Davide Giannini - Poesie e Racconti

BAMBOLA

 

Mi sono svegliata stamattina

Mi sono guardata allo specchio

Ho visto una faccia una faccia di bambola

Di porcellana con gli occhi blu

 

Mi sono lavata la faccia e ho iniziato a truccarmi

Fard e rossetto, cipria ed eyeliner

Che bella che sono sembro proprio una bambola!

Di porcellana con gli occhi blu

 

E quando cammino per strada

Mi guardano tutti i ragazzi davanti e di dietro

Mi fischiano e dicono: che bambola!

Di porcellana con gli occhi blu

 

È mio marito che mi paga i vestiti

I trucchi la palestra e le diete

Lui lavora e quando rincasa ha la sua bambola

Di porcellana con gli occhi blu


 

VOI VINCERETE

 

Voi vincerete,

Vincerete perché ci avete rubato l’anima

Perché avete convinto la gente

Di preferire la strada pulita e l’automobile

Ai fratelli che scappano dal Terzo Mondo

Voi vincerete,

Ma un giorno quando avrete vinto

Quando avrete messo radici nella società

Succhiando la vita e il sangue al Popolo

Sarà allora che un giorno alzandovi

Non riuscirete più a spiegarvi con la gente

E allora,

E allora forse dopo un grande silenzio

Di mute facce grigie tutte uguali

Qualche zingaro bardato di stracci e oro

Qualche musicista dalla pelle color caffè

Nascosti chissà dove, scampati all’odio fratricida

Torneranno a colorare le strade


 

LA LUNA E IL CONSERVATORE

 

V’era tempo fa, un vecchio e ormai solo conservatore

Che vagava le sue notti insonni triste e affranto

Per via di tutti i cambiamenti della società civile;

E una sera, per conforto o per disperazione,

Alzò gli occhi al cielo e vide la grande luna piena

E le disse: “Oh luna! Tu che sei sempre la stessa

Che hai vegliato sui miei avi e ora vegli su di me

Dimmi come fare per fermare questo progressismo

Che è immorale che mi rovina la serenità e la religione,

La società e la digestione, mi affido a te… Luna!”

Rispose sapiente la Luna: “Io son rivoluzionaria per natura,

Oh uomo, ma devi sapere di me un grande segreto:

Dopo ogni rivoluzione torno sempre al punto di partenza,

Mi muovo senza spostarmi, è questo il segreto

Del populismo di destra: fai una finta rivoluzione

E col pretesto del cambiamento verso un nuovo orizzonte

Fai tornare il Mondo come ai tempi di tuo nonno”.


 

ATTACCO D’ANSIA

 

Il caldo attanaglia

Le mie membra tremanti

Paralizzato

Sudato

Labbra secche e crepate

Il senso di vomito

Impellente e violento

Alimenta come carbone

Singulti e sussulti del cuore

Il sangue il sangue il sangue

Brucia ovunque il mio petto

Mi sembra di star per morire

Tra vomito e sangue


 

KUNDALINI

 

Caldo e fosco

Torrido e bollente

Il color rosso

Brucia sotto il ventre

 

Brucia come il fuoco

Che infiamma il tuo destino

Brucia fin sul capo

A partire dal bacino

 

Non l’acqua non il fiato

Ne romperanno la vitalità

Ma due rosse metà

Di un fico spezzato


 

ACQUARIO

 

Ho costruito un acquario di carta

E l’ho riempito con pesci d’inchiostro

Pescati nel mare infinito 

Che lambisce con le sue vive acque

Gli aridi continenti della mente mia

Provo io a scrutarne gli abissi

Ma il terrore mi blocca

Troppo fondo troppo grande

Troppo vivo

Mi accontento così

Di pescare i pesci che si spingono a riva

E intrappolarli finché posso

Prima che scappino

In questo acquario di carta


 

AMORE E ODIO

 

Amore è trovare pace

Odio è il suo contrario

Ognuno ama mille cose

Ognuno ne odia altrettante

Non è forse per l’anima 

Questa bizzarra altalena

Tra l’odio e l’amore 

Ciò che pure sono

Inspirazione ed espirazione

Per il corpo fisico?


IL CAPITALISTA E LA GOCCIA DI PIOGGIA

 

Tempo fa camminava per le vie della sua città, un capitalista vestito in abiti borghesi e co un lucente cappello a cilindro. Stava ritornando dalla sua consueta passeggiata pomeridiana quando il cielo d’un tratto si rannuvolò e cadde dal cielo una piccola goccia d’acqua, che proprio rimase appesa al bordo del cappello a cilindro, penzolando davanti agli occhi del borghese imprenditore

“E tu chi sei?” chiese l’uomo “che combini sul mio cappello? Mi dovrai pagar l’affitto se intendi rimanere”

La goccia d’acqua rispose “Vengo dal cielo e sono nient’altro che una goccia d’acqua, che fastidio ti do se sto sul tuo cappello?
“Non è questione di fastidio, è questione di giustizia, chi occupa paga, se no è un usurpatore”
“Vieni a parlarmi tu di giustizia e usurpatori? Che mentre ti vesti di lusso e ti trastulli negli agi, i tuoi operai si rompono la schiena da mattina a sera per produrre la tua ricchezza?”

“Ma che farnetichi tu? Cosa ne sai?”
“Ne so abbastanza, è da un po’ che vi osservo dall’alto e credo che si debbano cambiare le cose”
Rise il capitalista “E tu vorresti cambiare le cose? Non vedi che sei una nullità?”
“Forse da sola farò ben poco, ma con le mie sorelle, insieme, siamo capaci di far straripare i fiumi e franare le montagne, e chissà che non ne sia vittima una qualche fabbrica di un capitalista”
Adiratosi o impauritosi, chissà, per non udire più quella goccia insolente, il capitalista se l’asciugò con la manica del cappotto.

Quella sera il capitalista annegò nell’alluvione.


ETTORE E ISRAELE

 

Il vecchio Ettore aprì gli occhi, madido di sudore nel suo letto, e si rese conto di non riuscire a muoversi: la sua mente si era svegliata, ma il suo corpo non ancora, era da un po’ che gli capitava, una sensazione strana, ma in fondo non spiacevole, attese un po’ di tempo, non sapeva dire quanto, immerso totalmente nel buio della stanza, poi riuscì ad alzarsi e si trascinò fino al portico per respirare un po’ d’aria fresca. Era agosto e faceva un caldo infernale pure di notte. L’aria era umida e pesante nonostante fosse in montagna, sembrava di essere intrappolati in una sauna buia. Il vecchio si accese la pipa e iniziò a fumare nella notte ancora giovane. Nulla si muoveva tranne le lucciole e le zanzare. La luna splendeva quasi piena in un mare di stelle. Sapeva che non sarebbe più riuscito ad addormentarsi e si preparò a un’altra notte interminabile. “Se solo sapessi leggere” pensava, mentre il fumo acre del tabacco riempiva l’aria attorno a lui disperdendo gli insetti notturni.

Se per il vecchio Ettore la notte era interminabile, lo stesso non accadeva per Israele: per lui la notte non bastava mai. Era un ladro di cavalli, Israele, e ogni notte rubava quanti più cavalli poteva, poi appena il primo bagliore spuntava oltre l’orizzonte, cavalcava con i suoi cavalli fino al mercato più vicino dove li vendeva. Tutti li compravano: contadini, macellai, guerriglieri, caporali, nobiluomini… tutti andavano da lui a comprare i cavalli perché faceva prezzi buoni, e aveva l’occhio per i cavalli: sapeva dire, dopo appena poche ore passatevi insieme, se un animale fosse buono per la corsa, o per tirare l’aratro, o per portare le polveri in mezzo al fango, o se ne fosse buona la carne. E benché lui non tornasse mai due volte nella stessa città la sua fama lo precedeva dappertutto, cosicché aveva sempre un sacco di clienti e non gli rimanevano mai animali invenduti.

Quella notte stava proprio aggirandosi nel villaggio dove abitava il vecchio Ettore, Israele, in cerca di cavalli e si muoveva svelto e furtivo come un felino, il ladro, attento a non far rumore mentre attraversava le calli e le campagne in cerca dei preziosi equini. Era però una di quelle notti in cui la Luna brilla grande e argentata nel cielo nero, rischiarando le strade e i campi, i gufi e le falene, e immancabilmente anche i ladri. Israele aveva ormai passato il paese vero e proprio e si trovava in aperta campagna; solo una piccola casa di legno, quasi una baracca, si ergeva solitaria in mezzo all’erba argentata dalla luna. Israele si trovava proprio di fronte alla casa di Ettore, che lo scorse oltre il suo portico mentre fumava. Capì subito che era un ladro, e capì subito che sarebbe stato meglio stare zitto ed evitare di farsi vedere, tornare dentro, se possibile, che tanto lui di cose da rubare non ne aveva, le uniche cose che gli restavano erano il letto, la pipa e la vita, e specialmente all’ultima vi era attaccato e non voleva che per qualche scherzo del destino al ladro gli venisse in mente di portargliela via. Tuttavia, nonostante i suoi buoni propositi la sorpresa di vedere quella figura scivolare nell’ombra della notte fu tale da mandargli di traverso il fumo dell’hashish che aveva appena aspirato. Iniziò a tossire, il vecchio, e Israele si girò. Con un paio di balzi arrivò al fianco di Ettore ed estrasse la lama con cui era solito tagliare le corde o i recinti che legavano i cavalli, prima di portarli via.

“Stai attento, vecchio” disse portandogliela alla gola “questa è la lama più affilata che tu abbia mai visto, forgiata direttamente nell’isola di Zipangu e posseduta da uno dei guerrieri dell’Imperatore”.

“T- tranquillo” disse Ettore alzando le mani “io non ho paura dei ladri, non ho niente da farmi rubare, ti lascerò andare per la tua strada… ero venuto fuori solo a fumare, non so neanche che faccia hai”.

Allora Israele rimise apposto la lama “Tranquillo vecchio, sono un ladro onesto io, non uccido” poi stette un attimo zitto, guardando verso l’alto: “tutta colpa di questa maledetta luna: non fa dormire i vecchi e fa scoprire i ladri… ma domani c’è il mercato e se non trovo dei cavalli stasera questa settimana non si mangia…” il vecchio rimase in silenzio non sapendo cosa dire “Di un po’ vecchio, sai dirmi dove trovare dei cavalli qui intorno?”

“No, no davvero… cioè non qui, se prosegui per dove stavi andando trovi… trovi le stalle del podestà… ci saranno almeno dieci cavalli là dentro”

“Grazie vecchio, sei una brava persona” rimase in silenzio, e fissava la pipa del vecchio Ettore, la fissava già da un po’ a dire il vero “dì un po’… dove lo hai preso l’hashish? Non ne avevo mai visto al di qua del Mediterraneo”

Il vecchio sorrise nella notte, era calmo del tutto adesso “Prova a indovinare come mi chiamo, ragazzo, o meglio, come mi chiamano”

“Non lo so proprio vecchio, dimmelo tu come ti chiamano”

“Mi chiamano Ettore, prova a indovinare perché mi chiamano Ettore”

“Non so neanche questo, taglia corto che sono un ladro, non ho tempo da perdere con storie di nomi, io”

“Sai leggere?”

“Sì so leggere” disse sbottando Israele che già si era pentito di aver fatto quella domanda al vecchio Ettore

“Beato te… magari sapessi leggere anch’io… hai letto l’Iliade?”

“No. Ma cosa centra tutto questo con il tuo hashish, vecchio?”

“Centra che nell’iliade si parla di una grande città della costa turca, e della guerra che fece contro i greci. E in questa città turca c’era un guerriero: Ettore! Capito ragazzo? Mi chiamano Ettore perché vengo dalla Turchia. Me lo ha dato il podestà questo nome. Lui sa leggere, legge tutto; anche adesso che è più vecchio di me”

“Ma pensa!” disse un poco interessato Israele che della Turchia sapeva poco e niente “E da lì viene l’hashish?”

Ettore annuì fumando la pipa “io ero un pirata nel mar Egeo. Rubavamo le merci agli arabi e agli europei e le barattavamo con i mercanti indiani e con i predoni nomadi dell’Asia centrale”

“Le barattavate con l’hashish?” A questo punto la storia lo appassionava davvero

“Con qualunque cosa: oro, hashish, donne… quel che ci piaceva ce lo tenevamo, il resto lo rivendevamo nei mercati. A me ormai è rimasto solo questo: hashish indiano. Ce l’ho da più di trent’anni, ma non va mai a male a tenerlo chiuso bene nel papiro”

“Che storia, vecchio… e com’è che un pirata turco è finito qua? Sull’Appennino borbonico senza una nave e senza un tesoro”

“Tutta colpa di una donna… devi sapere, ragazzo, che dopo settimane di mare a caccia di navi, eravamo soddisfatti del bottino. Siamo così ritornati a terra, a Cipro per la precisione… senti, ma non vorrei trattenerti troppo a lungo, sei un ladro di cavalli tu, vai pure se devi”

Israele guardò la Luna brillante nel cielo, poi si rivolse al vecchio: “La notte è ancora lunga, e se davvero il podestà ha tanti cavalli, mi bastano quelli per campare fino al prossimo mercato. Adesso racconta vecchio, mi piace sentire le vecchie storie”

Sorrise Ettore e i denti anche se neri dalla carie brillavano nella luna. Da tempo non parlava con qualcuno, e parlare gli faceva bene, soprattutto adesso che era vecchio. Da sempre ai vecchi piace parlare.

“Beh allora, come ti stavo dicendo eravamo sbarcati nell’isola di Cipro e io, con la mia parte di bottino avevo comprato una schiava bianca al mercato di Pafo. Era una donna bella, dai lunghi capelli neri e dagli occhi verdi. Non appena la vidi seppi che doveva essere mia. Pagai quasi tutto quello che avevo guadagnato per avere quella donna, ma dentro di me sapevo che ne valeva la pena. Era bella giovane, aveva quindici anni appena, ma era molto intelligente, e fiera, non voleva sottomettersi, e così neanche la toccai la prima notte che ci passai insieme, perché a me non piace metterci troppa forza in queste cose. Le chiesi come si chiamasse, ma non volle dirmelo. Mi disse che era figlia di un ricco signore del Regno borbonico, e che sapeva leggere e palare diverse lingue. Rimasi stupito: in tutta la mia vita quella sarà stata la terza o quarta persona che incontravo che sapesse leggere, ed era la prima donna.

Così decisi di farle leggere qualcosa e pagai il resto dei soldi che mi rimanevano per uno scritto contenenti le favole di Esopo, e me le facevo leggere di continuo, tutte le sere e tutti i giorni, e io quella schiava non l’ho mai toccata, le ho solo fatto leggere le favole di Esopo. Un giorno mi ha detto ‘ruba una barca per me, e portami in Italia, nel mio paese, lì ho tanti soldi e ti convertirai e ci sposeremo, e sarai ricco, non dovrai più rubare né fare il pirata’, io non sapevo cosa dirle, mi ero follemente innamorato di quella schiava, tanto che, seppure io lei non l’abbia mai toccata, non toccavo più neanche le altre: volevo che lei vedesse che ero fedele.

Quando mi fece quella proposta qualcosa mi si mosse dentro, non ero mai stato ricco, non avevo mai avuto una casa, ma ero sempre stato bene. Abbandonare la vita del mare, la vita dell’avventura e delle scorrerie, mi sembrava quasi un sacrilegio…” alzò gli occhi stanchi verso Israele, il vecchio, e sorrise “Tu sai di cosa parlo, vero?”

“Lo so vecchio, anche io sono, ora, com’eri tu un tempo, o almeno in parte… ma ti prego vecchio, continua la storia, voglio sentire la fine prima che il mio dovere di ladro di cavalli mi sottragga al tuo parlare”

“Beh vedi… io ero davvero tanto innamorato di quella schiava bianca dagli occhi verdi e così decisi di dedicare il resto della mia vita a lei. Liberai le altre schiave che avevo e poi rubai barca e provviste e partimmo per l’Italia. Durante il viaggio parlavamo poco, ma lei mi leggeva Esopo ogni sera e io ascoltavo.

‘Quando saremo ricchi mi insegnerai a leggere?’ le avevo chiesto una volta, non ci avevo mai pensato prima, di poter imparare a leggere, ma ora sì ci pensavo, e lei mi aveva risposto che ci avrebbe provato.

Solo che tutto è cambiato il giorno che siamo sbarcati.

Si mise a parlare in questa lingua che io non conoscevo con delle persone che vedendoci arrivare dal mare in una barca così piccola erano scese sulla spiaggia; poi, dopo che ebbe parlato con loro mi disse di seguirla e io la seguii. Mi portò dal podestà, che allora era giovane, anche se più vecchio di me, e mi spiegò che era suo padre. Volevo chiedergli di sposare sua figlia e stavo pensando a un modo, siccome non sapevo la lingua, quando la ragazza mi disse che il podestà voleva sapere come mi chiamassi, glielo dissi… è passato così tanto tempo che ormai non mi ricordo più neanch’io quale fosse il mio vero nome… il podestà si mise a ridere, credo che fosse per il fatto che a lui i nomi turchi suonassero strani, e così decise di chiamarmi Ettore, la storia dell’Iliade me l’hanno spiegata dopo. Io non capivo perché mi chiamassero con un nome diverso che sceglievano loro, e guardai la ragazza per chiederle spiegazioni… e vuoi sapere cosa mi ha detto la ragazza, quando l’ho guardata? Mi ha detto ‘Üzgünüm’: ‘Mi dispiace’, e poi se n’è andata via. E allora ho capito che non l’avrei sposata e che ero diventato uno schiavo del podestà… questa è la mia storia, da allora non ho mai più lasciato questa terra. E quando sono diventato troppo vecchio per lavorare mi hanno lasciato qui, e ora sono solo, lontano dalla mia terra, dalla mia gente, e dal mare… soprattutto dal mare”.

Rimasero tutti e due per un po’ in silenzio nella notte “Bella storia, vecchio, è un po’ triste, più di altre che ho già sentito… mi dispiace”

“Non devi: è acqua passata, però mi fa bene parlarne con qualcuno di tanto in tanto… tu non fidarti mai delle donne, che sei ancora in tempo”

“Tranquillo: non corro questi rischi, io”

“Mai dire mai, ragazzo, mai dire mai”

Israele sorrise e guardò la luna bianca e luminosa “Ora vado vecchio, i cavalli del podestà mi aspettano. Glieli ruberò tutti, fino all’ultimo”

“Bravo, vai! Buona fortuna”

“Grazie vecchio, addio!”

“Voglio venire con te!” stava quasi per dire Ettore, ma si trattenne. Era troppo vecchio ormai, il suo tempo era finito e lo sapeva bene. Rimase solo, a fumare nella notte maledicendo dentro di sé il giorno in cui si era innamorato. Dopo un po’ gli parve quasi di udire uno scalpitare di zoccoli di cavallo in lontananza e sorrise ripensando a quel ragazzo che tanto assomigliava a lui quando era giovane.


LA MIA PATRIA

 

Quando sulla cima del monte

Tra i cinguettii e il frinire dei grilli

Mi alzo in piedi e contemplo

I verdi alberi e le cristalline acque

Del fiume e dei boschi sotto di me

Con lacrime di gioia negli occhi

E il cuore ricolmo di amore ed orgoglio

Prendo un respiro e poi urlo in silenzio

È questa l’unica patria che ho