Concetta Pedullà - Poesie

I quattro passi del Maestro

Tratto da: Concetta Pedullà presenta Le Annotazioni de l’Alchimista in Viaggio (edizione gennaio 2021)

Focalizza
Avanza in silenzio
Scegli il momento
Sii spietato

Non importa come li interpreti, li declini o li adatti, quel che conta è che tu li segua…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Piacere

Poesia vincitrice del concorso “Donne comuni ma non troppo” (Associazione Risorse Territoriali e Associazione Cultura – le Prove d’Attore – edizione 2020)

Notte d’estate
lucente silenzio
vento invitante.
Assaporo ogni cosa.
Mani di foglia
ondeggiano lievi.
Percorro con esse
ancestrali sentieri
che portano sempre
in un unico luogo.
Rombo lontano
di tuono profondo.
Fumo e profumo
inebriano i sensi.

E altro non serve.

 

 

 

Io sono

Poesia finalista al concorso “Il Tiburtino” (edizione 2020)

Ho detto al sole del tramonto
che ero pronta a partire
e che mi desse un segno.
Ciò che mi ha pervasa poco fa
è stato il segno.
Io sono oltre.
Non c’è posto, non c’è spazio
per entità che si nascondono
che temono
che non rischiano.
Non mi nascondo
perché io sono splendida.
Non temo
perché io non ho nulla da perdere.
Rischio
perché io posso solo arricchirmi.
Nessun dubbio
sulla mia metamorfosi in atto
perché io sono metamorfosi.
Io sono Luce ed Ombra
ed amo entrambe.
Io sono la Realtà ed il suo Superamento
e voglio entrambi.
Io sono Uomo e Donna
e non ho bisogno d’altro.
Tu, se vuoi,
prova a seguirmi.
Se non ci riesci,
mi dispiace per te:
io, sono già in volo.

 

 

 

La prospettiva

(tratto da: La storia che non c’è – edizione aprile 2021)

Il luogo: Stresa, provincia di Verbania
Il tempo: sabato 04 gennaio XXXX, h. 13.50
Il fatto: al semaforo, un automobilista in compagnia di un passeggero, riparte dopo che è scattato il verde. Sulle strisce pedonali poco lontane, due piccioni attraversano la strada.

Un attimo prima del verde.
Il guidatore: “Arriveremo a Intra tra una mezz’oretta…”.
Il passeggero: “Ma no, arriviamo prima, tempo un quarto d’ora e siamo là”.

Scatta il verde.
Il guidatore: “Vah! Vah! Non ci posso credere!”
Il passeggero: “Ah! Ah! Ah! Pazzesco! Rallenta, mica che li prendi sotto! Ah! Ah! Ah!”
Il guidatore: “Tu ridi, ma non accennano neanche a sbattere le ali per volare via! Guarda: uno si è anche fermato!”
Il passeggero: “Caspita! Non ho con me il telefono! Questa era da far vedere, se no chi ci crede?!”
Il guidatore: “Oh! Mi devo fermare per forza! Dico io: ma se hanno le ali, perché cavolo non volano?”

Uno dei piccioni si volta verso la macchina.
Il passeggero: “Non è nemmeno spaventato! Ah! Ah! Ah! Ti sta guardando! E con che arroganza!”
Il guidatore: “Sono passati… andiamo, dai!”
Il passeggero: “Noooo! Oggi faremo ridere tutti raccontando ‘sta storia:
un’automobile che si ferma per far passare due piccioni!”
Il guidatore: “E sulle strisce per giunta!”

Risata di entrambi.
I due ne parleranno con i loro amici per tutta la giornata, tra l’ilarità generale.

……

Il luogo: Stresa, provincia di Verbania
Il tempo: sabato, 04 gennaio XXXX, h. 13.50
Il fatto: al semaforo, un automobilista in compagnia di un passeggero, riparte dopo che è scattato il verde. Sulle strisce pedonali poco lontane, due piccioni attraversano la strada.

Un attimo prima del rosso.
Uno dei due piccioni: “Ma, quindi, dove andiamo oggi?”
L’altro piccione: “E se andassimo sul lungolago? C’è sempre gente che spilucca… facciamo merenda!”
Uno dei due piccioni: “Buona idea! Oh, corriamo che sta lampeggiando il giallo!”
L’altro: “Calma, tanto mica scatta subito il verde per le macchine”.

Scatta il rosso.
Uno dei due piccioni: “Occhio, che quello in macchina è già partito! Non so se ha intenzione di fermarsi”.
L’altro: “Arrivo, arrivo! Mi devo grattare un’ala! E poi, sono sulle strisce no?”

I due nell’abitacolo fissano i piccioni.
Uno dei due piccioni: “Deh, hai visto come ci guarda strano quello che guida?”
L’altro: “E perché? Quello a fianco? Ha la faccia da scemo…”.
Uno dei due piccioni: “Come se non avessero mai visto due piccioni attraversare la strada”.
L’altro: “Almeno noi siamo silenziosi; non come loro che per volare si mettono dentro a quegli affari che fanno un chiasso terribile. Dico io: ma se non avete le ali, cosa volate a fare?”
Uno dei due piccioni: “Bah, certe cose proprio non le capisco…”.

Sospiro di entrambi.
I due ne parleranno con gli altri piccioni per tutta la giornata, tra la costernazione generale.

Morale…
Tu che leggi, automobilista o piccione, rifletti: dipende sempre da che prospettiva guardi.

 

 

 

L’invincibile Guerriero

(tratto da: La storia che non c’è – edizione aprile 2021)

In un tempo che è ogni tempo e in un luogo che è ogni luogo, viveva un invincibile Guerriero.
Le sue gesta viaggiavano in ogni dove perché, in ogni occasione, si narrava, egli sbaragliava qualunque avversario.
Quasi non era certo se fosse realtà o leggenda.
Chi raccontava d’averlo veduto, lo descriveva come vestito d’una tunica di volta in volta di colore diver¬so.
Non portava elmo.
Non portava cotte.
Non portava scudi.
Né armatura di sorta.
Dicevano avesse solo una lucente spada legata alla vita da una cintura che la faceva scivolare sul suo fianco e sulla sua veste.

Io, con la mia pesante armatura forgiata nel tempo a coprire ogni lembo della mia pelle;
con il mio elmo completo, dal quale solo una stretta fessura mi permetteva di scrutare l’orizzonte;
col mio arsenale di armi, caricate in groppa al mio altrettanto bardato destriero;
mi domandavo quanto di ciò che i cantastorie recitavano fosse vero.

Fu così che un giorno partii alla ricerca dell’invincibile Guerriero.
Col mio cavallo al passo, mi addentrai nel folto di una foresta.
Il sole ormai era calato e i lupi cominciavano a cantare alla luna.
Stanco del mio camminare ferroso, mi fermai in cima ad una piccola collina.
Il mio sguardo, da sotto l’elmo sollevato, scorse salire dal fondo della valle il fumo d’un bivacco.
Circospetto e prudente, iniziai la discesa, con la mano pronta sull’elsa della spada ben salda al mio fianco.
Giunto nella radura, trovai un fuoco scoppiettante e tracce d’uomo, ma nessuno nei dintorni.
Mi voltai a fatica da una parte e dall’altra, mentre l’ansia saliva pesantemente da sotto il busto cesellato.
Per favorire la perlustrazione tolsi l’elmo e qualcosa di fulmineo mi prese il collo.
Un braccio possente vi si era avvolto e stringeva fin quasi a stordirmi.

“Chi sei?” chiese una voce tanto calma quanto potente.
Dissi il mio nome.
“Cosa vuoi?” chiese ancora la voce profonda.
Dissi che cercavo l’invincibile Guerriero perché volevo conoscerlo.
A quelle mie parole la stretta s’allentò e la voce si fece maestosa: “Lo hai trovato”.

Dopo aver ispirato ed espirato più volte, mi girai.
Di fronte a me stava un uomo vestito d’una tunica il cui colore era celato ai miei occhi dalla penombra
Nessuna armatura.
Nessun elmo.
Solo stivali leggeri e una morbida spada sul fianco.

“Cosa vuoi da me?” domandò.
A mia volta, invece di rispondere, domandai: “Come mi hai sorpreso?”

“Difficile non sentire rumore di ferraglia in un luogo dove dovrebbe udirsi
solo la voce dei lupi”.
Standomi davanti, saldo come una roccia, disse: “La tua armatura ti tradisce. Si addice solo ai duelli fasulli”

Immobile lo fissavo, un senso di sgomento si faceva strada dentro di me.
“Sei tu l’invincibile Guerriero?” chiesi alla fine di un profondo respiro.
“Così dicono” rispose l’uomo andando verso il fuoco.
“Cosa ti porta da me?” domandò, mentre sistemava un ciocco caduto.
“È vero tutto quello che narrano sul tuo conto?” domandai invece di rispondere.
Mi avvicinai al fuoco.
I suoi occhi fissavano le fiamme e, di nuovo, una domanda: “Cosa si narra sul mio conto?”
Per entrambi, parole come passi circospetti di chi si studia prima di un duello.
“Che nessuno ti eguaglia in nessuna occasione. Ogni scontro è una vittoria senza pari” risposi, infine, io.
Mi invitò a proseguire: “Che altro?”
“Che non possiedi armatura né cavalcatura. Che appari all’improvviso e che fuggi come il vento!”
Più parlavo e più il mio impeto cresceva.
Lui si eresse davanti a me e chiese: “Cosa vedi?”
Osservai. Osservai lui. Osservai i dintorni. Non vedevo parti d’armatura. Non vedevo cavalli.
“Nulla” risposi.
“Nulla che a te sia consono” rispose lui di contro.
Mi feci beffardo, gonfiandomi nella mia armatura che luccicava al riverbero del fuoco: “Nulla che possa attestare che tu sia un guerriero!”
“Nulla che tu pensi sia consono ad un guerriero”

La sua voce era talmente calma da risultare irritante.
“Sei tu, dunque, l’invincibile Guerriero o sei un brigante che si prende gioco d’un vero guerriero, quale sono io?”
La rabbia stava montando dentro di me.
“Posso rispondere che sono l’l’invincibile Guerriero”.
E fissò i suoi occhi nei miei.
Le mie spalle s’abbassarono.
“Come può essere? Così, in tal guisa? Come puoi essere quello che dici?”
Ero attonito.
“Perché non sono come te?” domandò lui con tranquillità.
“Sì! Come puoi proteggerti, se non hai difese? Come puoi attaccare, se non possiedi che una spada? Come affronti il nemico senza armatura?”
La mia voce era quasi un grido disperato.
L’uomo si sedette comodamente accanto al fuoco.
La sua staticità cozzava contro la mia foga e la sua voce pacata cozzava contro il mio grido.
“Ascolta, tu credi che la tua armatura sia la tua forza.
Copre ogni parte di te, dalla testa ai piedi.
Ti rende immune da ogni dardo o colpo.
Protegge il tuo volto e inquadra i tuoi occhi”.
Ravvivò il fuoco, mentre io, in piedi, continuavo a fissarlo.
Seguitò: “Non t’accorgi però di quanto ciò che tu credi forza ti renda lento, rumoroso, incapace di guardare tutto intorno a te in un istante.
Ciò che pensi ti difenda dagli altri, ti rende incapace di essere veloce e furtivo.
Esci vittorioso solo da un confronto di forza perché non puoi confonderti con quello che ti circonda.
Col sole alto, soffri.
Con il gelo, soffri.
Ciò che tu consideri la tua difesa, ti isola dal mondo.
Ti impedisce di percepire.
Sei costretto ad usare la tua memoria per decidere come comportarti perché il tuo corpo è insensibile e soffocato, così ripeti costantemente gesti appresi in un passato in cui furono utili, ma che nel momento pre¬sente si rivelano obsoleti.
Ti privi in questo modo dell’esperienza della novità.
Graviti nella conoscenza acquisita e disdegni l’ignoto che insegna.
Il desiderio più grande che hai, nel tuo profondo e che tu ti ostini ad interpretare come stanchezza, è ritornare alla tua dimora per toglierti il peso che porti ogni ora della tua vita.
Quel peso che ti omologa agli altri, ti rende parte di una qualche categoria e questo ti permette di essere, perché, tu, hai la necessità di appartenere a qualcosa.
E non ti accorgi di quanto sollievo ti dia il liberartene, anche se solo per poco.
Non ti accorgi, perché l’immagine che hai di te è ormai forgiata col suo stesso ferro”

Si fermò e mi guardò. Non capivo.
“Cosa ha a che fare questo con l’invincibilità?” domandai.
“Io sono libero, sono leggero.
Posso scorgere ogni movimento intorno a me.
Posso confondermi con ogni cosa, posso appostarmi in silenzio.
Non bramo il ritorno in nessun luogo perché in ogni momento mi sento a mio agio e pronto al tempo stesso.
Il mio corpo libero, libera la mia mente, affina i miei sensi rende temprabili le mie membra
Il mio corpo libero fa che il mio sangue possa essere riscaldato e il mio spirito rinfrescato.
Non temo l’ignoto perché lo posso affrontare, bene o male che vada.
Non impugno cento armi, ognuna col suo preciso scopo, ma ne possiedo una e il suo scopo lo decido di volta in volta”.
Le sue parole mi lasciarono sbalordito.

“Un guerriero è fatto dalla sua armatura” asserii di rimando con voce flebile.
“Un guerriero è fatto da se stesso e da ciò che vive” rispose.
“L’armatura ti protegge dalle ferite! Si può morire in uno scontro!” gridai.
“Prima è necessario che riescano a ferirti, poi le ferite guariscono e se la ferita fosse invece mortale, si è morti da guerrieri” fu la sua serena affermazione.
Ero incredulo.
Lui continuò: “Anche io ero come te: limitato e pesante.
Poi ho capito che l’armatura è una condanna e ho scelto: l’ho tolta.
L’armatura si chiama Giudizio.
Le sue parole mi colpirono al cuore.
Proseguì:
“La corazza contro il mondo e ogni cosa che lo compone.
La perdita della velocità.
Il limite della sensorialità.
L’ostruzione della visuale.
Il ridimensionamento della libertà d’azione.
L’illusione della potenza.
Il Giudizio è il peso più grande che possiamo decidere di portare con noi.
Da lucidare ogni giorno, oliare, riparare, rinsaldare.
E nel frattempo, tutto scorre e l’unico desiderio che ti pervade è che il tuo Giudizio sia il migliore.
Temi quello degli altri e per questo fortifichi il tuo per poter essere il primo a colpire.
Ciò che credi sia la tua forza, diviene la tua schiavitù, tanto è l’impegno da usare per mantenerla sempre perfetta.
Giudizio è l’oblio dell’essenza.
Cristallizzazione di un’immagine da difendere ad ogni costo.
La nudità, tua e dei tuoi simili, appare spaventosa.
Come dici tu, troppo alto il rischio di venire trafitto.
Ma se impari a volare, cosa ti importa delle lance a terra?”
Lo guardavo a bocca aperta, ma lui non aveva finito: “Senza il Giudizio sono come il vento, capace d’ogni cosa. Pensaci, mentre te ne vai”

Si voltò verso il fuoco.
Io rimasi fermo non so per quanto tempo.
Poi, lentamente, ripresi il sentiero che mi aveva condotto al bivacco.
La testa pulsava: tolsi l’elmo.
Braccia e gambe erano pesanti: tolsi copri braccia e gambali.
Respiravo a fatica: tolsi busto e cotta.
All’improvviso l’aria fresca della notte mi inondò.
Ero leggero come mai.
Spogliai il mio cavallo e gli diedi una pacca, iniziò a correre e sparì dalla mia vista.
D’istinto iniziai a correre anche io.
Ero come il vento.
Avevo abbandonato la mia armatura.
Avevo abbandonato il Giudizio.
Il mio corpo fremeva:
sarei stato pronto a qualunque sfida.
Ero libero.

 

 

 

L’aratro

(tratto da: La storia che non c’è – edizione aprile 2021)

Seduta in posizione comoda (che poi, a dire il vero, tanto comoda non è, considerato che stare con le gambe incrociate mi fa tremare le ginocchia), ascolto la mia splendida maestra: “Stasera proseguiamo con il quinto Chakra…”
– Bene, mi piace!-
“la scorsa settimana abbiamo fatto le posizioni della Candela e della Mezza Candela…”
– Mi ricordo! Mi sono anche piaciute! –
“stasera faremo una posizione molto classica: quella dell’Aratro…”
– Ops, anche questa me la ricordo, ma non mi era piaciuta per niente! Avevo già fatto fatica a guardare lei che la faceva! Fatica?? Diciamo pure terrore, vah! Non scherziamo, per favore! Io, se faccio ‘ste cose, mi rompo! Aspetta, aspetta…ma guarda là! Come si piega quella?? Ho capito che è maestra…ma c’ha pure ‘na certa…-
La mia posizione quindi da simil comoda cambia e diventa di studio o, meglio definita da me in quell’istante, del pensatore dubbioso ovvero: la mano destra, beatamente appoggiata sul ginocchio destro, passa lentamente, quasi non volesse farsene accorgere, sotto il mento; trovandosi così a reggere una testa che, fino ad un attimo prima, stava bella dritta, guardando fiera avanti a sé e che ora, piano piano, si lascia andare alla forza di gravità. Forza di gravità che agisce la sua attrazione proporzionalmente ai movimenti della maestra: più lei si piega, più la testa si accascia!
A proposito di teste, le gambe della mia splendida maestra sono oramai dietro la sua di testolina graziosa e lei, apparentemente incurante della forma insolita presa dal suo corpo, continua a parlare: “Il mento va verso lo sterno…le gambe dritte vanno verso la testa…” A quella vista, la mia mano non può più far finta di nulla: deve, per forza, spalancarsi ben bene per reggerlo il mento, prima che caschi sul pavimento!
Nel frattempo, i miei occhi continuano a fissare le gambe di quella accidenti di una maestra: vanno giù…giù…giù… fino a che i suoi piedi non toccano terra…cioè, tutti e due i piedi per intero toccano terra! Non solo le punte!
E lei che fa? Parla! Parla ancora! Per forza: deve spiegare, a noi, non solo come arrivare a quel punto, ma anche come fare, usando la terminologia tecnica, a “sciogliere la posizione”.
Nello stesso istante, e non per coincidenza, il mio cervellino, che afferma di conoscere bene il mio corpo-pollo, sta salutando: “È stato un piacere…ci vediamo alla prossima…non fare troppo tardi”
Tutto quello che riesco a mugugnare si riduce ad un – Una pallina dovrei essere, e non lo sono! – Nonostante ciò, continuo ad ascoltare e a guardare… Puntualizzo: adesso la mano sinistra ha raggiunto quella destra, le due si sono unite a mo’ di preghiera e il mio naso si è incastrato tra i due indici, mentre il mento se ne sta, pesantemente, appollaiato sui pollici.
Dunque, ascolto la maestra: “Le gambe si ripiegano e la testa segue…poi vi sdraiate in posizione di rilassamento (ahhhh…sospiro della maestra che si è già rilassata…) affinché il corpo ritrovi il suo equilibrio dopo questa particolare posizione…”
– Facciamo che passo subito al rilassamento? Così, senza neanche passare dal via? –
…attimi di perplessità…
– Ma no dai, siam qua, proviamo! – – Va bene! – – Ci sono! – – Sono sdraiata…fino ad ora tutto sotto controllo – – Piego le gambe…ecco fatto – -Mi do una spintarella…su, forza, un po’ di impegno! – – Eccomi! –
Ho gli occhi chiusi naturalmente. Ho pure tolto gli occhiali, sai mai… Sento che la maestra gira in mezzo a noi, odo la sua voce da più parti.
– E adesso: giù! – – Aspetta! Ma com’è?! Le gambe erano dritte prima! Potrei giurarlo! – – Adesso invece…oh, cavolo! Le ho perse! – – Cioè, ognuna va per i fatti suoi! – – E dai! No! State su! – – E che caspita! Io vi ordino di stare su!! – – Ci siamo! Fiuhh, sono tornate su!- – Ah, bella questa! Lo scopo di tutto è farle scendere! – – Riproviamo. Aspetta, com’era? Ah sì! Respiro e…giù! – – Ancora?! Insieme ho detto! Non una alla volta! Sali destra! Scendi sinistra! No, il contrario! – – Ahhhh! Mi ribalto! Dondolo troppo – – Meglio che torno su…solo un attimo…- – Eh, ma che fatica! Ma, il pavimento dov’è? In fondo, sono sdraiata, quindi non può essere lontano… – – Ricominciamo quest’agonia…- – Cosa sta dicendo la maestra? –
“Anche se non arrivate a toccare con i piedi per terra, basta avvicinare le gambe alla testa…la posizione avrà comunque i suoi benefici…”
– Ah beh, ma, allora basta così per me! Già sento le ginocchia vicino alle orecchie…- – Eh, però, che peccato. C’ero quasi, più o meno…- – Dai, lascia andare, adesso non ci pensare più! –
E…
Magia!
Giù tutta!
Lo so, sembra incredibile! Ma, non solo c’ero, ero proprio io! Quindi lo so! È bastato un secondo, è bastato un banalissimo “non ci pensare più” ed ecco che il pavimento è arrivato! O meglio, io sono arrivata al pavimento!
Fermi tutti!
Per un attimo io non ero più io! Per un attimo un’altra me ha fatto una cosa fino ad un secondo prima assolutamente inconcepibile! Poi capisco e quindi me la rido: caro il mio cervellino, il tuo corpo-pollo non lo conosci tanto bene quanto credi! Il mio corpo è capace di cose che la mia mente non considera, o non vuole considerare, e quando il mio pensiero sta zitto un attimo, il resto di me agisce e fa! Agisce e ottiene! Sicuramente, vanno ringraziati la forza di gravità, il mutato baricentro e la postura insolita. Tuttavia, questi elementi a me esterni, hanno potuto fare il loro lavoro solo quando io ho smesso di pensare a quanto fosse lontano il pavimento. Che sensazione di sbigottimento quando la mente ha ripreso il controllo! Una sorpresa autentica! Perché sì: la soddisfazione viene dopo, quando fai il paragone… Sarò stata disarmonica, con le gambe che andavano per i fatti loro, a forbice o a ventaglio? Che importa? Ho fatto una cosa, ho vissuto un’esperienza, per me, impensabile. Si fa strada una vocina nota: “Gli altri avranno fatto meglio…” Ma stavolta, a risponderle, è una più forte, più potente e più persistente: “Chiunque può aver fatto meglio, ma io ho fatto! Ed è questo il meglio!”
Ed è così che la sensazione da fisica diviene “altro”. Si trasforma in intuizione, si fa collegamento, diviene rivelazione. Come un velo che cade, una finestra che si spalanca, una scatola che si apre.
Ho agito, come meglio ho potuto. Ho provato, come meglio ho saputo. Ho ricordato chi mi aveva spiegato come fare. Ma, alla fine, mi sono abbandonata, a me e al resto. E sono riuscita.
Non tutte le cose dipendono da me, ci sono forze che lavorano per me e con me; di mio ci metto l’impegno e un pizzico di coraggio, ma poi il resto viene e basta.
Da tempo sento mutata la mia percezione delle esperienze, oserei dire della vita: sono arrivata, proprio grazie alle esperienze, a capire che le cose accadono e che noi agiamo al loro interno. Con la nostra volontà, ovvio, con le nostre risorse, ovvio, ma, ad un certo punto e da un certo punto, nulla di ciò che noi possiamo fare serve più a definire il corso degli eventi.
Da qui, la scelta, benefica e risolutrice, di lasciarsi andare. Ed ecco che mi sopraggiunge il termine di “abbandono” e trovo la mia definizione di vita: impegno, coraggio e abbandono. Paradossale? Forse.
Sento l’Abbandono come un lasciarsi andare alle onde del tempo, mantenendo una meta il cui raggiungimento muta al mutare del vento. Abbandono è affrontare ogni raffica pensando solo a come superarla e non a quali potranno essere le conseguenze. Quando la meta è un’isola su cui si ha la certezza di approdare, prima o poi, che importa la rotta?
E così la Posizione dell’Aratro diventa, per me, metafora della fiducia da dare all’Abbandono, a quel senso di rilassatezza, che a volte sembra erroneamente confondersi con una sorta di sconforto, capace di sgombrare il campo dal mio “fare” per lasciare spazio a ciò che si compie.
L’impeccabilità sta quindi nel fare al meglio ciò che si sa e ciò che si può, lasciandosi andare al momento giusto!
Riuscirò a rifarla la posizione? Sì, no, forse… che importa? La prossima volta sarà un’altra volta.

 

 

 

Il libro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Io, scrittrice

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Brevità

La poesia della Primavera
L’anima si disseta alzando lo sguardo alle foglie di aprile.

Ah!
Ogni volta che mi accendo una sigaretta, rifletto sul senso della vita: per questo non riesco a smettere.

Cieli
In autunno, le foglie diventano gocce

Sottile
Se non “ti” senti bene, cambia frequenza.

Piove
Amo la pioggia, mi fa credere che domani sarà un giorno più pulito.

L’idea
E se il nero ha assorbito tutti i colori, tu strizzalo.

Sostare…
…ma, io, So Stare?

 

 

 

Riflessioni

L’assoluto limita
Sembra un paradosso, ma, riflettiamoci: pensare che qualcosa sia assolutamente giusto o assolutamente vero, ci rende impreparati alla mutevolezza dell’esperienza e ci costringe a cercare costantemente “l’altro capo”, perché un assolutamente giusto e un assolutamente vero non possono esistere senza un assolutamente sbagliato e un assolutamente falso… Il tempo e le energie che impieghiamo per dare conferma ai nostri Assoluti, li togliamo alla possibilità di sperimentare l’esperienza nella sua pienezza.

Ascoltare il silenzio
Il silenzio non va riempito, il silenzio va ascoltato.
Il silenzio è una sosta preziosa lungo il percorso.
Ascolto il mio silenzio: per capire se ho capito, per sentire se sono connessa, se in me c’è abbastanza vuoto per poter essere una buona cassa di risonanza.
Ascolto il silenzio dell’altra persona: perché, in quel silenzio c’è tutto quanto serve a lei in quel momento e, se sarò in grado di raccoglierlo, vorrà dire che sto facendo un buon lavoro.
Sarà la Persona, con un gesto o con un sorriso, a sciogliere il silenzio e, solo a quel punto, si riprenderà il cammino.

Come caleidoscopi
Pensiamoci come caleidoscopi d’emozioni e impariamo a guardare alle nostre mutevoli forme con la curiosità e lo stupore propri di chi osserva figure e colori unirsi e dividersi, a creare sempre qualcosa di unico.