Daniele Parolin - Poesie e Racconti

La cipolla

Che bella quella notte
noi due sul sofà,
io guardo le tue gote
tu osservi il mio babà.

Or comincio a spogliarti
tu di me già tutto vedi
che fatica ad amarti
tu ti inchini ai miei piedi.

Neanche fossimo in inverno
ventitré vesti di levai,
tu attratta dal mio perno
e i tuoi strati a finire mai.

 

 

 

Poesia di una lacrima

I tuoi occhi
han fatto danzare
una lacrima.

Sì,
una lacrima
ha rigato di tenerezza
la tua timida gota.
Solo una lacrima
ha fatto parlare
le tue labbra
con un bacio.

Già,
un bacio d’amore.

 

 

 

Rugiada

Non sei una stella
ma è come se lo fossi,
goccia
di rugiada
che brilli
sotto un oro
che ha cambiato
i colori
a un prato
non più malinconico.

 

 

 

Armonia

Sussurro
di una cascata
di foglie
che bussa
a un silenzio
intonato
dal ruscello
che disegna
con le sue braccia
un fiore d’acqua,
mentre l’incanto
fa un assolo a bocca chiusa.

 

 

 

Disegni di dei

E il fiume
procede
accompagnato
da un aureo pesce
che suggerisce
al Sole
il giusto riflesso
per quell’istante
in cui l’acqua
tocca
con un sorriso
lo sguardo
del Cielo.

 

 

Rare sensazioni

E lacrimi,
minuta stilla addormentata
sulla mano sottile
della pelle
che ricopre la Terra.
E scivolando
lungo il bordo
ti spaventi
per l’incanto
che stai per toccare.
Indugi un po’
finché un raggio di Sole
ti scalda
del suo Amore.
E tu,
piccola stilla
ti abbandoni all’Immenso.

 

 

 

Soli

Pensieri di bimbi,
soli,
piccole luci
di speranza
che nel silenzio
danzano…
come fogli
lasciate
dal braccio disattento.

 

 

 

Stupore alpino

Lesta nube che accarezzi le cime
e ne conosci di nuove
più giocose delle prime.
L’infinito ti abbraccia,
l’umiltà ti accoglie.

Scendendo impervia
sulle nude rocce
le rivesti di silenzio
rotto soltanto dallo stillar delle gocce.

 

 

 

La piccola ostrichetta

(20/01/2017)

Faceva parte di una cucciolata attaccata ad uno scoglio in mezzo al mare. La piccola ostrica risplendeva di tutta la sua bellezza, all’esterno la conchiglia luccicava alla luce del sole, e all’interno una splendida perla riluceva scintillando. Le striature della conchiglia, così armoniose e perfette creavano arcobaleni di luce quando venivano inondate dai raggi solari. E le onde del mare la accarezzavano, così lei si coccolava ed era felice.
Tutti erano contenti della piccola ostrica, dato che era l’unica della cucciolata ad avere una perla così splendida, da fare invidia a tutto lo scoglio.
Con l’andare del tempo e la crescita, il mare che accarezzava la conchiglia iniziò a portare con sé pure sporcizie ed alghe, che si attaccarono alla luccicante conchiglia della piccola ostrica. L’esterno non risplendeva più come una volta, e anzi, si era abbruttito, sporcato, e qualche minuscolo animaletto vi aveva trovato anche rifugio tra le venature. L’ostrichetta si avvilì talmente tanto che si rinchiuse in se stessa, non voleva più aprirsi, nonostante la sua perla era al sicuro e risplendeva come non mai, ma lei vedeva soltanto la conchiglia sporca e macchiata da quel mare che prima la rendeva luminosa.
Gran parte della cucciolata cercava di tirare su il morale all’ostrichetta, ma nulla da fare… il mare continuava a sporcare la sua “pelle” e la piccina non ne poteva più.
“Ma dai…” dicevano gli altri… “appena il mare torna pulito, vedrai che tornerai a splendere”.
Il segreto naturalmente era riuscire a coccolare la sua perla che si trovata al riparo dalle intemperie, curandola giorno dopo giorno, ma per la piccola ostrichetta era molto difficile, se non impossibile riuscirci. Ma la perla c’era e continuava a splendere di luce.
La situazione continuò così per un po’ di mesi, finchè il clima più caldo e un cambio di direzione dei venti, ripulì il mare. Con il mare pulito, piccoli pesciolini vennero nello scoglio e iniziarono a ripulire tutte le conchiglie delle ostrichette, lì attaccate. Anche la conchiglia della piccola e affranta ostrichetta venne presto ripulita, e in pochi giorni tornò a risplendere più bella che mai. E allora, cantando a gran gioia, si aprì, dopo tanto tempo che non lo faceva, e tornò a far mostrare la straordinarietà della perla che custodiva al suo interno, e che mai, dico mai, era stata scalfita dalla bruttezza.
Ora la piccola ostrichetta era felice, e sapeva che quel momento sarebbe potuto ritornare, ma era ben consapevole dell’enorme valore che essa conteneva: una perla luminosa!

 

 

 

La leggenda del ragazzo che parlava con la neve

La storia che desidero raccontarvi è accaduta molti anni fa. Parla di un giovane di circa sedici anni di nome Albert.
Albert viveva in uno sperduto villaggio del nord Europa, uno di quei villaggi lontani parecchi chilometri dai grossi centri abitati, autonomo in tutto, dove le persone bene o male si conoscevano e vivevano principalmente di agricoltura.
In quel gruppo di case, da circa due anni viveva Albert. La sua abitazione si trovava nella parte nord del villaggio e ne distava circa un miglio.
Se il villaggio era di per sé isolato, la casa di Albert lo era ulteriormente, benché appartenesse alla stessa comunità. La casa era circondata completamente dal verde e da parecchi alberi. Innumerevoli fiori riempivano le aiuole coltivate con cura. Oltre la recinzione, immensi prati di erba delimitavano la proprietà della sua famiglia.
Il padre di Albert era morto quando lui aveva solamente un anno e la madre lo accudiva con infinito affetto.
Il nostro amico frequentava la scuola del paese: era un ragazzo particolare, molto timido e introverso però andava bene in quasi tutte le materie anche se prediligeva le scienza naturali e non amasse molto la matematica.
Per la sua timidezza Albert veniva spesso e volentieri preso in giro dai suoi compagni che conoscendo il suo amore per la natura, ogni uscita extra scolastica non perdevano l’occasione di estirpare fiori o spezzare rami di alberi dicendo: “ Albert, guarda… che bel fiore! Che nome ha? “. Lui ingenuamente rispondeva ma poi i suoi compagni lo strappavano davanti ai suoi occhi. Lo stesso accadeva con i rami degli alberi di cui Albert conosceva ogni singola specie. Ogni volta che ciò accadeva egli scappava via e andava a piangere, solo.
A guardarlo sembrava che fosse morta una parte di se stesso.
Ma è giunta l’ora di presentarmi: mi chiamo Isabel ed ero una compagna di classe di Albert, forse la sua migliore amica. A quei tempi vivevo nel centro del paese ma alla fine degli avvenimenti che andrò a raccontarvi mi trasferii in una città principalmente per esigenze scolastiche. Dopo alcuni anni dal trasferimento ritrovai per caso dentro uno scatolone impolverato, su in soffitta, un libricino dove ero abituata a scrivere tutto quello che mi accadeva ogni giorno, un quaderno di memorie. In questo caro libricino vi era scritta la storia di Albert.
Conoscevo bene Albert, perché con la maestra decidemmo che ogni giorno sarei andata a casa sua a fargli ripetizioni di matematica.
Albert non accettava subito, come al solito, ma poi per l’insistenza della maestra e anche della madre propendeva per il sì.
La maestra era molto buona con Albert e vedeva in lui qualcosa di diverso, come se dietro a quel timido bambino ci fosse addirittura un grande uomo.
Cominciai a far visita al mio amico in Primavera e quello che vi sto per raccontare ha del fantastico e del tenero allo stesso tempo ma soprattutto è successo veramente.
Il pomeriggio in cui andai per la prima volta a casa sua, lo vidi seduto sotto una maestosa quercia di circa cinquecento anni se non di più.
Lui aveva il viso rivolto verso il fusto dell’albero e la mano destra lo stava accarezzando molto dolcemente. La cosa sensazionale era che sembrava parlasse con quell’albero e la quercia, ancor più incredibilmente, ogni volta che il piccolo Albert alzava gli occhi al cielo, chinava lentamente uno dei suoi rami come per abbracciarlo. La scena che vedevano i miei occhi era bellissima: Albert e la Quercia si univano in un tutt’uno, come quando un genitore abbraccia il proprio figlio. Ho ragione di credere che questo accadeva ogni giorno, poiché ogni volta che andavo a trovarlo lo trovavo sempre là; poi, come se sapesse che ero arrivata, mi raggiungeva: un timido saluto e… su in camera a fare ripetizioni!
Non so dirvi se effettivamente egli sapesse che lo avevo visto ma quel luogo sotto la Quercia era “ il posto di Albert “.
Un giorno di primo Autunno successe qualcosa di diverso. Sotto la quercia, Albert non accarezzava più il fusto dell’albero ma lo abbracciava come se gli stesse dando un ultimo saluto oppure come se lo stesse consolando.
In un primo momento non capii il perché di quel gesto così materno ma poi, mentre il mio amico mi dava il buongiorno, per la prima volta la sua timidezza sembrava essere per un attimo sparita e mi disse: “ L’Autunno è la stagione in cui la natura si prepara al grande Inverno e gli alberi cominciano a perdere le foglie, le loro amate figlie che hanno nutrito e cresciuto per tutta la Primavera e l’Estate. Immagino che per loro sia un distacco doloroso. “
Capii in quel momento l’abbraccio di Albert alla Quercia.
Con quel gesto le aveva donato la sua comprensione, il suo saluto, il suo calore, il suo amore.
E arrivò l’Inverno con il suo carico di freddo.
Fu nel primo giorno delle vacanze natalizie che andai a trovare Albert di mattina e quello che vidi ebbe veramente dell’incredibile e miracoloso.
Come al solito lo trovai sotto la quercia oramai spoglia, seduto a gambe incrociate. Faceva molto freddo quella mattina e il cielo era plumbeo.
Ad un certo punto un vento leggero ma gelido fece chinare un ramo dell’albero fino a toccare il capo di Albert. Lui si alzò all’improvviso, guardò il maestoso albero e corse velocemente in mezzo al prato circostante la tenuta.
Feci in tempo a seguirlo e a nascondermi poco distante, dietro al tronco di un imponente abete di montagna.
Albert si sedette al centro di quell’immenso prato color ocra, alzò gli occhi al cielo e gridò a gran voce: “ Vieni! “.
Come per magia, in quel preciso istante iniziarono a scendere dal cielo i primi cristalli di neve, come se Albert li avesse chiamati e ordinato loro di scendere. In breve tempo nevicava in tutta la vallata e tutto si copriva di bianco.
Albert teneva il viso all’insù per sentire l’ebbrezza dei fiocchi di neve posarsi sulle gote, sulla fronte e sul naso. Ad ogni fiocco che si posava egli lo salutava con un caloroso e significativo “ benvenuto “.
Tutto il prato era ormai ricoperto da circa un centimetro di soffice neve, quando Albert esortò: “ Amici, danzate per me “. All’improvviso, non so come spiegarlo, i fiocchi di neve si raggrupparono a formare quattro o cinque spirali, come dei piccoli innocui tornado che iniziarono e girare vorticosamente attorno al mio amico che rideva felice. E la neve così riunita si alzava alta nel cielo a formare meravigliose figure di animali o di fiori, che danzavano nell’aria, Albert danzava con loro in uno scenario magico e incredibile.
Non potevo credere ai miei occhi. Sembrava di vivere in una favola. Quel timido ragazzo aveva la capacità di parlare con la neve!
Rimasi esterrefatta per alcuni minuti, il tempo necessario per prefiggermi di scoprire l’origine di quello speciale dono. Dopo un’ora circa, Albert si alzò lentamente dal suolo, fece lentamente un inchino e disse: “ Grazie “.
La neve riprese a cadere lentamente.
Ritornai a casa di corsa, per evitare che Albert mi vedesse. Ero tutta sudata e con il cappotto completamente bagnato.
Riuscii a giungere poco prima di lui. Quando mi vide ancora nell’entrata della casa mi disse: “ hai fatto una corsa? Sei tutta bagnata! “.
Pensavo mi avesse scoperto ma la mia prontezza nell’inventarmi qualcosa mi salvò: “ Eh, la neve mi ha colta all’improvviso e sono rimasta a guardarla scendere, dopo un po’ mi sono accorta che ero in ritardo e allora son venuta di corsa “. Albert sembrava soddisfatto della risposta che gli avevo dato, così esclamò: “ Andiamo a studiare, è tardi “.
Era la prima volta, da quando lo conoscevo, che mi parlava senza arrossire ma soprattutto… mi parlava!
Forse ero riuscita a rompere il ghiaccio della timidezza e il mio proposito di scoprire l’origine del suo dono si rafforzò.
Raggiunsi la stanza ed iniziammo a studiare; dopo mezz’ora presi coraggio e chiesi: “ Ti piace correre in mezzo ai prati? “.
Albert mi guardò come stupito da quella domanda ma continuò a studiare. Sempre più ardita ripresi: “ Perché a me piace moltissimo, soprattutto sedermi, stare in silenzio e ascoltare il suono del vento che accarezza l’erba “.
Albert staccò gli occhi dal libro e mi guardò intensamente, come se stesse cercando qualcosa dentro di me. Dopo poco tempo, che per me fu un’eternità, disse: “ Non ho più voglia di studiare, ci vediamo domani, va bene? “.
Forse avevo colto nel segno.
“ Va bene… per me va bene; a domani allora! “ risposi.
Ci salutammo in attesa del nuovo giorno.
Con la mia semplicità e il mio ardimento ero riuscita a varcare la soglia del piccolo grande mondo di quel ragazzo.
Ero sicura, o almeno lo speravo tanto, che l’indomani la mia curiosità sarebbe stata esaudita.
La mattina seguente nevicava con una certa intensità. Mentre attraversavo la via principale del villaggio che portava direttamente alla casa del mio amico, pensavo a come avrei ripreso il discorso interrotto il giorno prima. Non avevo intenzione di forzare il dialogo per non urtare la sensibilità di Albert. Lungo il tragitto, i pupazzi di neve costruiti dai ragazzi del villaggio costellavano la lunga strada che porta fuori dal centro. Giunta alla casa, vidi che il pupazzo costruito dal mio amico sovrastava per altezza e bellezza tutti quelli che avevo appena visto e immaginavo già come avesse potuto costruirlo. Feci per entrare nel giardino ma stranamente Albert non si trovava sotto la quercia come invece lo scorgevo ogni volta, da quando avevo iniziato ad aiutarlo. La cosa mi insospettì e non poco. Uscii di corsa e mi diressi velocemente nel prato, dove lo avevo visto parlare con la neve, ma non si trovava nemmeno lì. Alzai lo sguardo e vidi qualcosa di strano, molto più lontano, in un altro prato.
Volevo andare a vedere ma il sentiero che conduceva in quel posto era poco battuto e non ero per niente sicura di proseguire.
Stavo per voltarmi e tornare indietro, quando un vento improvviso mi “ costrinse “, invitandomi ad andare avanti. Mi sospinse senza indugio fino ad un punto ove i miei occhi videro l’impossibile e dove stava accadendo un evento che ancor oggi i miei occhi stentano a leggere.
La visione che ebbi davanti mi lasciò senza respiro: Albert era sospeso a mezz’aria, sostenuto da milioni di fiocchi di neve di varie dimensioni che gli facevano da letto. E questi fiocchi lo portarono sempre più in alto, finchè Albert divenne un punto sopra il cielo. Una colonna di neve sosteneva quel magico e meraviglioso letto. Ed ecco che avvenne l’inspiegabile.
Stavo guardando quella maestosa spirale di neve quando: “ Isabel “, un sussurro mi entrò nel cuore. Non capivo da dove provenisse quella voce così dolce.
“ Isabel “ continuava delicatamente. Sembrava che tutta la vallata riecheggiasse di quel soave suono. Il mio cuore, che aveva iniziato a battere all’impazzata per l’emozione di quella visione, ritornò calmo grazie a quel melodioso sussurro che non smetteva di chiamarmi: “ Isabel “.
Mentre cercavo di comprendere l’origine di quel richiamo, ecco che, alzando gli occhi verso la vorticosa spirale, vidi all’interno di essa la figura di Albert che, immobile, sospeso nell’aria, mi invitava: “ Isabel, vieni “.
Non lo avevo mai sentito parlare con quella voce, una voce che aveva la capacità di scaldare il cuore in quella gelida giornata.
“ Isabel, vieni da me! “.
Ma come potevo raggiungerlo?
Avrei voluto tantissimo ma non sapevo come fare. Sembrava che Albert avesse percepito i miei pensieri poichè dalla spirale si staccarono tantissimi fiocchi di neve che mi avvolsero le caviglie. Guardavo in basso e vedevo i cristalli di neve che si attorcigliavano a grande velocità sopra i miei piedi e iniziarono a sollevarmi mentre altrettanti si posizionavano sotto di me dandomi la spinta verso l’alto. Stavo volando in aria, sostenuta da milioni di fiocchi di neve e non credevo ai miei occhi per quello che mi stava accadendo.
Nella grande spirale si aprì un varco e in breve tempo raggiunsi Albert all’interno di essa. Fantastico.
Lì dentro regnava una calma irreale. Albert mi guardava fissa negli occhi sorridendo mentre con la punta delle dita solleticava quei miliardi di cristalli di neve che giravano attorno a noi due. Non sapevo quale esperienza stavo vivendo ma tra me e lui sembrava che ci fosse un’intesa particolare. Forse lui conosceva già sin dall’inizio questo sentimento ed ecco allora perché voleva che vivessi con lui quel magico momento.
Mi salutò affettuosamente e disse: “ Non raccontare a nessuno quello che stai vedendo. Sapevo che mi avevi visto quando ho parlato con la neve ma ho capito pure che sei molto buona e il tuo cuore è sincero e sapevo della tua curiosità… quindi… hai qualche domanda da farmi? “
Stetti in silenzio per un attimo poi chiesi: “ Albert, come mai sai parlare con la neve? “.
“ Sapevo che mi avresti fatto questa domanda e ti rispondo subito… non lo so. Che io ricordi questa capacità ce l’ho da sempre “.
“ Ma come hai scoperto di avere questo dono? “ ripresi sempre più curiosa.
“ Fu per puro caso. Avrò avuto quattro o cinque anni. Appena vidi per la prima volta la neve cadere dal cielo, unii le mani per raccoglierla, come fanno tutti i bambini… ma vedevo che essa si scioglieva man mano che si appoggiava allora piangendo dissi: “ No, non scioglierti per favore “. Fu allora che i cristalli di neve iniziarono ad accumularsi all’interno delle mie mani e capii che potevo parlare con loro. “.
“ Ma ho visto che riesci a parlare anche con la quercia del tuo giardino “ replicai.
“ Ah, la quercia! Con lei ho un rapporto particolare. Sappiamo ascoltarci e sentirci. Ma non solo con lei, un po’ con tutta la natura che mi circonda. Non so il perché però è una bella sensazione, non credi? “.
“ Certo, credo proprio di sì “ risposi.
“ E’ tardi ora, meglio rientrare “.
“ Ancora un’ultima domanda per favore! “.
“ No, per oggi basta così… forse la prossima volta “.
Non so perché ma sentivo dentro di me che non ci sarebbe stata una prossima volta.
Scendemmo lentamente verso terra mentre la spirale di neve si indeboliva sempre più, fino a scomparire.
Facemmo la strada del ritorno in silenzio, mano nella mano.
La mattina seguente era la domenica dopo Natale. Dopo aver partecipato alla messa del villaggio, intrapresi la strada che portava alla casa di Albert. Il mio cammino fu interrotto dal vocio di un gruppo di tre o quattro uomini che, tornati dalla caccia, con passo lesto venivano verso di me, diretti al centro del villaggio.
Non mi videro nemmeno, per la fretta che avevano. Decisi di seguirli a distanza, poiché ero molto incuriosita dal loro continuo e concitato chiacchiericcio.
Si fermarono al centro del villaggio, radunarono tutta la gente che riuscirono a chiamare con le loro grida.
Quello che dissero agli abitanti mi raggelò tutta.
Quegli uomini, di ritorno dalla battuta di caccia, dissero di aver visto un ragazzo parlare con la neve a cui faceva fare strani disegni nel cielo. Avevano riconosciuto il giovane Albert e lo accusavano di stregoneria o addirittura magia nera.
Avevano intenzione di andarlo a prendere. Non persi un attimo di tempo e a più non posso corsi alla casa del mio amico.
Quando la raggiunsi, non c’era lui ma solamente sua madre.
Concitata come ero, le raccontai gli ultimi avvenimenti. La sua risposta mi sorprese non poco: “ Immaginavo che prima o poi sarebbe successo! “.
“ Ma allora lei sa tutto! “ le dissi.
“ Sì’, cara Isabel! E’ dalla sua nascita che capimmo che nostro figlio era particolare “.
“ Dalla sua nascita, come mai? “ dissi indagando.
“ A suo tempo io e mio marito volevamo tantissimo avere dei figli ma per parecchio tempo non succedeva nulla, finchè un medico ci disse che non potevo averne. La notizia distrusse tutti i miei sogni e ogni giorno andavo a piangere sotto la grande quercia del giardino. Non so perché ma al grande albero confidavo tutte le mie angosce e tutti i miei dubbi. Fu proprio nell’equinozio di Primavera che mi accorsi di essere incinta. Mio marito disse che forse Dio ci aveva ascoltato. Il giorno del solstizio d’Inverno diedi alla luce Albert. Quel giorno nevicava, dopo molti anni che non succedeva e io mi trovavo nella camera da letto. Al primo vagito di Albert, un vento improvviso spalancò la finestra della stanza e fece entrare impetuosa la neve che si posò sul visino di mio figlio.
Presi spavento e, per paura che si raffreddasse, presi Albert per asciugarlo subito, quando mi accorsi che i fiocchi di neve che si posavano sul viso di Albert si scioglievano in goccioline miracolosamente calde e che quindi non potevano nuocere al piccino “.
La mamma si interruppe bruscamente; un lontano brusio di voci si stava dirigendo verso di noi.
Quasi tutto il villaggio stava venendo a prendere il mio amico.
Io ero più spaventata che mai, ma la madre mi rassicurò: “ Non preoccuparti, andrà tutto per il meglio. Ci vorrà del tempo “.
In quegli attimi non capivo il senso di quella frase ma l’orda di uomini era alle porte.
La madre di Albert era calmissima come se quella scena l’avesse vissuta più di una volta.
Come faceva a sapere che sarebbe andato tutto per il meglio?
Perché riusciva a mantenere una calma così irreale in quegli attimi così agghiaccianti?
Sapevo che sempre si era prodigata ad aiutare suo figlio nei momenti più difficili come se conoscesse in un certo senso, il destino di Albert. Forse era per questo motivo che non era ben vista dal villaggio e lei, d’altro canto non si faceva vedere spesso.
“ Dove si trova il piccolo Albert? “ chiese il primo uomo giunto alla casa.
“ Non è qui “ rispose decisa ma con calma sua madre.
Nel frattempo giunsero tutti gli altri, qualcuno era armato perfino di bastone e forca.
Sembrava che dovessero portare via un assassino.
“ Dov’è lo stregone? “ iniziarono a gridare un po’ tutti.
La madre iniziò a lacrimare e nel pianto rispondeva: “ Non lo so, mio figlio non è qui “.
“ Sei una strega anche tu, maledetta! “ gridò uno dalla folla.
“ Lasciatela stare “ dissi col nodo alla gola “ non ha fatto nulla “.
“ Eccolo eccolo! “ qualcuno gridò.
Albert stava tornando dal suo amato campo. Un gruppetto di uomini si staccò dal branco inferocito e corse a prendere il mio amico. In pochi istanti, e senza potersi rendere conto di chi fossero quegli uomini, Albert si trovava nelle loro mani.
E la neve di colpo smise di cadere.
Nessuno notò quello strano avvenimento a parte io e sua madre che guardai intensamente.
Il gruppo iniziava a trascinare via Albert, per portarlo dal curato e dal sindaco del villaggio.
Un caotico vociare accompagnava il mio amico lungo quella interminabile strada, mentre sua madre rimaneva inerme. La presi per mano e ci incamminammo lungo quella specie di calvario.
Albert, chiuso nel suo silenzio, lacrimava ininterrottamente mentre i suoi compagni di classe, che avevano seguito i loro genitori, lo insultavano.
Ad un certo punto il trambusto di quella folla si interruppe improvvisamente. Un silenzio di tomba calò su tutta la via. Tutti si fermarono.
Mi avvicinai per vedere cosa stava succedendo, quando da lontano vidi l’ombra di un uomo che si avvicinava a passi lenti.
Appena fu visibile ai miei occhi, capii il perché di quell’improvviso silenzio.
Carl era tornato al villaggio!
Carl era un cacciatore dall’aspetto robusto e rozzo ma di animo generoso. Ogni anno verso Primavera partiva per andare a caccia, per poi tornare l’anno successivo. Nessuno conosceva il luogo dove abitava ma probabilmente non aveva una dimora fissa. Questa volta erano passati due anni dalla sua partenza e quindi si credeva fosse morto sulle montagne. Per il villaggio, Carl era diventato quasi una leggenda, poiché anni addietro, grazie alla sua cacciagione, aveva salvato tutti gli abitanti da una terribile carestia. Si narrava che la carestia fosse arrivata per volontà divina, in quanto il villaggio, per colpa di un sindaco corruttibile, di un curato che si dava agli eccessi più sfrenati, e di un giudice poco propenso a far prevalere la giustizia, era caduto in una spirale di odio e violenza. Chi sosteneva il sindaco odiava chi sosteneva il curato e il giudice e viceversa. L’armonia tra le varie famiglie si era disgregata in breve tempo fino a portate gli abitanti del villaggio a sospettare gli uni degli altri. Quando la fame causò la morte dei responsabili della situazione creatasi ecco che apparve Carl con abbastanza cacciagione da poter sfamare l’intero villaggio. Gli abitanti videro in lui l’uomo del perdono divino. Altre persone ricoprivano le cariche più importanti del villaggio ma la lezione sembrava ancora non capita.
Carl si avvicinò con passi pesanti e ben piantati verso il nugolo di persone che circondava Albert.
Quando fu presso di loro, tutti indietreggiando e si aprirono come spaventati ed intimoriti.
Le forti braccia che tenevano stretto il corpo di Albert pian piano lasciarono la loro presa e lo liberarono.
Albert si trovava da solo, davanti all’uomo della salvezza; alzò gli occhi e, quando si incrociarono con quelli di Carl, smise di lacrimare e fece quasi un sorriso, come se quell’uomo lo avesse già visto e che in lui potesse aver fiducia.
Con voce pacata Carl chiese ad Albert: “ Che cosa vogliono da te? “
“ Carl… “ intervenne un uomo del gruppo “ lo abbiamo visto compiere atti di stregoneria e magia nera “.
“ Jack “ disse Carl riconoscendo l’uomo che lo aveva interrotto “ sto parlando col ragazzo “.
Carl si avvicinò ulteriormente al giovane e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio ma non riuscii a capire quello che gli disse, poi si alzò e parlò: “ C’è qualcuno che può ospitarmi per qualche giorno? “.
Era la prima volta che quell’uomo chiedeva ospitalità a qualcuno del paese.
Dopo qualche minuto di assoluto silenzio, la madre di Albert si offrì: “ Se vuole, ho una stanza libera “ disse.
Tutti si girarono verso di lei, che intimidita abbassò lo sguardo.
“ Grazie signora “ rispose Carl e incominciò ad incamminarsi lasciando stranamente il mio amico al suo destino.
Gli altri ripresero a farfugliare qualcosa e poi proseguirono la loro marcia verso il centro del villaggio. Mentre io e la madre seguivamo la folla, dalla parte opposta Carl si allontanava sempre più.
Giungemmo al centro del villaggio, dove ci aspettavano il sindaco, il curato e il giudice con altra gente che nel frattempo si era radunata.
Già si era sparsa la voce e tutti conoscevano la faccenda. Portarono Albert davanti alle due autorità.
Io e sua madre ci avvicinammo un pochino.
“ Dimmi, ragazzo “ disse il sindaco dopo aver ottenuto il silenzio desiderato “ è vero quello che dicono questi uomini? “. Albert continuava a rimanere in silenzio e con la testa china.
“ L’accusa che muovono contro di te è molto grave, te ne rendi conto? “ riprese il sindaco.
“ E’ uno stregone, lo abbiamo visto! “ qualcuno gridò tra la folla.
Prese a parlare il prete: “ Albert, la stregoneria è contro la nostra religione e questo tu lo sai. Sei tu uno stregone? “
Albert continuò nel suo silenzio.
“ In prigione, in prigione! “ gridarono allora dalla folla.
A quel grido io uscii dal gruppo e mi misi davanti ad Albert e gridai: “ Lasciatelo stare, non ha fatto niente! “ poi mi girai verso di lui e piangendo gli dissi: “ Su Albert, dì qualcosa per carità, non puoi permettere che ti facciano questo. “.
Ero in lacrime, mia madre mi prese e mi portò via, mentre scongiuravo a gran voce al mio amico di parlare.
Lui continuava a tacere, al che il sindaco, dopo aver scambiato uno sguardo d’intesa col curato e con il giudice si rivolse proprio a quest’ultimo con queste parole: “ Signor giudice, secondo le nostre regole, chi è accusato di stregoneria deve morire per inedia, sia esso un ragazzo, una ragazza, un uomo o una donna “.
Un boato salì dalla folla. Il giudice si fece avanti e disse: “ Le regole del nostro villaggio sono chiare e non si possono fare eccezioni, per cui ordino che Albert venga portato in prigione dove, giorno dopo giorno, verrà nutrito sempre meno fino a rimanere senza cibo, in attesa poi della morte “.
Scoccava la mezzanotte dell’equinozio di Primavera.
La madre salutò suo figlio con un bacio e poi Albert venne portato nella prigione del villaggio, mentre la folla se ne tornava nelle case, apparentemente soddisfatta.
La condanna era terribile: ogni giorno Albert avrebbe ricevuto dalla madre qualcosa da mangiare e questo qualcosa sarebbe diminuito coi giorni che passavano, fino ad esaurirsi e poi… poi sarebbe arrivata la fine del condannato.
Mai prima di allora un ragazzo di quell’età era stato colpito da questo genere di condanna.
La notte calò sul villaggio, le stelle splendevano nel cielo; le stesse stelle che Albert ora guardava dalle sbarre della prigione.
Quando la madre ritornò a casa, vide Carl che stava aspettando.
Entrarono insieme nella dimora, in silenzio. Sempre in silenzio bevvero un brodo caldo e mangiarono un po’ di carne poi lei indicò a Carl la sua stanza e andarono entrambi a dormire.
L’indomani, quando mi svegliai, notai una cosa incredibile.
Tutta la neve che era caduta nell’Inverno passato non c’era più, come se si fosse sciolta durante la notte.
Anche gli abitanti del villaggio se ne accorsero e, parlando tra loro, non riuscivano a darsi una spiegazione. Qualcuno osava persino dire che Albert avesse fatto una magia. Ma a chi importava? Intanto di lì a poco tempo lui sarebbe morto.
E se fosse stato davvero Albert a farla sciogliere? Del resto lui, con la neve riusciva a parlarci.
Uscii velocemente di casa e corsi verso la casa del mio amico. Vidi che Carl stava tagliando la legna.
Mi salutò cordialmente allora cominciai a parlare di quello che era successo la sera prima e gli dissi: “ Carl, quando Albert ti ha visto, ha fatto un sorriso come se ti conoscesse già, come mai? “
Carl mi sorrise e, sedendosi su un ceppo, mi rispose: “ Vedo che te ne sei accorta! Ebbene… sì. Conosco Albert “.
“ Come fai a conoscerlo, se sei via tutto l’anno? “ domandai incuriosita più che mai.
“ Vedi, Isabel, una volta, molti anni fa, durante un viaggio alla ricerca di cibo, vidi il più bel cervo della mia vita, che stava brucando in mezzo ad un campo. Presi la mira per colpirlo, quando mi accorsi che dietro all’animale c’era un giovane. Sembrava che i due si parlassero. Abbassai il fucile. In quegli istanti iniziò a nevicare. Guardai per un attimo la neve che cadeva e, quando riabbassai lo sguardo, il cervo era sparito e con mia sorpresa vidi che il giovane stava parlando con la neve e questa gli ubbidiva, creando stupende immagini nel cielo.
Mi diressi verso quello straordinario omino. Quando egli mi vide, mi guardò negli occhi e mi salutò tranquillamente. Non aveva paura di me però nel breve sguardo che ci scambiammo, sembrava che mi stesse leggendo dentro.
Aveva qualcosa di magico quel ragazzo! Gli chiesi: “ Come riesci a fare quelle cose? “ Mi rispose subito: “ Se mi insegni i segreti della natura, te lo dico “. Stringemmo un patto quel giorno, un impegno che mi avrebbe legato a lui per il resto della vita.
Ogni giorno ci davamo appuntamento in un luogo preciso e da lì partivamo per lunghe passeggiate nei boschi e nelle pianure. Io gli insegnavo i nomi degli alberi e delle piante che incontravamo come pure quello degli animali; gli spiegavo il ciclo della vita di un bosco e di tutti i suoi abitanti. E Albert non smetteva mai di ringraziarmi. Non mi sembrava di essere il suo maestro bensì l’allievo. Il suo rispetto per la natura, la sua delicatezza nel rapportarsi con essa, il suo stupore per il più piccolo filo d’erba, l’amore che il suo dolce sguardo donava a tutte le cose era il più grande insegnamento che avessi ricevuto. E la risposta al suo segreto era racchiusa in tutto questo. Solo uno stolto non poteva accorgersene! “
Mentre Carl mi raccontava la sua storia, capii l’eccezionalità del mio giovane amico. Dovevo fare qualcosa per liberarlo. Allorché chiesi a Carl: “ Come possiamo farlo uscire di prigione, esiste un modo? “.
“ Certo che esiste “ rispose subito Carl.
“ E qual è, dimmelo subito! “ incalzai.
“ Il tempo ci darà una mano “ rispose Carl.
“ Il tempo, in che senso? “
“ Isabel, forse ti sarai accorta che il giorno dopo l’arresto di Albert la neve era completamente sparita… “.
“ Sì, infatti, e fui meravigliata anche io di questo fatto, come gli abitanti del villaggio. “ dissi interrompendolo.
“ Lascia perdere per un attimo la neve sparita. Non ti sei accorta di null’altro? “.
“ Direi di no, Carl “ risposi sempre più incuriosita.
“ La terra. Nella terra non ci sono più fili d’erba verdi. E, come vedi, tutto sta ingiallendo “.
Infatti, e non me ero accorta, le foglie degli alberi sempreverdi stavano ingiallendo e la terra non mostrava ancora la sua erba.
Carlo allora concluse: “ Secondo me, finché Albert rimarrà in prigione, la natura non nascerà a nuova vita “.
Possibile che tra Albert e la natura ci sia una tale simbiosi e un tale amore che uno non può vivere senza l’altro?
Chi era in realtà quel giovane?
“ Carl… “ ripresi “ ma il fenomeno dell’erba che non cresce è limitato solamente al nostro villaggio oppure si estende anche altrove? “.
“ Questo non so dirtelo; appena posso, controllerò “.
Si era fatto mezzogiorno e la madre di Albert uscì di casa con una borsa piena di cibarie da dare al figlio. Il cibo che preparava era sempre abbondante ma, giunta alla prigione, il secondino ne toglieva sempre una certa quantità che poi mangiava lui stesso oppure, se non gli piaceva, la gettava ai cani. E il tempo passava inesorabilmente. Andavo a trovare Albert ogni giorno. Gli raccontavo di quello che succedeva in città e gli ripetevo la lezione imparata a scuola. Non so perché lo facevo ma il discorso di Carl mi aveva dato un po’ di speranza. Dal canto suo, Albert non parlava affatto ma alla fine della visita mi ringraziava sempre. Lo vedevo sempre più magro.
Eravamo prossimi al solstizio d’Estate e ancora gli alberi non si erano vestiti di foglie e fiori, ancora la terra non germogliava e tutto il villaggio e i campi che lo circondavano erano un paesaggio brullo e secco.
Come ogni mattina uscii di casa e, prima di andare a far visita al mio amico, volli parlare con Carl. La mia attenzione fu attirata da due abitanti che stavano parlottando tra loro.
“ Allora hai proprio deciso? “ diceva uno.
“ Sì, domani o dopodomani lasciamo il villaggio. La siccità di questi mesi ci porterà alla morte certa “ rispondeva l’altro.
“ Già, nemmeno gli alberi hanno messo le gemme quest’anno. Ma dove hai intenzione di andare? “
“ Non molto lontano. Nel villaggio dopo il nostro è tutto verde e i campi sono quasi pronti a dare il loro raccolto. Non capisco perché da noi sia tutto secco… “.
“ Veramente strano, dovremo indire una riunione con tutti, per discutere di questo fatto, altrimenti il villaggio pian piano verrà abbandonato da tutti “.
“ Ormai non mi interessa più, ho deciso che partirò “ e questo riprese a caricare il carro ormai quasi pieno.
Come intuivo, era solamente il nostro villaggio ad avere il problema della siccità, se così vogliamo chiamarla.
Stavo proseguendo la mia strada quando: “ Isabel! “ una voce roca e affaticata mi chiamò. Mi voltai per vedere chi mi cercava e vidi sotto il portico della casa prospiciente a quella del tizio che stava caricando il carro un signore molto anziano, certamente sopra i novant’anni. Lo riconobbi. Era il vecchio Sam, uno degli uomini più anziani del paese che continuò a dirmi: “ Isabel, quel giovane che hanno messo in prigione è un tuo amico, vero? “
“ Sì Sam, perché? “ risposi.
“ Devi cercare di tenerlo in vita. Finché rimarrà in prigione, i prati non si sveglieranno più e gli alberi continueranno a dormire “.
Mi allontanai di corsa da Sam. Come faceva sapere che la causa di tutto era la prigionia di Albert?
Mi voltai indietro per rivedere Sam ma non c’era più e il portico dove stava sembrava abbandonato da parecchi anni. Non badai molto a questo fatto e infatti in poco tempo raggiunsi la casa di Albert per parlare con Carl ma lui non c’era. Vidi la madre di Albert che stava uscendo per andare alla prigione e le chiesi: “ Signora, ha visto Carl? “
“ Pensavo lo avessi visto, sta andando al villaggio! “ rispose.
Probabilmente durante la mia corsa non mi ero accorta di averlo incrociato.
“ Grazie lo stesso “ risposi e la salutai.
Ripresi a correre verso il villaggio.
Giunsi nel momento in cui Carl aveva radunato un bel po’ di gente.
Si trovava al centro della piazza del villaggio e tutti gli altri a tre quattro metri di distanza.
Non capivo che cosa volesse fare. Mi avvicinai anche io e mi misi in mezzo alla folla. Tra questa vi erano pure il prete del paese, il sindaco e vicino a lui il giudice.
Carl iniziò a parlare: “ Abitanti di Nev, qualche mese fa avete condannato per stregoneria e quindi messo in carcere il giovane di nome Albert. Da quel giorno tutto è cambiato. Tutti vi siete accorti dell’improvvisa scomparsa della neve e tutti vedono che la natura deve ancora rivestirsi di verde, condannando di fatto l’intero villaggio ad una nuova carestia. Ma questa volta non ci sarò io a salvarvi. Questa volta il villaggio è destinato a morire. E’ una coincidenza che da quando Albert è in prigione sia arrivata questa calamità? “.
Il discorso fu interrotto da una voce: “ E se fosse stato il ragazzo a comandarla, per vendicarsi di noi? “. Un mormorio si alzò dalla folla.
“ Non credo “ riprese Carl “ a che scopo? Voi avrete sempre la possibilità di andarvene ma lui morirebbe in ogni caso. Abitanti di Nev, perché vedere il dono del ragazzo come un maleficio e non per quello che è: una grazia ricevuta da nostro Signore? “ e rivolgendosi al prete: “ Perché padre i diversi da noi devono avere sempre qualcosa che non va? Non sta scritto nella Bibbia “ ama il prossimo tuo come te stesso? “.
“ Certo, Carl, ma qui si tratta di stregoneria e magia nera! “ rispose più che convinto il sacerdote.
“ Stregoneria? Magia nera? “ incalzò Carl con voce robusta “ e quale maleficio vi avrebbe fatto mai il ragazzo, che vi avrebbe potuto nuocere? Sapete dirne uno? “.
Il silenzio calò improvviso. Passarono alcuni istanti ma nessuno seppe elencare qualcosa di negativo, causato dal fantastico dono di quel ragazzo.
“ Vedo che nessuno parla “ proseguì Carl.
“ Ebbene, in prigione vi è un giovane che sta morendo di fame e che ha un dono meraviglioso che si è sempre tenuto per sé. Un dono che non ha mai causato del male a nessuno. E’ questa la giustizia degli abitanti di Nev? Se è questa, io non appartengo più a questo villaggio. Se è questa, non siete degni di essere chiamate persone, vi siete forse dimenticati dell’ultima carestia? Volete che succeda nuovamente? “
Quel discorso scosse la folla. Carl pian piano iniziò a muoversi. Si aprì un varco tra la folla e lui vi passò in mezzo, mentre il silenzio di tomba rendeva l’atmosfera irreale.
Si allontanò col suo solito passo lento e ben piantato fino a diventare un puntino all’orizzonte. Da quel giorno non lo rividi più.
Nel frattempo arrivò la madre di Albert, con il suo sacco di cibarie per il figlio.
Si stupì al vedere tutta quella gente ma non ci diede molto peso. Passò tra di loro per dirigersi alla prigione. Tutti gli sguardi erano posati su di lei.
Dopodichè, tutti se ne tornarono alle loro abitazioni.
La notizia della prigionia del ragazzo stregone si diffuse nei villaggi vicini, dai quali la gente veniva a vedere Albert, per vedere come era fatto, che faccia potesse avere. Ma Albert era ormai stremato, aveva perso più di dieci chili e le sue costole erano ormai ben visibili. Non gli rimaneva molto tempo da vivere.
La notte dopo l’equinozio di Autunno sei o sette donne lasciarono le loro case e si diressero verso la piazza del villaggio. Raggiunta che l’ebbero si divisero in tre gruppetti distinti: uno si dirigeva verso la casa del prete, l’altro verso la casa del sindaco mentre l’ultimo gruppetto verso l’abitazione del giudice.
Entrambi i gruppi avevano lo stesso scopo: proporre la liberazione di Albert!
Ma perché andarci proprio di notte e non alla luce del sole?
Provavano vergogna, in quanto avevano preso una decisione troppo frettolosa nei riguardi di Albert?
Fatto sta che, quasi ogni notte, nuovi gruppi di persone, non solo di donne ma anche di uomini, si recavano dalle due autorità del villaggio, per chiedere la liberazione del ragazzo stregone.
Dopo che questa scena si fu ripetuta per quasi dieci giorni e che quindi più della metà del paese si era recata dal prete, dal sindaco e dal giudice per lo stesso motivo, all’alba del quindicesimo giorno di Ottobre il sindaco radunò tutto il villaggio in piazza.
Quel giorno la madre di Albert era partita molto presto per recarsi alla prigione, portando il solito cibo che tutto ormai veniva mangiato dal secondino e dai suoi cani. Da più di una settimana Albert non mangiava!
Verso le dieci del mattino di quello stesso giorno, il sindaco prese a parlare davanti a quasi tutto il villaggio: “ Abitanti di Nev, inutile tirarla per le lunghe. Sapete bene che da un po’di giorni il mio sonno, quello del prete e del giudice è stato spesso interrotto in piena notte per i motivi che già conoscete. Il villaggio è secco da parecchi mesi ormai e questo, diciamoci la verità, da quando Albert è stato messo in prigione. Non sto qui a discutere se la causa e la colpa siano proprio del ragazzo in quanto il nostro Carl ha già fatto la sua disquisizione ma a questo punto la volontà del villaggio sembra chiara. Volete che il ragazzo stregone sia liberato? “
Dopo pochi istanti di silenzio, nel quale gli abitanti si guardarono negli occhi come per cercare la carica necessaria e trovare il coraggio di dare una risposta, tutto il villaggio esplose in un fragoroso “ sì “ di liberazione.
Le urla erano talmente forti che non si sentì il grido disperato della madre di Albert che urlava piangendo: “ Aiuto, aiutatemi, mio figlio è morto! “
Un silenzio glaciale calò sulla piazza.
Poi le prime persone, tra cui il medico, si affrettarono verso la cella.
Entrarono e videro il corpo di Albert disteso sul legno che gli faceva da letto. Non si muoveva.
Il medico si avvicinò al corpo mentre la madre piangeva all’ingresso della cella e io vicino a lei. Tutto quello che era stato fatto da Carl prima e dagli abitanti del villaggio poi risultava tutto inutile. Non si era riusciti a salvare la vita di Albert. L’egoismo, l’orgoglio ma soprattutto l’ignoranza della gente aveva avuto il sopravvento sulla vita di una persona.
Il dottore tastò il polso del ragazzo: “ Ma è ancora vivo! “ esclamò “ il cuore è debolissimo, portate dell’acqua zuccherata e un po’ di cibo “.
Immediatamente alcuni si precipitarono fuori a prendere il richiesto. La madre corse verso il figlio, cercando di rianimarlo: “ Albert, Albert… amore mio! “.
Nel frattempo giunsero l’acqua e un po’ di cibo.
Il dottore cercò di svegliare Albert per farlo bere. Niente da fare. Il suo cuore rallentava sempre più.
Le persone che erano entrate nella prigione mostravano commosse e colpite le lacrime che stentavano a scendere sul viso.
Provarono quindi ad avvicinare una cannuccia alle labbra di Albert. Pochi attimi e il suo corpo pian piano si risvegliò dal sonno che aveva iniziato. Un piccolo sforzo e l’acqua venne ingoiata.
Albert aprì lentamente gli occhi e: “ Mamma… “.
“ Amore mio! “ rispose lei.
Pian piano il ragazzo stregone, bevendo l’acqua zuccherata, acquistava un po’ più di forza. Io uscii immediatamente dalla prigione per riferire al resto della gente che Albert era ancora vivo.
Urla di gioia scoppiarono nella piazza che fino ad allora era rimasta ammutolita.
Albert al sentirle disse: “ Mamma, che succede? “.
“ Il villaggio ha deciso di liberarti ed è felice che tu sia ancora vivo! “.
Albert non rispose ma accennò un piccolo sorriso.
Gli abitanti iniziarono a sfollare la piazza quando uno di loro improvvisamente urlò: “ Guardate! “
Il cielo iniziò a coprirsi e si fece scuro. Le prime gocce di pioggia caddero nel primo pomeriggio. Anche il cielo dava il segnale del risveglio a tutta la natura. La siccità era finita.
L’’indomani Albert stava già meglio, i prati si erano ricoperti di verde mentre gli alberi, nonostante l’Autunno, misero le prime foglie.
Man mano che i giorni trascorrevano Albert si rinforzava sempre di più. Era tornato a casa e quasi ogni giorno gli abitanti del villaggio venivano a visitarlo e a scusarsi del comportamento avuto.
In una mattina di Dicembre andai, come mia abitudine, a trovare il mio amico. Non lo trovai in casa. Mi guardai attorno e con mio grande sollievo lo scorsi sotto la sua amata quercia. Si stavano parlando e lui la abbracciava e la accarezzava in continuazione, mentre l’imponente albero sembrava lacrimare, facendo scorrere lungo il suo tronco una specie di resina. Era una scena molto commovente. Due vecchi amici che si ritrovavano dopo lungo tempo.
Albert mi vide e, dopo aver salutato l’albero, si diresse verso di me e mi disse: “ Isabel, invita tutti gli abitanti del villaggio a venire il giorno del solstizio d’Inverno alle quattro del pomeriggio, al solito campo “.
Non sapevo cosa volesse fare il mio amico ma eseguii l’ordine.
Era il ventidue Dicembre quando una folla immensa, capeggiata da me si dirigeva nel luogo che Albert mi aveva indicato.
Il cielo era coperto e faceva molto freddo. Gli Alberi erano verdeggianti nonostante iniziasse l’Inverno. Giunti che fummo sul campo, vedemmo Albert seduto proprio in mezzo ad esso, come la prima volta che lo vidi parlare con la neve.
Il silenzio percorreva tutta la vallata.
Alzai gli occhi per vedere il paesaggio che ci circondava, quando mi accorsi di una figura conosciuta nascosta tra gli alberi ma abbastanza distante da noi. Era Carl, che probabilmente avvisato da Albert veniva all’appuntamento.
Ad un certo punto Albert alzò gli occhi al cielo e gridò: “ Amica neve, vieni! “.
E i primi cristalli iniziarono a cadere dal cielo e iniziarono a posarsi sugli abiti e sui corpi della gente sbalordita.
Lo spettacolo era appena iniziato. Albert con lenti movimenti delle braccia comandava alla neve di fare meravigliosi disegni nell’aria, tutti gli animali del bosco, tutti gli alberi erano rappresentati lassù nel cielo da miliardi di fiocchi di neve.
Poi Albert chinò il capo e, molto triste, diede un altro comando. Ecco allora che la neve, come in un film, disegnava nel cielo tutta la sua storia, dalle angherie dei compagni di classe alla mia visita giornaliera, ai momenti in cui parlava col suo albero fino agli attimi tragici della sua prigionia e liberazione. Avevamo tutti le lacrime agli occhi per lo spettacolo a cui assistevamo e per il passato che scorreva davanti a noi, che faceva riconoscere i nostri errori.
All’improvviso Albert si alzò, girò su se stesso con le braccia aperte e creò nuovamente una enorme spirale di neve che da terra toccava il cielo e che lo avvolse tutto.
Era sospeso al suo interno ed era felice.
Poi i suoi occhi incrociarono i miei. Ci guardammo intensamente. Capii attraverso quello sguardo che non l’avrei più rivisto. Volevo trattenerlo ma non sapevo come fare.
Con le lacrime che mi scorrevano per il viso cercavo di sussurrare in silenzio parole d’affetto al mio amico e gli dicevo: “ Ti voglio bene… quando ti rivedrò? “.
Lui mi sorrise, come avesse inteso, e muovendo le labbra sussurrò: “ Ogni volta che nevica sognami, e io diventerò nuvola per te “.
Piansi ancora di più.
Nessuno aveva potuto sentire le parole che Albert mi aveva detto e non mi stupii di questo. Il turbine poi divenne sempre più vorticoso, fino a farlo scomparire ai miei occhi, alla vista di tutti.
Poi tutto cessò improvvisamente, dissolvendosi in una dolce e morbida nevicata.
Albert non c’era più.
Non saprei dirvi da dove fosse venuto e fosse andato.
Ritornammo tutti attoniti alle nostre case.
Io mi fermai per salutare la madre di Albert che stranamente non c’era.
Entrai nella casa. Non c’era nessuno e la casa era completamente vuota, come se non ci avesse abitato nessuno da parecchi anni.
Possibile?
Eppure ogni giorno mi recavo in quel luogo a visitare Albert.
Ma ora la casa sembrava veramente abbandonata.
La gente che passava di lì non ci faceva nemmeno caso.
La sua storia fece il giro di molti villaggi fino a che Albert divenne leggenda ma io so che è esistito per davvero e che ho potuto conoscerlo; o no?
Chi era quel ragazzo che poteva parlare con la neve e da dove veniva?

Fine

 

 

 

Il giovane delle querce

Ogni mattina il suono del suo flauto dolce accarezzava l’erba che ricopriva le morbide colline, si attorcigliava tra i rami fioriti degli alberi di pesco e di ciliegio, abbracciava amorosamente ogni animale che, puntualmente, si fermava per ascoltarlo. Ogni mattina, dal cielo giungevano alcune nuvole che si fermavano sopra il luogo dove lui suonava.
Ogni mattina, questo disegno veniva trasportato dal vento verso i confini di quel luogo che grazie a lui si trasformava in un piccolo paradiso.
E le note, che ogni mattina uscivano dal suo flauto, una dietro l’altra, a volte veloci, a volte lente, rimbalzavano sul terreno ancora addormentato, si posavano sui fiori ancora intorpiditi dal sonno, scivolavano sulle foglie e i tronchi degli alberi, guardiani della notte e paladini del giorno; e tutto ciò che toccavano veniva riempito di energia.
Ogni mattina succedeva così.
La storia che vi voglio raccontare parla di un ragazzo. Ma non uno qualsiasi; no, lui era una persona speciale.
Questo giovane sapeva disegnare le nuvole!
Voi mi direte: “ Che c’è di strano nel saper disegnare le nuvole? Anche noi ne siamo capaci! “
Avete ragione, ma il nostro protagonista aveva ricevuto un dono straordinario: le nuvole che disegnava si formavano anche nel cielo! Ecco perché era straordinario.
Certo però, che come le disegnava lui, non le disegnava nessuno.
Incontrai Michele, questo era il suo nome, molti anni fa. Avevo deciso di intraprendere un lungo viaggio, vivendo di quello che mi avrebbe donato il mondo.
Una scelta coraggiosa la mia: provenivo da una ricca famiglia che ormai aveva assorbito tutti i modelli che lo società offriva. Modelli, schemi, credenze, modi di fare e di agire che mi stavano ormai stretti e che di certo non appartenevano al mio essere. Decisi quindi di partire, lasciando di stucco tutti i miei parenti più stretti.
Con lo zaino in spalla e le scarpe da tennis, comprate in occasione su una bancarella di un paesino siciliano, percorrevo in lungo e in largo ogni regione dell’Italia, cercando di cogliere le usanze, i costumi, il folclore, la mentalità delle persone e dei luoghi che incontravo.
Dopo mesi e mesi di incontri, disagi e difficoltà, giunta la sera di un tiepido giorno primaverile accesi il fuoco presso la riva di un tranquillo ruscello della Garfagnana.
Il silenzio era interrotto dal maestoso gufo reale che dominava il bosco notturno. Mi addormentai sotto lo sguardo materno della luna piena, che illuminava la notte a giorno.
Alle prime luci dell’alba il maestoso volo del gufo mi sfiorò la faccia e mi svegliò improvvisamente. Mi scrollai di dosso gli ultimi torpori del corpo addormentato, alzai gli occhi al cielo e vidi una miriade di uccelli di varie specie volare verso un punto ben preciso, poco distante da me. Non ebbi nemmeno il tempo di capire cosa stava succedendo quando una dolce melodia di un flauto iniziò ad accarezzarmi, dal capo fino ai piedi.
Il sole pian piano si arrampicava a fatica sulle colline dell’orizzonte. Un’intensa emozione percorse tutta la vallata. Sembrava che il tempo si fosse fermato. Per un istante tutta la natura circostante ascoltava estasiata quella dolce melodia.
Velocemente mi misi lo zaino in spalla e mi diressi verso il luogo da dove sembrava provenire quella magica melodia.
Feci solamente una cinquantina di passi e vidi l’incredibile: il ramo più basso di una maestosa e solitaria quercia sembrava proteggere dalla rugiada mattutina un giovane, vestito molto semplicemente e che suonava il flauto e che grazie alla sua musica aveva radunato attorno a sé moltissimi animali che pareva lo stessero ad ascoltare.
I fiori appena svegli, sparsi nell’erba attorno al giovane, lo guardavano estasiati, aprendo completamente i loro petali e su nel cielo le nubi si coccolavano l’una all’altra, dondolandosi alla musica che quel ragazzo stava suonando.
Meraviglioso! Sembrava di stare in paradiso, ove tutto è armonia e pace pura.
Mi avvicinai ulteriormente e silenziosamente per non disturbare gli speciali ascoltatori. Fui abbastanza vicino da vedere la fisionomia di quel giovane. Era un ragazzotto sui venti, venticinque anni circa, visto pulito. I suoi vestiti erano di colore marrone, una camicia a quadretti, una giacca un po’ sgualcita e dei pantaloni a gamba lunga, tutti capi che si confondevano molto facilmente con il colore del tronco dell’albero a cui era appoggiato. Il flauto con cui suonava e componeva la sua musica era molto semplice, tutto in legno e di dimensioni ridotte rispetto ad un flauto dolce scolastico. Quel giovane portava pure un cappello di media tesa e di colore marrone anche quello. Non portava scarpe ma calzava una specie di sandali, mai visti fin’ora. Decisi di farmi coraggio per farmi notare.
Mi alzai appena da dietro l’arbusto dal quale mi stavo nascondendo, in modo da mostrarmi dal busto in su. La musica si interruppe all’improvviso. Gli animali, rapidamente si nascosero nel primo nascondiglio di fortuna che trovarono. Ora era tutto silenzio e le nuvole che prima alte nel cielo si coccolavano l’un l’altre, si sciolsero. Successe tutto in pochi istanti. Il giovane staccò le labbra dal flauto e lentamente volse lo sguardo verso di me. Duo occhi castani ora mi guardavano con dolcezza e mi fissavano, come se stessero cercando qualcosa dentro di me. Non sapevo cosa dire. In quel momento mi sentivo a disagio e responsabile di tutto quel silenzio. Eppure, non so spiegarmi come, quel suo sguardo così intenso sembrava comporre musica su quegli istanti.
La prima cosa che mi uscì da bocca fu un estasiato “ciao!”. Il giovane mi rispose garbatamente “buongiorno”. La sua voce era calda e morbida. Una voce che mi sarei ricordato per il resto della mia vita. Nel mio cuore nasceva uno strano desiderio, quello di stare con quel magico giovane, per essere il suo compagno di viaggio. Probabilmente a lui non interessava avere un compagno col quale condividere una manciata di giorni; lo reputavo un tipo solitario, una specie di eremita che non ama la compagnia ma che anzi, la presenza di una persona sarebbe stata d’intralcio per quello che stava vivendo in quel momento. Il mio desiderio però era talmente forte e vivo dentro di me che trovai il coraggio di chiederglielo.
“Mi piacerebbe fare un pezzo di strada con te”.
Che richiesta idiota! Era logico che un pezzo di strada si percorre in una giornata, mentre io desideravo stare con lui per un tempo imprecisato. Il giovane a quel punto si tolse il cappello e sempre con la voce calda rispose: “va bene” e poco dopo soggiunse “finché lo vorrai”.
Sembrava che mi avesse letto nel pensiero. Com’era possibile?
Sorrisi timidamente cercando di nascondere la mia immensa gioia, il flauto riprese a suonare e tutto ritornò paradiso.
Non credevo alle mie sensazioni! Quel giovane aveva accettato la mia richiesta. Lo stetti ad ascoltare ancora per un’ora mentre il sole orami era alto nel cielo e indicava l’ora del pranzo. Ora che avevo rotto il ghiaccio mi avvicinai ancora a lui che nel frattempo aveva smesso di suonare.
“Bellissimo” esclamai molto spontaneamente.
“Grazie” rispose il giovane chinando il capo.
Ripresi a parlare: “la musica la inventi tu?”
Prima di rispondermi sorrise: “No, no, è l’ambiente in cui mi trovo che mi dà una mano”.
La risposta del giovane mi lasciò perplesso. Non riuscivo a capire cosa intendesse dire.
L’immagine mentale che mi stavo facendo di lui diventava sempre più misteriosa man mano che lo guardavo e che mi rispondeva. Ma era giunto il momento di pranzare e lo potevo fare insieme a lui.
Aprii lo zaino e tirai fuori dei panini e qualche scatoletta di carne. Il giovane mi guardava incuriosito.
“Tu non mangi?” chiesi prontamente.
Il giovane subito annuì e aprì la sacca che aveva vicino a lui. Una sacca di colore marrone.
Tirò fuori decine e decine di fogli, non riuscivo a vedere se fossero disegnati o meno. Mi trovavo abbastanza vicino a lui da poter sbirciare dentro la sacca. E fu così che mi accorsi che oltre ai fogli e a qualche matita e pastelli, non v’era traccia di cibo!
“Ma non hai da mangiare?” chiesi stupito.
“NO” rispose con una semplicità disarmante.
Non mi persi d’animo e preparai un panino anche per lui.
“Grazie” mi disse con un sorriso.
“Non ti ho chiesto ancora come ti chiami” ripresi. Era diventato il mio compagno di viaggio e desideravo conoscerlo meglio.
“Puoi chiamarmi Michele” mi rispose. Una strana risposta, che di certo non mi aiutava a togliere quel velo di mistero che lo avvolgeva. Nella mia perplessità mi chiedevo se Michele era realmente il suo nome oppure se lo era inventato per accontentare la mia curiosità.
“E tu come ti chiami?” mi domandò poco dopo aver morso il panino che gli avevo preparato.
Stetti al suo gioco e risposi: “Puoi chiamarmi Daniele”.
Al che mi sorrise.
Il punto era che io mi chiamavo veramente Daniele, ma lui?
Era veramente Michele?
E se non era il suo vero nome perché dire una bugia? Ma se lo fosse invece stato perché farmi credere che non lo fosse?
Più cercavo di capire quel ragazzo e più le domande affollavano la mia mente e il mistero si infittiva. Non mi era mai capitata una cosa simile prima d’ora.
Provengo da una famiglia dove le persone sono considerate dei pezzi, nell’ingranaggio della società, ognuno con una sua funzione, un suo ruolo senza tener conto dei sentimenti, dei caratteri e delle emozioni che tal persona può avere.
Non riuscivo a capire se Michele era uno di quei pezzi che rompono l’ingranaggio oppure se lo migliorano o addirittura non fosse nemmeno un pezzo parte della società. Sembrava che vivesse in un mondo tutto suo ed io pian piano ci stavo entrando, dopo esserne stato invitato. Non nego di aver avuto un po’ di paura.
Dopo aver mangiato mi riposai quei venti minuti per favorire la digestione. Mi risvegliò la dolce musica del flauto di Michele. E il paradiso si ripeteva: gli animali che sbucavano dalle loro tane, dai ciuffi d’erba, i fiori che aprivano le loro corolle al massimo delle loro possibilità, le nuvole dalle più svariate forme che si coccolavano l’un l’altra senza disturbare lo splendore del sole che scaldava tiepidamente quel tardo pomeriggio.
Come ci riusciva?
Sembrava che con quella musica Michele parlasse ad ogni singolo essere vivente. Non avevo mai visto una cosa simile.
Che dono particolare poteva avere quel giovane per poter creare uno scenario del genere?
Credo sia il sogno di molti potersi mettere in relazione con la natura, parlare con gli animali.
Michele straordinariamente ci riusciva. Perché?
Usava una tecnica particolare? O magari recitava una preghiera particolarmente potente? Oppure diceva parole magiche?
Troppo domande, anche tra le più assurde, riempivano la mia mente. Non immaginavo che il giorno dopo avrei scoperto qualcosa di sensazionale.
Ormai il sole iniziava ad accarezzare le punte degli alberi che si stagliavano in lontananza e il gigante Venere iniziava il suo turno di guardia notturno.
Michele mi aiutò a raccogliere un po’ di legna per accendere un fuoco per scaldare la cena. Nel mio zaino c’era di tutto: piccole pentole da campeggio, posate varie, bicchieri, bottiglie, bevande varie, cibo in scatola, tramezzini… ero ben rifornito per parecchi giorni. Ecco, non avevo frutta ma raccoglievamo le fragole che lì erano presenti in discreta quantità.
Durante la cena Michele mi stupì nuovamente parlandomi delle varie specie di arbusti e piante presenti nel territorio, degli animali tipici e delle varietà di alberi che vi dimoravano tra i quali spiccavano le querce, più numerose rispetto agli altri. E proprio parlando della quercia a Michele si illuminarono gli occhi. Pareva parlasse di sua sorella o di suo fratello, tale era l’amore che ci metteva nel descriverne le sue qualità. Alta, possente, maestosa, fiera, saggia, materna e paterna, simbolo di fortezza e sapienza; questi sono solo alcuni attributi con i quali il giovane Michele descriveva questo imperioso albero.
Sopra di noi ormai il cielo era punteggiato da miliardi di stelle, una timida luna rossastra sorgeva dalle alture circostanti e una leggera tiepida brezza accarezzava l’intorno.
Il fuoco che avevamo acceso si stava lentamente spegnendo così decidemmo di riposare.
“Buonanotte Michele” gli dissi.
“Buonanotte a te, Daniele” rispose.
Mi infilai dentro il sacco a pelo mentre Michele si appoggiò al suo amato albero, guardando l’orizzonte e le stelle. Chiusi gli occhi e una lenta e dolce musica proveniente dal suo flauto, mi accompagnò nel regno di Morfeo.
L’indomani, ancora una volta, l’inconfondibile melodia del suo flauto inondava tutta la vallata, e il suo suono mi svegliò felice, anche se lo sentivo distante da me. Aprii gli occhi, pieno di energie come mai avevo provato prima di allora, ma il mio giovane amico non era vicino a me. Mi diressi nei pressi della quercia ove lo avevo visto la sera prima ma l’erba attorno alla base del tronco non mostrava i segni di qualcuno che si fosse sdraiato o seduto. Guardando poco più in là, vicino ad un masso abbastanza grande, vidi un foglio. Era uno di quei fogli disegnati che avevo intravisto nella sua sacca. Lo raccolsi e vidi che c’era un bel disegno fatto coi pastelli. Guardando un po’ meglio quel disegno mi accorsi che lo avevo già visto!
Era incredibile quello che i miei occhi stavano vedendo.
Il disegno riproduceva nei più minimi particolari la scena, il paesaggio che vidi quando, per la prima volta, vidi Michele. Com’era possibile?
Le stesse nuvole che quel mattino si coccolavano alla musica del suo flauto, erano riprodotte nel foglio che tenevo tra le mani. Gli stessi animali, gli stessi alberi, gli stessi arbusti, tutti lì, in quel disegno.
“Va bene” mi dissi, Michele poteva averli disegnati subito dopo aver suonato e avendo un’ottima memoria poi li aveva ricordati. Ma così perfetti? E le nuvole? Erano identiche e nella stessa posizione e forma di come le avevo viste.
Di certo li poteva aver disegnati dopo aver visto il tutto.
Non riuscivo a capire però perché quel disegno mi stupiva. Volevo riportarglielo. Alzai gli occhi per vedere se scorgevo Michele da qualche parte; lo vidi a circa duecento metri da me, appoggiato ad un tronco di quercia.
Ero pieno di domande sul quel disegno.
Arrotolai velocemente il sacco a pelo e misi nello zaino quelle poche cose che avevo lasciato fuori la sera precedente e mi diressi con passo veloce verso Michele. Durante quel pezzetto di strada tante erano le domane e i dubbi che avevo in testa che non sentivo neppure la musica del suo flauto e non mi accorgevo del paradiso che mi circondava.
Raggiunsi il mio amico. Avevo ancor il foglio in mano. Senza aspettare un attimo iniziai a parlare del disegno, dei miei dubbi, delle domande che m i erano sorte. Tanta era la mia foga e il mio ardire che non mi accorsi che Michele aveva smesso di suonare, tutto era silenzio, tutto era fermo, la brezza mattutina che era caratteristica di quel luogo, non soffiava più, il cielo era completamente sereno e il sole aveva appena scavalcato le chiome degli alberi dall’orizzonte. Nessuna foglia si muoveva, nessun insetto o uccello volava.
Terminai il mio discorso un po’ affaticato dalle tantissime parole che ero riuscito a proliferare in meno di un minuto. Michele mi guardò. Prese la sua sacca. Tirò fuori un foglio da disegno bianco. Prese una matita e iniziò a disegnare una nuvola, sul lato basso del foglio. In quell’istante i raggi del scomparvero, come oscurati. Alzai gli occhi al cielo per capirne il motivo visto che il cielo era sereno e… avvenne l’incredibile!
La nuvola che Michele aveva disegnato era apparsa inspiegabilmente anche in cielo!
Michele continuava a disegnare nuvole che puntualmente si formavano anche nel cielo. Una cosa incredibile.
IN breve tempo il cielo, da sereno che era, divenne nuvoloso e via via molto nuvoloso fino a coprirsi del tutto mentre Michele continuava a disegnare.
Io stavo in silenzio, allibito da quello che stavo vedendo e vivendo. Il mio giovane amico iniziò, con vari pastelli, a disegnare le gocce di pioggia e qualche saetta. E per incanto iniziò a piovere.
Mi sedetti sotto la quercia, vicino a lui, mentre disegnava. Oltre la quercia la pioggia bagnava la campagna e lo spettacolo dei lampi rendeva tutto più affascinante ma nello stesso tempo spaventoso.
Chi si celava dietro a quel giovane? Chi era, per poter creare la realtà che ci circondava attraverso un semplice disegno?
Capii che tutti i disegni che avevo visto, e in particolare quello che tenevo ancora in mano come quasi incollato alle dita, li aveva disegnati al momento, li aveva disegnati per crearsi la realtà che desiderava vivere in quell’istante.
Ma io che c’entravo? Appartenevo pure io ai suoi disegni?
In quel momento mi sentivo frutto di una fantasia.
E se, per assurdo, mi avesse disegnato lui, era evidente il suo desiderio di parlare con qualcuno, di incontrare delle persone, di relazionarsi con qualcuno.
Ma come si può creare una persona, un animale, da un disegno a pastello?
Ero totalmente confuso. Non capivo più nulla.
Mi sentivo un personaggio dei fumetti e nello stesso tempo il protagonista reale di una fantastica avventura.
Mi resi conto che stavo perdendo la mia identità.
Perso tra tutte queste domande non mi accorsi che un timido raggio di sole iniziava ad illuminarmi il viso. Michele stava pian piano cancellando, con una gomma, il disegno che aveva appena fatto.
Appena il foglio ritornò quasi bianco e il cielo terso sovrastava una campagna avvolta in una leggera foschia riscaldata dal sole ormai quasi alto nel cielo. Michele disse: “ Non sei frutto della mia immaginazione, Non sei un personaggio dei fumetti. Sei semplicemente tu”.
Cercai di interromperlo: “ Sì ma…” ma continuò a parlare: “Il mio desiderio di conoscere qualcuno e di parlare con lui ti ha fatto venire da me. Avevo bisogno di essere vivo, di sentirmi vivo, almeno per un po’. Daniele, scoprirai ben presto che nulla avviene per caso. Tutte le cose che ci succedono avvengono per un preciso motivo. Sta a noi scoprirlo, il motivo”.
Su questo era abbastanza d’accordo, ma mi chiedevo ora qual era il motivo per cui avevo incontrato proprio Michele, e soprattutto come faceva conoscere i miei dubbi?
“Vieni con me” mi disse.
Abbandonammo la quercia e iniziammo a percorrere un piccolo sentiero tra la vegetazione. Nel tragitto mi elencava il nome di tutti gli arbusti che incontravamo e ogni tanto da questi ne mangiavamo i frutti; fu la colazione di quel giorno.
“Perché ci sono le piante?” mi chiese.
Bella domanda. Ero una persona che dava tutto per scontato e non si poneva le domande sul perché le cose esistessero. C’erano, punto e basta.
Esitai prima di rispondere la prima cosa, più ovvia, che mi venne in mente: “Evidentemente esistono perché… perché… servono a qualcosa”. Mi resi conto che la mia risposta fu inutile.
“Sì, ma a cosa?” disse Michele.
Aprii qualche cassetto della memoria e risposi prontamente: “Servono per produrre ossigeno, ridare l’anidride carbonica… insomma, la sintesi clorofilliana se non sbaglio”.
Mi sembravo uno scolaretto all’esame di quinta elementare.
“Anche” e riprese: “Stupirsi.. Meravigliarsi. Le piante , ma non solo loro, servono per svegliarci. I frutti servono per farci dire: mmmm Che buono! Daniele, l’atteggiamento del meravigliarsi di quello che ci sta attorno ci fa vivere la vita, ci fa godere di essa. E’ l’inizio per assaporare veramente tutto”.
A questo punto mi fermai e mi resi conto di non praticare questo pensiero. Non mi ero mai interessato in vita mia del motivo di perché esistono le cose. Sicuramente l’aver vissuto in una famiglia come la mia ha portato a questo mio atteggiamento di indifferenza. Mi rendevo conto però che la scelta di abbandonare i miei parenti per mettermi in viaggio nasceva da un desiderio profondo che ancora non riuscivo a chiarire.
Michele prese una fragola, me la diede e disse: “Assaggiala”. Io la presi e senza pensarci due volte, la mangiai in un sol boccone.
“Non così” mi disse, “ti ho detto di assaggiarla, non di mangiarla”.
Ma non era la stessa cosa?
“Vedi, per assaggiare qualcosa devi concentrarti su quello che stai facendo. Una volta che sei presente nell’azione che stai facendo allora potrai gustare la fragola e dire: che buona!”.
Ecco il nocciolo della questione: essere presenti nell’azione. Non fare le cose così per farle ma esserne consapevoli, gustando, mangiando quello che si sta facendo.
Quella fragola era veramente buona!
Avevo imparato qualcosa.
All’improvviso Michele iniziò a correre. Non riuscivo a stargli dietro. Si fermò circa duecento metri più avanti e si inginocchiò. Lo raggiunsi poco dopo, ansimando. La scena che vidi mi rattristò: un piccolo di cervo giaceva inerme sull’erba con un rigagnolo di sangue che gli usciva dalla bocca. Quella zona era protetta dalla regione ma sicuramente a qualche bracconiere non interessava un granché.
Misi una mano sulla spalla di Michele. Si mise a piangere.
La sua reazione mi sembrò esagerata.
Stemmo lì per parecchi minuti, in silenzio. Vedevo le lacrime di Michele incastrarsi fra i peli del piccolo cerbiatto.
“Andiamo, è quasi ora di pranzare” gli dissi.
Ci spostammo poco più avanti, in una radura tra i cespugli. Mangiammo in silenzio. Quella scena di certo aveva fortemente colpito il mio giovane amico e volevo capirne il motivo così gli domandai: “Ti ho visto molto commosso davanti a quel cerbiatto ucciso. Non nego che sono rimasto disorientato dalla tua reazione così’ intensa, forse troppo”.
Mi rispose quasi subito: “Credi? Evidentemente non ho difficoltà ad esprimere ciò che sento. In quel momento mi sentivo tutt’uno con quel cerbiatto. E’ come fosse una parte di me stesso. Vedi, tutti gli esseri viventi provengono e appartengono alla stessa terra. La terra che ci nutre. Tutti noi dipendiamo dalla terra e Colui che ci ha creati ha soffiato in noi l’alito della vita. Un unico soffio divino che si è espanso in tutto il mondo. E in quest’alito è contenuto tutto l’amore che è prerogativa del divino. E’ come se una parte di Lui sia dentro di noi. Un pezzettino del divino vive in ogni essere vivente. Ecco che allora la relazione con tutte le cose ti avvicina a conoscere meglio il tuo creatore. Ecco il motivo del mio pianto: quel cerbiatto faceva parte del grande quadro della creazione; morendo, il quadro è rimasto privo di un pezzo e ci sarà un vuoto. E vicino a quel pezzo, in quel momento di vita, c’ero io e anche tu. Io ho particolarmente sentito questa mancanza. Una mancanza che mi raffredda dentro!”
“Che ti raffredda? In che senso?” domandai.
“Immagina un sole con dieci raggi. Ogni raggio rappresenta un essere vivente, sia esso uomo o pianta o animale. Quando uno di questi raggi si spegne il Sole scalda di più o di meno?
“Di meno!” risposi prontamente.
“Ecco, scalda di meno, e quindi si è raffreddato”.
La semplicità nell’esprimersi la trovavo disarmante.
Mi sentivo veramente un omuncolo davanti a quel giovane.
“Per fortuna siamo tutti diversi” riprese.
Lo guardai con atteggiamento interrogativo.
“Ma sì Daniele, se fossero tutti come me vivremmo in una valle di lacrime!” e si mise a ridere.
Il resto della mattinata lo passammo a parlare del più e del meno, talvolta anche scherzando. Dopo aver pranzato, Michele mi disse: “Che cosa ti piacerebbe che ti accadesse adesso? Che esperienza vorresti vivere?”.
La domanda mi lasciò di sasso. A dire il vero non ci avevo mai pensato. I miei occhi si fermarono sulla sacca di Michele, la mai mente sui suoi disegni e il mio cuore iniziò a formulare la risposta: “Mi piacerebbe che gli animali non avessero paura di me”.
Michele allora prese un foglio dalla sua borsa marrone, una matita e cominciò a disegnare il luogo dove ci trovavamo, senza tralasciare alcun particolare, disegnò me nell’esatto posto in cui ero, e attorno a me gli animali del bosco. Infine appoggiò il foglio a terra, tirò fuori il suo flauto e iniziò a suonare. Poco dopo il disegno diventò realtà e gli animali del bosco uscirono e mi raggiunsero nel luogo in cui stavo e la loro titubanza iniziale si dissolse con la musica del flauto che pareva desse loro coraggio.
Alla fine gli animali erano tutti attorno a me, e non potevo fare a meno di accarezzarli. La sensazione era bellissima, una serie di emozioni uniche che non avevo mai provato sin d’ora.
Credo di essermi sentito come Adamo nel paradiso terrestre. Tutto era perfetto. Tutto era armonioso. E io mi sentivo parte di questo tutto.
Ancora una volta Michele aveva realizzato la realtà ma non la sua, questa volta era il mio desiderio, o forse era anche quello che desiderava lui?
E la musica si diffondeva in tutta la vallata, riempiendola di pace. Ben presto l’imbrunire ci venne a fare visita. Ci spostammo da quel luogo e raggiungemmo, guarda caso, una splendida quercia più che centenaria; le sue poderose braccia si alzavano al cielo e sembravano stiracchiarsi, prima di coricarsi per la notte.
Accendemmo un piccolo fuoco nei presi del gigante e cenammo. Anche quella sera lo splendore di Venere ci guardava dall’infinito mentre le sue sorelle ammantavano la notte.
Al sorgere della luna, che debolmente rischiarava i nostri visi, decidemmo di coricarci pure noi. Sembrava una notte incantata quella notte. Tutte le frasi, tutti gli avvenimenti che erano successi in quel giorno riecheggiavano nella mia mente.
Mi trovavo ad alcuni metri di distanza da Michele che come al solito riposava appoggiato al tronco dell’albero. Era una notte particolarmente tiepida e io non riuscivo ad addormentarmi. Tante cose avevo imparato, troppe domande martellavano la mia testa, e lassù nel cielo tutto sembrava sapere.
Finalmente stavo per socchiudere gli occhi quando qualcosa mi allertò.
La notte iniziò a cambiare.
I raggi della luna che si accarezzavano appena sopra le cime degli alberi, presero forma. Una forma che non riuscivo a focalizzare ma ben presto mi resi conto che si erano trasformati in delle specie di braccia che si allungavano verso la grande quercia.
Essa, appena fu toccata da questa magica luce si scrollò di dosso la rugiada che aveva ricoperto le sue foglie e che cadendo si trasformava in piccole scintillanti luci che investirono il corpo di Michele. E avvenne l’incredibile!
Non so spiegarmi come ma il corpo del mio giovane amico, ancora dormiente, diventò come trasparente ma ben visibile ai miei occhi. Molto lentamente veniva assorbito dal tronco della quercia che sembrava diventato di gomma. Quelle magiche braccia lunari ora sollevavano le braccia di Michele e le allungavano come i rami luminosi della quercia, e così guardavo come ogni singola parte del corpo di Michele veniva inglobata dentro il tronco finché sparì, come inghiottita.
La rugiada scintillante finì e le lunghe braccia della luna si dispersero nell’oscurità e tutto ritorno normale.
Rimanevo solamente io, incredulo di ciò che era accaduto, e la sacca di Michele vicino al tronco.
Non dormii più per il resto della notte. Ma chi avevo incontrato?
Un alieno? Un essere speciale?
Se prima il velo di mistero che avvolgeva Michele si stava dipanando, ora pian piano quel poco che sapevo di li diventava sempre più enigmatico. Ero talmente pieno di domande che non mi accorsi che il sole stava sorgendo. Verso le sei ecco la musica, e a circa duecento metri da me Michele, appoggiato ad un’altra quercia. Sembrava un giorno qualunque.
Ero deciso ad avere spiegazioni. Presi la sua sacca e mi diressi con determinazione verso il mio amico. Non mi accorsi che per il mio camminare scomposto e un po’ agitato caddero dei disegni dalla sacca che non era allacciata bene.
Quando tornai indietro per raccoglierli notai in essi qualcosa che sicuramente prima non c’era. Ogni disegno era numerato dall’uno al venti.
A quel punto mi fermai e li guardai uno ad uno e vedevo come ogni situazione che avevamo vissuto corrispondeva ad un disegno numerato. E quello che era successo la notte appena passata si trovava nel disegno numero diciotto. Mancavano solamente due fogli; nella bisaccia non ve ne erano altri. Perché? Cosa sarebbe successo dopo il ventesimo foglio?
Questa domanda si unì a tutte le altre. Rimisi i disegni nella bisaccia e poco dopo, raggiunsi il mio amico. Subito gli animali mi si avvicinarono ma erano più tentennanti del solito. Probabilmente avevano intuito il mio stato di agitazione. Ero molto curioso sulla motivazione che Michele mi avrebbe fornito.
Appena mi vide mi salutò con un cenno della testa. Poco dopo appoggiò il flauto.
Gli consegnai la bisaccia.
“Grazie Daniele, la dimentico spesso… “ mi disse.
“Michele, questa notte ho assistito a qualcosa di magico e incredibile!”.
“Ah sì?” mi interruppe “Cosa è successo?”.
Non capivo se parlava seriamente o se mi stava prendendo in giro.
“Come cosa è successo? Dovresti saperlo. Stanotte non riuscivo ad addormentarmi quando verso le due o le tre i raggi della luna ti raggiunsero e ti resero quasi trasparente da essere assorbito dalla quercia, e scomparvi”.
Michele rimase un attimo in silenzio poi, con un lieve sorriso sulla bocca: “Alle volte, caro Daniele, i sogni che facciamo sembrano talmente reali da poter dire di averli vissuti veramente”.
Capivo dove voleva andare a parare, lo interruppi subito: “No. Quando vidi per la prima volta i disegni , non erano numerati ma ora mi sono accorto che lo sono e che seguono un preciso ordine cronologico. Quello che è avvenuto questa notte è rappresentato nel disegno numero diciotto. Ne mancano solo due. E poi? Cosa succederà Michele? Io non capisco più nulla!”.
Ero molto agitato in quel momento ma Michele mi rispose con la sua solita calma: “Daniele, tu vuoi sapere troppe cose. Sei molto curioso, ti poni molte domande, e questo è un bene perché sei spinto da una sete di conoscenza non indifferente e allo Spirito Universale piace venire incontro alle tue esigenze. Stai smuovendo la tua vita! Bene. Il momento che tu sappia ciò che vuoi sapere non è ancora giunto… Per la questione dei fogli… uhm… non pensavo fossero già finiti, in qualche modo ne comperò degli altri, tu per caso ne hai?”
Quest’ultima frase mi innervosì perché sapeva benissimo che non avevo fogli con me. Mi alzai di scatto e mi allontanai da lui qualche metro. Ero arrabbiato. Desideravo sapere, conoscere, e non riuscivo a controllare questa mia esperienza che mi bruciava dentro.
Michele riprese a suonare il flauto. Ora la musica mi dava persino fastidio, tale era il mio combattimento interiore. Come al solito le note che uscirono dal suo strumento mi avvolsero in un accarezzamento totale che mi penetrarono fin dentro il mio midollo e così mi calmai.
Il disagio e l’ardimento che prima provavo erano stati sostituiti dalle ali della pace che ora facevano volare il mio spirito.
Decisi di aspettare e di vedere cosa sarebbe successo.
Il resto della giornata passò normalmente. Ogni tanto cercavo di carpire qualche segreto ponendo a Michele le mi solite domande ma li, molto abilmente riusciva ad eluderle dandomi risposte molto evasive e lasciandomi sempre con l’amaro in bocca.
E giunse la sera. I grilli iniziavano a fare la loro serenata.. Sentivo dentro di me che durante la notte sarebbe successo qualcosa e per questo motivo tutto il mio corpo era in fermento.
Quella notte era particolarmente bella, Venere brillava più del solito e si trovava talmente vicino alla luna che sembrava che entrambi gli astri si stessero parlando. D’altro canto la luna stessa, particolarmente grande e luminosa schiariva quasi come a giorno, l’oscurità notturna e l’ombra di alcuni crateri le davano le sembianze di un misterioso volto femminile. La rugiada che si formava sulle foglie degli arbusti e sull’erba dei prati scintillava di luce al tocco argenteo.
Era proprio impossibile dormire quella notte! La perfezione e l’atmosfera del paesaggio cos’ fiabesca invitavano alla contemplazione!
All’improvviso i grilli smisero di cantare e tutta la vallata cadde in un silenzio totale.
Come al solito Michele riposava appoggiato al tronco di una gigantesca quercia, una delle querce più grandi che io abbia mai visto. Le sue ramificazioni tentacolari accoglievano il cielo in un immenso e amoroso abbraccio e il suo tronco si poteva misurare in circa quasi due metri di diametro!
Ecco che da Venere un raggio di luce si diresse verso la chioma della quercia. Allora i raggi invisibili della luna presero forma di più braccia che iniziarono ad accarezzare il terreno sottostante e piccole gocce di rugiada si staccarono dalle foglie e dall’erba e iniziarono a danzare nell’aria. Milioni di piccolissime sfere di luce illuminavano la notte e si diressero verso il mio amico. Lo avvolsero tutto, finché il suo corpo iniziò a subire lo stesso processo che avevo visto la notte precedente. Michele stava per diventare luminoso e trasparente quando aprì gli occhi.
Mi vide. Mi sorrise e mi disse: “Amico mio, sapevo che mi avevi visto la scorsa notte. La bellezza del creato e la perfezione di esso ci circonda ogni giorno. Molte volte non ce ne accorgiamo, presi come siamo dalla frenesia della società. Nonostante ciò, ogni giorno, sin dall’alba dei tempi, la natura e tutte le cose si rinnovano, nascono, si trasformano.
Quando nacqui mia madre mi lasciò sotto una quercia. I miei piccoli occhi azzurri guardavano dal basso quell’enorme gigante che piano piano chinò le sue braccia e ben presto mi avvolse in un caloroso abbraccio. Diventò la mia nuova madre, diventò il mio nuovo padre. Crebbi in armonia totale con la natura che mi offriva il necessario per sfamarmi e crescere. Consideravo ogni essere vivente mio fratello, mia sorella, mio amico, mia amica, e più li rispettavo più mi sentivo parte di loro, di appartenere allo stesso sistema di perfezione. E la mia simbiosi era tale che imparai a confondermi con la natura, imparai a diventare albero, fiore, acqua pura. Tutto per me era uno.
Avevo bisogno di far conoscere queste cose a qualcuno che potesse capirle. Scoprii ben presto che quello che desideravo si trasformava in realtà. Ogni mio pensiero riusciva a creare la realtà nella quale vivevo. Decisi allora di disegnare ciò che desideravo. E tu hai iniziato a far parte dei miei disegni. Avevo la necessità di trasmettere a qualcuno ciò che ero diventato. Tu sei reale ma ti ho fatto venire io. Parte della tua vita era tutta improntata affinché vivessi questa esperienza.
Daniele, ti ringrazio per essermi stato amico “.
Volevo rispondere ma avevo le lacrime agli occhi e la mia commozione era grande.
“ Come avrai intuito “ proseguì il mio amico “ i disegni stanno per terminare, il numero diciannove ha creato il momento che stai vivendo. Il ventesimo lo guarderai quando io non ci arò più “.
Esplosi a piangere, sapevo che sarebbe stata l’ultima volta che lo avrei visto.
“ Non piangere “ riprese “ proseguendo il tuo viaggio potrai raccontare a tutti la mia storia, soprattutto ai bambini che credono ancora nei miracoli; e ogni volta che ti fermerai in un luogo simile a questo, immerso nella natura, allora ti ricorderai di me “.
Non sapevo veramente cosa dire. Gli abbracciamenti della Luna aumentarono la loro intensità luminosa e resero tutta la quercia brillante. Michele si confondeva sempre più in quella luce finché scomparve ai miei occhi. Pian piano le lunghe braccia luminose si ritirarono e riportarono il cielo all’oscurità notturna mentre ormai Venere si era nascosta dietro alla Grande Madre. Tutto ritornò normale. I grilli ripresero a cantare come se non si fossero mai fermati. Io ero lì, incredulo, piangente. Forse non mi rendevo ancora conto a cosa avevo assistito.
Appena fui più lucido mi guardai attorno, il chiaroscuro notturno creava ombre sui tronchi degli alberi che talvolta somigliavano al profilo di un uomo. Mi immaginano Michele che si spostava di qua e di là come un’ombra della vegetazione, sempre presente con essa. Poi mi accorsi che ai piedi della quercia c’era la sua bisaccia. Andai a prenderla. In essa c’erano ancora tutti i disegni. Come mi aveva detto, il numero diciannove rappresentava ciò che era successo poco fa. Ma ansimavo perché volevo vedere il disegno numero venti, ossia quello che Michele aveva preparato per me. Con le mani che mi tremavano un pochino lo presi in mano. Il chiarore della luna mi permetteva di vederlo chiaramente. C’ero io, appoggiato al tronco della quercia che guardavo il paesaggio. Era molto semplice come disegno ma doveva pur significare qualcosa!
Decisi di eseguirlo, dato che era anche la volontà del mio amico. Così mi appoggiai al tronco del maestoso albero, come tante volte avevo visto fare a Michele, e lì sprofondai in un sonno profondo.
Alle prime luci dell’alba aprii gli occhi, il sole stava salutando le cime delle montagne e si prestava a raggiungere due timide nuvole che passavano di là. Un velo di tristezza mi avvolse poiché Michele non c’era. Mi mancava il suono del suo flauto che amorevolmente mi svegliava.
Appoggiai le mani a terra per alzarmi quando mi accorsi di aver toccato qualcosa.
Guardai meglio e con stupore vide che era il flauto di Michele. Era rimasto lì.
Lo presi e lo asciugai dalla rugiada mattutina. Mi venne immediatamente l’istinto di suonarlo.
Possedevo solo conoscenze scolastiche di flauto e quindi non sapevo nemmeno cosa avrei suonato. Mi venne questo desiderio dal di dentro. Iniziai ad emettere uno not, poi due, tre e così una piccola melodia e così una semplice musica. Non mi pareva vero, sembrava che il flauto suonasse da solo, che fosse lui a farmi muovere le dita. Ed ecco che tutti gli animali uscirono dai loro nascondigli e si avvicinarono a me per ascoltare la musica. Vedevo le corolle dei fiori che si aprivano all’inverosimile per godere di quel momento. Vedevo che le poche nubi sparse nel cielo raggiunsero la sommità della quercia e si dondolavano sopra di essa, coccolandosi l’un l’altra. Era una scena che avevo già visto, ma da spettatore. Ora ero io che la stavo creando con il suono di quel flauto. Ero felicissimo e mentre suonavo ancora iniziai a piangere dalla gioia.
Ero diventato il nuovo Michele.