Daniele Marchesi

Poesie


Non ci sono più le mezze stagioni

Il sole caldo di questo strano inverno,
rende gradevole l’opera umana di ricercar l’inferno,
io sto bene se stanno peggio tutti gli altri,
ma sono lontano, ugualmente, da Sestri.
Manca il vento del mare,
e pulire il pollaio mi fa un po’ sudare,
manca il verso del gabbiano,
il vociare dei bambini, e un veliero che corre lontano,
il castello di sabbia,
che diluisce, crollando nell’acqua, la rabbia,
il desiderio mio è uguale a quello dei bambini e delle bambine,
portare al mare il gallo con tutte le galline,
pensare che, guardando anche loro il gabbiano,
pensino, da pennute, di avere, anche loro, un aeroplano,
e di esserselo sino ad allora perso,
vedendolo ora finalmente solcare il cielo e fare quello strano verso.
E i gabbiani, stupiti nel vedere pennuti a terra,
li guarderanno come le piante guardano i fiori in serra,
studieranno i loro passi,
senza capire come facciano, a mangiar pesci sotto ai sassi.
Chiudo il pollaio, dopo aver pulito come una furia,
mi fa male la schiena, e sono, troppo lontano, dalla Liguria.

 


 

La Neve

Scende lieve, sulle strade e sulle panche,
tutto avvolge, come gli interessi, sui debiti, delle banche,
milioni di piccoli batuffoli di cotone,
tutti diversi, tutti uguali, senza nome,
del resto siamo noi a dare il nome alle cose,
siamo noi a creare maschere e pose,
la natura fa solo il suo mestiere,
non ha creato lampioni per illuminarsi le sere,
c’erano le lucciole, d’estate,
ma con i nostri veleni le abbiamo eliminate,
a giugno c’era l’odore del grano, la sera,
ora è nella grana che ognuno spera,
stiamo percorrendo, con una balla d’erba sulla spalla,
un’asse di legno malferma, non certo bella,
che ci porta sul portico, che ci sembra lontano,
mentre la macchina, rumorosa, continua a battere il grano.
Immagini degli anni sessanta, che tornano,
con la neve e il suo manto,
chi avrebbe mai detto, che la gente, peggiorasse così tanto.

 


 

Ho visto una farfalla

Andava su e giù e di traverso,
con le ali che sostenevano l’esile corpo,
forse non sentiva né vedeva lontano,
voleva evitare il getto d’acqua della gomma, e la mia mano,
correva di fiore in fiore,
inseguendo la sua fame di cibo e di amore,
mi sono chiesto, chissà,
se conoscesse il significato della produttività,
se la sua vita fosse istinto puro,
senza famiglia, senza padrone, senza lavoro,
se l’istinto la portasse, in modo oscuro,
a capire che, in quelle uova, c’è il futuro,
ma non per lei, vittima di un tempo breve e ingrato,
come un presente che diventa, subito, passato.

 


 

Mediterraneo

C’è il cielo in una stanza,
ma c’è anche una nazione senza speranza,
un posto bello per vecchi,
dove, le persone, le vedi solo negli specchi.
E la gente parla, mentre ha uno sguardo scaltro,
dice le cose pensando ad altro,
su ogni cosa si scatena la polemica,
e ogni messa, è contenuta, in ogni domenica,
in questa società, franata e friabile,
tutto si trasforma rimanendo immobile,
chi può cerca di partire,
chi non può rimane, per vedere come và a finire,
mentre i ricchi diventano sempre più Signori,
e gli schiavi schiattano, nei campi di pomodori.
Sì, avete indovinato, si parla dello Stivale,
coricato in mezzo al mare,
indifeso, ti fa le fusa,
ma ormai c’è dentro una medusa,
se te lo metti senza guardare,
ti puoi anche avvelenare,
quindi tu che leggi sei avvertito,
d’estate, sono meglio le infradito.

 


 

Anni sessanta. (Del millenovecento)

Si passava attraverso le strisce di plastica colorate della porta,
mentre la musica si spandeva nel bar senza filtri di sorta,
la coca cola una delle poche cose,
i capelli pettinati, da un lato, era parte delle varie pose,
la piazzetta con due biciclette e un motorino,
le ragazze sedute sul muretto, lì vicino,
la discesa della strada verso il mare,
Celle Ligure, o un altro posto da immaginare,
il presente era un luogo sicuro,
e anche la brezza calda sembrava condurre verso il futuro,
le minigonne di plastica colorate, per le giovincelle,
le righe bianche e rosse delle magliette, strette, ma molto belle,
si aspettava, in quel periodo di pace, il momento del ghiacciolo,
si era insieme, anche se ciascuno si sentiva solo,
la terra, guardando il mare, sembrava sferica,
e noi si aspettava arrivasse, anche qui, l’America,
le voci dei bambini tenuti in riga dalle suore,
mentre una nuvola copre il sole e poi, magari, piove,
ora, che non ho più i capelli e non posso considerarmi spettinato,
mi chiedo dove sia finito quel passato,
come mai, tutte quelle voci dei bambini,
si sono trasformati in sguardi sospettosi, di anziani assai meschini,
quello che mi manca adesso, mentre maturano le more,
è quel mare, è quel tempo, e il loro odore.

 


 

Le case e le cose

Quante cose nelle case,
cose dimenticate,
tanto importanti da essere presto scordate,
in quelle case fatte con i sassi, con la terra ed il legno,
con muri enormi, archi, pietroni nei muri di sostegno,
un po’ dritte un po’ no le pareti, sottili i tetti,
analfabeti contadini i geometri e gli architetti.
Quelle cose, in quelle case,
poi si sono, invecchiando, trasformate,
passate di mano in mano,
compresi i vecchi vestiti, non era strano,
le pentole vecchie, i piatti scheggiati,
servivano per le galline, non andavano buttati,
la gente non parlava molto, stava sulle sue,
percorreva, tra le case, quei viottoli tirandosi dietro un bue.
Contadini che lavoravano una vita, presi per il sedere,
lontani, mille miglia, dai palazzi del potere.
Forse, da marinai, avrebbero avuto una donna in ogni porto,
mentre, l’unica che avevano, lavorava giù nell’orto,
Ricordo quelle figure, le ho viste da vicino,
sulla fronte avevano il sudore, e in mano il fiasco del vino.
E, la sera, quanta paura per via dei folletti,
impegnati, di nascosto, a far dispetti,
bucando di notte i secchi,
rubando, nell’orto, le zucche,
e legando, nella stalla, le code alle mucche.
Invidio quelle pietre angolari, che tanto hanno visto,
pietre di case su cui, con gli occhi insisto,
memori di schiocchi della pertica, sul bue, sul sentiero,
sotto la collina su cui sorgeva l’antico maniero,
che scandivano il tempo, ora triste, ora lieto,
sulla strada, che ora è un sentiero,
che, da Fasso, conduce a Samboceto.

 


 

Salva col nome

Dietro le croci passavano le nuvole, come se tutto fosse normale,
come se il pomeriggio volgesse alla sera, e più nulla c’era da fare,
solo le donne che piangono, lacrime di sale,
nessuno che guarda, in alto, la gente che muore,
ma dal lato destro della barba di dio, un dito si muove,
nessuno ormai più ci spera,
ma si muove verso la tastiera,
muove, in alto a sinistra, la piccola freccia,
fa una smorfia, con la sua grossa faccia,
preme il pulsante sul file, apre le tendine,
apre uno squarcio sull’Impero di Roma, che uccide ed opprime,
e, proprio quando nessuno ci sperava più,
apre salva col nome, e ci scrive Gesù,
ponendo fine, in quell’uomo, ai tormenti,
trasformato in icona, ora è lì, tra i documenti,
quando vuole, dio, lo può sempre aprire,
o, in risposta a qualche messaggio, lo può anche allegare,
io, per parte mia, lo lascio in un angolo della mia fantasia,
poi lo declino in parole, che, vanitosamente, chiamo poesia.

 


 

Al di la dell’al di qua

Dopo la morte l’anima, probabilmente, emigrerà su Orione,
un posto come un altro, ma certo una bella costellazione,
la sfiga sarebbe che, nell’eterno suo divenire,
l’anima si dovesse ritrovare a fare sempre il solito mestiere.
Possibile che, nemmeno da trapassato,
si possa fare un po’ il disoccupato?
E in un mondo senza tempo, senza linee curve o rette,
come si fa, a sapere, quando è il ventisette?
E in una costellazione nuova, ci sente tranquilli o persi?
Quale carta si userebbe volendo scrivere dei versi?
E le donne, i figli, i genitori ed i padroni,
sarebbero anche loro lì, tanto per romperci i coglioni?
Ho tante di queste domande, sapete,
forse dovrei parlare col prete,
a questo gioco farebbe buon viso,
ma poi mi intorterebbe, sicuramente, con la storia del paradiso.
Certo, mi renderei conto di come è il “dopo”,
e se la vita vissuta sia stata solo un gioco,
mi accorgerei di aver corso dietro a qualche illusione,
ora piccola e ridicola, vista da Orione.
E guarderei lontano, un puntino in fondo chiamato terra,
che brilla nel buio, come una piccolissima perla,
rotonda, così lontana che si fa fatica a guardare,
e così piena di gente che continua, imperterrita, a farsi del male.