Caterina Novak - Poesie e Racconti

Pensieri ad alta quota

Ad alta quota dall’aereo
osservo la beltà della natura
che a me si offre generosa
in tutta la sua gloria
Ammiro il cielo
tra gli ondeggianti nembi azzurri
che si rincorrono l’un l’altro
giocando a rimpiattino e
celando al mio sguardo un
grande segreto.
Allora finalmente riposano i pensieri
In quella infinitezza
pura e grande
In quella pace
che allarga gli orizzonti della mente
ed apre il cuore
allo spazio e alla luce
Chiudo gli occhi
Vorrei ali d’argento per raggiungere il Sole
e confondermi fra i suoi pianeti
per volare sugli alti monti
e lasciarmi abbracciare dalla vita
senza più fuggire
Lì nell’aere rassicurante e morbido
placherò
il mio spirito inquieto
E comprenderò
il silente linguaggio
degli aironi
Tra queste nubi
trasparenti e serene
un giorno passeggerò gioiosa
respirando la brezza del mattino
E scioglierò per sempre
l’Eterno enigma
che esso riserva
a quanti ricercano
la Vera Sapienza.

 


 

 

L’amico alato

Se alzi lo sguardo verso la grande quercia
all’imbrunire
nell’arida campagna autunnale
Puoi scorgere un’ombra minuta
cercar riparo tra i nodosi rami
È il monologo sommesso
di un passerotto
tremule note vibranti nell’aria
armoniosa tenera ascesi
di chi sa rallegrarsi di poco
Al Padre innalza il suo canto
cinguettio leggiadro,
serale innocente prece
fatta di confidenza e d’abbandono.
Su noi mortali essa discende quale invito
ad un amore illimitato e puro.
Godi nell’intrecciarsi di quei suoni
argentini e vivaci
appena sussurrati
in un delicato melodioso susseguirsi
L’anima vola in alto
per raggiungere i graziosi accordi
dell’amico alato
e unirsi a lui nella notturna lode.
Un raggio di luna entra nel cuore
sommesso come il canto del piccolo compagno
Tutto è vivificato dal luminoso scintillìo
E tu gioisci eternamente
di non possedere altro
che il Cielo.

 


 

 

La brughiera

Camminando nella deserta brughiera,
tra le eriche e le viole
irrorate dalla brina
ho scoperto
fra i ghiacci del mattino
imponderabili momenti di pace
Corrono i coniglietti dal muso nero
E scompaiono rapidamente
Tra gli arbusti innevati
Mentre i gufi grigi
si nascondono nelle loro tane
scavate nei tronchi
in attesa della notte
Percorro chilometri
di aspri sentieri
in cerca di un riparo
L’alto montagna che mi attende
dista ancora molti e molti passi
A varcarla mi dirigo
Lieta e fiera
Null’altro porto con me
se non il mio sorriso
e un sorso d’acqua
La mia bisaccia è leggera

 


 

La fata dei sogni

Questo libro è fatto per tutti coloro che credono che la terra non sia l’unico posto dove imparare a vivere. Ci sono tanti altri pianeti, tanti altri mondi con cui comunicare. Esiste un Universo meraviglioso col quale possiamo confrontarci e dal quale possiamo attingere pensieri ed energie positive. Esso è pieno di creature diverse, con altri stili di vita, con altre risorse e capacità come ad esempio quella di volare anziché quella di camminare o di guidare l’automobile, che possono comparire e scomparire a loro piacimento. Questa realtà invisibile ci circonda e quando meno ce lo aspettiamo può intervenire nella nostra vita lasciando una traccia, un piccolo segno che ci ricordi sempre che qualcuno ci ama e ci ha amato per primo di amore infinito ed eterno.
Nello spirito di Amore dell’Universo le Fate hanno un posto privilegiato. Esse hanno in serbo per noi tanti doni ed ammaestramenti utili. Ma chi sono questi esseri fantastici? Li conosceremo meglio durante questo lungo avventuroso viaggio e scopriremo che è molto facile poter dire di averne già incontrata una sulla nostra strada. A tutti è capitato, in un momento di difficoltà, di trovare un aiuto, una mano tesa che veniva dall’ alto, da un mondo nascosto, lontano, misterioso, impenetrabile eppure reale, esistente e veritiero.
Le Fate hanno il dono di poter comparire sempre al momento giusto. Esse si rendono maggiormente visibili ai nostri occhi quando siamo bambini e la nostra fiducia nel Bene è ancora illimitata. Da adulti non ci accorgiamo più della loro presenza benefica e di tutti i segnali che vengono dal mondo invisibile. Esse, tuttavia, continuano a starci vicine, ad aiutarci, perché sono capaci di un amore più grande e disinteressato del nostro, lo stesso Amore che circonda l’universo, l’amore incommensurabile di Dio che tutto pervade nel suo abbraccio eterno.
Esse vengono inviate nel mondo per fare del bene e infondere pace, benessere e sicurezza alle creature piccole o grandi di tutte le specie viventi sotto il cielo, dall’ est all’ ovest dei deserti della terra.
Ma come poterle incontrare e conoscere? Come riuscire a fare amicizia con una di loro? Vi assicuro che non è difficile, basta rifugiarsi nella parte più profonda della vostra anima, laddove la speranza brilla ancora come una piccola lampada e ci indica un sentiero luminoso da percorrere.
Chiudete gli occhi e concentrate il pensiero sulle cose più belle che avete mai sognato…Riuscite a vederla? Si, è proprio Lei, è la Fata dei Sogni. Esiste davvero e viene inviata la notte a tenere compagnia a quanti si sentono soli e abbandonati in questo mondo.
Ella vi guiderà attraverso le stelle del firmamento fino al Grande Arcobaleno luminoso, per prati verde smeraldo e colline dorate, sulle alte cime dei monti innevati, dove potrete vivere avventure fantastiche e scoprire finalmente un po’ di felicità.
La mia Fata dei Sogni è piccola e leggera, dolce e sorridente, mi guarda con i suoi occhi birichini e mi invita sempre a seguirla. Volteggia nell’ aria come una piuma e ad ogni giravolta cadono dalle tasche del suo mantello stelline colorate come coriandoli e polvere
luminescente sottilissima: la magica polvere delle Fate!
Si chiama Daisy e non appena sparge la sua brilluccicosa polverina dorata sull’ universo lo colora tutto, ravvivandolo di tinte meravigliose.
Daisy vive assieme alle Fate della Luna in un piccolo villaggio nascosto in uno dei suoi crateri.
Quando è notte e la luna risplende alta nel cielo, le Fate si destano dai loro giacigli e danzano attorno al fuoco ridendo e raccontando storielle divertenti.
Gli Elfi, invece, passeggiano frettolosi e burberi alla ricerca di pietre lunari, di tesori nascosti, di erbe dalle virtù magiche, di rocce o pozzi incantati che conducano al Mar delle Sirene, alla Cava dei Pirati o alla Terra dei dinosauri, tutti posti dove vivere tante avventure.
Ebbene, quando un essere umano chiude gli occhi per addormentarsi, basta che esprima il desiderio di vederla che un piccolo tintinnio risveglia Daisy e le ricorda che è ora di mettersi al lavoro.
La fatina scende lesta dal guscio a forma di noce dove dorme nella sua piccola casetta, si infila il vestitino intessuto di margheritine bianche e di lillà, indossa le sue scarpine dorate, poi batte tre volte le ali e spiega il volo fino al pianeta terra.
Le Fate non hanno bisogno di parole o di lunghi discorsi, ascoltano e parlano il linguaggio del cuore, sentono i desideri degli uomini, i pensieri positivi di ognuno e li esaudiscono. Cercano di dare un po’ di conforto al nostro mondo facendo sorridere i bambini, gli anziani, provvedendo a nutrire i fiori, gli alberi dei boschi, gli animali abbandonati e dando vita perfino ai nostri sogni.
Quando Daisy venne per la prima volta vicino al mio lettino ero molto piccola, tanto ammalata che mi ero proprio avvilita: starnutivo, tossivo, avevo la febbre alta e per quanti sforzi facessi, non riuscivo proprio ad addormentarmi.
Sul mio comodino c’era una favola antica, che avevo l’abitudine di leggere e rileggere ogni sera, dal titolo: ” Il Principe della Tailandia “.
La racconto a voi per farvi capire quanta tristezza ci fosse nel mio cuore e quanto fosse difficile uscirne. Vedevo il mondo e la realtà che mi circondava ostile e ferma, cristallizzata in una morsa oscura da cui non riuscivo proprio a liberarmi e pensavo che ormai tutto fosse perduto. Mi domandavo cosa ne sarebbe stato della mia vita: sarei finita come il cavallino di quella favola?
Non sapevo che dopo pochi minuti dalla lettura di quel libro sarebbe successa una cosa straordinaria che avrebbe segnato per sempre la mia esistenza.
Grazie all’aiuto di Daisy sarei divenuta io stessa la protagonista di un viaggio fantastico e meraviglioso che non avrei mai più dimenticato.
Ma andiamo per gradi…intanto tutto è cominciato da questa favola che leggevo e rileggevo da piccola in un libro vecchio come il cucco dalle pagine logore e ingiallite che non so da dove fosse spuntato, probabilmente da qualche vecchia soffitta dei nonni.
Qualche pagina era anche mancante e l’autore completamente ignoto. Ma faccio prima a raccontarvela.

 


La Marchesa di Chardonnay

In un paese lontano e sperduto della Francia, fuori dal tempo e dalla storia, viveva una dama che tutti chiamavano la Marchesa di Chardonnay. Ella era nata in una antica famiglia i cui antenati erano nobili veri, tuttavia, al tempo della sua nascita, nonostante la distinta ascendenza, la famiglia era gravata da molti debiti e cadde in povertà. Julienne, questo era il nome della bambina, si abituò ben presto a dormire su un pagliericcio assieme ai genitori , ai fratellini e al suo cagnolino Cherì. La bimba era molto carina con le sue treccine bionde incorniciate in una cuffietta azzurra dai fiocchetti dorati. Frequentò la scuola pubblica dove andavano tutti i bambini di modesta origine e lì imparo’ a leggere, a scrivere e a fare di conto. Crescendo il suo comportamento si rivelò alquanto freddo, altero ed arrogante. Una volta divenuta grande i lati negativi del suo carattere si consolidarono e divenne una donna molto egocentrica, di modi affettati e finta indulgenza. Quasi non accorgendosi che i tempi cambiano e che la storia si rinnova, restò sempre ancorata ad un passato lontano fatto di sogni e di illusioni. A tutti diceva di essere una ricca ereditiera che proveniva da un ramo della famiglia di Napoleone Bonaparte. Raccontando una frottola dietro l’altra riuscì a sposare un ricco commerciante di vini a Chardonney il quale non l’amava ma desiderava sfruttare la sua ascendenza nobile per vendere i suoi prodotti a tutto il mondo. La Marchesa mascherava l’amore per la maldicenza e per l’intrigo dietro una voce dai toni dolci e melliflui e dai modi impeccabili del Galateo. Una aureola di capelli incipriati, lasciati cadere morbidamente sul collo le esaltavano il colore roseo del viso mentre l’azzurro viola dei suoi grandi occhi si celava dietro a un sorriso appena accennato. Il naso era leggermente prominente ma gradevole a guardarsi e la sua bocca, quando sorrideva, lasciava intravedere una bella fila di denti perlati. Con tanti soldi, derivanti dalla vendita dei vini del marito, entro’ nel mondo della nobiltà parigina. Amante dei salotti, delle feste, degli spettacoli di corte, ottenne dal re di Francia di aprire un circolo a casa sua frequentato da nobili come lei, molti dei quali caduti in miseria. A ciascuno la Marchesa affidava una poesia da leggere, una canzone da cantare, una macchietta da imitare per suscitare l’ilarità del pubblico. Alcuni danzatori vennero assunti come paggi per intrattenere i finti nobili che prendevano il tè sui lussuosi tavolini di marmo grigio pieni di biscotti, meringhe e cioccolatiere d’argento. La Marchesa gonfia di orgoglio diceva a tutti di avere sempre avuto titoli e stemma di famiglia oltre ad un cospicuo patrimonio ed a un altissimo tenore di vita. Ella divenne ben presto un mecenate e fu considerata la protettrice degli artisti, dei liutai, degli uomini colti e titolati. Nella sua cerchia vi era anche qualche ambasciatore e qualche prelato amante della vanagloria. Ma un giorno alla festa si presentò il Duca Di Sorrento, di Amalfi e del Mar Mediterraneo, un finto nobile molto dignitoso ed elegante che portava il nome di un’antica famiglia nobile, non la sua, cui aveva per di più aggiunto con disinvoltura un paio di predicati. Il fatto che la sua famiglia si fosse estinta nei primi anni dell’ottocento costituiva forse per lui un incoraggiamento ad andare avanti nella sua commedia, ma a lui mancava un elemento essenziale oltre che la verità: il bugiardo deve anche avere una buona memoria per far digerire agli altri le sue fandonie. Reputando tutti dei grandi ignoranti in fatto di corone, stemmi e titoli, il duca aveva raccolto nel tempo una grande varietà di biglietti da visita uno diverso dall’altro, in cui si autodefiniva a volte conte, a volte principe, a volte duca e persino re di Francia. La sua ortografia però lasciava molto a desiderare per cui marchese era scritto “Marrrchese” con tre erre, conte “Contte”con due t e re di Francia poi era scritto “O rre’ de la Franze”. Il suo desiderio era solo quello di sbalordire i poveri malcapitati che gli si paravano dinanzi, suscitare molte chiacchiere e ricevere molti applausi al suo passaggio. La Marchesa, appena il falso duca si presentò nel suo salotto ebbe un sussulto e fremette d’ira. Non sarebbe stata più la sola ad essere ammirata e una sottile scintilla di invidia e di astio si impadronì della nobildama. “ Sapete cantare Duca?” disse con tono provocatorio la Marchesa. “Si” rispose il finto nobile “Volete sentire Nuttata e sentimento per canto ed arpa oppure Torna a Pusilleco con la chitarra celtica?” “Ma come”, esclamò la Marchesa, “tanto nobile Duca e conoscete solo canzoni di Napoli? Quel paese è un vero tugurio, fatto di miseria, di scugnizzi, di fame e di ladri. Noi invece qui in Francia beviamo lo champagne ed adoriamo il pate’, loro invece mangiano solo pizza e spaghetti e bevono il caffè. Che bassi costumi ha quel popolo incolto, non possono entrare nel mio salotto, sono volgari, gente di strada, girovaghi, suonatori ambulanti.” Così la Marchesa screditando il falso duca cercava di trovare il modo per rinforzare la sua autorità e il suo prestigio. Ma il duca rispose: “E voi Marchesa da che famiglia provenite? So bene che anche voi venite da una famiglia decaduta e povera e dai Castelli della Loira siete passati a dormire tutti su un pagliericcio posto nella stalla di un vecchio barone. Non faceva il maggiordomo del barone vostro padre? E voi, voi siete andata a studiare alla scuola pubblica e non al collegio delle suore di Nancy dove vanno tutti i figli dei nobili. Infine avete sposato un commerciante di vini a Chardonnay ed eccovi qui ricca e benestante”. La Marchesa presa dalla stizza, rispose : “E’ ora di cena, andiamo a mangiare, sono molto stanca amiche, questi finti nobili mi annoiano e mi fanno perdere le staffe. Andiamo Angelita De la Vega y de la Cruz mia fedele ancella, andiamo fuori alla balaustra a respirare un po’ di aria fresca…offendere me, la divina, l’unica discendente della famiglia napoleonica e capetingia, una vera Chardonnay che mangia solo tartine francesi e beve solo lo champagne, io, solo io rappresento l’elite dell’elite della Francia.” Ma la lotta tra i due divenne sempre più accesa in quanto il pubblico iniziò a commentare e a scegliere a chi dei due rivali dare credito. Ogni favorito infatti crea attorno a sé almeno due partiti: quello di coloro che lo disprezzano e quello di chi che lo adula cercando di sfruttarne il potere. Ai primi apparteneva il conte Umberto Busto di Montefusco che sosteneva il falso duca, al secondo apparteneva la duchessa Marcella Infida della Spada che che sosteneva la Marchesa. Le chiacchiere accrebbero molto il clima di tensione già instauratosi e quella sera la Marchesa si ubriacò tracannando fiumi e fiumi di champagne. La sua Cherì se ne accorse e cercò di fermarla coi suoi latrati e con piccoli morsi alle caviglie della Marchesa tentò di condurla altrove per farla distrarre e allontanarla da quel turbinio di voci e di bicchieri. Ma non ottenne buoni risultati. La Marchesa giacque sul divano e impallidì. Tutto il passato le piombò davanti come un grosso incubo…gli stenti e la miseria quando era piccola, i litigi dei genitori per un piatto di minestra, il vecchio ammuffito pagliericcio su cui dormiva con tutta la famiglia. Ormai era stata smascherata! Corse fuori precipitandosi per le scale e subito infilò il portone. Voleva correre, andare in qualche posto dove poter trovar riparo dai suoi ricordi, e dalle chiacchiere della gente. Comprese che quel mondo blasonato era stata solo una illusione, una trappola che la aveva ingabbiata in un un mondo vuoto e falso fatto di intrighi e di lotte clandestine, costringendola a mentire continuamente. E tutto per la vanagloria. Pensò di non aver mai conosciuto l’Amore, era rimasta sola e senza amici, preda di futili momentanei piaceri, con un marito che l’aveva sposata per interesse e con il quale non aveva avuto figli. Anche alla piccola fedele Cherì in fondo non aveva dato affetto, dedita solo ad acquistare gioielli ed abiti per le sue feste. “Chissà se esiste Dio”, pensò la Marchesa, “prima non ci avevo mai pensato, sicuramente sarà molto occupato a governare il mondo. Se potesse sentirmi vorrei chiedergli perdono per tutte quelle volte che ho mentito a me stessa e agli altri e ho soffocato in me l’Amore”. Nella foga di andare via la Marchesa piangendo gettò il suo mantello d’ermellino su un cespuglio e attraversò la strada senza guardarsi attorno. Una macchina correva a tutta velocità : erano altri nobili ubriachi che stavano andando via dalla festa. La travolsero, fu un istante, un colpo secco e il cadavere della Marchesa piombò sul marciapiede, mentre la pioggia cominciava lenta a cadere sul suo vestito di taffetà rosa. “Ferma, ferma la macchina, ti prego” gridò una duchessina dal finestrino “Credo che abbiamo investito una donna”. Tornarono indietro di un miglio e scesi dalla macchina si misero ad osservare la ferita sul fianco della Marchesa ed il sangue che continuava a scorrere sull’abito della malcapitata. “Peccato, non aveva neppure il sangue blu!” esclamò la duchessina Acciappaccia Acquavita di Aragona prima di risalire sulla lussuosa autovettura. “Te l’avevo detto io che era una miserabile” aggiunse la contessina Vittoria Sparlona da Pamplona. “Racconteremo tutto al barone Dagoberto di Bordeaux e tra un bicchiere e l’altro concluderemo in bellezza questa noiosa serata” aggiunsero infine ridendo e rimettendo in moto la macchina assieme ai conti che le accompagnavano a casa.

 


 

Il Principe della Tailandia

“In un inverno freddo e tagliente come il ghiaccio, mentre un pallido raggio di sole attraversava la stradina del paese, una bambina si perse tra i vicoli di quell’ enorme labirinto. Entrò in un portone antico con i manici d’ottone lucidati a festa ed il custode la guardò perplesso chiedendosi cosa ci facesse lì una bambina tutta sola e intirizzita.
” Piccola, hai forse bisogno d’aiuto? Dove sono i tuoi genitori?”, disse il custode con uno sguardo paterno e gentile.
“Signore io devo nascondermi, devo salvarmi. Sto cercando di sfuggire alla terribile furia della Strega del Ghiaccio, che tiene prigioniero con il suo sguardo ogni essere umano costringendolo a vivere una vita grama, piena di dolore e di fatica. Quando la neve che invia scende lentamente nel nostro cuore, tutto ci sembra grigio e triste, vuoto e senza senso, perfino le parole si fermano sulle nostre labbra e non riusciamo più a dire quello che vorremmo, a fare ciò che dovremmo, non riusciamo più a sognare né a sperare in giorni migliori. L’opera della malefica Strega è quella di congelare il nostro essere costringendolo all’inerzia, al silenzio, alla rassegnazione ed infine alla morte”.
Così dicendo, riscaldandosi al calore di quella portineria che aveva un bel caminetto col fuoco acceso, la bambina si sedette su di una sedia a dondolo e si assopì dolcemente.
Dopo pochi minuti fu risvegliata da un tintinnio soave: era la Fata dei Desideri che le apparve in tutto il suo splendore, una figura eterea e sorridente vestita con un abito di seta azzurro pervinca, come il terso cielo delle caldi notti d’estate.
Adagiò la bimba sulle sue grandi ali e assieme volarono via e percorsero metà dell’Universo, in mezzo alle stelle. La luna brillava altissima nel cielo, per un istante si fermarono ad osservarla e poi via… nella sconfinata immensità.
Respirando all’unisono percorsero chilometri e chilometri, forse viaggiarono anni luce per monti e per vallate, per deserti e foreste tropicali. Tutti i paesi del mondo giravano come in una giostra sotto il loro sguardo. Atterrarono, a causa di una meteora, in un grande reame, il più grande della terra, dove tutti i tetti delle case erano d’oro tempestato di zaffiri e di rubini ed enormi statue di divinità asiatiche troneggiavano nei parchi, sotto alle pagode colorate.
Lontane, dall’ altra parte del reame, alcune piccole imbarcazioni miserabili giacevano in un torrente putrido, nero come la pece. Lì vivevano i poveri pescatori di pesci-rana, i disperati uomini che non contavano nulla e che perfino quando morivano nessuno piangeva. Mangiavano foglie di loto e bacche selvatiche, avevano mani nere, divorate dalle corde, camminavano a piedi nudi sulle palafitte umide costruite con canne di bambù e liane acquatiche. Donne dai veli bianchi intessevano ceste di vimini mentre i loro piccoli giocavano nel fango coperti da pochi stracci.
Nel nobile parco, in mezzo ad alberi, antichi templi e fiori variopinti, passava la carrozza del Principe della Tailandia, l’uomo più ricco e più famoso del paese. Aveva un bel colorito olivastro, due occhi castani dallo sguardo intenso e ammaliatore ed il sorriso di un adolescente. Viveva da solo in cerca di continue avventure, amava viaggiare e godersi la vita. Egli scese dalla carrozza proprio in quel momento per ammirare il grande parco che lo circondava e accarezzò uno dei suoi cavalli.
La Fata dei Desideri prese la mano alla bambina e le disse: “Osserva questo ragazzo: ha tutto ciò che chiede” E mentre pronunciava quelle parole lo sguardo della bambina si posò sul destriero del Principe, il quale, beato, viveva al suo fianco e lo accompagnava in tutte le sue avventure. Se per magia fosse diventata come quel cavallino, anche lei avrebbe potuto ricevere le Sue cure e godere della sua compagnia tutta la vita, nutrita e vezzeggiata.
Guardò di nuovo il Principe e una strana tenerezza scese nel suo cuore, un sentimento profondo, eppure vero, che non aveva ragione di esistere vista la differenza di età, di cultura e di stato sociale. Si chiese a quale eroe rassomigliasse, forse a suo padre, forse al suo migliore amico, ma proprio non trovò alcun appiglio logico e comprese quanto la vita sia a volte davvero imprevedibile. Il suo cuoricino aveva triplicato i suoi battiti e sembrava scoppiarle nel petto. Allora chiese alla Fata: “Potrei seguire il Principe? Trasformami nel Suo cavallo, vorrei restare sempre accanto a lui. Non sono certo una bella ragazza, non sono neppure già grande, sono solo una bambina e se mi mostrassi a lui per quel che sono egli non si accorgerebbe neppure di me e del mio amore!”
La Fata dei Desideri volle accontentarla e così la trasformò in un bel cavallo bianco con una folta criniera nera e la pose davanti alla carrozza, alla destra del cavallo baio.Il Principe allora non credette ai suoi occhi: tutta la vita aveva cercato di comperare proprio un cavallo bianco dalla criniera nera, ma aveva girato invano tra le scuderie e gli allevamenti del reame senza mai trovarne uno. Pieno di entusiasmo, chiedendosi come fosse avvenuto quel miracolo, pensò alla gioia che avrebbe provato nel cavalcarlo, portandolo con sé e mostrandolo fieramente a tutti i suoi amici. Chissà quanta strada e quante emozioni avrebbero provato vivendo assieme. Ebbe allora l’impulso irrefrenabile di accarezzargli la criniera nera che riluceva nel vento e si abbassò dolcemente per dargli un bacio sul muso quando cominciò di nuovo a nevicare. I fiocchi cadevano lenti, lenti nel parco, sulle piante, sulle case dai tetti d’oro, sulle pagode colorate. Essi caddero anche sul Principe e sul suo cavallo bianco. Tutto restò cristallizzato. In lontananza si udì la cupa risate della Strega del Ghiaccio, la quale aveva vinto la sua battaglia impedendo a ciascuno di loro di trovare la loro felicità ora che si erano finalmente incontrati. Il crepitio della legna nel caminetto destò la piccola. Ormai il sole era al tramonto ed il custode doveva chiudere la portineria e spegnere il fuoco. Un freddo gelido avvolse la bambina che restò lungamente ad osservare la brace spegnersi pian piano, portando via con sé tutti i suoi sogni”.
Così terminava quella sciocca fiaba che leggevo e rileggevo affannosamente mentre speravo ogni sera che finisse in modo diverso. Il rumoroso vociare nella stanza accanto dei miei genitori che litigavano continuamente tra loro non lasciava presagire niente di buono. Tentai di addormentarmi mentre un pensiero orribile affiorava nel mio cuore: la vita degli adulti era quella che era e non poteva certamente essere cambiata.
Ma mentre mi angosciavo gettando dal letto quel libro a terra, vidi d’un tratto apparire nel buio della mia stanza, una lucetta piccola piccola, come quella di una lucciola, che si stava avvicinando a me poco a poco. Allora mi feci coraggio e le chiesi: “Chi sei?”
“Sono Daisy, la tua Fata dei Sogni” rispose allegramente una vocina.
Implorai piangendo: “Chiunque tu sia, realtà o frutto della mia immaginazione, ti prego insegnami a volare! Prendimi con te sulle tue belle ali e fammi dimenticare il mondo almeno per questa notte, almeno per poche ore. La mia tristezza svanirà, non penserò più ai ricordi che mi tormentano, né al futuro che mi atterrisce e potrò con te vivere qualche ora lieta giocando tra le nubi argentate.”E Daisy mi esaudì.Mi condusse in una immensa distesa celeste costellata di nuvole rosa e bianche sulle quali si poteva comodamente camminare e talvolta affondare gioiosamente. L’aria era tersa e cristallina e da lontano la terra sembrava un puntino indefinito. Intorno a me un gruppo festoso di angeli e di stelle giocavano cantando e si rincorrevano perdendosi dietro l’Arcobaleno. Sentii il cuore pieno dei suoi sette colori e traboccante di serenità. Pensai allora a quale grande dono abbiamo ricevuto da Dio che invia gli esseri fatati nei momenti più difficili della nostra vita per far sì che continuiamo a non perdere la speranza nella sua infinita Bontà. Il sentiero tracciato dalle stelle sulla coltre di nubi portava ad una grande montagna azzurra dalla cui cima si poteva ammirare Sirio, la stella più luminosa, bianca come un diamante, che nella notte guida tutti i marinai che hanno smarrito la rotta. Guardai quella bella stella e pensai che anche io assomigliavo un po’ ad uno di quei marinai. Avevo bisogno di percorrere una lunga strada e di attraversare varie terre, di solcare i mari, di raggiungere i cieli più lontani, di varcare gli oceani e di scalare le montagne più alte, per ritrovare il mio vero io, la parte migliore di me stessa. Pensai che nella vita occorre essere come un bravo marinaio o un cavaliere coraggioso, che non si lascia sfuggire le occasioni e che sa intraprendere al momento giusto una nuova strada, combattendo con ardimento e forza interiore per il proprio ideale, senza lasciare che tutto venga reso vano dalla prima tempesta, senza arrendersi come era accaduto al Principe della Tailandia ed al suo cavallino. Allora dissi a me stessa che ero pronta: potevo iniziare con entusiasmo il mio primo vero viaggio con le Fate.

 


 

Il pianeta delle torte

La mia piccola Daisy mi fece cenno, scuotendo la sua testolina bionda e spargendo un sacchetto di polverina dorata, che era ora di partire.
Volteggiando all’altezza dei miei occhi nel suo vestitino color pervinca, la mia Fatina dei Sogni salì sulla carrozza, prese le briglie e strattonò energicamente il grifone alato, il quale si innalzò subito in volo, senza esitazione…e via… verso le nubi.
L’arietta frizzantina del mattino mi aveva messo addosso una fame terribile, così chiesi a Daisy se conosceva qualche bel posto, nascosto fra una nube e l’altra, dove potersi fermare per uno spuntino, o meglio, considerata la mia fame, per un pranzo robusto.
La fatina, che si sbellicava dalle risate a causa della mia espressione affranta per i crampi allo stomaco, mi indicò una strana galassia situata vicino a Venere, dopo la terza stella cadente a destra. Non credevo ai miei occhi, quel pianeta irraggiungibile aveva proprio la forma di una grande torta guarnita a festa con biscottini, candeline e panna montata!
Ci avvicinammo lentamente, con molta cautela, ma, una volta atterrati, ci accorgemmo che la terra che calpestavamo era fatta di pan di spagna, le case di marzapane, le nuvole di zucchero filato, le piante ed i cespugli di pistacchio e la frutta che pendeva dagli alberi era candita. Al centro del villaggio, da una fonte posta vicino a una roccia scivolavano, due rivoli, due fiumiciattoli che si dipartivano in diverse direzioni, uno bianco di orzata ed uno verde di menta. Gli abitanti di quel luogo erano pastorelli, pescatori ed animali di zucchero che parevano immobilizzati nei loro gesti, pietrificati dall’ incantesimo di una strega.
Agnellini, gattini, coniglietti, cagnolini, pulcini e perfino un branco di anatre ed i cigni che navigavano sul Mar dell’orzata erano fatti di dolciumi!
Nelle tane degli orsetti di liquirizia vi erano favi stillanti di miele di castagno e miele di eucalipto e negli alveari di cioccolata le api preparavano caramelle di propoli e gelatine alla pappa reale. La montagna più famosa dove andare a sciare d’inverno era il “Mont Blanch”, un monte di pasta di castagna, meringa e panna dove affogare tutti i dispiaceri passeggiando tra un picco e l’altro. Percorrendo il viale delle amarene, si saliva verso la famosa biblioteca dei lecca-lecca, dove gli studiosi di tutto il mondo facevano a gara per catalogare ed archiviare ogni sorta di caramella colorata con bastoncino, variegata ai vari gusti di ogni paese. Al mercato della frutta secca, i commercianti avevano esposti cesti interi di noccioline americane, di mandorle tostate e salate, di anacardi, di uva passa e sporte di datteri ricoperti di cioccolato. Nelle pizzicherie invece, al posto delle rosette vendevano brio che e ciambelle, semplici o ripiene, al forno o fritte e al posto dell’acqua vendevano gassose, chinotti, aranciate e coca cole. Con grande gioia ed entusiasmo ci accostammo a un tale ben di Dio. Per devozione andai in una chiesa a ringraziare ma, al segno della croce, mi accorsi che al posto dell’acqua benedetta vi era l’acqua di fiori d’arancio che mia nonna utilizzava per fare le sue pastiere napoletane e che la chiesa era dedicata al santo patrono del posto: “Sant’ Honoré”. Devo dire che quando è troppo è troppo e a furia di vedere i maialini sprofondare nella nutella, i pastorelli che ingurgitavano bombe alla crema, gli uomini accendere sigari e sigarette di chewing gum, i minatori che scavavano rocce di finto carbone di zucchero. ..mi ero proprio annoiata. “Che paese impossibile!” Pensai tra me e me.
“D’autunno cadono dagli alberi le torte millefoglie sul primo che passa, in primavera cadono le torte mimosa e le torte margherita, d’inverno cadono dal cielo i ghiaccioli e se grandinasse ci potrebbe cadere in testa perfino una bella granita di limone! Ma insomma come si lava questa gente? Nel caramello appiccicoso o in un mare di cioccolata o di caffè dove canotti e salvagenti sono fatti di gomma americana? E le barchette fatte con le coppette di cartone dei gelati estivi, con una bandierina decorativa sulla cialda, dove mai potrebbero approdare se, non in qualche stomaco goloso?” No, non mi sembrava bello quel mondo in cui ingozzarsi sbrodolandosi costituiva l’attività principale. Anche il povero grifone che annusava i fiori in un campo vicino era molto imbarazzato e disgustato. Non riusciva più ad addentare né i Fior di fragola né i Fior di menta, desiderando ardentemente masticare in quel momento cibi più sani: ortaggi, frutta, verdura, uova, pesce e carne. Presi da un impulso di fuga salimmo, attraversando un viottolo, sulla Catena Montuosa dei Budini e a furia di sprofondare ad ogni passo per poco non annegavamo in quell’ ammasso umido e molliccio.
Arrivati al Valico del Cioccolatino perdemmo l’equilibrio e scivolammo affondando nel rhum e nello sherry. Sopra di noi stava nevicando. Cadevano giù dal cielo, in una danza lenta, fiocchi di zucchero filato che si appiccicavano uno ad uno alle nostre teste.
Quando infine, per divertirci un po’, tentammo di costruire un pupazzo e di lanciarci palle di neve, ci accorgemmo che il marshmallow di cui eravamo circondati era troppo gommoso per consentircelo. Dunque in quel pianeta lì i bambini non potevano neppure giocare.
Tornammo quindi in città ed imboccammo un vicolo dove si leggeva l’iscrizione ” Via dei Tiramisù “. Dopo qualche minuto fummo inseguiti da una fila di minacciosi savoiardi, neri di caffè, mentre il cacao pioveva dal cielo come una mitragliatrice e le uova come bombe!
Quando girammo l’angolo un fiume di mascarpone bianco, denso e cremoso, ci stava inseguendo. Pensammo a chissà cosa altro ci sarebbe potuto succedere nella Via del Tartufo Gelato o dell’Affogato al Whisky…Quella galassia era diventata tanto pericolosa che nessuno di noi tre aveva più fame. Anzi, provavamo quasi un senso di disgusto! Eravamo così inzaccherati che Daisy non riusciva più a volare ed il grifone, con la pancia piena di dolci, non riusciva neppure ad alzarsi dal suo giaciglio.
“Che fare?”, dissi tra me e me, preoccupata all’ inverosimile. Allora strinsi al cuore l’anello della fortezza ed il medaglione dei pellegrini itineranti che le fate mi avevano donato e chiesi pregando che dal cielo scendessero acqua e pane. E così avvenne. A sera una stella cometa si avvicinò a quella galassia e dalla sua coda scesero uno stuolo di elfi che cavalcavano renne cariche di ceste piene di fette di pane e brocche di terracotta con acqua di fresca sorgente. Finalmente mangiammo a sazietà senza paura, mentre gli elfi ci servivano e cantavano in coro gli stornelli i più armoniosi che conoscevano. Ci spiegarono che quella galassia era stata resa invivibile dalla Strega Golosaccia che viveva nei boschi della Città proibita, oltre i confini del mondo, in una oscura caverna piena di spettri e pipistrelli dove si nutriva solo con bacche e rospi. Mentre stava cucinando intrugli putridi in un vecchio pentolone di rame, il suo corvo le recapitò la lettera di un bambino che chiedeva per Natale a Babbo Natale e alla Befana un sacco pieno di dolci. Allora, per dispetto e per invidia, con tutta la cattiveria di cui era capace, trasformò con un sortilegio la casa di quel bambino e di tutti quelli che desideravano i dolci in zucchero pietrificato, cannella e pastorelle, torte, bignè e cannoli siciliani.
Code d’aragosta, cassatine, cioccolata e panna cominciarono ad abbattersi su quella galassia finché essa non divenne un pericolo per quanti, malcapitati, finivano lì prigionieri dei dolciumi. Una volta entrati in quel pianeta, era molto difficile uscirne perché il peso aumentava a dismisura, rapidamente, e restando lì per anni e anni, ci si poteva persino ammalare di diabete. Grossi e stanchi, a stento si potevano percorrere un po’ di miglia e poi ci si sarebbe addormentati per sempre. Lo zucchero, poi, col suo manto bianco, avrebbe lentamente ricoperto tutto con qualche nevicata. Comprendemmo allora che per vivere felici non era necessario mangiare tanti dolci, come la vecchia Strega Golosaccia avrebbe desiderato per avere la nostra salute in suo potere, e che i pan di zucchero e le caramelle era meglio offrirli ai bambini poveri e a quanti potevano assaggiarli solo una volta l’anno, anziché trattenerli nelle proprie tasche. Lo Spirito dell’Universo, portandoci in quel luogo incantato, ci stava insegnando che per essere felici su questa terra non bisognava essere avidi e desiderare tutto per sé. Era meglio fare contenti gli altri prima che sé stessi ed i dolci era meglio regalarli a quanti ne erano privi anziché riceverne oltre misura. La dolcezza allora si sarebbe diffusa in modo uniforme nel mondo, poco per volta, senza creare danni né pericoli per le persone e gli angeli l’avrebbero benedetta. Tutti potevano essere felici: questo fu il grande insegnamento che apprendemmo su quello strano pianeta.

 


 

Il paese dei testa in giù

Atterrammo con il Carro Alato in una regione dall’ atmosfera irrespirabile dove tutti, anche vecchi e bambini erano robot di metallo che camminavano a testa in giù. Osservai attentamente e vidi che la gente che passava, anziché sorridersi, si salutava frettolosamente con un cenno dell’alluce del piede destro e poi si rinchiudeva in sé stessa in un silenzio agghiacciante.
Era sicuramente frutto del sortilegio di qualche mago cattivo, pensai, questa mancanza di comunicazione totale.
Per camminare a testa in giù gli abitanti di quel paese dovevano comprarsi un elmetto di ferro con un uncino collegato a una rotella che li legava perennemente al suolo.
Non potevano togliere quell’elmetto neppure di notte per riposare ed esso stringeva loro il capo rinchiudendoli in un orizzonte limitato ai propri pensieri e alle proprie azioni.
Grifo non riusciva a capire perché in quel pianeta ci si complicasse tanto la vita e guardava
con occhi sbalorditi i cani che camminavano al contrario, le case e le piazze rovesciate, i negozi col tetto capovolto e i gelati spiaccicati sulla strada.
Daisy volò sulle radici di un albero che aveva la chioma sparsa a terra con gli uccellini che svolazzavano, anche loro, a zampette in su. “Che peccato”, pensai tra me e me, “una così bella pianta che non potrà essere di riparo ai bambini né offrire protezione e rifugio agli scoiattoli e ai viandanti.”
Nel paese dei testa in giù nessuno poteva servirsi di quello che possedeva in quanto le case, i fiumi, le nuvole, i libri, i piatti, i letti non erano mai al posto giusto ma fluttuavano in una dimensione completamente rovesciata.
Lì tutti apparivano uguali, esseri senza senso, robot senza un ruolo, senza volto.
I bambini che nascevano, a loro insaputa, a testa in giù, guardavano gli adulti e copiavano i loro comportamenti senza cercare una ragione e chiedersi se fosse giusto.
Nessuno sembrava accorgersi che quel mondo era più orribile della Casa delle Streghe e della Torre dei Mille Draghi che sputavano fuoco.
Era sicuramente il posto più brutto del mondo da visitare.
La gente pensava che salutarsi con l’alluce destro fosse il massimo dell’emozione che si poteva esprimere. I bambini non giocavano tra di loro, non imparavano a parlare ma giravano tutto il tempo in cerchi concentrici fino a quando non andavano a scontrarsi in mille pezzi.
Allora qualcuno perdeva una rotella, a qualcun altro si rompeva l’elmetto ma nessuno veniva in soccorso di nessuno e nessuno provvedeva alle riparazioni.
Ognuno raccattava i suoi pezzi e ripartiva nel vortice di quella follia.
“Ma dove andate?”, gridai, “Chi vi ha insegnato questa vita priva di senso?”
Nessuna risposta.
Qualcuno tentava di farfugliare frasi incomprensibili e poi subito taceva, altri, atterriti dalle mie domande, correvano accelerando la velocità e disegnando cerchi sempre più lontani. Come meteore impazzite si sfioravano senza comunicare, ognuno preso dal suo piccolo mondo situato nel cerchio che stava disegnando.
La visione rovesciata del mondo, col trascorrere del tempo, aveva creato dei veri robot, mostri capaci di vivere una vita biologica senza provare né emozioni né pensieri positivi.
Mi tornò in mente l’atmosfera triste che avevo per anni respirato a casa con alcuni dei miei familiari coi quali era impossibile dialogare serenamente e la cui visione di storta del mondo aveva lasciato un segno indelebile nel mio cuore di bambina che continuava a non capire il perché di tante ingiustizie, di tante ferite inferte senza una ragione, in un mondo di adulti avidi del potere di esistere ma senza rispetto per l’esistenza degli altri.
Qualche volta ritrovai quell’atmosfera anche nel mondo degli adulti dove era molto difficile poter comunicare e piu’ non si comunicava piu’ i problemi si ingigantivano.
Scappammo da quel pianeta a gambe levate e fu una vera gioia ritrovare la libertà e l’azzurro del cielo che, accogliente come sempre, libero e grande, ci sussurrava parole di speranza.
Con il carro alato percorremmo banchi di nubi bianchissime ed oltrepassammo l’orizzonte che si stagliava nitido davanti al nostro sguardo. Il passato era svanito nel nulla ed il futuro ci attendeva radioso come il bagliore dei raggi d’oro del sole in un bel tramonto nel bosco delle Fate.

 


 

Il giardino incantato

Dopo aver percorso con Daisy e Grifo tanta strada a piedi arrivammo in posto magico, un Giardino recintato ben noto alle Fate dei boschi, dove il tempo si fermava.
C’erano alberi di alto fusto, piante di tutte le specie che verdeggiavano libere, spettinate dal vento. Al centro del Giardino un magnifico roseto lo arricchiva dei suoi colori intensi e con profumi ineguagliabili. Lo sguardo di noi viandanti poteva perdersi per ore e ore a contemplare quel paesaggio al di là del quale si stagliavano le montagne. L’aria che respiravamo era pulita e tutte le creature umane e fatate potevano riscaldarsi in quell’oasi dove il sole continuava a risplendere anche in pieno inverno. Ero passata in quel giardino varie volte nella mia vita per contemplare la natura ed immergermi in essa completamente fino a dimenticare le mie pene segrete. Sempre fra quei fiori, quegli alberi e nel canto leggiadro degli uccelli che lo popolavano, avevo ricevuto un conforto ed un profondo insegnamento. Cercavo di imparare dal silenzio ad ascoltare la voce delle cose. Il sole accarezzava lentamente la terra che si lasciava abbracciare dai suoi raggi e i miei pensieri si illuminavano con la sua luce. Osservavo i fiori che sbocciavano mentre immaginavo che una nuova linfa arrivasse fino alle radici più nascoste degli alberi. Le piante più alte, i pioppi, le magnolie gli abeti ed i pini frondosi lasciavano che gli uccellini facessero i nidi tra i loro rami e sembravano conversare tutti assieme con armonia.
Con Daisy potevamo udire tutti i loro discorsi e confrontarli con quelli delle creature umane. Come vecchi saggi gli alberi stavano proteggendo quel territorio pronunciando massime eterne e diffondendo gli insegnamenti posseduti da, secoli, custoditi nella loro corteccia. C’era una grande quercia che mi accoglieva tutte le volte che entravo in quel giardino protendendomi i suoi nodosi rami come faceva il mio papà quando ero bambina, stendendo le sue braccia per aiutarmi a fare i primi passi.
Le sue belle chiome mi offrivano un riparo e la sua ombra mi dava ristoro quando mi sedevo ai suoi piedi su quel morbido mantello d’erba verde dove potevo leggere i miei libri con tranquillità o addormentarmi fantasticando liberamente, accarezzata dal tenero soffio del vento. Grifo, Daisy ed io udimmo un canto. Erano i fiori del Giardino, le gemme degli alberi, le rose, i gigli le viole che intonavano un coro celestiale quando il cielo si tingeva di rosso ed il sole giocava a nascondino con le nubi.
Avevano gli occhi, il naso e la bocca proprio come noi. Quei fiori ci sorridevano schiudendo i loro boccioli al sole. Petali rossi, vellutati ed odorosi, soffici ed amorevoli grossi come il palmo di una mano che generosa si apre per te, petali rosa come le guanciotte dei bambini paffutelli che ti salutano anche senza conoscerti, petali bianchi come la luna che illumina la tua notte, petali ciclamino come le passeggiate sui monti in cerca di una stella alpina, petali gialli come i bottoni d’oro che si raccolgono in primavera, petali arancio come i tramonti dell’ estate. Tutti quei fiori ci stavano parlando e ogni volta che li guardavamo si fondevano assieme formando un tappeto magico che volava indietro nel tempo, riportandoci ai momenti più belli della nostra vita. Rivedevo i miei compleanni, le feste con gli amici, le chiesette di campagna con i loro campanili, i miei primi amori, i trionfi sui palcoscenici di tutto il mondo. Quante cose belle i fiori mi avevano donato accompagnando ogni mio lieto momento!
Sapevo che ogni volta che volevo rivivere quelle emozioni non dovevo far altro che ritornare in quel giardino dove il tempo si fermava ed ascoltare, ancora una volta, la voce della Natura. “Nel silenzio e nella pace del cuore troverete tutto quello che vi serve per vivere “, ci ripeteva il soffiare del vento. E allora Grifo Daisy ed io pensammo davvero che il tempo non aveva senso, non esisteva più. La realtà era quella di esistere qui ed ora, consapevolmente, di respirare guardando quelle rose, quei fiori che palpitanti di vita vera ci svelavano il prezioso segreto di quel Giardino incantato: l’Amore che cancella il tempo e che può essere sempre ritrovato, in ogni momento, nel più profondo dell’anima.
Riflettemmo, a lungo sui prodigi che le Fate che avevamo incontrato sul nostro cammino stavano operando in ciascuno di noi e lasciammo quel Giardino silenziosamente, come meditando su un grande mistero.
Ci dirigemmo verso il nostro carro alato e partimmo subito dopo, volando alti sopra le stelle. Era l’ora del tramonto e ci divertimmo ad osservare i giochi dei raggi di sole fra le nubi. Chissà quante altre cose belle avremmo imparato in quel fantastico viaggio.

 


 

Le memorie del giovane Oscar

Questo romanzo è dedicato ai giovani, è per loro che lo scrivo. Essi non sono mai abbastanza soddisfatti, si scoraggiano per un nulla e spesso diventano malinconici. Li incontro spesso a Roma sugli autobus o sulle metro e pare che non ti vedano neppure, tutti intenti a digitare sui cellulari in cerca di nuove motivazioni o forse di nuove emozioni. A loro voglio dedicare la storia vera di un giovane deportato che in seguito a mille avventure disastrose grazie ad una buona dose di pazienza e a vari incontri provvidenziali riuscì a superare paure ed ostacoli e si affermo’ nella vita dapprima come professore di Italiano a Viadana nel Gennaio del 1947 e poi intraprese con molto successo la carriera militare. Poeta, scrittore in erba, si innamorò della natura e della vita in un momento storico molto difficile. Ricostruendo i tempi durissimi in cui ha vissuto ho compreso quanti giovani come lui e le loro famiglie fossero stati sconvolti dalla guerra e dai massacri delle foibe e quanto fosse stato difficile per loro ricostruire la vita, gli affetti, e soprattutto imparare a gestire i ricordi amari della fame, del freddo, della deportazione, delle case bombardate e dei morti in trincea. Ma il giovane Oscar, riesce nonostante tutto a non perdersi d’animo e con l’aiuto della ragione e della fede ad intravedere, in questa triste realtà, una speranza di una vita migliore. Radicandosi in tutto ciò che di bello e di buono poteva cogliere nella semplice sua vita di adolescente a Lussinpiccolo, in Croazia, riuscì a superare tutti gli ostacoli. Negli incontri fortuiti, negli amori giovanili, nella fede cercò un motivo per sostenere il suo animo in tempi difficili. Ogni cosa che guardava bella o brutta tratteneva nella sua memoria aumentando la sua saggezza. L’ amore per la natura, per la scrittura, per la poesia, lo sport della pesca, gli amici animali, gli amici furono per lui un punto fermo per vivere pienamente emozioni e speranze. Che vita vera e bellissima in una seppur triste epoca. Fu la fede nell’eternità, nella certezza di poter un giorno riabbracciare i suoi cari, la luce che lo guidò verso l’uscita da tutto il triste fardello di eventi che dovette affrontare. Quando il suo sguardo si perdeva all’orizzonte alla ricerca di chissà quale vaga reminiscenza del passato, una forza vitale fatta di consapevolezza, di ottimismo e leggera ironia, si impadroniva di lui facendolo sorridere. I suoi talenti e la sua arguzia lo aiutarono a rialzarsi sempre da ogni caduta, sostenendolo fino alla fine della sua avventura. Credetemi cari lettori! Quando sono stanca e vivere e tutto mi sembra penoso e difficile, la fede un sogno irraggiungibile, ripenso a lui come una guida, alle sue orme grandi e visibili come quelle di un orso bianco, ripenso alla sua grande forza d’animo, al coraggio che gli consentì di andare avanti cercando di lavorare umilmente ma onestamente per guadagnarsi il pane, all’attaccamento alla sua famiglia d’origine di cui serbò sempre vivo il ricordo, alla sua abnegazione, alla sua perseveranza nella lotta per la vita.
Perciò, cari amici, mi auguro che questo racconto possa entusiasmare, illuminare, motivare in qualche modo anche la vostra vita rendendola bella e desiderabile.
Nei momenti difficili pensate un po’ anche voi al giovane Oscar e andate avanti con fiducia. Quel giovanotto coraggioso era mio padre.