Claudio Costa - Poesie

Il soffitto del cielo

Chissà se il vento di un aquilone, potrà mai restituirmi il tuo sorriso, e la pioggia, cavare le mie ossa da questo mio vestito secco.
Guardare avanti con il viso rovesciato, che versa le parole, come sassi dentro un secchio.
Ricordare quella notte, con il cielo ormai sopra le lenzuola, e due occhi ormai evaporati.
È quel che resta di noi, di me, di te, della mia vita.
Chissà quanto tempo ne ho ancora, per trovare oltre l’orizzonte, il soffitto del cielo, dove forse tu siedi e mi regali i ricordi.

 

 

 

L’uomo della discarica

Gli occhi bagnati, le mani asciugate.
Il cuore sui ginocchi e la testa impazzita.
Di sogni di velluto, di sogni strappati.
Le sigarette sui denti, le labbra spaccate.
L’uomo della discarica rotola in salita, ma si confonde tra i rifiuti della vita.
Gli occhi scollati, le mani girate.
Il cuore di fango, la testa seppellita.
Di sogni di velluto, di sogni strappati.
La cenere sul petto, le labbra inghiottite.
L’uomo della discarica tace per sempre, ma nel suo silenzio pare parlare.

 

 

 

Tempo

Passeranno anche questi giorni sottili, di parole e trincee, di fili bagnati che asciugano il tempo. Per tutto il nostro di tempo.
E non era facile, immaginare le vostre di facce. Nello sgretolarsi del tempo, che lentamente traduce i nostri silenzi.
E passeranno anche i sorrisi bruciati, come mele bacate. Gli sguardi bendati, i baci non dati, per una stretta di mano.

 

 

 

Anni

Cercavo le parole, per sconfiggere le mie ombre e cercare un pò d’amore.
E ci sono voluti anni, per poterti dire ancora, giochiamo a nascondino.
E ci sono voluti anni, per starti ancora un pò vicino.
Adesso che abbiamo sconfitto il tempo, non diamogli da vivere, dimenticando il nostro tempo.

 

 

 

Potrei

Potrei regalarle metri e metri delle mie certezze, potrei pisciare sopra le sue, di certezze.
Potrei gettarmi sopra tutte le mie bestemmie, e chiedere scusa, ad un ammasso di pecore, illuminate, da chissà quale luce.
Potrei regalarle metri e metri di cielo, potrei chiedere alla morte di farmi bello.
Potrei far cadere i miei occhi, per guardare l’avvenire dietro le mie spalle, e guardare senza luce, dove finiscono le mie palle.
Ma non c’è nulla che possa cancellare la mia bocca, per sputare le sue rose fresche.
Ma non c’è nulla che possa darmi ancora, il suo sorriso sul mio viso.

 

 

 

Che ne sanno

Che ne sanno le tue mani, di ciò che provo, che ne sanno i tuoi
occhi, delle mie notti, solo.
Dietro a quella vetrina, c’erano i tuoi fantasmi, e tutti i tuoi anni.
Ma guarda un po’ avanti, che alle spalle siamo già in tanti, tra gli
sputi e le bestemmie dei santi, tra i tuoi capricci appiccicaticci e
gli occhi spalancati, vetusti, inchiodati e oramai venduti, a chi li
avevi regalati.

 

 

 

Amore

A chi chiesi l’amore mi rispose con un fiore, ma gli amori non crescevano sui prati e nemmeno gli avevo comprati.
Ma per schiacciarli, bastava calpestarli come i fiori sui prati.
E dalla bocca le parole, tagliavano il cuore, dopo i primi baci appassionati e i castelli di sabbia, che le onde dei loro capelli li avevan bruciati.

 

 

 

La bella stagione

Rubai e venni inghiottito da una bocca venduta, ruppi un vetro e venni arrestato da chi la portava sul viso.
Rubai il tuo cuore e mi ricambiasti con amore.
Nella bella stagione.
Quando gli occhi più rotondi vedevano un po’ per finta, come finta la bella stagione, che nascondeva le cose ma ti portava le rose.
Che nascondeva le cose ma ti portava le rose.
La bella stagione.
E quando te ne andasti lontano, non era più, bella stagione.
E mai, mai nessuna bocca, rimproverò chi ti aveva portata lontano.
Chi ti aveva rubato.
E chissà quali stagioni vedrai al di sopra della pioggia.
Quando forse ti nasconderà le rose per portarti quelle cose, la bella stagione.

 

 

 

Amoressia

Mi nascosi dietro le porte, per un segreto mai segreto e segretamente confessai, occhi di ginestra e cuore angoloso, odoroso e ansioso, prezioso, grazioso di quegli occhi senza la bocca sotto le curve del cielo.
Come scale di un’improbabile cammino, raccontai sogni senza mai chiedere al destino.
Non chiedemmo mai di comprendere ma compresi, sospesi e protesi, verso quella linea di fuga che mai ci portò via lontano.
Dubitosi e incerti, tra i versi, persi, versetti perversi delle stesse gambe accavallate, braccia ruvide e occhi di corallo, persi i mio coraggio su quel passaggio, tatuaggio delle sue maschere sul petto per bruciare un po’ reietto e un bacio dato via di schiena.

 

 

 

Un sogno

Un sogno, che però ce n’è tanti, così che scrisse a novembre, per tirar le somme dei tanti, quei giorni di mestizia seduto sull’anima.
E l’anima si stanca, nel veder quell’uomo piangere, senza le lacrime.
Un sogno ormai vecchio, da poterlo ingiallire, senza lasciare una foto al tempo, come ricordo.
E in quell’uomo il ricordo è lo specchio, che lo guarda con occhi di vetro e la barba ingrassata.
Un sogno che ha imparato a svegliarsi alle quattro del mattino, per far tacere la fila di ubriachi vestiti da lavoro, le auto ferme come le trame del suo maglione, mentre piove ed il sarcastico cielo, mandava le nuvole a nascondere il suo sorriso.
Ma proprio durante la sera, quando tutto ormai era nascosto, nell’ora del buon riposo, negli occhi di vetro che al buio vedono le stelle, in quell’uomo apparve un sole come un tatuaggio sulla pelle.

 

 

 

Genova

Ho molti pensieri. Genova è un pensiero del cuore, con i suoi vicoli di poesia, le luci notturne, appese con i fili del sale ed il suo mare, onde di passato che torna, ma si allontana e mi tocca la bocca, per vendermi le parole.
Genova che fiera, mi restituisce i giorni e le barche, capovolte e un pò arrese, madre di gemiti e lacrime, dietro le gelosie che sogguardano i pescatori in fiamme e la mia litania.
Genova che mi ha dato la luce, ma il sole non significa nulla, mi ha dato una finestra, per specchiarmi oppure osservare, mi ha dato la mano, sotto un tavolo di cucina, l’odore dei mercati e dei mercanti, la folla di braccia e le spiagge di cultura, un cielo senza mai lo stesso colore e la mia incredulità.
Osservavo distorto le mie paure, Genova, ho incontrato le mie ombre, le ho condivise con i suoi muri, ho pisciato sui ricordi, prima di essere un ricordo, ho conosciuto le vite, di una stessa vita e una vita, molte vite ancora.
Non si può portar con sé, una nave di ricordi, ma si può mettere in tasca il ricordo.
E sarà come bere da un bicchiere, tutta la vita di una bottiglia.
Genova è un messaggio, che aspetto dietro la porta.

 

 

 

Quanto amore

Come uno scrigno il nostro amore, quando fui io e fummo noi. Davanti a quel sogno, che noi prestammo per non pensarci più.
Acqua che asciuga, quando mi spensi, per fare fuori quel bambino, che come quadri, appendeva i suoi sorrisi.
Quanto amore c’è, tra i suoi no oppure si, e io inchiodato qui, senza croce o delizia.
E saremmo stati o siamo, vertebre del passato, di un domani, ora qui. E quanti i suoi baci, neve sul collo, e vento sulle mani.
Quanto amore c’è, tra i miei saluti la mattina presto, e i miei ritorni, senza notizie o ad aspettarmi. Un po’ solo su quel letto o abbracciato a lei.
Quanto amore c’è, tra il sapermi ed il sapersi, senza chiedere di me, imperfetto o remoto, ero e non fui mai. E adesso, sono o cosa sarò