Daniela Karewicz - Poesie e Racconti

La mia vittoria 

                                                

Spoglia la montagna 

dai merletti offuscati. 

Tocca il cielo.

…ogni roccia è un pensiero

… un abbaglio ogni riflesso.

Oh, ruscello

dai flutti bisbiglianti

intona i più dolci canti.

Oh, laghetto

di nostalgie sommerse

rifletti i ricordi più profondi.

Sospira il vento

i sensi avvolge,

danza la mente incantata

…ogni passo è una magia. 

 

Contemplavo la massiccia catena che si stendeva dinanzi a me stringendo al cuore una manciata di fiori di campo. Mi domandavo come avrei potuto percorrere tutta quella strada per arrivare al traguardo. Dieci chilometri di montania, dieci mondi distinti e una direzione sola. La cima.

Senza fretta, con la stampella sotto il braccio sinistro, mi sono incamminata verso la mulattiera che conduceva nel bosco.

Con un incedere ondeggiante mi trascinavo con fatica. Fiori spinosi s’impigliavano nei vestiti e i vecchi tronchi sbucciavano le mie braccia. Ogni tanto inciampavo sulle pietre. 

Certo sarebbe più comodo intraprendere il solito percorso della gara, ma…il ricordo di quel fatale giorno di molti anni fa era ancora insopportabile. Le gravi ferite riportate nella rovinosa caduta, durante l’ultima corsa, mi hanno marcato in modo traumatico. Mi hanno inciso l’animo nel profondo

Con il ginocchio sempre più indolenzito, raccoglievo le forze per continuare a salire. 

Il sentiero si snodava serpeggiante tra faggi ed enormi abeti. Ogni tanto alzavo la testa per cercare la cima. Si mostrava timida, avvolta da nubi così dense da impedirle, a tratti, di venire fuori. 

Emozionata, guardavo attorno. 

All’improvviso avvistai un laghetto che mi sorrideva dal fondo di una conca verdastra. Lo raggiunsi e, affaticata, mi sedetti su un masso sporgente dall’acqua. Avevo sete e mi chinai per bere. 

La mia immagine rifletteva quella di un albero ripiegato su se stesso, come se fosse ferito. Allungai la mano per tirare fuori almeno un ramo, per offrirgli aiuto, ma la superficie si increspò: l’albero si ribellava e la roccia tremava sotto di me. Intuivo che volesse comunicarmi qualcosa, mi sembrava che a lui piacesse restare in solitudine, in quella solitudine mistica, un modo di vivere, di essere forte e vincente. 

Riflettevo. In fondo, il mio modo di essere mi aveva permesso di arrivare fin lì, da sola. Avevo mostrato di avere la capacità di selezionare e tessere idee, pensieri, di reagire arrivando quasi a destinazione! Mi sentivo anche io albero. Dovevo continuare, risalire in superficie, crescere per cantare, correre, splendere. Era arrivato il momento del canto e della nuova corsa. 

L’ultimo raggio di sole solleticava la mia schiena e spingeva il mio sguardo verso l’orizzonte. Potevo ammirarlo solo dalla meta, così importante per il mio cammino. Ormai, per raggiungerla ci voleva solo qualche ora. 

Da lassù, il tramonto mi stupì con l’incanto delle luci e dei suoi colori. 

Immobile, ormai avvolta dal buio della notte, ascoltavo il canto notturno delle montagne… Come la notte stellata, fissavo i quattro lati del mondo insieme a decine di occhi stanchi, ma felici, dei podisti come me. 

La luna mi trovò danzante. All’improvviso il cielo si infiammò, un violento temporale scosse l’universo. Continuavo a danzare al ritmo di tamburi tuonanti. Un vento impetuoso mi disegnava le ali, sollevava i miei piedi…tolsi gli ultimi catenacci e mi sentii volare. 

Ero libera. 

Ero la Vita stessa. 

La triste realtà dell’ultimo periodo era finita. 

Durante quel percorso, conobbi la mia vera natura. E volevo andare avanti, anche se vulnerabile e scorticata. Il mio cammino aveva fatto sorgere una nuova esistenza. Ero decisissima a proseguire nel viaggio interiore: a qualunque costo avrei lasciato la vecchia vita per un’altra. 

L’alba mi sorprese ancora a meditare. I primi raggi del sole illuminavano il mio viso. 

Era giunta l’ora di tornare. 

Mi fermai al laghetto e di nuovo mi specchiai nelle sue acque fresche e limpide. 

Ero curiosa del mio nuovo io.

Dal velo sottile dell’acqua mi guardava una donna. La contemplavo, abbagliata…

i suoi occhi erano argentei, i capelli stellati e la bocca assomigliava a un roseo fior di loto. Apparteneva tutta a se stessa, dignitosa e potente, e nel giusto modo distante. Era protetta da una solitudine superiore che solo la saggezza può dare. Era affascinante, diffondeva una fragranza selvaggia ed io desideravo ardentemente odorare quel profumo per sempre. Volevo correre nel vento, scalare la montagna saltando di roccia in roccia, danzare nuda nella tempesta, sedere in perfetto silenzio, colorare le mani di pittura, di lacrime…

Era la donna che tanto avevo cercato, libera di mostrare la sua vera essenza. Mi girai per salutare le cime. Serena e con il cuore leggero cominciai la discesa con i passi scanditi dal ritmo della mia nuova vittoria. 


 

Una veste bianca

 

Una

dea
sembra quella fanciulla che
nuda sta davanti a lui e con
seduzione la spalla gli

sfiora.

Con amore

le sorride l’amante.

Con mani tremanti cerca le sue.

La rugiada brillante i loro corpi pervade.

 

- Indossa una veste bianca e balla con me -

 

chiede

carezzandole il petto

con fresca rosa scarlatta.

Con un bacio

le sue ferite cruenti chiude,

con i raggi della luna

i fianchi spossati avvolge.

La culla, vigile

nelle braccia che la sollevano forti

dalle vili miserie. 

Ploy ha 32 anni, un figlio illegittimo e un cappello pieno di sogni. Ha anche la pancia gonfia di miseria e vive sotto il molo tra nauseanti odori di pesce. Ogni giorno vede lo stesso molo che brulica di vacanzieri profumati di cibo e fiori esotici. La maggior parte di loro cerca di imbarcarsi verso le isole vicine per prendere il sole. Lei, quelle isole non le ha mai viste, l’unica spiaggia che conosceva era quel brandello di terra che aveva un respiro tutto suo, fatto del sonnolento lavoro dei pescatori e delle loro donne che riparavano le reti. Quel mondo, così piccolo per gli altri e tanto grande per lei, nessuno veniva a salvarlo, neppure se avesse gridato aiuto al lussureggiante Walking Street che si snodava dall’altra parte del molo. Quell’universo sfarzoso e vibrante non le apparentava, la magnifica aiuola che divideva due realtà così diverse aveva per lei le dimensioni di un oceano. 

Ploy, ogni mattina alza la gonna, la lega con uno stretto nodo tra le ginocchia e scalza esplora la costa. I turisti la guardano incuriositi e timidamente tirano fuori le macchine fotografiche. Una poveraccia come lei, coperta di stracci e con il passo traballante mentre oscilla tra  sporcizia e barche sverniciate, suscita più interesse di qualsiasi attrazione offerta da una rinomata agenzia turistica.  Con le bottiglie di birra in mano dà l’impressione di un’ubriacona, ma invece no, raccoglie soltanto i rifiuti che i turisti buttano dall’alto. Mette tutto il bottino nella falda della gonna, per depositarlo poi sotto un pilastro del molo. Scrupolosamente differenzia carta, vetro, lattine e plastica per poi distribuirli nei sacchi che lo spazzino porta via in cambio di qualche spicciolo. 

Ploy non bada agli sguardi curiosi e non sorride. In Thailandia tutti sorridono ai turisti, anche se avrebbero solo voglia di piangere. “Sorridere” è politicamente giusto e così il popolo mostra amore per il Re. I turisti sono la più grande risorsa economica del paese e devono sentirsi qui come in paradiso, e in paradiso tutti sono felici e sorridenti. Altrimenti smetterebbero di venire qui e  spenderebbero i soldi altrove. Ploy crede nel paradiso e nel Re. Crede anche nel buddismo che è una religione tollerante e non giudica una ragazzina che fa figli a tredici anni. 

Con il padre di Igor si sono conosciuti proprio sulla sua spiaggetta sotto il molo. Usciva nuda dall’acqua e illuminata dagli ultimi raggi del sole, sembrava una dea. Aveva lunghi capelli neri e fiducia in tutti. 

Lui, nascosto dietro un cespuglio,   veniva ogni notte a spiarla mentre faceva il bagno e ogni giorno l’aiutava a districare le reti. 

Nessun uomo l’aveva aiutata a districare le reti. Sembrava così gentile!

Non parlavano mai. Ploy sapeva solo il thailandese e lui solo una delle lingue di paesi lontani che lei non riusciva mai a ricordare. 

Quella volta lui si presentò con indosso una nuova camicia esotica che lo allargava ancora di più e da un sacchetto firmato Chatuchak Market tirò fuori un vestitino bianco e una rosa rossa. 

Poi la portò fuori dall’altra parte dell’aiuola. 

La cena costava quanto un pescatore ricavava da un anno di vendita di pesci. 

Dopo il banchetto tornarono sotto il molo. Con i piedi nell’acqua ballavano al ritmo delle onde, perduti in se stessi… 

Ora, stanca e felice, offriva alle labbra dell’amato la rosa scarlatta velata di lacrime dolcissime. Non altro sapeva che d’essere immensamente amata. Sollevata dalle sue braccia, forti e vigili, si sentiva protetta. Tutte le miserie e brutalità della vita si dileguavano, erano inesistenti, pareva che non ci fossero mai state. 

Ma si svegliò accecata da una sfilza di pugni e calci e vide, incredula, il suo amante  col nudo addome, volgare e trionfante, sopra di lei. 

Attraverso una cascata di petali, purpurei, che le cadde addosso, intravide una sagoma, nera, dileguarsi nel nulla. 

Con i primi raggi del sole, stracciò con i denti il calpestato e offeso vestito che non fu più bianco…

Nessuna espressione sul volto. 

Nessuna lacrima.  

Solo voglia di morire. 

 

Ploy ha chiamato suo figlio, Igor.

L’unica parola che ha imparato dal suo fatale amante. 



Una scia nera

 

Doveva lavorare anche questo sabato. Nessun bagliore di luce passava dalle persiane. Il buio cupo dello studio illuminava solo lo schermo del computer. Nessun rumore turbava il silenzio profondo di quel noioso pomeriggio. Il suo progetto era quasi terminato e non vedeva l’ora di finirlo. Stanco e snervato all’improvviso si sentì soffocare. Nell’impazienza della solitudine, ha spalancato, con furia, la finestra per poter vedere almeno una faccia.

Purtroppo in strada sventolavano solo i volti accesi di un gruppo di africani che, gonfi di collera, discutevano scuotendo le braccia. Li osservò con avversione. Che se ne andassero a casa loro a fare le rivolte!

Sentiva uno smisurato disprezzo per la gente di colore. Tutti i suoi amici e soprattutto i familiari, evitavano con cura gli extracomunitari. Si sentivano spaventati da questa folla di immigrati che invadeva il loro mondo. Anche lui non accettava questa realtà, anche se qualcuno cercava di fargli capire l’importanza dell’accoglienza fra i popoli.

Richiuse con cura gli scuri e stirandosi tornò lentamente al computer.  Vide qualcuno in chat.

Quasi contento di questa interruzione decise di rispondere.

- ciao,  ci conosciamo? – 

- beh, ti ho trovato per caso, vedo che sei di Brescia -

- si, e tu? -

- periferia di Milano.- 

- non tanto distanti, allora.- 

- vedo che ti chiami Naja 28 – 

Improvvisamente si sono immersi in sé.

Si raccontavano con sorprendente naturalezza. Riscoprivano i tramonti, gli abissi marini, le proprie paure. 

- ora ti devo lasciare chiudono. -

Deluso, guardava lo schermo con la speranza che sarebbe tornata. Si sentiva inspiegabilmente felice. Con nessuna ragazza riusciva ad aprirsi così, forse solo con Marta. Una volta. All’inizio della loro storia. Ora non parlavano quasi mai. Ogni domenica la portava a fare un svogliato giro con la macchina e poi, dopo la stessa pizza margherita, facevano il solito sesso al parcheggio fuori città.

L’improvvisa apparizione su chat di Naja 28 lo intrigava … il suo nick era così misterioso, sapeva di paesi lontani. Naja… una pianta esotica, un animale selvaggio, un uragano.

L’ equilibrio della sua borghese e ordinata vita è stato piacevolmente scosso. Da quel mitico pomeriggio l’attendeva tutti i giorni.

Si era rifatta sentire sabato alle quattro. Era contenta a sentirlo dire che l’avesse aspettata.

Questa volta raccontava di sé, delle poesie che la appassionavano, dei posti dove avrebbe voluto vivere, dei suoi sogni.

- ci sentiamo il prossimo sabato alla stessa ora. Adesso devo andare, Chiudono. 

E’ sparita di nuovo. Come l’altra volta.

Il sabato seguente non aveva nessun lavoro da sbrigare, ma era andato lo stesso in ufficio.

Lei lo faceva divertire, lo commuoveva. Conosceva già i colori dei suoi fiori preferiti, quali libri leggeva e quale musica ascoltava. Grazie a lei ha scoperto di nuovo l’esistenza dei fiori, comprava gli stessi libri, si esaltava con la stessa musica.

Tornando a casa, si sedeva davanti al caminetto con un bicchiere di brandy in mano e la sognava.

Viveva nell’attesa del sabato.

- E’ possibile soffrire di nostalgia e contemporaneamente essere felici? –   si domandava.

Le domeniche con Marta erano ancora più mute, e il sesso ancora più automatico. Con la testa appoggiata sul suo seno pensava a quello di Naja 28.

Si domandava il colore dei suoi occhi, dei capelli. La prossima volta glielo avrebbe chiesto. Sì. Le chiederà anche il posto dove usa il computer. Era curioso di lei, la voleva conoscere, guardare, sfiorare la sua mano…

 

Un sabato, invece di andare in ditta al solito appuntamento con lei, montò la macchina. Prese la direzione Milano. Il pensiero di andare a trovarla lo invase  all’improvviso.  I  suoni  della  sua musica  e  il profumo dei suoi fiori preferiti lo riempivano ansiosamente.

A metà strada si sentì sudare. Si fermò di scatto. Spense la radio e batté nervoso il volante. Fece marcia indietro. Dopo qualche chilometro slegò la cravatta, strappò i bottoni del colletto e fece di nuovo l’inversione. Il navigatore lo portò davanti ad una piccola biblioteca. Dentro non c’era quasi nessuno. Si sedette davanti al computer n. 3 e lo fissò immobile. 

Sfiorò la tastiera con la mano. Mancavano venti minuti per l’ora della Naja 28.

Alle 16 in punto sentì una voce.

Mi passi la linea, per piacere. Solito computer. -

Cambiò il posto, si nascose dietro uno scaffale. Il cuore gli scoppiava. Chiuse gli occhi. Piano, piano girò la testa. Per vederla meglio si chinò davanti e notò le dita, scure, che frettolosamente battevano i tasti. Si alzò di colpo. Vide il profilo di una bellissima ragazza africana di circa 28 anni. I riccioli neri legati sulla nuca enfatizzavano il suo collo lungo e sottile.

Uscì di corsa. 

Si sentì mancare.

Ripartì con un violento fischio delle gomme.

Una scia nera svaniva lentamente nella pesante  aria di  un sabato qualsiasi.


 

Domani

 

Vorrei guardarti dormire                                                                           

entrare nei tuoi sogni                   

per arrivare insieme

alla tua più grande paura,

rannicchiarmi accanto a te

sussurrarti una parola

che ti difenda dalle ombre oscure,

confortarti nella gelida notte

sfiorare il tuo respiro

e farlo entrare in me 

per poterlo scaldare…

Guidarti

mentre sali gradini dell’arcobaleno

per aiutarti a cambiare

i colori dei tuoi sogni.

Vorrei guardarti dormire… 

 

          Faccio parte di un mondo, dove le donne sposate avrebbero dovuto essere felici. Tutte le mie amiche lo sono. Anche mia madre e mia sorella.

Nel posto dove vivo, molti mariti dopo aver sistemato le loro spose in belle villette a schiera, le trasformano in breve in frustrate casalinghe che dovrebbero fare figli, tollerare le loro scappatelle e far finta di non vedere che ci provano con tutte.  

Quando a cena dai miei stavo comunicando di aver preso la decisione di divorziare, solo la nonna non mi insultò…la mia non era una sconvenienza! 

Lasciavo tutto per un uomo che mi riempiva d’attenzione e d’amore, con lui non vivevo degli avanzi e finalmente non mi sentivo sola. 

Finora, non ho provato solitudine più grande di quella accanto  a mio marito. Avevo preso una cotta per lui quando era in ascesa della sua “carriera”. Bramava il potere e cercava di affermarsi a qualsiasi costo. Di conseguenza il suo atteggiamento, dettato da una smisurata ambizione, piano piano l’aveva trasformato in un essere ambiguo, a volte spregevole.  Per ottenere maggior successo era pronto a tutto. Doveva anche avere sempre ragione e non tollerava nessuna critica. In ogni occasione amava mostrare di potersi permettere un alto tenore di vita. Doveva possedere la macchina più potente,  l’abbigliamento  rigorosamente  firmato,  la moglie più bella. 

Ho smesso di abbracciarlo da quando ha cominciato, girandosi di spalle, ad  augurarmi sogni d’oro. 

Non mi annienta più la sua assenza ai miei compleanni, ai nostri anniversari o alle feste Natalizie. 

Al primo ceffone mi era balenata, ribelle, un’idea, di riprendere gli studi. 

Una volta studiavo legge, ma non ho dato gli ultimi esami. Mi ero sposata.

Ricominciai ad andare in biblioteca ed è proprio lì che vidi Tomi per la prima volta. Era immerso nei libri e cercava un volume che io avevo. Si preparava per un colloquio  di lavoro in uno studio legale, mi disse.

I nostri incontri continuarono, e in modo per niente casuale. Passavamo ore intere a rivedere i capitoli di legge e mi stupivano le sue capacità ed estrema abilità in materia.   

A volte mi raccontava dei disagi nel trovare un impiego adeguato alla sua preparazione, io invece confessavo l’assurda vita in cui mi ero incastrata.

Sentivo di nuovo un brivido e nascere emozioni inaspettate.  

Custodivo nella mente tutti i fiori colti mentre passeggiavamo nella nostra creatività, lacrime silenziose nel cuscino, teneri pensieri di lui che riempivano le mie notti insonni. 

No, lui non era una sconvenienza. Non era un’avventura. Mi desiderava ed io amavo il suo desiderio. Quando è successo la prima volta, ha guardato il mio seno, il ventre, ma si è limitato solo a baciare l’interno delle mie mani.

Mio marito si ricordava delle mie mani solo quando non trovava le camicie stirate. 

E’ arrivata, finalmente, la data del colloquio di Tomi. Ci tenevo ad accompagnarlo.

Mi sono innamorata di lui nel vederlo uscire sconfitto e abbattuto.

Non dimenticherò mai l’espressione dei suoi occhi…la dignità ferita, le speranze morte, i sogni uccisi.   

Uno di colore, anche se con la residenza e il permesso di soggiorno in regola, non aveva nessuna chance.  

Lo presi per mano. Camminammo per delle ore senza dire una parola. Non mi sentivo di lasciarlo solo quella sera. Lo accompagnai a casa.  

Il mattino dopo ci  trovò raggomitolati sul divano, stretti in uno spasmodico abbraccio. 

 

Anche questa notte non riesco a dormire, convinta che dall’altra parte della città non dorme una persona in cui avevo riposto la mia fiducia. 

Domani ci sarà l’inaugurazione dello studio legale che abbiamo messo su insieme. 

Domani dovrò dire anche a mio marito che lo lascerò per un altro uomo. 

Domani…                                     



Il primo volo

 

...troppo a lungo

il sentiero dell’abbandono

   ci fa vagare

 

…troppo a lungo

la pioggia del pensiero

ci fa lacrimare

 

…troppo a lungo

il gelo della solitudine

ci fa tremare

 

Contemplo

un bocciolo di rosa

che freme sotto il peso

di una goccia di rugiada

 

…troppo a lungo

ci fa sperare.

 

         Anna aveva ottantasei anni e da qualche tempo avrebbe voluto morire. Quando emigrò dal suo paese d’origine, circa sessanta anni fa, aveva con sé solo una borsa e uno spazzolino da denti. Adesso non usa più nessuno spazzolino. Ha perso gli ultimi denti e non si può permettere un apparecchio. Con la morte del suo compagno, nove anni fa, la sua vita è cambiata. Il loro rapporto non era legalizzato, quindi non poteva essere tutelata in nessun modo. La sua pensione le bastava appena per coprire lo stretto necessario. Per fortuna non doveva pagare l’affitto, perché l’appartamento era suo. Un tempo, in un paesino vicino a Firenze, aveva preso una vecchia casa con l’intenzione di ristrutturarla. L’aveva pagata con i risparmi di un massacrante lavoro. Quando era nato Francesco, si era sentita finalmente considerata. Il padre del bimbo, fiorentino doc, veniva a trovarla più spesso e, a volte, lasciava qualche soldo sul comodino. Non volle mai abbandonare sua moglie, perché fragile. Dopo alcuni anni, Anna aveva fatto venire Jan, il suo primogenito che aveva avuto dall’ex marito polacco. Era orgogliosa dei suoi figli. Da quando i ragazzi erano andati via da casa per seguire la loro carriera, viveva di ricordi. Poi si era ammalata di cuore e aveva smesso di lavorare. Temeva per il suo futuro e avrebbe voluto morire prima del suo compagno. Non ce l’aveva fatta. Negli ultimi mesi era peggiorata e spesso si sentiva mancare. Un giorno era cascata dalle scale. Sanguinava dappertutto. In ospedale le avevano messo sei punti sulla fronte, un gesso sul braccio sinistro e un bypass. Nessuno dei due figli era venuto a trovarla. Francesco lavorava a Milano come ingegnere e viveva in una villetta con moglie e figlio. Anna era felice quando la chiamava nel giorno del compleanno.  

Del suo. 

Il compleanno della madre non se lo ricordava mai. “E’ così impegnato”, lo giustificava sempre… ma la sua dimenticanza le faceva male lo stesso. Ricordava quando da piccolo si era ammalato gravemente. Passava giorno e notte in ospedale dormendo sulle brandine degli infermieri o dei dottori. In breve tutti erano convinti che lavorasse lì… 

 

       Il giorno che uscì dall’ospedale apparve Jan. Aveva preso le ferie ed era sbarcato direttamente da Varsavia, dove lavorava come giornalista. Parlò a lungo con il dottore. Poi la mise in macchina e andarono a cercare un posto in una casa per anziani. Anna tentò di nascondere che stava piangendo. Lui cercò di non farle capire che se ne era accorto. Non era possibile farla tornare a casa. Non avrebbe potuto vestirsi da sola e neanche farsi da mangiare.  Non poteva neanche prenderla con sé a Varsavia. Viveva in un miniappartamento  e viaggiava molto.

 

Alla casa di cura “Primavera”, vivamente consigliata dal dottore, arrivarono in tarda mattinata. Per raggiungere la direzione si attraversavano lunghi corridoi grigi e tristi. Dappertutto si sentiva l’odore di urina. In una stanza, una vecchietta somigliante ad Anna, era seduta al bordo del letto con la testa appoggiata sul tavolino. Era spaventosamente ferma… Jan agguantò Anna per il braccio e la trascinò fuori per accomodarla di nuovo in auto. 

 

La Residence dei Signori da lontano sembrava un hotel a cinque stelle. Le pareti della ricezione erano rivestite di marmo e le scale coperte di moquette. Jan sorrise per la prima volta ed Anna adorava il suo sorriso. Quando era piccolo, andava apposta nella cameretta dei ragazzi per guardarlo sorridere mentre sognava…Seduti sulle eleganti poltrone di pelle, ascoltavano la direttrice che illustrava la situazione. “Nel nostro istituto teniamo molto alla dignità dei nostri ospiti. La scelta del personale avviene con estrema cura. Le notizie che da noi i pazienti muoiono perché denutriti o perché i loro organi sono compromessi dall’eccessivo dosaggio di sedativi o per maltrattamenti, non sono assolutamente vere. Noi assicuriamo i migliori servizi e… ”

Anna non voleva invecchiare. Neanche con dignità. Non poteva invecchiare di più. Era già vecchia. Molto vecchia. Inoltre non voleva essere nessuna paziente e per niente desiderava i migliori servizi. Non era malata. Era solo vecchia. Quando sentiva le parole come vecchiaia e dignità, avrebbe voluto strappare dal petto il bypass e morire subito. Jan non fece neppure finire il discorso alla direttrice. Guardò la madre e frettolosamente si alzò per aiutarla a sollevarsi dalla poltrona. Sulla sua fronte si formarono grinze verticali e la mano destra cominciò a tremare. Anna sapeva molto bene riconoscere questi sintomi… lo faceva sempre quando era particolarmente nervoso. Ricordò quando lo accompagnò a scuola per la prima volta…stringeva forte la sua manina tremante. Sì, se lo ricordava ancora oggi.

 

Uscirono senza dire una parola e andarono direttamente all’aeroporto.

Anna “volava” per la prima volta.

Era meraviglioso! 


 

 

Sorelle

 

Ero gelosa quando il babbo, prendendoci sulle ginocchia, teneva mia sorella sulla gamba sinistra… la parte del cuore. Per di più non riuscivo ad accettare che la mamma, quando entrava di notte nella nostra cameretta, si chinasse solo sul suo lettino e piangevo quando si dimenticava di darmi il bacio della buonanotte. Avevo cinque anni quando nacque mia sorella. Mi ricordo quando, dopo una breve vacanza, mia mamma era tornata molto dimagrita con uno strillante fagottino tra le braccia. Subito dopo i miei giocattoli scomparvero. Per poterli riprendere, dovevo infilarmi ogni volta dentro un enorme cartone nascosto nello sgabuzzino. Nel mio angolo dei giochi comparve un lettino che da quel momento in poi sarebbe diventato motivo di continui pellegrinaggi. Finché la piccola dormiva, piangeva, mangiava e si poteva giocare con lei come con una viva e sorridente bambola bianca, tutto andava bene, ma quando usciva dal lettino, mi rendevo conto di un fatto sconvolgente. Dovevo condividere la mia esistenza! In casa non era apparsa solo una sorella, ma una concorrente. Da una parte le volevo bene, dall’altra la odiavo. Mi faceva tenerezza mentre dormiva, ma avrei avuto voglia di buttarla fuori dalla finestra quando faceva la prepotente. Ne combinava tante, faceva quel che voleva e la passava sempre liscia. Mi dava noia vedere che per gli stessi errori io ero severamente punita, e lei sempre perdonata. Anche se crescevamo nella stessa casa mangiando alla stessa tavola e ascoltando le stesse parole, eravamo trattate diversamente.

Da me si pretendevano puntualità, educazione e serietà. Da lei non si esigeva niente. Ero profondamente delusa. Non accettavo la perdita di esclusività, mi sentivo privata di tutto, detronizzata. Mi domandavo perché la mamma non fosse più solo la mia mamma. Perché non mi volessero più bene. Forse perché la mie mani e i miei piedi avevano un colore così strano? 

Una mattina ho spinto mia sorella di proposito. Mentre cercavo di trascinala in giardino per non fare sentire i suoi strilli, il mio sguardo era caduto allo specchio . Mi fermai impietrita. Vidi la mia faccia, scura, con accanto quella rosea di mia sorella. Quando arrivò la mamma urlavo stravolta e domandavo perché ero così diversa. Come risposta ebbi solo gli sculaccioni per aver fatto male alla piccola. Poi mi fu detto che se si fosse ripetuta una cosa simile, mi avrebbero rispedito dritta in Africa.

Smisi di angosciarmi il giorno in cui un mio nuovo amichetto africano mi convinse che tante persone sono come noi, con mani, gambe e facce più scuri. Mia mamma  cercava  di convincermi  che me lo stavo solo immaginando.

Si sbagliava.

Ma anche la maestra mi castigava per le bugie che raccontavo. Neppure lei mi capiva.

 

A nove anni mi hanno assegnato un compito importante. Dopo la scuola dovevo prendere la sorellina all’asilo e riportarla a casa. Trattenuta dalla maestra, perché punita per la mia caparbietà, ero arrivata in ritardo. Nessuno fece caso che la piccola era scappata. Mi precipitai a cercarla dappertutto, ma invano. Alla fine, terrorizzata, tornai a casa.

Scoppiai di gioia, quando la vidi seduta davanti alla porta. Sosteneva che era andata a cogliere per me delle margheritine gialle, ma era ritornata indietro perché era iniziato a piovere.

Non dimenticherò mai la severa punizione di mio padre e le urla di mia madre… Non si erano accorti del mio spavento e di quanto fossi preoccupata. Tutte le attenzioni, le coccole e le lacrime, erano per la “povera piccina”, graziosamente spensierata e tanto abile a fingere.

Da questo sfortunato episodio fui sempre perdente nei suoi confronti. Nei voti a scuola, nel pianificare il futuro, nella scelta degli studi e degli uomini. Mi sentivo la peggiore, spietatamente messa da parte, respinta. Per lo meno allora mi sentivo così. 

Oggi provo vergogna per questa insana ossessione che intorbidava la mia infanzia. Tutto era cambiato durante una festicciola in occasione della mia laurea. Dopo un paio di drink, mia sorella mi disse che mi sbagliavo in tutto. Non era vero che fosse una privilegiata, era solo la più piccola. Mi ero commossa a sentirmi dire di quanto fosse stata dispiaciuta a vedermi sempre oppressa e sofferente. Mi confessò anche che stava per  sposarsi, che era innamorata e molto felice.

- Sei la prima a saperlo – sostenne tra le lacrime, stringendomi le mani.

Non credevo fosse capace di piangere di felicità. Ero convinta che fin ora avesse solo pianto per dispetto. Come ho potuto accusarla di cose simili? Parlavamo. Per la prima volta con il cuore leggero.

- Ricordi quando papà mi permetteva di rientrare dalla discoteca a mezzanotte e tu, quando avevi la mia età, dovevi rientrare alle dieci? Ricordi che tornavo anche io alle dieci, te lo ricordi? Non volevo che ti dispiacesse.

Non me lo ricordavo.

Oggi mi scuso per questo maledetto non ricordare. Ora le chiedo perdono. Nei pensieri e nelle preghiere chiedo perdono per ogni tenerezza o abbraccio che allora avrei voluto gelosamente strapparle per tenerle solo per me.

 

Qualche mese dopo, per l’inaugurazione della mia nuova casa, organizzai un piccolo rinfresco. Alle sei cominciarono i festeggiamenti, anche se mancavano il babbo e mia sorella. Nessuno dei due era puntuale.

Al forte stridore di pneumatici e ad un boato, tutti i festeggiati si sono precipitati alla finestra. Uscii fuori e mi imbattei in un uomo visibilmente scosso.

- Correva come matta, non guardava la strada – 

Mia sorella giaceva in una pozza di sangue con la testa in giù. Nella mano sinistra stringeva un mazzolino di margheritine gialle. Non immaginavo che si ricordasse ancora che erano i miei fiori preferiti.

Al funerale mi sembrava di notare nell’atteggiamento dei miei genitori un certo distacco. Alla fine della funzione non mi guardavano, mi pareva quasi di toccare la loro ostilità. Credevo di leggere nei loro sguardi terribili accuse – perché a lei e non a te -.

Mi sbagliavo.

Mia sorella attraversava la strada per raggiungere il babbo che la chiamava dall’altra parte del marciapiede.

 

In queste circostanze ebbi l’occasione  di  conoscere i miei nonni materni che per le esequie erano arrivati dall’Africa. 

Ignoravo che la mamma fosse una creola! 


 

L’ascensore

 

Come tante donne coreane che sfuggono alla fame e alla miseria del proprio paese, anche Yŏng divenne una vittima del traffico di esseri umani. Il suo corpo rientrava nello standard  richiesto dal mercato e molto presto fu comprata, moglie, da un industriale cinese per un modico prezzo di 528 dollari. 

Yŏng si alza ogni mattina un’ora prima del marito. Prepara una complessa composizione floreale e la depone sul tavolino accanto alla colazione. Poi torna in cucina per stirare una camicia, perché a lui piace tanto metterla ancora calda! Ogni sera fa un bagno profumato, cosparge sul suo corpo oli balsamici e lo aspetta fin quando non torna dal lavoro. 

Un giorno il marito la chiama al telefono per comunicarle che la multinazionale di cui è socio lo avrebbe inviato a Milano, che sarebbero partiti insieme e che la loro partenza sarebbe stata imminente. Dopo questa notizia Yŏng si precipitò a fare delle ricerche su Internet. Mentre lei si eccitava a scoprire tutto su quella città dal nome così difficile da pronunciare, lui si eccitava con la sua segretaria. La mattina successiva mentre lui si affrettava a lasciare il letto dell’amante, Yŏng si affrettava a disdire i corsi all’Università dove studiava lingue. Lo stava facendo per lui con la stessa prontezza con cui, una volta, interruppe una gravidanza. Si ricordava bene quando fu obbligata ad abortire, lo fece perché stava aspettando una bambina. Era incinta da venti settimane quando si recò in una clinica specializzata. La sala d’attesa era piena di disperate come lei, ciò nonostante le operazioni si svolgevano con una certa velocità; ogni venti minuti usciva dalla sala operatoria uno straccio di donna piegata in due. Una ragazzina che sembrava minorenne cercava di consolarle. Raccontò la sorte di sua sorella incinta che era finita in carcere dopo aver ammazzato il suo compagno violento. Poco dopo la nascita della bambina, quando vide un’infermiera premere un asciugamano bagnato sulla faccia ancora sporca di placenta, si era ripetutamente infilata le forbici nell’addome. La bambina aveva smesso di piangere dopo dieci minuti, sua sorella aveva smesso di urlare dopo mezz’ora. Yŏng, una volta uscita dall’ospedale, piegata anche lei in due, decise di telefonare al marito che con una voce ansimante le ordinò di chiamare un taxi, perché  era impegnato. Yŏng riconoscendo in sottofondo le risate ed i gemiti della segretaria avrebbe voluto infilarsi, anche lei, le forbici nell’addome. 

La segretaria non era più bella di lei, ma aveva la pelle più bianca, il naso più sottile e gli occhi “diritti”.

In breve tempo anche la pelle di Yŏng divenne alabastrina, il naso più lungo e alle sue palpebre aggiunse uno strato di pelle. Suo marito non si accorse di nulla.

A Milano risiedevano in una lussuosa palazzina aziendale con l’ascensore. La vita di Yŏng non era cambiata, passava il suo tempo a dedicarsi alla casa, ad aspettare il marito e a curare, per lui, il proprio corpo. Tutti i giorni applicava sul viso maschere rigenerative, si depilava e si spalmava con balsami sbiancanti. Faceva anche una dieta rigorosa a base di certe alghe orientali.

Una mattina portando nello scantinato il bucato da lavare, vide sul pavimento dell’ascensore un tanga a brandelli. Si mise a piangere. Aveva riconosciuto il tanga. Lo vedeva spesso ad asciugare, insieme all’altra biancheria, sul balcone accanto. 

Yŏng invidiava la sua vicina Cinzia, soprattutto per la sua indipendenza. Ammirava anche il suo seno abbondante e le lunghe gambe. Si pentiva adesso di non essersi sottoposta, quando era ancora in Cina, all’intervento per l’allungamento delle gambe. A quel tempo le sembrava troppo spezzarsi le tibie per guadagnare dieci centimetri in altezza.

 

Cinzia era cresciuta in una famiglia molto agiata. Si era laureata in economia e commercio, conosceva quattro lingue ed era molto ambiziosa. Concludeva gli affari con una sorprendente facilità.  Era seria e allo steso tempo esuberante e non esitava ad usare il proprio corpo come un mezzo per ottenere maggiore successo. Era troppo intelligente per non farlo. I soldi che spendeva per gli interventi plastici li considerava un investimento. Di solito, le attenzioni dei clienti cadevano sulle trasparenze che esaltavano il generoso décolleté ricostruito, per seguire poi gli abbondanti glutei siliconati. L’attraente ondeggiare dei lunghi capelli tinti e il seducente broncio della bocca gonfia di collagene,  completavano il quadro di una sensualità raffinata. Sotto questo torturato cinismo, però, si nascondeva una donna sensibile che sognava di trovare un amore puro, un marito. Avrebbe voluto anche dei figli, ma forse più avanti… una gravidanza, adesso, avrebbe potuto rovinare le sue forme perfette. Quando ottenne l’incarico di manager-marketing consumer per una multinazionale, si trasferì in una palazzina aziendale a Milano. I continui viaggi di lavoro le impedivano di stringere rapporti o amicizie e in pratica la condannavano alla sofferta solitudine. L’unico contatto, anche se fuggitivo, lo aveva con i suoi vicini di piano. Di solito intravedeva nel giardino della terrazza una bellissima coreana immersa spesso in catartica meditazione. La invidiava, sopratutto per la sua devozione verso la casa e la famiglia. Sempre 

sorridente, evocava un perfetto equilibrio tra corpo, mente e spirito. Incontrava suo marito, dispotico uomo di successo, durante le assemblee  al primo piano della palazzina. A riunione finita, prendevano l’ascensore insieme… quella volta pretese di essere sedotto dai suoi sexy tacchi a spillo. Lei si difese con forza mentre lui le strappava il tanga.

Il giorno dopo si imbatté in ascensore con la moglie di lui che scendeva in lavanderia. Era incinta di almeno otto mesi. Con un braccio reggeva una cesta di camicie di suo marito, con l’altra mano stringeva a sé il primo maschietto.  I loro sguardi si incontrarono in un tacito segno d’intesa. 

Da quel giorno Cinzia decise di non prendere più l’ascensore.


 

Pummarola a Natale

 

Sono stata battezzata nel giorno di Natale alle cinque del mattino in una chiesina abbandonata alla periferia di Roma.

- Giusto per non dare nell’occhio – disse il parroco.

I miei genitori si sono visti per l’ultima volta durante il mio battesimo proprio in quella chiesa che  non lì ha mai visti sposi. Per la cerimonia mia madre mi avvolse nel velo nuziale mai indossato, da cui avrebbe confezionato il mio primo abitino per un prossimo Natale.

Assomiglio molto a mio padre, ho i suoi occhi, i capelli lisci e il neo sullo zigomo sinistro. Da lei invece ho preso i lineamenti e il colore della pelle, tipici dell’Igbo, la sua tribù in Africa occidentale. Col passare degli anni nella nostra casa è stato cambiato tutto, salvo la camera da letto. Ogni volta quando entro, mi sento come in un mausoleo. Dalle fotografie appese su tutte le pareti, mi scrutano gli occhi birbanti di mio padre e per la stanza si vedono sparse alcune sue cose. Sullo scrittoio, su appositi stoini, sei pipe di diverse forme. Sul comodino sulla parte sinistra del letto un libro aperto alla dodicesima pagina. Nell’angolo vicino alla porta un paio di sandali. Nell’armadio due camicie blu appese alle grucce di legno…mia madre le stira ogni Natale alle sedici in punto. 

Da quando mi ricordo, nel giorno di Natale si viveva un folle parossismo d’attesa. Di lui. Nei miei primi anni non sapevo perché mia madre mi svegliava in quel giorno alle quattro del mattino, per poi trascinarmi dall’altra parte della città. Stanche e infreddolite arrivavamo in una vecchia chiesa solo per stare sedute in silenzio una mezz’ora. Non capivo neanche perché per il pranzo di Natale preparava, odiata da tutte e due, la pummarola, e mi inquietava vedere sotto l’albero un pacchetto che non si scartava mai. Solo dopo ventuno anni dal mio battesimo, decise di rispondermi ad alcune domande.

- Tuo padre è l’unico uomo per cui non nutro nessun rancore – mi disse.

- Perché proprio per lui? – domandai.

- Perché mi ha dato te. Solo lui avrebbe potuto darmi una figlia come te, solo  lui – rispose. 

Non era nella mia abitudine di piangere, ma quella volta piansi di angoscia e d’odio nei confronti di lui. Mia madre per ventisei anni non è riuscita ad abbandonare l’idea che sarebbe tornato e si era immaginata che, se fosse successo, di sicuro sarebbe accaduto nel giorno di Natale. Mi rincresceva 

vederla tormentarsi in questa patetica e assurda attesa senza speranza, ed a coltivare una malata illusione che l’annientava. Per superare dodici mesi tra le feste natalizie, segnati spesso da una profonda depressione, si chiudeva per ore nel suo mausoleo. In questi casi mi veniva in mente che forse sarebbe stato meglio, se fosse diventata vedova. Così avrebbe potuto avere il certificato di morte di lui, una tomba da curare, i ceri per Ognissanti, le fotografie sbiadite in un album e dei bei ricordi.

Mia madre è una donna bella e intelligente. Quando è arrivata in Italia con la laurea in lingue conseguita in una università della Nigeria, credeva nella possibilità di trovare un impiego adeguato alla sua preparazione. Pensava di entrare in una società basata sul dialogo, in cui le differenze fossero percepite come una ricchezza e non come una barriera. Anche se consapevole, grazie agli avvertimenti dei media confermati dai racconti di chi aveva lasciato il proprio Paese per un futuro migliore, è diventata ugualmente una preda adescata e intrappolata in un tranello amoroso. Alla fine, come tante donne immigrate, rimase da sola con un bambino. Per mantenermi e farmi continuare gli studi al Politecnico accettò qualsiasi lavoro le capitasse; fece la badante, le pulizie, aiutava in una lavanderia e in un bar.

In tutti quegli anni le si sono avvicinati diversi uomini. Alcuni volevano passare con lei solo una notte, altri tutta la vita. Anche questi secondi alla fine diventavano di passaggio. Verso dicembre, cacciava via tutti quanti e con la coscienza pulita, nel giorno di Natale ritornava alla sua liturgica cerimonia: stirare la camicia e preparare la santa pummarola.

Mi è capitato un padre, che pur abbandonando del tutto mia madre, l’aveva segnata per tutta la vita. 

Le ha fatto molto male.

A me no.

Ho saputo solo all’asilo che i bambini hanno dei padri.

 

M’illudo di essere per lui la “cosa” più importante. Basta che gli telefoni e lui lascia tutto, subito, per venire a trovarmi. Per questo non lo chiamo mai, per non disturbarlo. Non gli dico mai che sono orgogliosa di lui, faccio finta che la sua vita non m’interessi, non lo ringrazio per le cose che mi manda, non lo abbraccio e non lo stringo a me.

Così gli faccio pagare… per la mamma. E poi, non si merita di sapere che gli voglio bene…                          

   

       Per l’ultimo Natale, mia figlia di sei anni ha scritto una lettera a San Nicolò. Gli chiedeva se fosse  possibile regalare a suo nonno, sconosciuto, un piatto di spaghetti alla pummarola. 

 

E’ fragile il lume della candela

e pure la fiamma palpita più a lungo.

Nell’ombra la tua immagine

e pure con vigore ritorna.

Nel silenzio la tua voce

e pure con eco risuona.

Nel velo i pensieri nascosti

e pure quelli

rivelano

più di ogni altra poesia. 


 

Le ombre del terremoto

 

L’auto, attraversando l’impervio paesaggio dell’Appennino centrale, corre spedita in direzione dei luoghi terremotati. Mi dirigo lì a curiosare un po’ ed a fare qualche scatto, forse voglio trovare l’ispirazione per scrivere qualcosa, insomma vado a fare il solito giro di fine settimana.

Arrivo in paese, sta piovendo e il grigiore del tempo contribuisce a rendere ancora più pesante e riflessiva l’atmosfera che si respira. 

Mi ritrovo a percorrere una strada in leggera salita che prima del sisma ritengo dovesse essere a doppio senso. Solo poche auto precedono o seguono la mia. Parcheggio in fretta e mi soffermo a parlare con due guardie che presidiano l’ingresso della Zona Rossa. Comincio a capire quello che è stato e quello che ancora è. 

La zona è deserta. Non un passante.

Continuo a fotografare.

Un vicolo dopo l’altro, accompagnato solo dai miei passi e dai miei pensieri.

Le pareti violentate dagli attimi decisivi dello schianto, mettono a nudo scorci di vita. 

Dalle finestre e dai terrazzini lasciati aperti nella fretta di riappropriarsi della vita, della propria vita, ti aspetti che da un momento all’altro si affacci una moglie intenta alle faccende domestiche, uno studente immerso nell’ultimo ripasso prima degli esami, una bimba che sul triciclo gira e rigira nello spazio limitato del balcone, una coppia di pensionati alle prese con la lettura dell’ultima bolletta sempre più sproporzionata per le loro tasche…

Quasi lo vorresti, quasi lo pretenderesti, come se tutto quello che ti si sta parando davanti fossero solo immagini di un brutto sogno, di un incubo. 

Vorresti che atteggiamenti semplici e naturali segnassero ancora il vivere normale di quelle persone e tutto tornasse com’era.

Chiudi e riapri gli occhi più volte … Ma non è così.

Solo il rumore del vento fra le imposte prive di cardini.

Solo il fruscio di una tenda ormai logora. 

Solo lo sbattere di un’anta d’armadio.

Solo i tuoi passi.

Ti trovi immerso nella vita degli altri.

Vorresti urlare, scappare, ma il cuore ti tiene lì. 

Ti sembra quasi di far violenza. 

Più volte gli occhi si velano di lacrime, ma non puoi mollare, non puoi farlo proprio adesso che capisci, che avverti di essere così vicino a tutti loro. 

Ti senti impotente davanti a tanta devastazione.

Lui si pone oltre a tutto, lui, il silenzio.

Assoluto, invasivo, lacerante, drammatico.

Mi aggiro fra quartieri con le facciate martoriate e scheletriche. Piante secche sui terrazzi, file di panni stesi scoloriti dal tempo.

Su un portone, dietro le schegge dei vetri impolverati, scorgo una donna. La saluto. Con un cenno mi invita ad entrare. Inseguo le sue vesti stracciate che nella penombra stanno quasi scomparendo dalla vista. Prudentemente raggiungo quel che resta dei suoi ricordi, della sua casa natale. Sulla targhetta del campanello appeso ad un cavo elettrico si legge appena Gabri…la San… La donna nasconde il volto nella logora pezza e irruppe in un pianto silenzioso.

Ogni singhiozzo un doloroso pugno in pieno stomaco. 

Rimango in silenzio e non ho più la forza di scattare. Scendo in fretta le scale e mi accascio sulle ginocchia. 

D’un tratto mi viene incontro un vecchio cane di grossa taglia.

Il suo incedere è lento, la sua pelliccia sporca e trasandata. Capisco subito che non ho niente da temere. 

Sento la sua testa che cerca il contatto con le mie dita. Lo accarezzo.

Mi conduce tra le macerie. 

Dietro uno scrigno scassato intravedo un bambino. Mi sorride. Gli faccio qualche foto … mi sento come se fossi uno squallido ladro di anime. 

Poco dopo esamino tutte le immagini al computer. Del ragazzino nemmeno l’ombra e neanche della donna. 

Ritorno in quel posto la stessa sera. Fuori ha appena smesso di piovere, una lieve foschia aleggia sul luogo. Il bimbo gioca spensierato, con i suoi balocchi. Il pallone contro il muro, la risatina raggiante, la cantilena gioiosa.

Dal secondo piano giunge la voce di donna che chiama Matteo a cenare. Poi, una scossa.

Sento che non devo fare più alcuna ripresa.

 

Più tardi al bar mi dicono che anche quel cane, come gli uomini di queste parti, ha perso tutto. Anche la carezza di Matteo, il suo fedele amico di cinque anni. 

Gabriella? Era la sua mamma. E sì, neanche lei, poverina, è sopravvissuta. 

Cancello tutte le foto e riparto. 

Mi accompagnano gli sguardi della gente che quella notte si era riversata incredula nelle vie e nelle piazze, sperando che anche quella fosse una scossa come tante altre. 

Ma quella volta la natura aveva deciso diversamente. 


 

Il muro di Berlino

 

Dopo svariate vicende in Polonia, negli anni ottanta mi trovai a Berlino Est con la ferma intenzione di arrivare davanti a quel muro. 

E fu entrando in un vasto parco che per la prima volta lo vidi.

Acacie spinose, cresciute nel vuoto dei viali, scrollavano il loro fogliame chiaro nella leggera brezza del giallo meriggio. 

Quel parco aveva zone e climi diversi; da un lato era aperto e dispiegava al cielo il verde più tenero, soffice e delicato, dall’altro, man mano che si addentrava in una delle sue lunghe ramificazioni, sprofondava nell’ombra oscura. Laggiù non era più un giardino, era solo parossismo di follia, un’espressione di furia. Ed il muro era lì. Avvolto in un manto tenebroso, gonfio di paura, era un simbolo vergognoso della tirannia.

Chi mai aveva dato vita ad una realtà tanto ignobile!? 

 

Uomo!

Varcata la soglia

del tuo immenso perfetto

 crollarono le mie illusioni,

l’incantesimo svanì

ed io mi trovai

in mezzo

ad un devastante

e smisurato

vuoto…

 

Una maschera di grigiore dipingeva il mio viso.

Continuai a camminare e ad osservare.

Un gruppetto di cenciosi ragazzini assediava una panchina sverniciata e disfatta. 

I passanti sprofondati nella tristezza portavano sul viso l’impronta di una mal sopportata rassegnazione. Uniti nel muto desiderio di scavalcare il muro, tutti noi, stavamo fissando quella “striscia della morte” che divideva in due la terra e il corpo stesso.

 

I cuori spaccati.

Le vite offese.

I sentimenti rotti.

Le anime uccise.

L’oceano del male inonda il mondo

i crimini afferrano le genti.

Troppo male è stato fatto.

Basta con l’odio!

 

Cosa si nascondeva dietro quella costruzione impenetrabile, tanto alta e lunga senza fine?

Cominciai a fantasticare. 

Immaginavo di trovare al di là un paradiso incantato.

Dietro quel muro avrei voluto realizzare le mie più esaltate e boriose aspirazioni.

Avrei voluto assaggiare i frutti di tutti gli alberi del giardino del mondo.

Avrei voluto andare per i sentieri fioriti nello stupendo mondo dei colori. 

Avrei voluto volare come una piuma…

 

Come una piuma

svolazzo senza sosta

inseguendo l’oltre,

sempre più in là

più in là…oltre…ancora.

Sorvolo l’infinito

senza pormi confini.

Dell’ampio mi soddisfo.

Del vasto mi compiaccio.

Dispersa nell’immenso

conservo con vanto

l’indipendenza

della mia solitudine.

 

Come una piuma

alata del Tutto

creo la scia 

della mia libertà.