Chiara Frisone - Racconti

La cornice di Gianna

Gianna era una di quelle anziane signore che si nascondevano sotto occhiali spessi e pesanti. Osservava il mondo dalla sua piccola finestra nella camera da letto arredata anni Sessanta. La carta da parati rappresentava il suo unico mondo fatti di ricordi. I chiodi appesantiti dalla lunga vita sorreggevano cornici dorate che racchiudevano la sua infanzia. Gianna spesso prima di dormire sforzava la sua memoria alla ricerca di qualche istante da non lasciare all’oblio. Si ricordava di quando si era tuffata nell’ Arno la prima volta, di quando il mare l’aveva travolta a Follonica, lei incapace nuotatrice, si era lasciata trascinare nell’abisso silenzioso della profondità. Si era sentita felice. A volte in sogno le appariva anche Giuseppe, la gioia della sua vita, l’uomo che con mani grandi e ruvide le aveva chiesto la mano quando era appena quattordicenne. Gianna a volte nel silenzio opaco della sua stanza si concedeva qualche lacrima ripensando all’amore profondo che aveva vissuto. Giuseppe era scomparso dieci anni prima, una malattia improvvisa l’aveva colto in pochi mesi. Fu così che Gianna dopo quel profondo dolore si chiuse tra quella mura gelide di Siena e non uscì più dallo spazio che aveva sempre considerato la sua piccola esistenza. La sua quotidianità era scandita dai tre pasti che la donna si preparava fedelmente e con meticolosa cura. Non saltava mai nessuno di essi, c’era la colazione fatta per ricostituirsi con il latte caldo; il pranzo dedicato alla pasta con il sugo e infine la cena costituita da un semplice brodo opaco. Tutto ruotava attorno alle piccole usanze quotidiane dell’esistenza, la cura del proprio corpo, la doccia mattutina e un buon libro che aveva sempre accompagnato le sue giornate fin dall’infanzia. Il suo telefono non squillava mai. Gianna non aveva mai avuto figli, un tumore aveva colpito il suo utero. Le avevano portato via tutto, pensava tra sé, le avevano strappato l’unico lembo di speranza futura. Eppure, era riuscita a costruire la sua piccola intimità amorosa con Giuseppe che dopo quell’evento l’aveva portata in giro per l’Italia. Si era innamorata di Assisi, del sole laziale e dei tramonti siciliani. Gianna amava fare la scarpetta, adorava il sapore intenso che si prova quando il pane raccoglie fino all’ultima goccia tutto il succo profondo del piatto, solo attraverso il cibo aveva imparato a godersi i piccoli piaceri. Ogni tanto c’era anche la musica, aveva una collezione di vinili; spesso nella solitudine della sua casa amava socchiudere gli occhi sul suo divano per concedersi una mezz’ora di pausa dai pensieri. Ci fu un momento durante questi dieci anni in cui sentì l’esigenza di spalancare la finestra, cercò invano di aprire con tutta la forza che aveva la maniglia spessa di ottone che socchiudeva i vetri leggeri, ma qualcosa l’aveva bloccata, la paura forse di poter vivere senza Giuseppe. Gianna aveva trovato un modo per vivere il mondo circostante. Aveva cambiato l’arredamento della sua stanza in modo da poter osservare al meglio le finestre del vicinato. C’era la coppia di innamorati con il loro
terrazzino, il guardone con il binocolo del palazzo di fronte e infine una casa abitata da studentesse. Amava osservare la loro quotidianità. La coppia viveva ormai da quattro anni nel palazzo, prima quella casa era stata affittata per lungo tempo e le persone cambiavano di continuo. Li vide litigare, lavorare fino a tardi, cucinare, fumare sul loro piccolo terrazzo che affacciava proprio su Piazza del Campo, fino a quando lei non rimase incinta. Si sentiva così partecipe della loro esistenza che aveva immaginato la loro storia nei minimi dettagli, aveva assegnato perfino un nome di fantasia, che per lei era diventata la realtà. Le studentesse erano le stesse da ormai sette anni, le intravedeva studiare dalle loro piccole finestrelle a tutte le ore del giorno. Le aveva viste con dei ragazzi diversi, spogliarsi nel cuore della notte e perfino piangere alla finestra guardando la luna. Aveva sentito la loro musica e attratta dal suono ritmato e petulante si era trovata a ballare nella sua stanzina, immaginandosi ancora una volta abbracciata al suo Giuseppe. Il guardone del palazzo di fronte era un uomo solo come lei che spesso si spogliava nudo davanti alla finestra, osservando con il binocolo, le ragazze che passavano sotto la strada. Nessuno conosceva Gianna eppure lei conosceva tutti. Tutto questo la faceva sentire meno sola tra quelle quattro mura gelide e decadenti. L’anziana signora ormai viveva ogni singolo istante della sua giornata attaccata al vetro, si concedeva solo qualche piccola pausa per pulirsi gli occhiali, o per sgranchirsi le gambe, ma quando tornava alla sua attività tutto le sembrava sconnesso, come se avesse perso minuti essenziali di un film senza fine. Gianna non aveva amici, ma queste persone erano diventati i suoi affetti. Spesso la notte si dimenticava perfino di rievocare la memoria, lasciando invece spazio alla fantasia immaginativa del suo vicinato. Giuseppe rimaneva una costante della sua vita quotidiana, ogni tanto spolverava la foto che ritraeva il loro matrimonio, istanti felici da non poter dimenticare, fino a quando proprio durante questa abituale attività, la cornice preziosa cadde frantumando il vetro in mille pezzi. Ci furono solo istanti di silenzio. Gianna rimase impietrita a guardare le schegge disperse ovunque. Il suono gelido del vetro contro il pavimento di cotto le rimbombava nella testa. Saltò il pranzo, la cena e la colazione successiva rimase immobile di fronte a quella disgrazia per ore intere, senza sbattere le palpebre, versando soltanto qualche lacrima ogni tanto. Passò circa un giorno e a distrarla dal suo strazio fu un boato proveniente dall’esterno. Sentì urlare qualcuno in strada, ma la voci non erano ben comprensibili, qualcuno gridava fino a non avere più voce, udì perfino il richiamo di un pianto di bambino, quello che lei non aveva mai avuto, ma solo desiderato. Si alzò in piedi, si mise le scarpe, pulì gli occhiali e uscì di casa. Dopo dieci anni di lunga permanenza in quella casa lasciava lo spazio ormai confortevole dell’esistenza per recarsi verso l’ignoto. Non ci pensò nemmeno, non sapeva
nemmeno che stagione fosse. Si lanciò giù dalle scale, e in quella corsa contro il tempo sfiorarono appena la sua attenzione alcuni piccoli mutamenti che il palazzo aveva effettuato in questi anni. Arrivò al portone e con tutta la forza che possedeva spalancò l’immensa muraglia di legno che la rinchiudeva. La luce forte del sole di mezzogiorno colpì il suo viso, socchiuse gli occhi, il cielo blu rifletteva nei suoi occhiali tondi e trasparenti. I capelli si spostavano leggermente, mossi dalla leggera brezza. Non appena ebbe il tempo di ambientarsi alla luce, vide una grande folla che si accalcava intorno ad una persona distesa a terra. Tanti volti diversi, estranei alla sua quotidianità la facevano sentire come invisibile. Vide perfino tra questi la famigliola, le studentesse e il vecchio guardone. Cercò di avvicinarsi a loro, non interessata alla scena. Lì vide così vicini che non seppe più trattenere l’emozione. Poteva vedere così per la prima volta, le occhiaie pesanti della madre del piccolo, le rughe sotto gli occhi dell’anziano signore e il neo della studentessa Giulia. Tutto le sembrava così irreale. Lentamente si accorse che loro non le rivolgevano nemmeno uno sguardo, neanche un piccolo cenno di saluto. Nessuno si accorse di lei, alcune persone la urtarono, destabilizzando il suo precario equilibrio. Con tutte le forze che aveva cercò la soglia di casa, aveva bisogno di tornare al suo “ossigeno quotidiano”, la sua stanza, le sue quattro mura, le sue foto. Prima però doveva comprare una nuova cornice per la foto con Giuseppe. Chiese aiuto ad una signora per la strada che non si fermò nemmeno, entrò in un negozio e nessuno la guardò o le rivolse parola. Decise allora in preda all’ansia di tornare a casa e di aggiustare il vetro da sola. Il cielo si fece grigio d’improvviso. Corse verso il portone, usò tutta le energie rimaste, salì le scale, chiuse la porta dietro di sé e ricominciò a respirare. Rientrata in casa, vide il vetro abbandonato per terra. Ancora sconvolta per l’accaduto raccolse la fotografia da terra, l’accarezzò e baciò quel pezzo di carta, unico ricordo di una vita vera. Si coricò sul letto, si rannicchiò in un angolo stringendo a sé il ritratto. Per lungo tempo aveva immaginato il mondo senza mai viverlo e quando l’aveva toccato si era sentita esclusa da esso. Si accorse solo allora chiudendo gli occhi che il suo universo se n’era già andato tempo fa e lei ora desiderava solo raggiungerlo.

Fu così che Gianna si spense due ore dopo, il dolore della vita l’aveva colta. Appena prima di chiudere gli occhi vide Giuseppe al suo fianco, ancora una volta. Qualcuno disse che soffriva di mal d’amore, altri dissero che era la solitudine. Udirono i suoi passi, i suoi sospiri, le sue lacrime, ma nessuno la vide mai.