Chiara Olivieri - Poesie

DEA

Ho solo saputo immaginarti
come colei che sa da sempre,
selvatica tra l’aria dei templi antichi,
nella pece della resurrezione
Mai appresi l’arte delle tue mani
per curare anche zoppicanti infettate di paura.
Il mio tempo scricchiola ad ogni passo
sopra il ghiaccio
mentre tu scorri sotto, senza trappole.
Non posso raggiungerti in fondo al mare
finché non riuscirò a plasmare le rocce
per accomodare i miei figli.
Ti avessi incontrata prima
il mio tempo non varrebbe
una spolverata di istanti golosi di memoria,
testarda anoressica di vita,
ma un morbido letto, verso te
che risveglia le stanze delle mie giunture cigolanti
sorde al tuo piacere.
Anch’io strillai al primo rumore che non eri tu
e mi abituai presto a non piangere.
Per essere amata.
Senza casa.
Ma l’esilio non perdona chi non sa fiutare con i seni
la danza dentro al ventre,
fino a terra,
nel ringhio di chi assale.
Scivolo nell’ombra di colei che sa da sempre
nella culla delle madri senza nome,
mentre ricama pace sui gradini dell’innocenza


 

NARCISO

Narciso,
petalo di acqua di fonte,
solitudine di carezze e profumi di pelle
attendi ciclicamente l’odore del tuo guanto marcio.
Membrana impermeabile all’eco di sospiri
Inceppasti nella ruggine di cerniera difettosa.

Non di denti, ma di cuore
Narciso,
Figlio o uomo
nato o destinato
fuori dal tempo per chi ti ha amato,
oltre il tempo per curarti gli occhi.
Fantasmi di specchi ingannarono maschere
dietro alle tue dita
in apparenza al sicuro:
nessuna macchia bucata o alone sfuocato.
Le palpebre non seccarono gli occhi
per vedere il fuoco oltre la tua nuca.
L’acqua sciolse mollemente il vero.
Fosti apparentemente salvo.
Narciso,
giallo petalo di acqua di fonte
annusi per sempre l’odore del marcio.


 

IL MATTO

Sola
di sapere orizzontale
quel giorno,
di ritorno,
mi tuffai.
Dentro al tempo per imparare ad esistere,
senza più esistere,
macchiata da chi disse un giorno di essere mio padre e mia madre,
senza aver bisogno né di un padre, né di una madre
né di leggi,
né di un corpo.
Mi resi imperfetta tra codici di trappole ignoranti

scegliendomi quest’uno sottratto all’infinito:
il matto.
I suoi occhi di lupo fiutano
tra sassi sospesi di nomi antichi
e corpi colati di lava
l’odore umido di uragani alle spalle
mentre nuda , sul suo manto caldo,
rimpiango di non aver capito prima.
Riesco ad entrare, ma stretta
e ti guardo da più in alto,
piedi dentro ai piedi,
l’unico gancio che ci resta.
Non costringermi a entrare,
solo perché tu non riesci a uscire.
Sbatto contro le mie stesse volte.
Risalgo mia regina, sulla tua spalla,
Lontano da questa terra che calpesti con i tuoi giganteschi piedi bianchi
mentre mescoli con il tuo scettro la mia vita, non divina.
Zampillo e cascata sai di me,
più dei miei guanti che spezzarono il temporale
Più della cupola che di azzurro aprirà di nuovo il mio cranio.
Più di questo immenso, cosi piccolo
che in un solo istante ha reso il mio umano
Infinitamente eterno


 

UN ADDIO

Cos’è stato il nostro amore
se non bello e non brutto
uno tra tanti
non speciale.
Perchè è stato
quando al cenno della sorte
si perse tra gli odori degli amanti
nell’ immobile resa di sanguinari assalti.
Dove è stato
se non nel bagliore di soli spenti
che scaldavano di colpe la mia fame
nelle sacche fredde intrappolate ai muri.
Quando è stato
se non in questo istante indifferente senza colpa
che benedice il suo eroico abbaglio
prima del buio
dietro alle nostre reciproche spalle.


 

BELLEZZA

 

Ti sei lasciata cadere da me,
in silenzio,
scavandomi strade sul viso e nel cuore,

tutte quelle che ho dimenticato di percorrere
per essermi accorta solo del mio tempo e non del tuo.
Mi chiedi ora di tornare,
dopo che segnasti il nostro patto contro,
bugiarda complice di un bello pari al buono
come se un corpo brutto non meritasse un sentimento nobile.
Ma la bellezza arresta lo sguardo
solo nella mente di chi sa fermare il tempo.
Dentro una vertigine,
quando ciò che vedi è talmente piccolo
da desiderare di prendertene cura.
Calpesto vetri rotti di un contenuto fragile
Senza tagliarmi
Senza raccoglierli
Aria fresca
Rumori
Come tanti
come tutti


 

FIGLIO

Con il soffio curioso del viandante
profumasti il mio grembo di miracolo marino.
Mi scegliesti in questa soglia
tra le chiavi dei guardiani,
senza aria in mezzo al fuoco.
Guariscimi di corse controvento
e fuggi da questo mio nome
madre
ma mai da me,
che so tra le mie ciglia
ogni tuo rumore di bambino.

Vorrei, ma come posso,
da allieva in questa vita
non sporcare il nostro sangue.
Troppo lega il fango ai piedi.
Ogni presa è un tuo distacco.
Ma so che un giorno
il tuo passo avanti al mio
nella casa accanto al mare
sarò madre.
La tua.


 

GIUDIZIO

Ancora non mi hai trovato,
ma sono più vicino di quanto pensi.
Una sola parola,
una soltanto,
e sarò la tua abitudine.
Una sola piccola sbavatura
ed entrerò ed uscirò dalle fessure della tua bocca,
degli occhi
finalmente il piacere di aprire le tue rughe.
Tutti, quando annusano il mio odore, si spezzano.
Quando puzzano di me si addormentano
e non riescono più a trovarmi.
Dentro ai loro spazi mancati,
quelli che non vorrebbero mai abitare,
ma che esistono.
Dò sollievo.
Prima o poi c’è sempre un momento in cui qualcosa frana.
Ed è quello il mio momento,
finchè nuovo cemento non venga inserito tra le crepe