Chiara Da Ros - Poesie e Racconti

La mia àncora, il mio ancóra

 

Impetuosi barlumi di luce

che si scagliano tra le pareti del mio cuore.

Una mano materna pronta a sorreggere il mare di ricordi che affogano il mio spirito.

Un angelo tangibile reso visibile grazie ad occhi sensibili.

Un’emozione di cui non ne avrò mai abbastanza.


 

Fai parte di me

 

Ti sei dissolto nell’aria come una farfalla evanescente.

Stelle di polvere magica inebriavano il mio volto mentre cercavo di respirarti.

Avrei voluto viverti di più,

abbracciarti senza mai chiudere gli occhi per non perdermi nemmeno un secondo di te.

Ora la memoria ripercuote le tue immagini e io ti penso, ma è più che un pensarti.

Ti sento dentro di me

come fossimo due anime che non sono mai davvero separate.


 

Dipendi da te stesso

 

Tutti sono utili, nessuno è indispensabile.

Ma tu continua ad offrire amore perché quello che dai, ritorna.

Non aspettarti nulla dagli altri però. Vivi la tua vita lasciandoti trasportare dalle emozioni

senza dimenticare che ci sei tu al primo posto.


 

Non dimenticarmi mai

 

Mi guardasti come se volessi diventare sinolo di me.

Socchiudesti la bocca appoggiando il capo sul mio petto e con voce pacata, senza preamboli,

fluttuasti nel vento delle mie incertezze accarezzando la parte migliore di me.


 

Interferenze

 

Melodie gloriose segnavano il nostro cammino

mentre io ti dicevo che ti volevo al mio fianco,

anima infinita di sussurri meravigliosi

che or tace ma da dir ha molto.


 

L’alba dei ricordi

 

 

La lucerna di colori viaggia solitaria

nell’aria dipingendo le fronde delle perdute genti.

Or il mondo tace, il cuore sussurra.

L’anima evanescente esala le ultime forme percepite dalla sensibilità

mentre una farfalla libera le sue ali volando leggiadra non curandosi del tempo che passa


 

Geile Zeit

 

Nacht.

Überall ist es dunkel, alles ist schwarz, so schwarz wie deine Stimmung und deine Gefühle.

Der Traum ist aus.

Zurückgeblieben sind nur Scherben.

Wo ist die Geile Zeit geblieben?

Die Zeit hat dir die Zeichen gesandt, doch du hast nicht gesehen. Blind bist du weitergerannt.

Tagen gehen, Nächte kommen wie zuvor.

Dir fehlt der Stern?

Dir fehlt das Licht?

Ja, siehst du sie nicht?

Sie waren und sie sind immer da.

Doch Liebe macht blind.

Wohin führt zurück.

Lass alle fixen Gedanken gehen!

Öffne deine Augen,

öffne dein Herz,

blas weg den Schmerz!

Verlass den Wald,

die Nacht ist kalt.

Ein Schritt ins Licht,

vergiß es nicht.

Ein Schritt nach vor neugeboren.

Dein Stern von nah und fern.

Sei bereit für die Zeiger der Zeit, nicht mehr weit ist eine neue geile Zeit, voll Licht und Freud!

 

Traduzione:

Tempo felice

Notte.

Ovunque è oscuro, tutto è nero così nero come i tuoi sentimenti e le tue emozioni.

Il sogno è finito.

Indietro sono rimasti solamente cocci.

Dov’è andato il tempo felice?

Quest’ultimo ti ha mandato dei segnali ma tu non li hai visti. Sei andata avanti quasi fossi cieca.

I giorni passano, le notti anche, come prima.

Ti manca la stella?

Ti manca la luce?

Si, non la vedi?

Loro erano e sono rimaste sempre là.

A volte l’amore rende ciechi

dove ti ha portata indietro.

Lascia scorrere i tuoi pensieri velocemente!

Apri i tuoi occhi

Apri il tuo cuore.

Dimentica la foresta,

la notte è fredda

stai avanzando nella luce

non dimenticarlo.

Un passo per rinascere.

La tua stella sarà vicina, lontana.

Sii pronto per i suggerimenti del tempo, non lontano arriverà un tempo fresco pieno di luce e di gioia!


Dove può arrivare l’amore

 

C’era una volta, tanto tempo fa, in un luogo dominato da magia, sentimenti e polvere magica una fatina. Una fatina dagli occhi castani e i capelli biondi, una fatina tanto tanto fortunata perché nata dall’amore di due genitori accompagnata poi da due certezze: la prima che non l’avrebbero abbandonata mai, per nessuna ragione al mondo, la seconda che l’avrebbero amata incondizionatamente per il resto dei suoi giorni. Mamma e papà fatino abitavano nelle corolle dei fiori, sotto gli ombrelli picchiettati di bianco dei funghi, tra le rocce muscose, fra i rami degli alberi.
Le foglie sussurravano antichi segreti che nelle credenze del villaggio fatato appartenevano ai folletti che costituivano un popolo a sé. A volte le fatine si divertivano giocando nell’aria facendo sorridere la piccola fatina, molte amavano invece cantarle qualcosina, ballarle qualcosina… Tutte avevano interessi diversi ma tutte abitavano nello stesso villaggio sotto la guida di mamma fatina e papa fatino. Era un luogo magico dunque, dove tutti si volevano tanto tanto bene e dove al centro si ergeva un grande albero che simboleggiava la vita. Le fatine sono come nostri angioletti custodi: svaniscono come se fossero fatte di fumo, non hanno l’ombra se visti alla luce del sole e non lasciano mica orme sulla terra quando camminano queste furbette! Servono a proteggerci da tutto e da tutti e ci ricordano che bisogna aver cura di splendere, qualsiasi cosa accada. Alla piccola fatina piaceva molto stare nel villaggio, sentirsi amata, sentirsi abbastanza in tutto. La piccolina si chiamava “Fiore”; Fiore perché quando era ancora nel pancione della sua mamma fatina, i suoi genitori avevano piantato un bellissimo fiore vicino all’albero della vita, simbolo del loro amore e quello per Flora che giorno dopo giorno diventava sempre più grande, immenso, forte, che non si spezzava mai nonostante le numerose folate di vento che impetuose facevano spostare il povero fiore. Quest’ultimo si spostava, non si spezzava. È questo che mamma fatina provava per sua figlia. Un amore che andava al di là delle apparenze, un amore che c’era nel nonostante tutto. “Non fa niente se hai qualche chilo in più Flora, se non sei bella come le altre fatine, tu per me sei bellissima così come sei, sarai per sempre la mia fatina più bella del villaggio, non dimenticarlo mai, promettimelo” disse mamma fatina alla sua piccolina. Flora si asciugò le lacrime per la gioia nella camicia di papà ripendosi di quanto fosse fortunata.

Ogni giorno papà fatino e mamma fatina prima di portare la piccolina alla scuola materna la posavano tra le loro ginocchia e rispondevano sempre alla stessa affermazione di Flora la quale non trovava mai un punto di conclusione. “Mamma, penso che sia tu ad aver gli occhi più belli, sembrano brillare come quelli di papà. Ma hai messo qualche goccia per gli occhi speciale?” Mamma fatina accennò un sorriso e rispose:” è amore Flora, amore per il tuo papà, amore per la famiglia, amore per la vita. A mamma fatina piaceva tanto raccontare alla sua bambina favole e storie tanto che un giorno le disse:” Un giorno ti innamorerai anche tu, troverai anche tu quelle gocce speciali che ti faranno ridere come non mai ma c’è una cosa che non ti ho detto…. non te ne accorgerai”. Flora spostò i riccioli d’oro che gli incorniciavano il volto e stupita disse:” Ma lo posso sentire dal mio cuoricino? Ma scusa mammina, come può nascere per caso?”.

“Flora”, rispose il papà accarezzandole il viso “tutte le cose più belle nascono per caso quando meno te lo aspetti. Diventerà come una continua, come quando ridi e non sai il perché. L’amore è qualcosa nato per caso che poi diventerà il tuo gioco preferito. Diventi, come disse un grande filosofo sinolo di forma e materia con l’altra persona, diventi una cosa sola”. Flora capii che l’amore era qualcosa di meraviglioso, era dimenticarsi che nel mondo esistevano altri 7 milioni di fatini e la che tua felicità ne dipendeva solo da uno.


Il vuoto dentro di te

 

Tutto intorno c’era silenzio.

Il freddo pungente profumava di neve e il cielo era dipinto da un grigio ferro.

Tutto sembrava insensibile.

Nell’aria immobile il fumo dei camini si fermava e sembrava confondersi con il grigiore del cielo.

Tutto era malinconico e il colore del cielo nel frattempo si accentuava, pareva avvolgere, assorbire i rami degli alberi spogli, privi di vita.

Fu un attimo, perché improvvisamente quell’informità di colori sembrava animarsi, e qualche fiocco indeciso scendeva dall’alto, faceva capolino tra cielo e terra, esitava, non sapeva dove posarsi.

E via via i fiocchi si facevano sempre più fitti, più consistenti.

Poco dopo il tutto si era trasformato in una danza di farfalle candide che volteggiavano nell’aria salubre. Qualcuna si adagiava a terra. Si scioglieva. Altre lasciavano un leggero strato bianco, come di cipria, altre si posavano sui rami.

Poco dopo tutto si era trasformato in un chiarore che inondava l’atmosfera e donava toni argentei alle cose, immerse in un silenzio profondo. Ovattato.

Lentamente la notte scendeva, il cielo diventava corvino e le case su questo color inchiostro si incappucciavano di bianco.

Qua e là rompevano l’armonia evanescenti luci gialle, ma una luce più decisa che proveniva da una grande finestra prendeva spazio a tutte le altre catturandomi così l’attenzione. Mano a mano che avanzavo verso quella finestra notavo un volto offuscato e un profumo più indefinito all’olfatto. Così lentamente, strisciante si diffuse nell’aria quasi intrepido quel profumo di nostalgia che le definiva il volto. Quello di una ragazza dolce, delicata, eterea che a un sol soffio di diverbi si turbava e i suoi occhi rigonfi di lacrime le facevano trasparire il cuore avvilito. Un cuore che aveva solo bisogno di essere amato da cui poi poter costruire una vita senza apprensioni. Lei era una ragazza speciale, era una di quelle ragazze che vedeva anche nella pioggia un motivo di svolta. Credeva infatti che il cielo piangesse per troppa felicità. Sua madre le aveva sempre insegnato che c’è sempre un lato positivo nelle cose, che le lacrime servono unicamente per riportarti alla realtà e non per distruggerti. Passava costantemente da essere amata, armata, delusa, illusa ma lei non si abbatteva mai. Prendeva sempre come esempio le onde del mare che infrangendosi contro gli scogli trovavano sempre la forza di rialzarsi.


Silenzi assordanti

 

Tutto iniziò in una giornata d’estate, per caso, non so dire il giorno preciso perché, si sa, le cose belle succedono all’improvviso, quando meno te le aspetti. Quest’ultime ti sconvolgono lo sguardo, il modo di pensare, di vivere un po’ come fanno i fiumi. Loro lasceranno sempre la loro scia, lasceranno sempre quel solco che non andrà via facilmente. Perché loro, come la nostra storia, hanno tracciato un segno indelebile.

Eravamo lì, in quella grande distesa di sabbia. Il sole cuocente abbagliava i nostri occhi come se volesse coprire i nostri difetti, come se volesse dirci: “abbiate il coraggio di inseguire le vostre sensazioni, ma soprattutto il cuore”. Io quella frase non l’avevo capita finché non era diventato di qualcun’altra. Lui per me era l’amore che mi faceva capire che al mondo c’era un posto migliore. Mi ricordo ancora quando i suoi capelli si confondevano con la sabbia, quando in quel pomeriggio d’estate da padrona la faceva la brezza e quando fissando l’orizzonte pensavo che non volevo essere da nessun’altra parte se non vicino a lui. Io in quel momento non gli espressi il mio amore a parole, per me bastavano gli sguardi e sono convinta che in quella situazione anche un’idiota avrebbe capito che avevo perso la testa. Lui era vicino a me. Eravamo solamente mani strette per non lasciarsi. Lui era timido e mi piaceva.

Ho sempre pensato che i timidi amino con gli occhi. Tu non parlavi. Tu non parlavi mai, eri silenzioso tanto che quando te ne sei andato ho provato a chiamarti sul cellulare ma tu non rispondevi. Eri vestito di orgoglio e una maglietta grigia ti copriva a mala pena la vita; e in quella spiaggia iniziò tutto. Si percepiva il suono delle onde del mare che si infrangevano contro gli scogli, si percepiva il profumo salmastro che inondava la grande distesa di sabbia. Occhi che brillavano. Stelle che avevano solo bisogno di essere cercate.