Danilo Ceirani - Poesie e Racconti

Il buio nell’anima

 

‘’ Scrivere per liberare l’anima,

unico modo per non dover soffrire.

Il male di vivere circonda, attanaglia, ogni istante della vita.

Opprimono le catene dell’indifferenza, ombre oscure fanno compagnia.

Camminare in luoghi in preda alla follia,

inciampare, cadere, senza potersi rialzare.

Pensieri trasandati, in cerca di risposte, annaspano nel vino,

di nuovo stracciati i fogli del destino.

Sei Sisifo o Amore?

Costretto alla perenne fatica o consumato dal dolore.

Cercare la luce nel tormento,

accanto al baratro, silenzioso attende,

l’ultimo balzo nell’oblio delle tenebre.’’


 

La pace e il mare

 

‘’ Guardando le sponde del mare in burrasca,

troverai la pace del cuore in tempesta,

flutti in tumulto a schiaffeggiare le rocce,

gli occhi a disperdere lacrime a gocce.’’


La Rinuncia

 

‘’ Rinunciare all’amore per amore,

affrontare la vita con la morte nel cuore,

giorni pallidi senza colore,

fredde notti senza calore.

Scialbi momenti, senza l’ardore,

sguardi persi, senza stupore.

Passano lente, inesorabili ore.

Nessuna cura a placare il dolore,

nulla a riscattare l’onore.

Nell’anima il buio senza un bagliore,

per aver scelto la testa, abbandonando il cuore.’’


Pensieri

 

Si rincorrono i pensieri nella notte,

tra luci ed ombre tracciano la vita,

da un lato le gioie troppo poche,

dall’altro i dolori troppo forti.

L’oscurità lascia il posto al chiarore dell’alba,

che,  piano indugia, avanza,

apre le porte al sole,

si scalda l’aria.

Un alito di vento scuote il corpo assopito,

ci alziamo con la faccia provata,

nel riflesso dello specchio,

tutto il peso dell’esistenza,

tra il chiaroscuro degli anni vissuti.

Diciamo al mondo di essere stanchi,

la realtà è che siamo tristi.

Alle spalle mille rimpianti,

pochi rimorsi nel cassetto dei ricordi,

manca il coraggio per di nuovo osare,

la sola speranza è continuare ad amare.


Insonnia 

 

Oggi vivo di insonnia e  nostalgie. 

Specie nei giorni che precedono la primavera,

 in quelli ventosi poi,

sono preda di rimpianti a cui non so dare un nome. 

Vago nella notte in un mare di pensieri che si rincorrono nel buio,

fino a quando una piccola debole e fioca luce,

 annuncia il giorno che sta arrivando.

Senti allora il calore nel momento in cui esce il sole, 

il solletico sul naso,  il tepore sul viso e tra i capelli, 

il suo splendore t’inganna quando cambia di nuovo la luce e arriva l’ombra, 

la gioia dura poco,  ma un’idea te l’ha data.


 La Pelle Nera

 

La sveglia suonò presto il mattino del 14 novembre 1960 e New Orleans apparve subito più chiassosa del solito alle piccole orecchie di Ruby che, ancora insonnolita, cercava rifugio tra le coperte. «Sveglia piccola pigrona», gridò mamma Lucille mentre apriva la finestra; «oggi è un giorno importante per te, per noi e per il nostro popolo». Ruby gettò uno sguardo in direzione della madre un po’ disinteressata. A sei anni, erano il suo orsetto di peluche Billy e la bambola Meg, le cose che importavano veramente, oltre l’affetto dei genitori che non le era mai mancato. Dopo aver fatto una bella colazione con latte e corn flakes e lavatasi i denti, Lucille vestì Ruby come fosse un gran giorno di festa: un vestitino con una candida camicetta orlata e un’ampia gonna a ruota appena sotto le ginocchia. Al di sopra indossava una giacchetta color perla e per finire un bellissimo garofano bianco ad adornare il particolare ammasso di riccioli neri intrecciato come un rovo. La piccola era eccitata per il suo primo giorno di scuola e non vedeva l’ora di iniziare. Intanto il frastuono fuori casa aumentava, si sentivano grida ed urla e qualcosa aveva urtato le pareti di casa. Ruby credeva che Mardi Gras fosse arrivato in anticipo e si rattristò pensando di non aver ancora ricevuto il suo costumino di Carnevale: quest’anno voleva essere una principessa perché era stanca del ruolo di fatina degli anni precedenti. Papà Abon prima di aprire la porta di casa chiese di nuovo a Lucille: «Siamo sicuri di fare questa cosa? Due bambini hanno rinunciato, stiamo rischiando grosso» – «Lo so amore, ma Ruby merita un’istruzione migliore, è diventato un suo diritto frequentare la scuola dei bianchi, quel diritto che noi non abbiamo avuto, eppure siamo statunitensi, sento che dobbiamo farlo per tutti i bambini afro-americani e per un futuro migliore», e aprì la porta.

 Non appena varcata la soglia di casa, un gruppo di persone inferocite li aspettava nel cortile esterno e, appena videro la piccola uscire, iniziarono ad inveirle contro: «Sporca negra, non hai il diritto di stare insieme ai nostri figli», gridava una signora bionda. «Resta in quella scuola dove si ammaestrano le piccole scimmie», urlava da un altro lato un signore con dei grandi baffi, a dar manforte. Ruby, che aveva iniziato a capire che forse non era martedì grasso, restò immobile sull’uscio di casa, mentre sua madre temeva che qualcosa le fosse scagliato contro e che potessero ferirla. Dalla macchina parcheggiata davanti casa uscirono 4 Marshall inviati dal presidente Eisenhower in persona che misero subito ordine all’orda razzista e scortarono la piccola e la mamma fino alla scuola. Mentre passavano tra la calca, una mamma tra le più attive nella protesta urlò in faccia alla bambina: «Un giorno di questi mentre andrai a pranzo riuscirò ad avvelenarti il cibo ed allora sarà una liberazione per tutti, piccola negra». La tenera Ruby non si fece per niente intimorire: marciava come un piccolo soldato in mezzo ai poliziotti armati, stringendo in una mano la sua cartellina con i quaderni e, nell’altra, quella terrorizzata della madre. Nessun lamento, nessun piagnisteo. I suoi grandi occhi neri, profondi come l’universo, guardavano dritto in faccia i delatori imbestialiti, sarà stato forse per la sua incoscienza di bambina, ma in quel momento sulle sue spalle c’era la lotta secolare di un’integrazione mai del tutto compiuta. Arrivati alla William Frantz Elementary School, Ruby e la sua mamma, si trovarono davanti ad una situazione paradossale: tutti i genitori bianchi avevano ritirato i loro figli da scuola, lasciando le aule deserte e nessun insegnante volle prendersi cura della piccola Ruby. Si rifiutarono tutti; tutti tranne la signorina Barbara Henry. L’aula senza studenti apparve immensa alla bambina: l’enorme cattedra, la gigantografia dell’eroe di guerra, ora presidente, la bandiera a stelle e strisce in un angolo. Ruby compostamente prese posto al primo banco e rispose con un sorriso al grande sorriso della signorina Barbara che le domandò «Tutto a posto piccola? Hai timore?» – «No per niente», rispose Ruby e incalzò, «Perché quelle persone la fuori ce l’hanno con me, cosa ho fatto di male? E lei perché è così diversa?». Quesiti difficili a cui rispondere per il primo giorno di lezione di una bambina di sei anni: questo pensava la maestra. «Non tutte le persone sono buone in questo mondo e neanche tutte sono cattive. Molte cose si fa fatica ad accettarle ma poi piano piano ci si abitua. Come lavarsi bene i denti la mattina: è noioso, qualche volta sanguinano le gengive, ma alla fine è un gesto che facciamo più volte al giorno perché sappiamo che è necessario, per il nostro bene. Ecco!  È come se alcune persone non avessero ancora capito perché devono lavarsi i denti». Sorrisero tutte e due. Ruby, però, non sembrava del tutto convinta: nella sua testa rimbombava un altro quesito: se una persona adulta ancora non aveva capito perché lavarsi i denti era necessario, forse c’era qualche problema.

 La situazione di attrito durò tutto l’anno. La piccola mangiò esclusivamente ciò che portava da casa; le minacce di avvelenamento non erano cessate. I Marshall vegliavano l’andamento delle lezioni e la signorina Henry si dedicava con impegno alla sua piccola alunna. Nel frattempo alla famiglia Bridges vennero inferti parecchi colpi bassi: la comunità locale detestava la loro perseveranza “irrispettosa”. Il padre fu licenziato e il negozio di alimentari, dove la madre faceva di solito la spesa, le vietò ogni acquisto. La vendetta bianca arrivò perfino a toccare i nonni che si videro espropriare la terra che coltivavano come mezzadri. Non tutti però erano così. Come aveva detto la signorina Barbara, c’erano persone cattive ma anche persone buone.  Molte mamme continuarono a mandare i loro figli a scuola e un vicino di casa offrì un nuovo lavoro al padre. Le cose lentamente cambiarono e una mattina, mentre i Marshall la accompagnavano a scuola, Ruby si voltò a guardare dietro la macchina e vide che un piccolo corteo la seguiva, come fosse un funerale, accompagnandola a scuola in segno di solidarietà: “Questi sicuramente hanno capito a cosa serve lavarsi i denti!” Pensò.

 L’ingenuità della bambina aveva trasformato un dramma sociale in un gioco in cui lei era l’indiscussa protagonista: nonostante il problema del razzismo fosse una questione degli adulti e non dei piccoli che ne pagavano le conseguenze, la maggior parte delle volte. Vero è che, con la sua innocenza e determinazione, Ruby era diventata un simbolo anche per i grandi.

 La portiera della grande Cadillac nera si aprì di nuovo davanti la scuola, nel maggio del 1961, i piccoli piedini di Ruby toccarono il suolo come ogni giorno, a passo svelto e sicuro verso l’istituto: tutti si accorsero in quell’istante che un piccolo ma significativo balzo in avanti era stato fatto per migliorare la società americana. La purezza di quella bambina aggiunse un tassello importante che andò a comporre quel grande sogno che avrebbe trovato una voce il 28 agosto del 1963, in un grande discorso pronunciato davanti a tutti gli americani e che non sarebbe mai più stato ignorato dalla storia e dall’uomo, il discorso iniziava con «I have a dream».


Il Progetto T4

 

Forse non tutti sanno che lo sterminio perpetrato dai nazisti iniziò proprio dai bambini. Negli anni trenta erano utilizzati come cavie da laboratorio per testare tecniche di annientamento, sterilizzazione ed eutanasia. Il genocidio nazista cominciò proprio dai bambini disabili. Le persone handicappate, minori e adulte, furono le prime cavie designate di tutte le tecniche di annientamento,sviluppate poi nella Shoah. Le prime prove documentali degli orrori nazisti, riguardarono proprio la persecuzione e i campi di uccisione dei disabili, anticamera dell’universo dei campi di concentramento. Le campagne di sterilizzazione, internamento e deportazione delle persone handicappate, presero il via nei mesi immediatamente successivi all’ascesa di Hitler, trovando terreno fertile nelle teorie eugenetiche e nella difesa della razza. Tutto ebbe inizio quando una mattina qualunque, di un giorno qualunque il dottor Theodor Gilbert Morell bussò alla porta di casa Knauer, inviato dal Capo in persona. ‘’Buongiorno signori Knauer, sono il dottor Morell e sono qui per conto del Reich’’. ‘’La struttura ospedaliera ci ha avvisato che il vostro piccolo ha qualche problema che vorremmo esaminare’’ – ‘’Prego’’ fecero i giovani genitori provati dall’immensa disgrazia occorsagli dopo aver tanto aspettato la nascita del piccolo Otto. Nella piccola stanza, della modesta dimora, il bimbo si dimenava nella culla in preda forse alle convulsioni e subito i medici iniziarono a visitarlo. Il dottor Morell dopo un’accurata anamnesi stabilì che il piccolo fosse anche cieco e preso in disparte il suo assistente gli chiese ‘’ Fritz, tiri fuori i requisiti del protocollo di selezione’’, l’assistente obbedì all’istante e nel foglio dattiloscritto apparivano nitidi i 5 criteri fondamentali per stabilire la disabilità:

1) ritardo mentale o sindrome di Down (in particolare i casi combinati con cecità e sordità);

2) microcefalia;

3) idrocefalo in un grado grave o avanzato;

4) malformazioni di tutti i tipi, in particolare assenza di arti, gravi lesioni della linea mediana cranio sacrale e della colonna vertebrale;

5) paralisi, compresa la paralisi cerebrale infantile.

Dopo aver dato un’occhiata esclamò con decisione ‘’ Mi pare chiaro Fritz che ci troviamo nelle condizioni del punto 4’’, Fritz annuì. Tornati in sala, il medico affrontò i genitori dicendo di recarsi al centro medico per ulteriori accertamenti entro 3 giorni. Era un mercoledì del ’39, il giorno ed il mese non hanno importanza, forse non lo è neanche l’anno, ma la cronaca c’impone un inizio. Quando arrivarono alla porta del centro i coniugi Knauer nutrivano qualche speranza che la medicina del grande Reich avesse la cura per il loro bambino ‘’ Vedrai Eva, andrà tutto bene ‘’ ‘’Otto sembra già più sereno ’’. ‘’Prego’’ fece Morell che era accorso con tutto lo staff al seguito, ‘’accompagnate papà e figlio nelle sale mediche, lei signora per il momento attenda qui’’. Rivolto al signor Knauer il dottore disse ‘’Forse abbiamo una soluzione ma dobbiamo anche avere la sua disponibilità per una prova’’ ‘’ Perfetto’’ replicò Hugo Knauer. L’infermiera si avvicino ad Hugo e gli cinse il braccio iniettandogli 5 cc di un farmaco nuovo. Dopo 10 minuti tutto era concluso ‘’A posto signor Knauer, lei può tornare a casa, per Otto invece lo dobbiamo trattenere qualche giorno, vedrà starà meglio’’.

‘’Tutto a posto Hugo’’ disse Eva al marito ‘’Sì, sì, tra qualche giorno veniamo a prenderci il piccolo Otto’’

Nel centro subito si riunirono i dotti della scienza e Morell esordì in maniera autoritaria ‘’ Il signor Knauer è sistemato, lo sforna-mostri non è più in grado di procreare, adesso sistemiamo la vergogna della nostra razza, non abbiamo posto per chi non può essere degno di chiamarsi tedesco’’, ‘’Sieg Heil’’ tutti in piedi ad inneggiare il Fuhrer e Morell aggiunse ‘’ Oggi ha inizio un nuovo corso che porterà la Germania ad essere una nazione pura e libera da ogni contaminazione di sorta’’.  Otto era piccolo, cieco, quasi insensibile all’effetto che, l’overdose del farmaco iniettato, nel suo minuscolo braccino gli procurò, uccidendolo in pochi minuti. Il sabato mattina a casa Knauer era sempre lo stesso, con l’odore del caffè e dei biscotti che profumava l’aria, mancava solo il piccolo nella culla e l’attesa era finalmente finita. Ancora qualcuno a bussare alla loro porta mentre si preparavano ad uscire. ‘’Chi è’’ urlo Eva ancora indaffarata ‘’La posta’’ gli fece eco una voce da dietro la porta. Hugo aprì e il postino gli consegnò una lettera ‘’ firmi qui per favore’’ veniva dal ministero della salute. I Knauer seduti in salotto la aprirono in silenzio, poche righe, chiare, nitide come il sole, si guardarono inorriditi negli occhi senza capire se si trattasse di una tragedia o una benedizione. Quel giorno l’uomo toccò il fondo del lato più oscuro della sua coscienza.

Devo comunicarvi il mio rammarico nell’informarvi che il bambino è morto il 20 marzo  1939 per infiammazione delle vie respiratorie. Egli non aveva fatto alcun tipo di progresso durante il suo soggiorno qui. Il bambino non sarebbe certamente mai diventato utile alla società ed avrebbe anzi avuto bisogno di cure per tutta la vita. Siate confortati dal fatto che il vostro bambino ha avuto una dolce morte” firmato Theodor Gilbert Morell. 

Dopo un’intensa campagna di sterilizzazione, si passò all’uccisione sistematica dei bambini e poi degli adulti disabili che fu uno degli aspetti più oscuri dell’olocausto, Il progetto T4. L’eutanasia di massa condusse alla morte circa 70.000 cittadini tedeschi. Iniziata nel ’39 s’interruppe formalmente, su pressione dell’opinione pubblica e delle Chiese, nell’agosto del 1941. Da quel primo reparto infantile sorto del 1940 vicino Berlino, la Germania fu presto coperta interamente da strutture per lo sterminio dei disabili neonati. Essendo un lavoro sotto copertura la morte non doveva dare nell’occhio ,perciò i “pazienti” non morivano per l’ingerimento di veleni, ma per un overdose di farmaco comune.

Inoltre l’overdose non procurava una morte istantanea ma prima del decesso c’erano delle complicazioni, nella maggior parte dei casi la polmonite, che nel giro di due o tre ore uccideva il paziente. Grazie a questa pratica i medici potevano constatarla una “morte naturale”.

Dai reparti infantili il passo a quelli degli adulti fu breve, solo che il sistema di soppressione avveniva per mezzo delle camere a gas, secondo i medici questa tipologia di uccisione era considerata “meno dolorosa”. Il programma di eutanasia durò fino agli ultimi giorni di guerra.

Secondo Hitler i disabili dovevano essere sterminati perché se non potevano aiutare la comunità tedesca in guerra e in altre occasioni non meritavano di vivere. Tutte queste categorie di persone erano raggruppate secondo l’ideologia e la propaganda nazista sotto il termine Untermensch, sotto-uomini o sub-umani, in questa categoria ricadevano tutte i soggetti non di razza ariana.

I nazisti pensavano che gli ebrei, gli zingari o gli africani e gli “elementi asociali”, come ad esempio gli omosessuali, i criminali, i mendicanti, i giramondo, i liberali, i democratici, i femministi e i cosiddetti “moralmente degenerati” fossero sub-umani. Venivano considerati sub-umani naturalmente anche i disabili mentali, gli individui con un quoziente intellettivo inferiore alla media e le persone affette da malattie psichiche e più generalmente da patologie ereditarie. Si riteneva che queste persone non potessero perpetrare la razza germanica e quindi non essendo idonee all’accoppiamento andavano soppresse. Proprio per questo Il 14 Luglio 1933, a pochi mesi dalla presa di potere, Hitler emanò la famosa legge sulla sterilizzazione, che entrò in vigore per tutto il Reich solo il 25 Luglio dello stesso anno, per motivi puramente politici. Il 14 Luglio, infatti, il Reich aveva firmato un accordo economico con il Vaticano. La promulgazione della legge sulla sterilizzazione avrebbe quindi potuto incrinare i rapporti con la Santa Sede.

L’attuazione della campagna contro i disabili, si avvalse anche di una serie di regolamenti emanati su base regionale cui fece seguito, il 18 Ottobre 1935, la legge sulla salute coniugale, che impediva i matrimoni e la procreazione tra persone disabili, favorendo una serie di pratiche abortiste, previo consenso della donna, per quei soggetti affetti dalle seguenti patologie:

  1. Frenastenia congenita
  2. Schizofrenia
  3. Folie circulaire
  4. Epilessia ereditaria
  5. Ballo di San Vito ereditario
  6. Cecità ereditaria
  7. Grave deformità fisica ereditaria
  8. Alcolismo grave (su base discrezionale)

 

 Lo sterminio dei disabili, non fu solo la parte scura e misconosciuta dell’olocausto. L’eliminazione sistematica di più di settantamila handicappati da parte del Terzo Reich fu la fase iniziale della Shoah, una sorta di macabra prova generale di quello che sarebbe poi accaduto ad ebrei e zingari.

Come abbiamo già detto tutto iniziò con l’uccisione dei bambini che fu il primo atto del programma di sterminio per eutanasia. Perché questo? La risposta è semplice, I bambini erano giudicati particolarmente importanti perché rappresentavano il futuro; la soppressione di quanti erano considerati malati e deformi era essenziale al successo del programma di purificazione razziale ed eugenetica. Tuttavia ben presto il progetto di uccidere i bambini disabili fu oscurato da quello di uccidere gli adulti disabili. Quando, nell’agosto del 1941, Hitler ordinò l’interruzione della prima fase dell’eutanasia degli adulti, i bambini non rientrarono in questo cosiddetto “ordine di sospensione” e l’eutanasia infantile continuò fino al termine della guerra in un orrore senza fine che ci fa riflettere molto fino a che punto può spingersi la crudeltà umana.

A quel punto la portata dell’eutanasia infantile si era estesa. Dapprima essa comprendeva solamente neonati e bambini piccoli, nessuno al di sopra dei tre anni. Tuttavia successivamente vi rientrarono anche bambini più grandi; e alla fine nei reparti infantili furono uccisi anche adolescenti. Fu Hitler, che si riservava l’autorità di risolvere i problemi prendendo la decisione di includere i bambini più grandi. È importante ricordare anche che non tutti i bambini erano affetti da malattie incurabili o da deformità permanentemente invalidanti; molti furono istituzionalizzati per invalidità meno gravi o semplicemente perché erano bambini lenti ad apprendere e con problemi comportamentali.

Poiché molti documenti che attestano le uccisioni non sono giunti fino a noi, è impossibile calcolare il numero di bambini uccisi nei reparti infantili durante la seconda guerra mondiale. La migliore stima è un totale di almeno 5000 bambini assassinati.

I campi di concentramento furono pensati e strutturati proprio sul modello preesistente dei campi di uccisione per disabili. Gran parte del personale del T4, rimasto disoccupato dopo la chiusura dei centri di uccisione, venne massicciamente impiegato nella soluzione finale.

il dottor Dietrich Allers, già direttore dell’ufficio amministrativo del T4 nella sua seconda fase, architettò e gestì il campo di transito italiano della Risiera di San Sabba, dove non pochi ebrei e partigiani morirono per gas e iniezioni letali.

Anche l’Italia pagò il suo prezzo di vittime disabili. Ma un computo esatto appare ancora difficile. Le vittime italiane, furono soprattutto ebrei, destinati alla deportazione verso Auschwitz, che non fecero neanche in tempo a scendere dai convogli. Nella maggior parte dei casi infatti vennero uccisi subito dopo il loro arrivo al campo.

Il pensiero orrendo ed orripilante dello sterminio non era solo il pensiero di un uomo ma condiviso da molti perché espresso liberamente in pubblico ed applaudito dalla platea e molte frasi pronunciate da Hitler nel corso delle manifestazioni discorsi ect rimasero nella storia:

“gli agnelli, le pecore che non reggono la marcia verranno soppressi”

frasi che fanno riferimento “all’inferiorità” delle persone portatrici di handicap.

Se il passato non può essere cancellato che sia almeno d’insegnamento, la narrazione di questa parte oscura di Storia contemporanea vuole essere la base per costruire sempre una società migliore in cui tutte le persone abbiano gli stessi diritti senza discriminazione alcuna, perché nella tragedia di ognuno, si ritrovi la Storia di tutti. 


 Il confronto

 

‘’ – Stai bene? Sto bene, 

Sei felice? Sono felice.

Non venirmi a cercare – Non ti cercherò.

E se vorrai chiamarmi? Non lo farò.

L’orgoglio uccide,

anche l’indifferenza e l’incomprensione.

Diverso era il passato quando dividevamo il tempo,

quel tempo ora ridotto, ora assottigliato,

quel tempo che non è mai abbastanza,

quel tempo che unisce ma divide,

impietoso, dolce e crudele,

ti offre la possibilità e te la toglie,

diventa il tuo alleato ma anche il tuo peggior nemico.

La magia tra noi, quella c’è ancora,

la magia non svanisce, la magia può modificare,

illumina ancora lo spazio tra i nostri occhi.

Cuore strapazzato, ora palpitante, ora spezzato.

Senza pace il cuore, colmo di gioia, come di dolore,

si apre, si chiude, una volta molle, una volta pietra,

direbbe sempre ‘’Ti amo ancora’’.

Il cervello a condurre la danza,

senza sapere che al cuore non si comanda.

Se verrai ancora a cercarmi? Non lo farò.

La soluzione è lasciarmi andare,  non mi dimenticare.


 Scacco all’Imperatore

 

Nel ‘700 impazzava la mania per gli automata ovvero i primi automi costruiti dall’uomo. Il pensiero illuminista aveva aperto nuovi orizzonti al cammino del progresso della società.

 Un piccolo orologiaio di provincia svizzero, Pierre Jaquet-Droz per pubblicizzare i suoi orologi costruì delle bambole animate e fu un successo incredibile, tra Parigi, Ginevra e Londra tutti ammiravano le opere di Pierre. L’azienda dopo tre secoli è ancora in piedi e oggi per mettere al polso un Jaquet-Droz si parte da un commerciale di 5000 € fino a un più sofisticato da oltre 500.000 €.

Altri si cimentarono nella realizzazione di pupazzi animati e tra questi robot ante litteram il più famoso divenne ‘’Il Turco’’, un automa in grado di giocare a scacchi e che sfidò i giocatori, anche esperti, di mezza Europa. Divenne talmente celebre che incrociò nel suo cammino molti personaggi illustri e assidui giocatori tra i quali, ad esempio, Beethoven e Benjamin Franklin. La sua costruzione risale al 1769, dall’idea di un inventore ungherese, Wolfgang von Kempelen. Casualmente, lo stesso anno, nasceva anche Napoleone Bonaparte.

40 anni dopo i destini dell’uomo e della macchina s’incrociarono: l’imperatore sfidò l’automa in una delle più grandi gare scacchistiche della storia. 

Napoleone era ossessionato dal gioco degli scacchi: probabilmente, nella sua mente di grande condottiero, la disposizione dei pezzi sulla scacchiera, tra Pedoni, Cavalli, Torri, Alfieri, Re e Regine doveva ricordagli non poco i campi di battaglia e le strategie che si dovevano attuare per battere gli  avversari. Questa passione lo impegnava a tal punto che ogni minuto libero dagli impegni lo dedicava al gioco. In realtà anche le carte facevano parte del suo loisir, ma gli scacchi lo appassionavano particolarmente, sin da quando li aveva scoperti, in età adolescenziale.

Siamo nell’ottobre del 1784, Napoleone Buonaparte è un ragazzo di 15 anni — la ‘’U’’ verrà tolta dal cognome solo poco prima di sposare la bella creola Josephine nel 1796; un vezzo per darsi un tono più francese. La lenta e inesorabile trasformazione del personaggio Napoleone fu curata nei minimi particolari, anche nella pronuncia del cognome stesso, come a volersi scrollare di dosso quel ‘’puzzo’’ italo-corso delle sue origini che lo avevano fatto oggetto di scherno e discriminazione lungo gli anni di collegio e studio militare. All’età di 9 anni si era, infatti, trasferito da Ajaccio alla scuola militare di Brienne-le-Chaetau, realtà che condizionò non poco la crescita fisica e psicologica dell’uomo Napoleone. 

Proprio da Brienne-le-Chaetau partì l’ordine di trasferimento alla Regia Scuola Militare di Parigi. La missiva era stata già approvata a settembre, qualche settimana prima, ma il ragazzo intraprese il viaggio solo il 17 ottobre. Raccolti i pochi panni e le uniformi, preparò i bagagli, ripose lo stiletto d’ordinanza e delle grandi parate nella valigia e partì  pieno di sogni e di speranze. Approdò alla corte di Luigi XVI di Borbone il 21 ottobre 1784.

 Dopo la scuola il giovane ufficiale di artiglieria trovava svago e interesse al famoso circolo del Cafè de la Regence. In questo angolo di Parigi l’intellighezia francese e non solo, si riuniva per discutere di scienza, di politica ma soprattutto per giocare a scacchi. Uomini illustri si erano seduti a quei tavoli da gioco dando prova delle loro abilità. Non erano passati molti anni in cui perfino Diderot e Rousseau si erano cimentati in sfide memorabili all’interno del Cafè. Il giovane corso era affascinato da quell’ambiente, curioso e impaziente di assimilare il più possibile. Durante il pomeriggio, dopo aver studiato le strategie di artiglieria e le disposizioni delle truppe sul campo di battaglia, fuggiva letteralmente al circolo per assistere alle sfide dei giocatori professionisti. 

Un pomeriggio di un giorno qualunque, l’allora ambasciatore americano in Francia ed assiduo frequentatore del circolo, il grande scienziato Benjamin Franklin il quale aveva già avuto modo di notare il ragazzo, lo avvicinò domandandogli: «Sai giocare ragazzo?» «Un po’», aveva risposto il giovane allievo ufficiale. «vuoi che t’insegni?» «Ouì Monsieur», rispose entusiasta Napoleone. 

Da quel giorno l’ambasciatore, che aveva preso a cuore il ragazzo, lo aiutò a capire il gioco insegnandogli i trucchi del mestiere. In quell’anno memorabile, a cavallo tra 1784 e il 1785, il giovane allievo ufficiale non perse una sera. La sua naturale predisposizione all’apprendimento, tuttavia, non bastò per farne un giocatore esperto: il suo carattere irascibile ed impulsivo cozzava con la calma che si addice ad un giocatore di scacchi. Questo atteggiamento lo seguì per tutta la vita e nonostante fosse difficile sfuggire al suo carattere impositivo, non furono pochi quelli che declinarono i suoi inviti per una partita a scacchi e chi accettava solitamente lo lasciava vincere per non incappare in ritorsioni. Questo che lo caratterizzava, era sicuramente un atteggiamento infantile che poco si confaceva con un imperatore illuminato, una macchia nel carattere del Gran Homme che aveva probabilmente un’origine da ricercarsi nella sua travagliata infanzia.

Gli scacchi rappresentarono per Napoleone dei compagni e il  gioco lo seguì nel suo cammino, anche nei momenti cruciali. 

Due episodi della sua vita sono particolarmente significativi: 6 mesi prima della sua incoronazione, in cui mostrò perfidia e 6 mesi prima della sua morte, in cui subì perfidia.

Prima dell’incoronazione:

Siamo al 21 marzo del 1804, il primo giorno del germinale secondo il calendario ufficiale della rivoluzione: davanti al plotone di esecuzione il giovane Duca di Enghien, Luigi Antonio di Borbone, accusato di cospirazione contro l’allora Primo Console Bonaparte, condanna tramutata poi in alto tradimento per mancanza di prove. In realtà, il giovane fu preso come capro espiatorio da Napoleone e servì per dare una lezione politico\militare alle due fazioni in lotta, da una parte ai realisti che volevano riportare la monarchia in auge e dall’altra ai repubblicani che lo accusavano di combutta con i realisti. Da grande stratega qual era, con questa mossa, il Primo Console mise a tacere le due parti: ai realisti indicò la fine che spettava a chi avesse messo in dubbio la sua autorità e ai repubblicani mostrò la mano ferma contro i nemici del consolato. A farne le spese fu il giovane Borbone, che più volte aveva espresso con fermezza il suo disprezzo verso il Console. Bonaparte non dimenticò mai quelle parole e quando l’occasione si presentò non se la fece sfuggire. Come recita un vecchio proverbio: la vendetta è un piatto che va servito freddo.

Quando si avvicinava il momento, per il Duca, di ricevere la scarica di piombo dal plotone di esecuzione, Napoleone giungeva alla sua Malmaison di campagna, un rifugio acquistato dall’allora moglie Josephine appena dopo sposati. Quella sera, incurante degli eventi di Parigi, si dilettò la serata giocando una partita a scacchi con madame Remusat, vincendo. Dopo di che si alzò soddisfatto dell’impresa riuscita e andò a dormire. La cronaca narra, però, che poco prima della partita, il Bonaparte che si era seduto a giocare con madame Remusat, era un uomo rabbuiato e pensieroso. Nella sua descrizione Thiers scrive: «Il Primo Console era arrivato in cerca di riposo e isolamento nella sua casa di rifugio, solo, disattento, fingendo calma quando poi, finalmente, si sedette a un tavolo e giocò a scacchi con una delle più illustri signore del consolato, ignorando la fine del giovane Duca». 

Prima della morte:

A metà di dicembre del 1820, una sera qualunque, divorato da un cancro allo stomaco, non rimaneva molto da vivere a quello che fu uno dei più grandi condottieri della Storia. Erano passati 17 anni dalla sera del germinale, il calendario era tornato alla normalità, il vendemmiaio o il messidoro erano acqua passata. 

A Napoleone resta poco da chiedere alla vita, 52 anni vissuti come nessuno prima di lui. Il suo nome rimarrà in eterno e chiunque avesse ruotato intorno a lui, nel bene e nel male, sarebbe stato ricordato, persino l’insignificante, effimero generale Lowe, il suo carceriere sull’isola di Sant’Elena che lo  disprezzava nutrendo, in realtà, profonda invidia.

Nel corso di questi 17 anni dalla partita giocata alla Malmaison, Napoleone è stato incoronato, ha emanato codici, scritto leggi, sfidato il mondo per terra e per mare dando battaglia a chiunque. Ha invaso regni ed imperi, ha combattuto e vinto. Ha solcato le dune del deserto, come la neve della steppa, è stato sconfitto e imprigionato, è fuggito e ha di nuovo imposto il suo nome in Francia. Ha sfidato ancora i suoi nemici e ha perso. Ha amato molte donne e ha regnato sul mondo. Tutti sanno che nulla dura in eterno su questa terra ma il suo nome riecheggerà per sempre: «Ei fu…dall’Alpi …al Reno..dall’uno all’altro mar…ai posteri l’ardua sentenza» . Aveva però un ultimo desiderio, chiedere un ultimo regalo per quello che sarebbe stato il suo ultimo Natale.

 

L’antefatto:

Il 16 giugno 1815, due giorni prima della disfatta di Waterloo, si tenne la battaglia di Quatre-Bras  che lasciò sul campo quasi 10.000 morti e il doppio dei feriti. Tra le migliaia di prigionieri che caddero in mano francese, Napoleone fu particolarmente magnanimo nei riguardi di un giovane ufficiale inglese ferito, appartenente al settimo reggimento cavalleggeri ussaro, tale John Elphinstone. Il giovane fu medicato e rilasciato al suo esercito. Il ragazzo aveva poi fatto carriera in ambito civile e  sua mamma non aveva dimenticato il gesto che Napoleone fece e che aveva salvato la vita di suo figlio. 

In una lettera accorata la signora Elphinstone scrisse al figlio Jonh, capo delle fabbriche della Compagnia Orientale delle Indie di stanza a Canton in Cina, di passare a trovare l’imperatore durante la sua rotta di rientro a Londra. Jonh ubbidì alla madre e rese omaggio a Napoleone. Arrivò sull’isola portando con sé, in dono, alcune sciarpe di seta. Entrato nella dimora del prigioniero, intraprese con lui un amichevole dialogo, gli portò i saluti di sua madre e discussero di questioni politiche. John ebbe la sensazione di trovarsi davanti ad un uomo ormai provato e stanco dalla malattia e provò a rendersi utile per quel che poteva. Durante la conversazione apprese il desiderio del francese di voler ricevere una scacchiera nuova per continuare a battere il suo “amico” e compagno Montholon (anche se questi fu accusato di complotto nei suoi confronti dopo la sua morte…ma questa è un’altra storia). Elphistone non aveva scacchiere con sé a bordo, ma ne ordinò subito la fabbricazione, presso le officine di Canton, di una appositamente per il General. Dopo poche settimane, la scacchiera era già in viaggio.

Come ogni carceriere, Lowe controllava ogni cosa arrivasse o partisse dall’isola, attrezzata a prigione per Bonaparte, che, anche se solo e malato, incuteva ancora timore ai regni d’Europa. Tutti sapevano che un suo gesto o una sua missiva sarebbero stati in grado di riaccendere fuoco e coraggio nel cuore dei francesi. Aperto il pacco Lowe si accorse che i pezzi avevano inciso la N napoleonica e recavano il simbolo della corona imperiale. Le condizioni di consegna erano che quei simboli dovevano essere abrasi, ma Lowe ignorò le regole e per il grande disprezzo che nutriva nei confronti di Napoleone, rispedì la scacchiera direttamente al mittente. Bonaparte non ricevette così il suo ultimo regalo, bloccato dalla perfidia del misero inglese.

Il Turco di von Kempelen

Nel 1768 nella magnifica residenza estiva degli Asburgo, il castello di Schönbrunn, venne chiamato un famoso illusionista francese a rallegrare l’unico sovrano donna della grande casata, la prolifica Maria Teresa d’Austria, regina e madre di 16 figli. La nobildonna rimase entusiasta dei giochi di Francois Pelletier. Il francese era abilissimo nell’uso dei magneti, gli oggetti metallici si muovevano e si spostavano come per magia. La nobile corte austriaca fu sbalordita, tanto che uno degli ospiti, tale Wolfgang von Kempelen, un famoso inventore ungherese, lanciò una sfida: costruire un automa in grado di giocare a scacchi nell’arco di sei mesi. Progetto e lavori iniziarono fin da subito, trattandosi di una scommessa, non lesinò il lavoro e prima della scadenza fissata l’opera era pronta. La macchina era composta da una grande scrivania di legno dove sopra era posta una scacchiera con pezzi bianchi e rossi. Da un lato era posto un manichino a grandezza naturale che aveva le sembianze di un turco con tanto di baffi e turbante, da cui prese il nome, dal lato dello sfidante, invece, c’erano tre sportelli che venivano aperti al pubblico per rivelare il complicato ingranaggio contenuto al suo interno che la faceva muovere. In realtà c’era anche un altro scomparto che celava il trucco. Al suo interno un uomo di piccola statura poteva sedere comodamente e riusciva a manovrare le braccia del turco per combinare le mosse. L’arcano era semplice: egli, attraverso un magnete, poteva controllare lo spostamento dei pezzi che avveniva sopra il tavolo, poi riportava la mossa su una scacchiera più piccola che aveva con sé, all’interno dello scomparto, in modo da poter studiare la contromossa che proponeva poi sul tavolo grande, azionando il braccio del turco.

Ovviamente solo chi presentava la macchina e chi giocava all’interno conosceva il segreto. La prima apparizione avvenne proprio nel castello di Schönbrunn, in cui il Turco affrontò il conte Ludwig von Cobenzl un esperto giocatore dell’aristocrazia austriaca. Kempelen aveva assoldato un maestro di scacchi polacco, quasi imbattibile, un ex soldato a cui avevano amputato le gambe in battaglia e quindi facilmente nascondibile all’interno dello scomparto. L’automa vinse la partita e fu subito un enorme successo. Tuttavia l’inventore ungherese era restio alle esibizioni della sua creazione e ne limitò le uscite fino a quando il figlio di Maria Teresa, co-reggente dell’Impero e poi successore al trono asburgico, Giuseppe II, non ne ordinò una copia in occasione della visita di stato dello zar di tutte le Russie, Paolo I Romanov. Quella sera al castello molti della folta rappresentanza russa e che si ritenevano ottimi giocatori, sfidarono il Turco ma ne uscirono sconfitti. Entusiasmato, lo stesso zar propose a von Kempelen di portare in giro per l’Europa la sua creatura. La fama, come prevedibile, crebbe e tutti vollero sfidare l’automata, specialmente uomini di grande prestigio.

Kempelen morì il 26 marzo 1804, 5 giorni dopo la turbata partita alla Malmaison, altra coincidenza nel destino uomo vs macchina. I suoi figli che ereditarono il marchingegno non vollero proseguire le gesta del padre e lo vendettero ad un altro inventore, il tedesco Mälzel.

Un tipo eclettico, come solo uno scienziato sa essere. A noi posteri ha lasciato l’invenzione del metronomo. Mälzel, che aveva visto la macchina, non ne era solo affascinato, ma ne aveva carpito le potenzialità come fonte di guadagno. Prevedibilmente ne aumentò le tournee in Europa e realizzò veri e propri spettacoli a pagamento. All’interno, di volta in volta, il polacco era stato sostituito da altri giocatori professionisti e ben pagati, tutti fedeli al giuramento di non rivelare quello che era un trucco da prestigiatore. Fu proprio il tradimento di uno degli ultimi manovratori dall’interno che svelò la truffa ponendo fine alla fama del Turco nel 1834.

La Partita:

Siamo nell’ estate del 1809 a 15 km da Vienna, intorno al villaggio di Wagram imperversava una delle più cruenti battaglie dell’epopea napoleonica. Tra il 5 e il 6 luglio la Francia e l’Austria lasciarono sul campo di battaglia circa 80.000 morti. La vittoria di Bonaparte costrinse l’imperatore Francesco I ad un trattato che gli costerà gran parte del territorio del regno. L’accordo meglio conosciuto come ‘’ Pace di Schönbrunn ‘’ venne siglato il 14 ottobre 1809 proprio nel famigerato castello dove si era esibito per la prima volta il Turco. Napoleone e la sua delegazione arrivarono nella dimora nei pressi di Vienna una settimana prima del trattato e già circolava la voce che l’Imperatore dei francesi avrebbe voluto vedere quella macchina tanto decantata in tutta Europa e che aveva sconfitto anche il suo primo maestro Franklin. Mälzel non poteva farsi sfuggire questa occasione ed organizzò tutto alla perfezione. All’epoca, come ora, l’abilità di Napoleone non fu mai provata ma neanche mai smentita. Per dovere di cronaca dobbiamo citare che ancora oggi nei manuali degli scacchi esiste un’apertura del gioco detta proprio ‘’Apertura Napoleone’’ e ideata dall’imperatore stesso. Il francese non avrebbe dovuto averla vinta a tutti i costi e Mälzel, anche spinto dalla corte asburgica, cercò e trovò uno dei più abili giocatori al mondo, molto conosciuto a Vienna, un soldato dell’impero, di origine tedesca, tale Johann Allgaier. Il soldato si era trasferito dalla sua patria natia a Vienna da giovane e si era poi arruolato nell’esercito austroungarico, di conseguenza aveva combattuto più battaglie contro Napoleone ed era anche fresco della sconfitta di luglio. La sua fama di giocatore professionista era ben nota nel regno degli Asburgo, nel 1780, ventinove anni prima della fatidica partita, era considerato il miglior giocatore di Vienna. Nella sua lunga carriera divenne un vero e proprio teologo del gioco, tanto che scrisse un manuale sulla psicologia e sulle strategie degli scacchi, il primo della storia tedesca. Quando il suo compaesano Mälzel gli propose l’affare, lui che era di solito sempre senza soldi, non esitò un istante, lo avrebbe fatto anche gratis tanto era la soddisfazione di infliggere una sconfitta all’odiato francese. 

La sfida fu organizzata per la sera del 9 ottobre in una delle magnifiche sale degli ospiti del castello. Napoleone arrivò con quella aria di superiorità che lo contraddistingueva dai comuni mortali, era incuriosito dall’automata e lo scrutò a fondo cercando di carpire qualche dettaglio. Prima di iniziare la partita, Mälzel mostrò la macchina e aprì gli sportelli per far vedere il suo interno e i suoi ingranaggi, all’apparenza nessun trucco, nessun inganno. Il francese si tolse il paltò e ripose il suo petit chapeau, l’inconfondibile cappello, nelle mani del suo attendente. La partita ebbe finalmente inizio e Napoleone mise in atto la sua apertura: pedone in e4, risposta dell’avversario in e5 e contro risposta con la regina in Df3. Napoleone abbozzò un mezzo sorriso tra le labbra. All’interno della macchina Allgaier studiava il contrattacco e azionando il braccio del Turco muoveva il cavallo a ridosso della Regina di Napoleone. L’imperatore incalzato ripiegò sulla difensiva. La mossa successiva, pose il cavallo del Turco difeso dall’alfiere nella condizione di mettere sotto scacco sia il Re che la Regina. Napoleone in una estrema difesa perse la Donna e dopo qualche mossa anche la partita.  Infastidito, ma non molto, si alzò dalla sedia, prese il suo scialle e si avvicinò al manichino col turbante e come se lo ritenesse un uomo vero glielo avvolse intorno al collo. Gli spettatori erano incuriositi dal comportamento di Napoleone che con nonchalance, ma perentoria voce, volle che si riaprissero gli sportelli, per mostrare di nuovo il contenuto all’interno, qualcosa non lo convinceva anche se non capiva cosa. Mälzel apri di nuovo gli sportelli uno ad uno mentre il tedesco all’interno aveva la possibilità di spostarsi di posizione senza procurare nessun rumore, perfino il respiro era trattenuto.

Tutti scrutarono l’interno non riscontrando nulla di anomalo. Un osservatore attento però avrebbe notato le gocce di sudore freddo sulla fronte di Mälzel. Bonaparte, ritenendo la sconfitta una sua distrazione, chiese la rivincita, sempre con voce imperiosa, e la cosa non potette essere  rifiutata. All’interno l’illuminazione di Allgaier era generata da una candela e il fumo che derivava dalla combustione usciva da una cavità del turbante del manichino, Mälzel per confondere le acque mise dei candelabri proprio a ridosso della sagoma dell’automata . Bonaparte si mise di nuovo seduto, fissò il Turco e anche la seconda sfida ebbe inizio. Questa volta Napoleone fu più prudente e non si espose agli attacchi dell’avversario. L’esperto Allgaier chiuso all’interno del suo scomparto, invisibile agli occhi di tutti, aveva già in mente la sua strategia ed attirò Napoleone in un tranello, esponendo uno dei suoi pezzi migliori, l’alfiere bianco alla mercé  dell’avversario. Bonaparte esitò un attimo prima di fare la sua mossa, non proprio convinto della leggerezza commessa dallo sfidante e prese il suo tempo prima di agire, fissò i grandi occhi grigi ed inespressivi  del Turco, vide il fumo salire lento da dietro il turbante, pensando, bisbigliò tra le labbra «cosa avrai in mente uomo senz’anima». Il generale Kellerman che bene conosceva Bonaparte gli si avvicinò all’orecchio e gli sussurrò, «E’ solo un manichino sire», Napoleone come se si fosse risvegliato da un sonno profondo fece la sua mossa e abbatté  l’alfiere avversario. Allgaier, che aveva pianificato quella reazione, iniziò a muovere le fila dell’ingranaggio del braccio, che lentamente afferrò la torre e la portò a ridosso del Re, lasciato scoperto da Napoleone, il quale seguiva con lo sguardo il muoversi del Turco, per un attimo gli parve di scorgere anche un ghigno su quella maschera inumata, come a prendersi gioco di lui e sembrava dirgli «ci sei cascato di nuovo, principiante». Gli occhi di Bonaparte erano di nuovo posati sul tavolo e sulla nuova disposizione dei pezzi sulla scacchiera; vedeva la difficoltà in cui il suo Re, senza una vera difesa, si era esposto all’attacco del manichino. Rifletté  a lungo per effettuare una contromossa e la sua decisione fu quella di retrocedere di nuovo la Regina. Oramai l’avversario era in vantaggio e bisognava inseguirlo. Napoleone, indietro di una mossa, arrancava, e la pressione psicologica gli fece perder nuovamente la calma. Ancora il cavallo avversario a mettere sotto scacco il Re del francese, che mosse di fianco alla sua destra per sfuggire all’attacco. Tutto previsto, tutto calcolato dal maestro tedesco che portato avanti l’alfiere nero concluse il suo scacco matto al Re, anzi all’Imperatore. La reazione di Napoleone fu rabbiosa, era stato sconfitto nuovamente: egli, dominatore del mondo, non era abituato a perdere, figuriamoci due volte di fila. Nella sua mente cominciò a cercare a ritroso nella storia un momento per lui così umiliante e pensava che neanche Nelson a Trafalgar qualche anno prima, lo avesse così frustrato, anche perché l’odiato nemico perì nella battaglia. Bonaparte si alzò in piedi e chiese a Kellerman di porgli il suo petit chapeau, guardò di nuovo il tavolo da gioco e il suo Re messo in un angolo e sconfitto, si avvicinò e con una manata spazzò via i pezzi dalla scacchiera tanto lo innervosiva quella vista. Sbatté la porta e si diresse verso la sua camera, lasciando il pubblico come statue di sale. Quella notte Napoleone non dormì pensando e ripensando a quelle due partite, alla disposizione dei pezzi, alle mosse sbagliate, agli occhi neri del Turco che lo fissavano e a quel ghigno che era sicuro avesse visto, «parbleu!» esclamò ad alta voce, stava quasi impazzendo. Un’immensa soddisfazione invece prese Allgaier, quello che non era avvenuto sui campi di battaglia, avvenne quella notte su un tavolo da gioco.

D’altronde, rifletteva il tedesco, le battaglie e la guerra erano materia del Bonaparte e in quel campo il francese era pressoché imbattibile. Per quanto riguarda gli scacchi invece, quelli erano la sua di materia, ed anche lui in questo campo era pressoché imbattibile. 

Questa breve storia dimostra come non esistono grandi differenze tra gli uomini, non esistono i migliori e i peggiori, molto dipende dal contesto in cui si confrontano o scontrano. Mälzel lo ricompensò bene, lui stesso fu altrettanto gratificato dall’imperatore asburgico. Napoleone, invece, che andò a Vienna per trattare la resa di un impero si trovò a subire un oltraggio morale. 

Da quel giorno, per lui, il gioco non fu più lo stesso.


 IL Fornaretto

 

C’era una volta un bambino di nome Amedeo, nasce a Frascati il 26 luglio 1921 in provincia di Roma da una famiglia di umili origini. I genitori gestiscono un piccolo forno e lui li aiuta a tirare avanti a discapito della scuola e se fosse per loro anche a discapito del suo talento calcistico. Il ragazzo non supererà il 1,73 m di altezza e rimarrà per tutti il piccolo fornaio, in dialetto romano ‘’Il Fornaretto’’. I valori dello sport all’epoca erano altri, i giocatori andavano agli allenamenti in bicicletta con stipendi modesti per la maggior parte di loro. Passione e sacrificio le uniche ambizioni. Lontano anni luce dalle star di oggi; giocatori schiavi dei riflettori e delle passerelle con le veline a fianco e la Ferrari per andare al ‘’lavoro’’. Lo sport passa quasi in secondo piano rispetto al business che deve essere generato per mantenere l’apparato. Negli anni pre\post seconda guerra mondiale un uomo del calcio poteva contare solo nel suo talento e nel suo onore. Un giorno Amedeo scappa dal forno per andare a coltivare il suo sogno; ha 14 anni, forse meno. Chi aveva visto in lui un piccolo campione lo porta alla Roma per un provino calcistico. Fu un trionfo e l’inizio della favola. L’allora allenatore Barbesino lo nota, lo vuole. L’escalation è inarrestabile e il 2 maggio 1937 a 15 anni e 10 mesi esordisce in Serie A, la settimana dopo segna il suo primo gol; è il giocatore più giovane a realizzare un gol nella massima serie, record che detiene ancora oggi, in barba alla miriade di campioni che si sono susseguiti per quasi un secolo. Gioca e segna, riesce anche ad aiutare la famiglia. Nel campionato 1941\42 vince lo scudetto con la Roma, è al settimo cielo, 20 anni, il mondo tra le mani e lui è un bomber di razza. Come tutte in tutte le favole però il destino ci mette lo zampino e pone al ragazzo un bivio, una scelta che non lascia scampo. Il calcio non c’entra, o meglio, è la causa ma non la conseguenza. L’anno dopo, nel ’43, la Roma ha difficoltà a confermarsi leader del campionato, il grande Torino è superiore ad ogni squadra, 5 scudetti consecutivi fino alla tragica sera di Superga del 4 maggio 1949… 

Siamo in coppa Italia e allo stadio Filadelfia di Torino si gioca la semifinale. La Roma dopo aver ceduto lo scudetto ai granata è decisa a vendere cara la pelle per poter conquistare la prima coppa Italia. E’ il 23 maggio 1943, un anno decisivo per la nostra storia, tra due mesi il governo sfiducerà Mussolini che sarà arrestato. Altri due mesi e l’8 settembre l’Italia di Badoglio firmerà l’armistizio con gli alleati. Ad Amedeo, che ancora deve compiere 22 anni, tutto questo interessa poco, lui gioca a calcio e quel giorno l’unica cosa che conta è fare goal. Lui, Kriezu e Pantò guidano in campo i compagni. il Fornaretto è giovane ma è un leader nato. In quel periodo si diventava uomini in fretta e in fretta si moriva in guerra, non c’era spazio per i capricci o le bravate, la realtà ti arrivava addosso come un treno e subito capivi il significato di lottare per sopravvivere. 

Inizia la partita ed è subito battaglia, la superiorità tecnica del Toro è palese, Il primo tempo termina con i padroni di casa avanti per 1-0, rete di Loik, e nulla lascia presagire che cambierà qualcosa nella ripresa, ma quello che voleva essere uno scherzo di cattivo gusto muterà la situazione.

Quando la Roma rientra negli spogliatoi, ad attendere i giocatori ci sono undici forbici, tutte in bella mostra sul tavolo. Il messaggio dei granata è chiaro: «Tagliate il tricolore dalle vostre maglie, perché ora i Campioni siamo noi». I giallorossi, comprensibilmente, non la prendono granché bene. Colpiti profondamente nell’orgoglio, affiora in loro quella cattiveria agonistica che, forse, fino a quel momento della partita, era mancata. Dopo i 15 minuti di pausa il gioco riprende ed è tutta un’altra storia. La partita diventa di colpo a senso unico, con i giallorossi che cingono letteralmente d’assedio gli avversari. Il pareggio arriva dopo 16′ grazie a Dagianti, ma ai giallorossi non basta: vogliono vincere ad ogni costo, e lo meriterebbero anche. Il minuto 83 però segna il fattaccio: Ossola dei granata va in goal in fuorigioco e il guardalinee, Massironi di Milano, sventola la bandierina. Come se non bastasse, la palla probabilmente non ha neanche varcato la linea.

Tutta la Roma protesta con il direttore di gara, Achille Pizziolo, fin quasi a trascinarlo dal guardalinee. I granata spingono per la convalida. Si crea un parapiglia, vola forse qualche spintone, nella mischia qualcuno sferra a Massironi un calcione tremendo allo stomaco che lo fa stramazzare a terra, proprio mentre Amedeo Amadei si trova a passare di lì insieme al compagno Mornese e al granata Ferraris. Pizziolo espelle nel dubbio tutti e tre compreso il “Fornaretto” che per il referto dell’arbitro risulterà il colpevole dell’episodio, nonostante Amedeo non abbia fatto assolutamente nulla. Rimasti in nove, la Roma subisce un altro gol. A quel punto i giocatori romanisti, amareggiati, si fermano come pali in campo in segno di protesta e il portiere giallorosso butta fuori il pallone due volte, non ci sta. 

Al direttore di gara non rimane che sospendere la partita a 2′ dalla fine. La decisione del giudice sarà vittoria a tavolino per il Torino per 2 a 0. Arriva anche il giudizio del giocatore che difronte al direttorio federale si rifiuta di parlare per svelare il colpevole: «Io non faccio la spia», avrebbe detto, pur sapendo delle tremende conseguenze. C’erano tutte le autorità in campo per poter giudicare il fatto e si chiedeva perché avrebbe dovuto parlare proprio lui. Il disappunto era lecito, sebbene il regolamento non lasciasse scampo. Infatti, nonostante le tante testimonianze, anche di giocatori granata che scagionavano Amadei, la commissione decise per la squalifica a vita del centravanti romanista. Per la precisione: squalificato a vita «in attesa che si conosca il nome del vero responsabile». Perché il maggiore Ventura credeva all’innocenza di Amadeima gli chiedeva di fare il nome del responsabile per poterlo scagionare. Amedeo non ci sta a fare la spia e viene punito per una colpa che non ha. Il ragazzo ha messo da parte la sua carriera, il suo futuro e il suo talento, per difendere il suo onore e quello del suo compagno di squadra Dagianti. Nonostante avesse visto come si erano svolti realmente i fatti, non avrebbe parlato; ne andava della sua integrità personale e di atleta.

Questo episodio, di un ragazzo di 21 anni all’apice della sua carriera, la dice lunga sull’onore e sui valori che dovrebbero essere insegnati ai ragazzi quando approcciano allo sport come percorso di vita. La Storia del Fornaretto è una di quelle piccole storie che meritano di essere raccontate e prese ad esempio. La squalifica, per la cronaca, venne sospesa nel ’44, poi resa nuovamente esecutiva fino a quando l’amnistia generale del 46 permetterà al “Fornaretto” di tornare a giocare, rendendo giustizia ad un piccolo grande uomo.


 Il Buio nell’anima

 

‘’ Scrivere per liberare l’anima,

unico modo per non dover soffrire.

Il male di vivere circonda, attanaglia, ogni istante della vita.

Opprimono le catene dell’indifferenza, ombre oscure fanno compagnia.

Camminare in luoghi in preda alla follia,

inciampare, cadere, senza potersi rialzare.

Pensieri trasandati, in cerca di risposte, annaspano nel vino,

di nuovo stracciati i fogli del destino.

Sei Sisifo o Amore?

Costretto alla perenne fatica o consumato dal dolore.

Cercare la luce nel tormento,

accanto al baratro, silenzioso attende,

l’ultimo balzo nell’oblio delle tenebre.’’


 La Rinuncia 

 

‘’ Rinunciare all’amore per amore,

affrontare la vita con la morte nel cuore,

giorni pallidi senza colore,

fredde notti senza calore.

Scialbi momenti, senza l’ardore,

sguardi persi, senza stupore.

Passano lente, inesorabili ore.

Nessuna cura a placare il dolore,

nulla a riscattare l’onore.

Nell’anima il buio senza un bagliore,

per aver scelto la testa, abbandonando il cuore.’’


Resilienza 

 

‘’Ho bisogno di amarmi, credere che possa volare,

mi amo senza sosta, per potercela fare.

Stimoli, quanti ne ho dovuti cercare,

ostacoli da dover affrontare, pericoli da dover evitare.

Cammino solo, ho fiducia in me stesso,

percorro strade impervie,

lungo la via ho combattuto, perdonato,

ma mai dimenticato.

Ho gioito, sofferto e pianto.

Costruisco ogni giorno il mio domani.

Resisto, mi difendo e poi avanzo.

Guardo il tempo scorrere sul mio viso,

sono più forte del correre delle ore,

mi aiuto e mi sostengo,

sono solo, come quando si nasce e si muore.

Non ho mai avuto nessun santo in Paradiso,

solo conoscenze all’Inferno,

di una vita dura tra miseria e dolore.

Mi fermo, rifletto e continuo a lottare.’’


Girandola d’Amore 

 

‘’ Amori perduti, amori ritrovati,

amori sconosciuti, amori appassionati,

amori senza un tempo, amori calcolati;

divisi, in crisi, infine calpestati.

Amori che s’inseguono, si raggiungono,

poi frenano e si stringono,

si lasciano e corrono via lontano.

Amori che gridano, ridono,

si guardano e poi piangono.

Amori incompresi, delusi,

senza speranza, amori appesi.

Amori forti, amori sempre accesi,

amori per sempre, amori illusi.

L’amore a colori, l’amore vero,

l’amore grigio, l’amore per intero,

l’amore puro, candido e sereno,

l’amore dolce, l’amore che perdono,

l’amore vivo, sempre ardente,

l’amore che da tutto, l’amore che non dà niente,

l’amore che concede, ti priva, ti sconvolge,

l’unico amore che in cuor tuo ti legge.

L’amore che non so descrivere,

l’amore senza senso,

ogni volta che ti guardo,

ogni volta che ti penso.’’


 La Mancanza 

 

 

‘’ Mi manchi come l’acqua ai fiori e l’aria fresca al tramonto,

come le stelle al cielo e la luce alle tenebre .

Mi manchi come il sollievo al tormento e la pace al trambusto,

come il sole all’estate e la neve all’inverno.

Mi manchi come il respiro ai polmoni e il sangue al cuore,

come la mamma al bambino e la benzina al motore.

Mi manchi come il fuoco al camino e il profumo alle rose,

come le corde alla chitarra e la musica alla canzone.

Mi manchi come le stelle al cielo e la luna alla terra,

come la strada a chi cammina e il treno al viaggiatore,

Mi manchi come la sabbia alla spiaggia e  la spuma alle onde,

come le parole alla poesia e il vino al bevitore.

Mi manchi come la cura a chi sta male e  l’idea all’inventore,

come la mano che ti aiuta e le ali a chi vuol volare.

Mi manchi come il coraggio a chi ha sempre paura.’’


 Insonnia 

 

Oggi vivo di insonnia e  nostalgie. 

Specie nei giorni che precedono la primavera,

 in quelli ventosi poi,

sono preda di rimpianti a cui non so dare un nome. 

Vago nella notte in un mare di pensieri che si rincorrono nel buio,

fino a quando una piccola debole e fioca luce,

 annuncia il giorno che sta arrivando.

Senti allora il calore nel momento in cui esce il sole, 

il solletico sul naso,  il tepore sul viso e tra i capelli, 

il suo splendore t’inganna quando cambia di nuovo la luce e arriva l’ombra, 

la gioia dura poco,  ma un’idea te l’ha data.


Delirio 

 

Banchetto al cospetto degli dei,

Efesto forgia lo  scudo del mio destino,

affido ad Hermes le mie parole e a Venere il mio cuore.

Ares veglia sulle insidie della vita,

Atena a guidare le mie scelte.

Le virtù sono preda di Apollo,

ad Ade lascio le sorti della mia anima.

Sogno una vita al di là di un misero mortale,

l’Olimpo per potermi rifugiare,

alla povera e meschina esistenza,

oppongo davanti il delirio dell’onnipotenza.,