Danilo Ceirani - Poesie in mostra

Migranti

 

Fame e guerra a spingerci lontano,
alle spalle una terra misera e distrutta.
Stipati sulle chiatte pieni di speranza,
navigammo tra le onde di un mare,
una volta amico, una volta Giuda.
Lanciammo infine grida di salvezza,
annaspando nell’acqua senza appigli,
con i respiri corti e le voci fioche,
ci abbandonammo inermi nel blu profondo.
Veniste a cercarci senza trovare nulla.
Sognavamo la terra promessa,
trovammo invece i vostri sguardi attoniti,
a raccogliere i cenci
e le spoglie senza nome,
dei nostri corpi rigettati sulle rive,
come lurido ciarpame.
Barattati per denaro,
senza scampo né pietà,
insensibili all’amore,
dell’umana crudeltà.
Fummo poi nel bronzo forgiati,
per insegnare al mondo l’uguaglianza,
che il rappresentante di Dio,
ad imperitura memoria,
ai posteri donò.

 


 

Sisifo felice

 

Camminare in luoghi in preda alla follia,
inciampare, cadere, senza potersi rialzare.
Spingi la tua vita in cima alla montagna,
per poi raccoglierla di nuovo nella valle.
I tuoi pensieri trasandati,
in cerca di risposte,
annaspano nel vino,
sono di nuovo stracciati i fogli del destino.
Sei Sisifo costretto alla perenne fatica
in cerca della luce nel tormento,
accanto al baratro che silenzioso attende,
l’ultimo balzo nell’oblio delle tenebre.
Il tuo sorriso però non è ancora spento,
sposti in alto con moto perpetuo,
il fardello della tua esistenza,
felice nonostante tutto,
di condividere con gli altri,
il peso della solitudine.

 


 

L’amore è un dono

 

L’amore è un dono,
si manifesta in un abbraccio,
si arricchisce nel perdono.
L’amore non conosce la paura,
infonde il coraggio di buttarsi,
senza sapere se troverai una rete
a frenare la tua anima
o il vuoto a schiantarti il cuore,
comunque vada, nonostante tutto
è nell’istante di quel volo
che ti sentirai vivo.
L’amore è così,
l’amore va sempre all-in,
ti appare se non lo cerchi,
ti sfugge se lo insegui.
L’amore ti circonda ovunque
anche se non lo vedi.
Non ti abituerai mai all’amore,
perché sempre ti sorprende,
per amore puoi gioire,
per amore puoi morire,
in qualsiasi forma arrivi,
l’amore è sempre un dono.

 


 

La Pelle Nera

 

La sveglia suonò presto la mattina del 14 novembre 1960 e New Orleans apparve subito più chiassosa del solito alle piccole orecchie di Ruby, che, ancora insonnolita, cercava rifugio tra le coperte. «Sveglia, piccola pigrona!» gridò mamma Lucille mentre apriva la finestra. «Oggi è un giorno importante per te, per noi e per il nostro popolo.» Ruby gettò uno sguardo in direzione della madre, un po’ disinteressata. A sei anni, le cose che importavano veramente erano il suo orsetto di peluche Billy e la bambola Meg, oltre all’affetto dei genitori, che non le era mai mancato. Dopo una bella colazione con latte e cornflakes e dopo essersi lavata i denti, Lucille vestì Ruby come se fosse un grande giorno di festa: un vestitino con una candida camicetta orlata e un’ampia gonna a ruota, appena sotto le ginocchia. Sopra, una giacchetta color perla, e, per finire, un bellissimo garofano bianco ad adornare l’intricato ammasso di riccioli neri intrecciati come un rovo. La piccola era eccitata per il suo primo giorno di scuola e non vedeva l’ora di iniziare. Intanto, il frastuono fuori casa aumentava. Si sentivano grida e urla, e qualcosa aveva urtato le pareti della casa. Ruby credeva che il Mardi Gras fosse arrivato in anticipo e si rattristò pensando di non aver ancora ricevuto il suo costumino di Carnevale: quell’anno voleva essere una principessa, perché era stanca del ruolo di fatina degli anni precedenti. Papà Abon, prima di aprire la porta di casa, chiese di nuovo a Lucille: «Siamo sicuri di fare questa cosa? Due bambini hanno rinunciato, stiamo rischiando grosso.» «Lo so, amore, ma Ruby merita un’istruzione migliore. È diventato un suo diritto frequentare la scuola dei bianchi, quel diritto che noi non abbiamo avuto. Eppure, siamo statunitensi. Sento che dobbiamo farlo per tutti i bambini afroamericani e per un futuro migliore.» E aprì la porta. Non appena varcata la soglia di casa, un gruppo di persone inferocite li aspettava nel cortile esterno e, appena videro la piccola uscire, iniziarono a inveire contro di lei: «Sporca negra, non hai il diritto di stare insieme ai nostri figli!» gridava una signora bionda. «Resta in quella scuola dove si ammaestrano le piccole scimmie!» urlava da un altro lato un signore con grandi baffi, dandole manforte. Ruby, che aveva iniziato a capire che forse non era davvero martedì grasso, restò immobile sull’uscio di casa. Sua madre temeva che potessero lanciarle qualcosa addosso e ferirla. Dalla macchina parcheggiata davanti a casa uscirono quattro Marshall inviati dal presidente Eisenhower in persona. Misero subito ordine all’orda razzista e scortarono la piccola e la mamma fino alla scuola. Mentre passavano tra la calca, una delle madri più attive nella protesta urlò in faccia alla bambina: «Un giorno di questi, mentre andrai a pranzo, riuscirò ad avvelenarti il cibo e allora sarà una liberazione per tutti, piccola negra.» La tenera Ruby non si fece per niente intimorire: marciava come un piccolo soldato in mezzo ai poliziotti armati, stringendo in una mano la sua cartellina con i quaderni e, nell’altra, quella terrorizzata della madre. Nessun lamento, nessun piagnisteo. I suoi grandi occhi neri, profondi come l’universo, guardavano dritto in faccia i delatori imbestialiti. Forse per la sua incoscienza di bambina, ma in quel momento sulle sue spalle c’era la lotta secolare di un’integrazione mai del tutto compiuta. Arrivate alla William Frantz Elementary School, Ruby e la sua mamma si trovarono davanti a una situazione paradossale: tutti i genitori bianchi avevano ritirato i loro figli da scuola, lasciando le aule deserte, e nessun insegnante voleva prendersi cura della piccola Ruby. Si rifiutarono tutti, tranne la signorina Barbara Henry. L’aula senza studenti apparve immensa alla bambina: l’enorme cattedra, la gigantografia dell’eroe di guerra, ora presidente, la bandiera a stelle e strisce in un angolo. Ruby compostamente prese posto al primo banco e rispose con un sorriso al grande sorriso della signorina Barbara, che le domandò: «Tutto a posto, piccola? Hai timore?» «No, per niente» rispose Ruby e incalzò: «Perché quelle persone là fuori ce l’hanno con me? Cosa ho fatto di male? E lei perché è così diversa?» Quesiti difficili a cui rispondere per il primo giorno di lezione di una bambina di sei anni, pensò la maestra. «Non tutte le persone sono buone in questo mondo e neanche tutte sono cattive. Molte cose si fa fatica ad accettarle, ma poi piano piano ci si abitua. Come lavarsi bene i denti la mattina: è noioso, qualche volta sanguinano le gengive, ma alla fine è un gesto che facciamo più volte al giorno perché sappiamo che è necessario, per il nostro bene. Ecco! È come se alcune persone non avessero ancora capito perché devono lavarsi i denti.» Sorrisero tutte e due. Ruby, però, non sembrava del tutto convinta: nella sua testa rimbombava un altro quesito. Se una persona adulta ancora non aveva capito perché lavarsi i denti era necessario, forse c’era qualche problema. La situazione di attrito durò tutto l’anno. La piccola mangiò esclusivamente ciò che portava da casa: le minacce di avvelenamento non erano cessate. I Marshall vegliavano sull’andamento delle lezioni e la signorina Henry si dedicava con impegno alla sua piccola alunna. Nel frattempo, alla famiglia Bridges vennero inflitti parecchi colpi bassi: la comunità locale detestava la loro perseveranza “irrispettosa”. Il padre fu licenziato e il negozio di alimentari, dove la madre faceva di solito la spesa, le vietò ogni acquisto. La vendetta bianca arrivò perfino a toccare i nonni, che si videro espropriare la terra che coltivavano come mezzadri. Non tutti, però, erano così. Come aveva detto la signorina Barbara, c’erano persone cattive, ma anche persone buone. Molte mamme continuarono a mandare i loro figli a scuola e un vicino di casa offrì un nuovo lavoro al padre. Le cose lentamente cambiarono e una mattina, mentre i Marshall la accompagnavano a scuola, Ruby si voltò a guardare dietro la macchina e vide che un piccolo corteo la seguiva, come fosse un funerale, accompagnandola a scuola in segno di solidarietà. “Questi sicuramente hanno capito a cosa serve lavarsi i denti!” pensò. L’ingenuità della bambina aveva trasformato un dramma sociale in un gioco in cui lei era l’indiscussa protagonista. Il razzismo era una questione degli adulti, ma a pagarne le conseguenze erano i piccoli. Tuttavia, con la sua innocenza e determinazione, Ruby era diventata un simbolo anche per i grandi. La portiera della grande Cadillac nera si aprì di nuovo davanti alla scuola, nel maggio del 1961. I piccoli piedini di Ruby toccarono il suolo come ogni giorno, a passo svelto e sicuro verso l’istituto. Tutti si accorsero, in quell’istante, che un piccolo ma significativo balzo in avanti era stato fatto per migliorare la società americana. La purezza di quella bambina aggiunse un tassello importante a quel grande sogno che avrebbe trovato voce il 28 agosto del 1963, in un grande discorso pronunciato davanti a tutti gli americani, un discorso che non sarebbe mai più stato ignorato dalla storia e dall’uomo. Il discorso iniziava con: «I have a dream.»

 


 

Lettera dal Fronte – WWI Battaglia di Cippo di Serravalle

 

Ciao mamma è un mese che siamo chiusi in trincea, ricordo a malapena la data di oggi. Mangiamo una volta al giorno e il freddo non ci dà tregua, la notte poi, quando si fa intenso, miete anime come il piombo, ma è niente al confronto del gelo che mi porto dentro, delle urla strazianti dei feriti, del sangue dei corpi martoriati, dalle mitraglie e dai cannoni, dei miei compagni e dei miei nemici. Non conto più i morti e quanti ne ho uccisi. Ieri mi è toccato l’amaro compito di raccogliere le medagliette dal collo dei caduti, e quando ti capita quello senza testa, ci vogliono decine di minuti per cercare nel fango. Sono molte notti che continuo a fare uno strano sogno, mi sento vuoto, come una sensazione di spossatezza, poi un dolore forte, tutto il mondo intorno che gira e un dolore al petto, mi guardo e vedo un foro di proiettile dal quale non sgorga il sangue, poi il buio, nessun suono, nessuna percezione di contatto e mi ritrovo così sospeso nell’aria ad osservare il mio corpo immobile, insieme a decine di cadaveri in uniforme, morti per una guerra che non abbiamo deciso noi. Penso che se morirò non dovrò più preoccuparmi di me stesso, l’esercito lo farà per me. Qualcuno raccoglierà la mia medaglietta per inserirmi nella lista degli eroi di guerra, caduti per la patria, mi toglieranno la divisa sudicia e mi laveranno, mi metteranno poi dei vestiti puliti. Alla commemorazione in paese verranno tutti a salutare l’eroe, alcuni cancelleranno gli impegni e mancheranno anche dal lavoro per venire ad omaggiarmi. E tu cara mamma, tutte le mie cose che non mi piaceva prestare, le venderai, le regalerai o le butterai per fare nuovo spazio. I miei libri, i miei strumenti si perderanno per sempre. Sicuramente il resto del mondo non si fermerà a piangere per me, anche nel mio lavoro in fabbrica verrò sostituito. Qualcuno con le mie stesse o migliori capacità, assumerà il mio posto. Già immagino i miei colleghi che parleranno, mi giudicheranno, qualcuno metterà in discussione il mio operato e criticherà ogni cosa, sia piccola o grande che ho fatto nella mia vita. Le persone che mi conoscevano solo per il mio viso diranno: Povero ragazzo! I miei amici sinceri invece piangeranno qualche ora o qualche giorno, ma poi torneranno a ridere. Il mio Fuffy si abituerà ad un nuovo padrone. Le mie foto, per un po’ di tempo, rimarranno appese al muro o continueranno su qualche mobile, poi verranno messe in fondo a un cassetto. Qualcun altro si siederà sul mio divano e mangerà alla mia tavola. Il dolore profondo a casa durerà una settimana o due, un mese o due, un anno o due. Dopo sarò aggiunto ai ricordi e poi ancora la mia storia sarà finita. Forse rimarrà un nome sulla targa del paese, che prima o poi sarà dimenticato, su un monumento che, tra qualche generazione non avrà più memoria. Quando sono partito avevo la testa piena di ideali, ed ora mi trovo qui a litigare per una razione di brodo o una coperta. Ogni giorno prego di non essere tra i primi a salire su quella maledetta scaletta che ti porta in campo aperto per l’assalto. I primi muoiono tutti mamma, falciati dalle mitragliatrici, migliaia di cadaveri tutti i giorni e non abbiamo conquistato nemmeno un metro di terra, in questa valle di lacrime e morte. Una cosa però l’ho imparata dalla guerra, il vero ideale è solo quando vivi una vita d’amore verso gli altri e in pace con il prossimo, la felicità è tutta qui, nella ricchezza spirituale. L’ho letto in un libro che mi ha dato Massimo prima di morire ‘’Il Cantico delle Creature’’, una frase mi è rimasta impressa: ′′Da qui non ti porterai via quello che hai, ma prenderai solo quello che hai dato′′. Mamma, la guerra da solo la morte, ed io non voglio portarmi dietro la morte, voglio portarmi dietro l’amore, come quello che ho per te. I proiettili continuano a fischiare incessantemente, la maggior parte di noi è del 1899, più paura che coraggio, qualche fortunato tornerà a casa, gli altri periranno. Ti prego mamma, leggi questa lettera al mio funerale, racconta del sacrificio di questi ragazzi e diffondi il mio messaggio, se il mondo ha una speranza, quella speranza si chiama amore.
Con affetto tuo figlio Luca – Cippo di Serravalle – 28 ottobre 1918