai poeti è un luogo in cui si realizza il mito e si attua la vita conforme ai valori dell’antichità. Un desiderio di perfetta armonia si rispecchia nella bellezza astratta degli spazi geometrici, nell’essenzialità degli ornamenti, con le sue sale e le sue logge, con i suoi giardini pensili. Un occhio all’eternità e alla bellezza essenziale, quella che non cade con lo scrostarsi delle mura, né viene oscurata dalle polveri, né dai fumi. Se ogni opera d’arte è un invito a rivolgersi al passato, nel Palazzo Ducale di Urbino lo Studiolo a tarsie di Federigo da Montefeltro, costituisce un grande richiamo in quella direzione. Esso venne realizzato tra il 1473 e il 1476, da artisti fiamminghi sotto commissione dello stesso Duca. Ivi regnano tarsie, dipinti e vari libri: i piedistalli delle statue, le cornici dei quadri, segnano il distacco dal mondo di tutti i giorni a quello dell’illusione, qui l’illusione è totale e ci immergiamo nel passato. Quando ci siamo abituati alla calda penombra dorata, le mura cominciano a parlare: si mostra un elegante sfondo architettonico con lesene che incorniciano gli armadi, i libri e gli strumenti musicali e scientifici, armature e vari oggetti. L’illusione di profondità è così forte che è necessario fare uno sforzo per convincersi di essere di fronte a raffigurazioni bidimensionali ad intarsio. Federigo da Montefeltro, chiamato dai suoi contemporanei la ‘luce d’Italia’, era un uomo di Stato, guerriero, studioso, amante delle arti, versatile nell’incarnazione di doti pratiche, teoriche ed estetiche. Egli si avvicinava all’ideale di armonia degli antichi Greci, da lui ben conosciuta attraverso l’amato Aristotele. Nella sua residenza a Urbino, che era la più grande biblioteca del tempo, nella sua ricchezza, possedeva i cataloghi di biblioteche quali quella Vaticana, quella di San Marco a Firenze e quella di Oxford. Inoltre erano conservati tutti gli scritti sulla musica in greco e in latino allora conosciuti, oltre ai principali trattati medievali e moderni. Egli preferiva i manoscritti ai libri a stampa, e per molti anni impiegò dai trenta ai quaranta copisti, raggiungendo a volte una produzione di duecento manoscritti in ventidue mesi. Il significato dello studiolo è un’eccitante esemplificazione della nuova tecnica della prospettiva lineare, nonché un omaggio agli interessi e alle attività del duca.  Infine uno specchio della ricca vita intellettuale di una corte, di cui egli non solo era il capo illustre, ma anche il cuore palpitante. Si trovano molte raffigurazioni di armi, come simboli dell’arte della guerra di cui il duca era esperto padrone; la guerra al tempo di Federigo era un esercizio di pura forza, e veniva condotta come un’ arte intesa sia nel senso di abilità, ma soprattutto basata sulla scienza.

La moltitudine degli oggetti raffigurati nello studiolo sono simboli dell’intima confessione tra le arti del tempo e tra la natura profonda della stessa arte e delle scienze. Sia l’arte che la scienza nel Quattrocento, trassero la loro aspirazione da un solo forte impulso: la tendenza alla razionalizzazione, estesa a tutte le branche delle scienze naturali, con l’aspirazione a calcolare e governare la natura, stabilendone le leggi. La struttura di base della natura doveva essere trovata in semplici formule numeriche, quindi raffigurando correttamente la natura, speravano di catturarne i segreti. L’arte è la ricerca su la natura, l’artista uno scienziato sperimentale, i canoni della natura erano le regole di una reazione artistica corretta. L’arte era quindi una sorta di scienza, che si occupava delle relazioni basilari tra i fenomeni visivi e sonori. Vi è ancora, una sorprendente varietà di strumenti musicali, la musica è presente sotto diversi aspetti nell’interno palazzo, attraverso la decorazione, e compare in tutte le sue vesti, come suono, canto, e danza di festa, come arte del quadrivio, come armonia superiore e come sapienza, e ognuna è nient’altro che un aspetto della musicalità ducale, che si esprime nelle sue attività di patrocinatore attento, di studioso, di perfetto governante. Si notano putti musicanti che volteggiano fra nastri e strumenti musicali sul soffitto della camera della contessa, e nei corridoi altri angeli vi sono, che suonano la tromba quasi ad evocare e ad accentuare l’impressione, di procedere lungo un percorso trionfale, evocando gli ingegni che animavano le feste del tempo.

Troviamo Apollo e Minerva rappresentati come tarsie delle porte che introducono all’interno del Palazzo; l’immagine di Apollo è la personificazione dell’armonia che regola e sovrintende ogni azione ducale, è quella di un musicista che trae accordi dalla lira da braccio, circondato da muse musiciste, che rendono esplicita la loro identificazione con le sfere, e richiamano l’armonia del mondo. Le figure musicali e dunque la musica, rivestono un ruolo determinante  nel comparire a tutti i livelli dell’intarsio: ‘musica ad omnia se extendit’. L’arte include l’essenza del mondo, Leon Battista Alberti, che aveva intrattenuto con la corte di Urbino rapporti intensi e continui, afferma che all’esatta bellezza, si perviene estraendo dalla natura le regole (leggi) che determinano la costruzione proporzionale dei corpi visibili e dei suoni.

 

 

Caterina Carusone


 

 

La musicologia nell’ambito interdisciplinare 

 

 

Negli anni Settanta e Ottanta, molte università americane iniziano ad incoraggiare progetti interdisciplinari tra le varie materie, contribuendo ad una fioritura di convegni e seminari tra studiosi di diversa estrazione scientifica, con lo scopo di favorire una dialettica disciplinare. E anche se la natura della musicologia si basa sul pluralismo dei metodi e sulla necessità di confronto, e dell’integrazione fra componenti, per una indispensabile verifica delle possibilità di dialogo ai processi di comprensione del presente e del passato, non vi fu in quel periodo un interscambio culturale e metodologico da parte di altri studiosi. Pur risultando di fondamentale importanza il rapporto tra storici culturali e storici della musica. Il Novecento è definito il secolo della rivoluzione storiografica, nata in ambito francese e poi diffusasi progressivamente, tale rivoluzione  ha profondamente mutato il concetto di storia e di cosa possa essere considerato oggetto di studi storici. Le riviste culturali di tale periodo, iniziarono a dare una notevole diffusione di varie opere, essendo mezzi di comunicazione principali, e inoltre le traduzioni in varie lingue furono enormemente utili nel processo evolutivo della storiografia. Nacquero nuovi storici  che favorirono l’integrazione fra le storie speciali e sollecitarono l’attenzione verso la letteratura e l’arte, ma lasciarono quasi intatto il territorio musicale. In egual modo in Italia, agli inizi degli anni Ottanta, vi fu una diffusione delle tradizioni dei classici della nuova storia e il lavoro dipartimentale universitario favorì la dialettica disciplinare. Nell’ambito di tali attività a vocazione interdisciplinare le nuove tendenze di storia della cultura, aperte a tutte le pratiche umane e non limitata invece alle sole discipline artistiche come le arti figurative, la musica, il teatro, la danza, furono particolarmente fruttuose nel corso del tempo, nel progettare e sviluppare percorsi di ricerca alternativi attorno al soggetto di studio. Sicuramente oggi il nuovo concetto di storia della cultura, le intersezioni con le scienze umane, e il moltiplicarsi delle possibili sedi di dialogo interdisciplinare, sono significative nella ricerca storica, ma in rapporto alla musicologia si evidenzia una notevole passività. Anche se la fioritura di centri di ricerca musicale su tutto il territorio nazionale, specialmente nell’ambito universitario ha dato un notevole consolidamento delle discipline musicologiche, e le attività impegnate in tale settore sono andate sempre crescendo, al pari delle riviste specializzate, e delle iniziative editoriali di interesse nazionale. A tal proposito basta citare la Società italiana di musicologia, fondata nel 1964, che ha raddoppiato il numero dei propri soci, passando dalle circa quattrocento unità degli anni Ottanta, alle ottocento di oggi, e ha progressivamente ampliato le proprie attività editoriali e di ricerca. Quanto all’istruzione universitaria, basti osservare che se nel 1981 il numero di docenti di discipline musicali stabilmente impiegati in università italiane contava circa cinquanta unità, nel 1993 era raddoppiato. L’aumentata presenza della musicologia nelle istituzioni italiane e il maggior numero di specialisti impegnati al livello professionale in attività di ricerca ha determinato, come è nelle ragioni della storia, confronti molto accesi, e a volte contrapposizioni, anche perché si sono  moltiplicate e qualificate le occasioni di confronto. Tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, con un certo ritardo rispetto alla musicologia anglo-americana, in Italia vi è stata una stimolazione di un ampio e sistematico ripensamento teorico della disciplina, dei metodi e degli strumenti della ricerca, oltre ad una ispirazione verso nuovi filoni di indagine. Il 1990 segna la data di un importante convegno, Tendenze e metodi nella ricerca musicologica, in cui è stato documentato l’interesse per la riflessione critica sulla natura e sui limiti della scienza musicologica, inoltre venne rilevata una enorme esigenza di confronto con la cultura anglo-americana, quest’ultima avvantaggiata da molteplici saggi e volumi di compendio. Questo convegno sancì chiaramente il progresso dell’etnomusicologia e della musicologia sistematica, oltre a far emergere indagini sul rapporto musica e parola, fra interpretazione musicologica e psicoanalisi, fra esperienza musicale e psicologia, oltre a mettere in luce problematiche peculiari nello studio della ‘popular music’ e della ‘musica contemporanea’. Da qui consegue l’inevitabile consanguineità tra la storia della musica e la storiografia in generale, e il rinnovamento per l’invito alla contestualizzazione del fatto musicale e alla sua interpretazione, almeno intenzionalmente totale. La musicologia come disciplina analitica e critica pone il suo sguardo anche al rapporto fra l’individuo e la società, e dunque, fra il momento compositivo individuale e l’insieme delle norme musicali delle componenti storico- sociali, che costituiscono il sistema produttivo, con il quale il singolo compositore si relaziona. Si ritengono indispensabili anche le fonti diverse dal testo musicale come carte contabili, i giornali, i carteggi, i libretti, i materiali scenici, i documenti degli uffici di censura, i dati sull’industria editoriale e sull’organizzazione dei teatri. Al prolifero  settore delle cronologie teatrali e delle cronistorie di  singoli teatri si aggiungono l’esplorazione di nuove fonti e di aggiornate metodologie interdisciplinari, alla ricerca dell’inespresso e di quanto i testi musicali non possono dire, come le fonti diacritiche e l’indagine archivistica. Gli storici della musica più avveduti hanno conquistato la consapevolezza che i loro studi, raffigurando da un particolare punto di vista i processi musicali sul piano della composizione (poesis) e dell’esecuzione (praxis), non spiegano in forma definitiva la musica. La ricerca storica non può sempre condurre al cuore della creazione artistico- musicale, poiché tra la necessità della storia e le risposte leggibili nella musica stessa, esiste un abisso dell’individualità, una zona oscura che solo l’esercizio del più fine, aperto, ma anche specialistico sforzo interpretativo, può tentare di rischiare. Da questi tentativi a volte riusciti, possiamo trarre una moderata fiducia nella possibilità di una conoscenza storica e nella salvezza della musicologia storica.

 

 

Caterina Carusone


 

 

                                POPULAR MUSIC E MUSICA COLTA

 

 

 

 

 

Esiste una differenza tra la popular music e la musica colta, concepita in livelli di valori indipendenti l’uno dall’altro. Per comprenderne le radici bisognerebbe effettuare un’analisi storica, ma poichè la musica popular si basa sulle funzioni affettive del suo stato attuale, è preferibile procedere alla caratterizzazione del fenomeno stesso così come si presenta oggi, piuttosto che ricondurlo alle sue origini. La caratteristica fondamentale della musica popular è la standarizzazione che consiste nella ripetizione continua dello stesso motivo, formato da poche battute e con un’estensione di al massimo un’ ottava ed una nota. Le canzoni di successo come le hits, hanno un collegamento alle melodie ‘rassicurante’, come le canzoni della mamma, le filastrocche per bambini, ossia seguono tutte, nell’inizio e nella fine di ogni loro parte, uno schema standard. Questo meccanismo garantisce che la canzone di successo, conduca alla stessa esperienza familiare e non introduca nulla di nuovo, affinché nulla possa turbare il ‘consueto’.

Colui che analizzò per la prima volta la musica popolare, fu il filosofo tedesco Adorno, figura di spicco della cosiddetta scuola di Francoforte, movimento di studiosi che ha prodotto uno dei capitoli più impressionanti della storia intellettuale del 900. La musica popolare è legata secondo il suo pensiero alla ‘massa‘, e il termine massa derivato dal greco pane, ma riferito anche al verbo impastare, sottolinea in un certo senso l’adattabilità, la malleabilità a qualsiasi forma. Codesto pensiero è presente anche nel sociologo Daniel Bell, il quale si è occupato di varie teorie della società di massa, constatando che tale pensiero sulla massa era presente anche nel periodo di Aristotele, il quale in un passo tratto dalla sua Politica, esprime la sua diffidenza verso la moltitudine. Anche Sant’Agostino parla di una massa dannata, indicando quella gran parte dell’umanità priva di virtù spirituale. Le grandi folle, per l’etnologo e psicologo Le Bon, erano il risultato di un arresto del processo evolutivo, che tendeva a riportare la società verso gli stadi più antichi della sua evoluzione e disgregava la cultura. Adorno affermava che le abitudini di massa si fondano sul riconoscimento, ossia la ripetizione produrrebbe l’accettazione attraverso quel processo psicologico che è il riconoscimento. Il fattore del riconoscimento rappresenta a sua volta,  una delle funzioni basilari della conoscenza umana, e svolge un ruolo importante anche nella determinazione del senso musicale della musica colta, ma il processo che avviene in quest’ultimo è diverso. Tutti gli elementi riconoscibili (tonalità, formule melodiche, modelli armonici), sono organizzati nella musica colta, da una totalità musicale unica e concreta, da cui essi ricavano il loro significato particolare, nello stesso senso in cui una parola di una poesia, deriva il suo significato dalla totalità della composizione poetica, e non dall’uso quotidiano di quel termine, anche se tuttavia, è il necessario presupposto di ogni comprensione della poesia. Il senso musicale di ogni brano può, quindi essere definito come la dimensione che non dipende solo dal riconoscimento, ma che è costituito dalla spontanea connessione di elementi noti, in modo da esprimere la novità propria della composizione, qualcosa che non può essere ricondotto e riassunto sotto la configurazione del già noto, ma che sgorga da questo. Il complesso delle parti correlate crea quindi la percezione di originalità e novità della composizione. Questa relazione tra ciò che è riconosciuto e ciò che è nuovo, viene a mancare nella musica popular. Se nella musica colta, la comprensione è l’atto attraverso cui il riconoscimento universale porta all’emersione di qualcosa di nuovo. Nella popular music invece, comprensione e riconoscimento vengono a coincidere, in un processo che non è più un senso per catturare il senso musicale, ma che diventa fine a se stesso. Nella musica seria, anche l’evento più semplice esige uno sforzo per catturarlo nell’immediatezza, a differenza della musica popular che non chiede sforzo di seguire il suo flusso concreto, poichè offre gli stessi modelli a cui si riconduce. Adorno riteneva che la musica debba essere messaggio di verità, e quindi una produzione artistica che si configura nell’arte d’avanguardia deve possedere la capacità critica di un contenuto reale. Da questo punto di vista nell’arte significativa, verità ed estetica si fondono all’interno della struttura musicale. Josè Ortega nella sua opera La ribellione delle masse, spiegava il successo di Mendelssohn contrapposto all’avversione verso Stravinskij e Debussy  in relazione al fatto che i musicisti romantici, in generale, riescono a soddisfare e ad esprimere i sentimenti degli uomini medi, al contrario dell’arte moderna più complessa, che invece non è comprensibile all’uomo medio. Una visione che non mira a definire l’arte difficile, bensì ad evidenziare come quest’arte in realtà sia per pochi.

 

 

 

Caterina Carusone


 

 

 

 

STABAT MATER

 

 

Nell’avvicinarsi alla Santa Pasqua, non si può non ricordare la sequenza dello ‘Stabat Mater’, che viene di solito eseguita durante la Via Crucis.

Immergiamoci nel passato, era la fine del IX secolo, ed un monaco dell’abbazia svizzera di San Gallo, Notker Balbulus (che significa balbuziente), scriveva: “Quando ero ancora giovane e le melodie molto lunghe sfuggivano alla mia piccola testa, nonostante le affidassi ripetutamente alla memoria, cominciai a ragionare fra me e me, su come potessi costringerle a rimanervi. Nel frattempo capitò che un monaco proveniente da Jumièges – recentemente devastata dai Normanni- venne presso di noi, portando con sé il suo antifonario, nel quale erano stati applicati alcuni versi” ai lunghi vocalizzi sulla sillaba finale degli Alleluia. “Ad imitazione di ciò, cominciai a scrivere Laudes Deo concinat”.

Questo documento ci offre la testimonianza di un altro prodotto dell’epoca di Carlo Magno: i tropi e le sequenze.

Infatti il periodo carolingio non vide solo l’incontro e la fusione della tradizione liturgico-musicale romana con quella della chiesa dell’oltralpe, ma anche  l’azione riformatrice dello stesso Carlo Magno nel settore dell’insegnamento, che ebbe come immediata conseguenza il sorgere d’una importante civiltà monastica. I grandi monasteri con le loro scuole, i loro scriptoria e i loro atéliers d’arte furono i centri promotori d’una intensa attività creativa che trovava nella liturgia l’ispirazione prima e alla liturgia offriva copioso arricchimento.

I tropi consistevano nel ‘farcire’ (la parola ‘tropo’ vuol dire proprio ‘farcitura’) di parole i lunghi melismi privi di testo che facevano parte di alcuni canti, in modo che ad ogni nota del melisma corrispondesse una sillaba del nuovo testo.

Un tale espediente, come narra Notker, agevolava di molto la memorizzazione delle melodie; in tal modo

ciascuno può sperimentare da sé che è più facile imparare a memoria una musica con le parole, piuttosto che un vocalizzo senza testo. Tale testo aggiunto, legato alle parole del canto originario, produrrà un’amplificazione. Lo stesso canto gregoriano è l’amplificazione della parola latina e i tropi e le sequenze sono a loro volta un’amplificazione del canto gregoriano.

I tropi potevano consistere anche nella semplice aggiunta di un nuovo melisma, oppure nell’inserzione di nuove frasi complete di parole e musica, per amplificare il canto di partenza, a volte anche prolungandolo in modo da adattarlo alle maestose celebrazioni delle grandi abbazie. Le sequenze che all’origine erano le ‘prose’ dei melismi degli Alleluia, divennero col tempo composizioni completamente autonome in poesia. Tali forme ebbero una grande evoluzione sotto la spinta della novità ed anche per un’innegabile rispondenza  agli ideali artistici dei secoli XI-XIII. Tra i primi centri di divulgazione, troviamo i monasteri di San Gallo e di San Marziale nel Limosino francese. Da San Gallo  essa passò in Germania e in alcuni monasteri dell’ Italia settentrionale. Ben presto la fioritura di sequenze si affermò  anche in Italia, in Spagna e in Inghilterra. Ma, con il Concilio di Trento, alla metà del XVI secolo furono aboliti tutti i tropi e le sequenze, solo cinque sequenze sono sopravvissute nell’uso liturgico fino ai tempi moderni. Per la precisione il Concilio di Trento consentì solo quattro sequenze: Victimae Paschali laudes (per la solennità della Pasqua), Veni Sancte Spiritus (per la solennità della Pentecoste), Lauda Sion Salvatorem ( per la solennità del Corpus Domini), Dies irae (per la messa dei defunti). Nel Settecento venne tuttavia reintrodotta la sequenza della Beata Vergine Addolorata ( Stabat Mater).

Lo Stabat Mater veniva cantata o recitata durante la Messa dei Sette Dolori della Madonna ( Festum septem  Dolorum Beatae Mariae Virginis) il 15 settembre. Oggi è ad libitum. La sua collocazione abituale e popolare è all’interno della preghiera della Via Crucis. E’ molto probabile che lo Stabat Mater sia stato scritto da Jacopone da Todi tra il 1303 e il 1306. Il testo consta di 20 strofe tristiche (dimetri trocaici di cui il terzo incompleto; il primo e il secondo rimanti fra loro); esso rievoca il dolore della Madonna presso la Croce. Inizialmente il componimento fu senza una destinazione liturgica specifica, infatti lo Stabat Mater comparve solo nei libri di preghiera privati e successivamente nella Messa mariana. Ebbe molteplici redazioni e nella forma a noi nota fu più volte messo in musica da grandi compositori. I più celebri Stabat Mater sono quelli di: Josquin Desprès per coro a 5 voci; di Palestrina a 8 voci in due cori, notevole anche per la disposizione armonica delle parti, abbastanza rara in Palestrina e alla sua epoca; di A. Steffani per tre voci di tenore, due violini e basso continuo; di E. d’Astorga per coro a 4 voci con accompagnamento musicale; di A. Scarlatti che ne compose due, uno a 4 voci e l’altro a 2 voci con accompagnamento strumentale; di G.B. Pergolesi a due voci e orchestra; di G. Rossini per soli coro e orchestra; di G. Verdi per coro a 4 voci. Consiglio vivamente di ascoltare anche una sola esecuzione di queste citate; e concludo questo mio primo articolo augurando a voi tutti una serena Santa Pasqua, con questo messaggio: Il linguaggio misterioso e affascinante della musica è stato combinato con il linguaggio della fede, toccando il cuore dell’essere interiore dell’uomo. Quando vera, grande musica diventa preghiera, tocca l’inesprimibile”.

 

                                                                                              Caterina Carusone


 

 

 

 

 

 

L’ANTICO TEATRO

 

La parola teatro deriva dal greco e significa letteralmente ‘vedo’. Fu usata dai Greci fin dal principio, per designare sia la gradinata dalla quale si contemplava  la rappresentazione drammatica, sia la massa del pubblico che s’assiedeva. Successivamente arrivò a significare l’opera – letteraria, o musicale – da rappresentarvi. Il Teatro si rivolge per natura sua, ad una collettività e dunque in un senso lato potrebbe definirsi: la comunione d’un pubblico con uno spettacolo vivente; il suo carattere fondamentale è quello d’essere offerto ad una collettività. Non sono teatro le pellicole fotografiche che, elaborate una volta per sempre fuor della vista del pubblico e definitivamente affidate ad una macchina come quella del Cinema, potranno essere proiettate sopra uno schermo, tutte le volte che si vorrà, sempre identiche, inalterabili e insensibili alla presenza di chi le vedrà. Il Teatro vuole l’attore vivo, che parla e che agisce scaldandosi al fiato del pubblico; vuole lo spettacolo senza la quarta parete, che ogni volta rinasce, rivive e rimuore fortificato dal consenso, o combattuto dall’ostilità degli uditori partecipi, e in qualche modo collaboratori. E’ l’impossibile impresa di tradurre in concreta realtà il sogno, è dove il Verbo prende carne, e dove quindi madre e sovrana è la Parola. Proprio al contrario del Cinema, il quale essenzialmente è Visione, commentata dalla parola, il Teatro drammatico è Parola commentata dalla visione. Anche la parola dramma viene dal greco ( drao, opero, agisco); e continua tuttora, come presso gli antichi, ad adoperarsi per designare, in senso ampio, qualunque forma letteraria destinata, in pratica o nell’intenzione, alla rappresentazione scenica: sono drammi, genericamente parlando, la Tragedia e la Commedia, la Sacra Rappresentazione e la Farsa, la Parade e il Sainete, la Moralité e il Vaudeville. Ma conviene aggiungere che, nell’infinita varietà di queste forme drammatiche, un carattere comune permane al fondo di tutte: quello di rappresentare, comunque, un conflitto. La Tragedia lirica ch’era alle origini, diviene drammatica solo quando Eschilo si decide ad introdurvi, accanto all’unico attore monologante usato dai suoi precedessori, un secondo attore: per litigare bisogna essere in due. Sarà un conflitto spirituale fra più eroi che s’urtano perchè viventi ciascuno nella sua propria, irriducibile legge ( è stato detto che il vero Dramma è quello in cui “tutti hanno ragione”). Il più iconoclasta degli autori moderni, Bernard Shaw, dopo aver sovvertito tutte le cosiddette “leggi” del Dramma, dirà nella prefazione del suo primo volume di commedie : ” Non c’è Dramma senza conflitto.” E dirà ancora: “E’ il Dramma che fa il Teatro, e non il Teatro che fa il Dramma.”

La nascita della Tragedia avviene in alcune delle piccole e pettegole cittadine greche; come i nostri capoluoghi di provincia; e son quindi venute al mondo Filosofia e Poesia, Arte e Teatro, da dispute di gente a  passeggio per quelle piazze o sotto quei portici; sono state formulate le soluzioni fondamentali dei massimi problemi dello spirito umano; dalla parola modulata ritmicamente, o dalla contemplazione dei corpi giovanili esposti negli agoni sportivi, poeti e artisti hanno scoperto i segreti dell’eterna armonia.

La tradizione attribuisce la prima rappresentazione tragica a un poeta, Tespi, figlio di Temone, da Icaria nell’Attica. Sarebbe stato lui a comporre, nel 534 avanti Cristo, per le Grandi Dionisiache organizzate ad Atene da Pisistrato, il primo dialogo fra un Coro e un attore, che via via rappresentava più personaggi. S’è raccontato che Solone assistendo allo spettacolo se ne scandalizzò, e chiese all’autore-attore come mai non si vergognasse di fingere, di ‘mentire’ a quel modo: primo fenomeno, per quanto ne sappiamo, del sospetto morale che circonderà, in molti paesi e in molte civiltà, il Teatro e specialmente la persona dell’attore ( e si pensi anche al senso traslato che poi assunse il vocabolo, con cui l’attore era stato designato, ‘hypocritès, il quale da ‘risponditore’ arrivò a significare ‘ipocrita’). Allora Tespi avrebbe lasciato Atene mettendosi in giro a dare spettacoli per i borghi dell’Attica, con una sorta di palcoscenico mobile, fornito di ruote: il carro di Tespi. Dei suoi componimenti si ricordano alcuni drammi composti per divertimento: ‘Le gare per Pelia’, ‘I sacerdoti’, ‘I giovinetti’, un ‘Pènteo’. Ma furono tutti perduti. Contemporaneo di Tespi fu Chèrilo d’Atene, che compose tragedie della stessa struttura, si ricorda il titolo di una sua: ‘Alope’. Pràtina da Fliunte, dello stesso secolo, fu pure autore di tragedie, lui creò il Dramma satiresco. Pare che, oltre l’unico attore, Pràtina mettesse in scena a contrasto due Cori. Contemporaneo e precursore di Eschilo fu Frìnico di Atene. A costoro segue Eschilo, che introduce sulla scena un secondo attore. E’ da questo momento che la Tragedia si svolge, non soltando fra l’eroe e il Coro, ma anche e principalmente fra gli eroi in scena. E cioè diventa Dramma.

Giunta a tal fine, di codesti brevi accenni, di uno dei più affascinanti mondi della cultura antica, mi sovvien alla mente, Marius Schneider, musicologo tedesco, il quale afferma nel suo libro ‘ La musica primitiva’, Adelphi 1992, alla pagina 37: – “A seguito di questa evoluzione provocata dal demiurgo, gli uomini persero i loro corpi sonori, luminosi e trasparenti, e cessarono di librarsi nell’aria. Divennero pesanti e opachi, e allorché cominciarono a mangiare i prodotti della terra, la loro natura acustica si attutì a tal punto che rimase loro soltanto la voce.”

 

 

Caterina Carusone


 

 

 

 

 

“E’ nato il nuovo Liszt!” 

 

 

 

 

Vent’anni fa, il 12 Giugno del 1995, scompare Arturo Benedetti Michelangeli, uno tra i migliori geni che il pianoforte abbia conosciuto. Aveva 75 anni, e dagli anni ’70  viveva in Svizzera, dove conduceva una vita ritirata e schiva, anche se la sua carriera musicale lo aveva portato in giro per il mondo.

Nacque a Brescia nel 1920, in un ambiente caratterizzato da un vivo interesse per la musica, e qui il piccolo Arturo inizia a studiare il pianoforte all’età di tre anni. Nel 1920 si diploma al Conservatorio di Milano sotto la guida del Maestro Giovanni Anfossi. All’età di 19 anni vince il Concorso internazionale di Ginevra; in questa occasione il direttore d’orchestra e pianista  Alfred Denis Cortot, membro della commissione, esclama: ” E’ nato il nuovo Liszt!”

Di seguito insegna al Conservatorio di Bologna nel 1939, successivamente nel 1945 si trasferisce al Conservatorio di Venezia e infine nel 1950 al Conservatorio Claudio Monteverdi di Bolzano, fino al 1959.

Michelangeli lascia l’Italia nel 1968, dopo aver subito un affronto, o almeno lui pensava così; dopo il fallimento della casa discografica BDM, di cui egli stesso era membro fondatore, gli misero sotto sequestro tutti i beni. Questa vicenda ferisce immensamente il suo orgoglio, anche perché la notizia diviene subito di pubblico dominio.

Si trasferisce dapprima a Zurigo, poi nel Canton Ticino, e dichiara pubblicamente di non voler mai più suonare in Italia. Nel 1979 si trasferisce a Pura, vicino Lugano.

In Italia non tornò più, se non per rare occasioni, come il concerto a Brescia in memoria di Paolo VI.

Il Corriere della Sera, per ironizzare sulla sua venuta in Italia, intitolò l’articolo: “Michelangeli suona a Brescia, ma non in Italia!

Per quell’evento furono portati ben quattro pianoforti della Steiner di Amburgo, e il tecnico Angelo Fabrini rimase a dormire nel teatro per la preparazione degli strumenti, poiché il Maestro non si decideva nella scelta.

Michelangeli aveva un’ esigenza notevole e maniacale della preparazione del pianoforte. Esigeva dagli accordatori delle cose quasi impossibili e che poi alla fine, risolveva soltanto lui. Sulla sua eccentricità circolano tante storie e leggende: concerti annullati all’ultimo momento, con la sala piena, perché il pianoforte non era ben accordato o c’era troppa umidità e cose simili.

Per tal ragione dire chi fosse  Arturo Benedetti Michelangeli è molto difficile. Sicuramente si può affermare che era un personaggio complesso e complicato, con aspetti di contrapposizione negli elementi del carattere, oltre che di incoerenza nei comportamenti; era una persona che poteva essere di estrema gentilezza e di estrema scortesia al limite del sadismo. La moglie recentemente scomparsa, affermò che Michelangeli era un discendente di Jacopone da Todi. Tale affermazione è indicativa sia nel carattere che nell’aspetto fisico del pianista, il quale mostrava effettivamente qualcosa dell’  “antico aristocratico“: alto di statura, slanciato, di aspetto severo, in lui si vedeva l’isolamento del potente, il misto di cortesia e alterigia, oltre l’inflessibilità nei comportamenti.

I suoi trionfi vennero conquistati attraverso una perenne ricerca della perfezione, di una perfezione che si collocava al limite estremo, quasi oltre le capacità umane. La sua vita fu gloriosa e tormentata, in una continua battaglia per superare se stesso.

Tutta la sua vita si è svolta all’insegna della rarità, della sobrietà, nella parsimonia nell’apparire, anzi, quasi nel non apparire.

E’ stata la sua suprema nobiltà, e anche la sua suprema rinuncia.

La sua vicenda di artista è stata molto complicata e sofferta; una ragione a riguardo può essere data analizzando sia il contesto storico del periodo giovanile, che l’ambiente di formazione artistica. E a tal proposito cito i due Maestri di cui Michelangeli è stato allievo: Paolo Chimeri e Giovanni Anfossi. Nel periodo della sua formazione musicale quindi, circa negli anni venti, in Italia ci fu una rivoluzione del rigetto del tardo- romanticismo e del simbolismo, con la nascita del neoclassicismo. I Maestri di Michelangeli erano della generazione romantica, e non di quella che si apprestava a fiorire. Negli anni trenta i leader della produzione musicale erano i cinquantenni come  Artur Schnabel e Edwin Fischer; mentre la vecchia generazione stava tramontando. Michelangeli non ha studiato con la nuova generazione, che in quell’epoca erano i massimi esponenti, ma ha studiato con due persone che avevano oltre settant’anni, e appartenevano alla precedente generazione, quella nata verso il 1840 al 1880. Quindi la sua formazione è rimasta in un certo senso legata ad ottimi docenti, ma portatori di una cultura ormai al tramonto. Lui si è presentato sulla scena come inattuale, perpetuando  una poetica ed un’ estetica che erano ormai lontane, trasformandole in manierismo. Rileggeva sotto l’aspetto manieristico un qualcosa che non c’era più, risultando inadeguato alla nuova corrente e ai nuovi stimoli musicali. Questa evidenza lo mise in crisi, al punto di cercare con tutti i mezzi di avvicinarsi ai canoni neoclassici, in questo modo giunse ad una sintesi fra il suo rispetto maniacale per il testo e il suo istinto di artista. La sintesi risulterà annuncio del genio post-moderno.

I suoi cavalli di battaglia erano: Il concerto per pianoforte in sol maggiore di Raverl, Lo scherzo in si bemolle di Chopin, La Sonata in si minore di Chopin, Le Images di Debussy, e tanti altri ancora. Il compositore sul quale si è impegnato di più è stato Debussy poiché su di lui ha continuamente ampliato il repertorio.

Caratteristiche fondamentali delle sue esecuzioni: la melodia è scolpita e l’accompagnamento è lontanissimo, mormorante, ma perfettamente udibile.

Inconfondibile elemento del suo stile è il cantabile; le melodie vengono rese in modo nettamente vocalistico, con attese, sospensioni, smorzature, sbalzi di dinamica, accelerazioni in vicinanza del punto culminante e successive, distensive decelerazioni. La sua perfezione lo portava ad affermare che una vita a mala pena basta per fare bene una cosa sola! Si distingueva per la sua fragilità meravigliosa. E quel suo sorriso veloce, sembrava voler sfuggire a se stesso, dileguandosi già mentre appariva, era il suo pudore nobilissimo.

 

 

                                                                                           Caterina Carusone