Dim.ki - Poesie

+NIHIL MORTE CERTIUS (LE SETTE ERMETICHE NERE)+

 

PRIMA SOSPIROSA: ACCIDIA

 

 

NOTTE D’AGOSTO

 

 

Gocce di lacrime argentee, scendon sottili e silenziose in questa notte d’agosto, dipingendo la tela del cosmo, d’intrecci luminosi.

Veloci flutti lucenti dispersi tra astri pulsanti, latori di grandi speranze, si muovon leggiadri e danzanti, di ogni infelice un segreto tesor.

Si unisce l’intero Universo, al mio ferale lutto, senza una morte vera, nell’illusione ardente di chi lontano sospira e spera.

Sento l’abbraccio del cielo, dar sollievo alla mia disperazione, caricando quei corpi fugaci, d’ogni pena e desolazione.

Scenario palpitante di luci sfavillanti, tra cori di pianeti erranti, che ascoltando uniti i miei pianti, cercan di rallegrarmi i marosi del cuor.

Scivola un astro festale, dalla chioma di un biondo spettrale, come strale di Eros immortale, che asperge il creato di amor.

Oh vorrei catturare voi belle, e con voi cavalcar tra le stelle, fino a far consumar questa pelle, per svanir come sogno al chiaror.


SECONDA TENEBROSA: AVARIZIA

 

 

VERSI DI SPASMI

 

 

Prono languisco fra le alte canopee d’una chiostra d’annose sterili ossessioni, ad orbe ordinate a corteo sulla mia monotona necropoli di affastellate solitudini. Tiepido scalpita un alito passivo permeato da confuso refrigerio, stame dell’istinto pernicioso che svela un drudo desiderio.

 

Stride il calamo.

 

Libando contemplo il riflesso degli urbani squallori, all’occaso anchilosarsi nei torchiati lazzi afrori; epitome d’una storia conclusa tra i rifiuti, Geenna coeva di pezzi difettosi incompiuti.

 

Eloquente è l’odio dell’illibate labbra, nell’inerzia non mosse a facondia da sommessa rabbia; stormisce i cipressi la serotina brezza, invidiosa del rantolo libetrico che m’accarezza.

 

Postulante è la bolsa sguarnita Speranza, una femmina gramagliata scorsa diuturna in lontananza; inane è l’urto della nobile ribellione, se poi inspira l’inferiore magnetica involuzione.

 

Sapore di livide fiamme d’essenza trafitta, cui passione stiletta l’esistenza irrimediabilmente afflitta; turbe di pensieri grevi ed egri, sobillano impietosi dialoghi di voleri più severi.

 

Suggestione curiosa desta questa patina d’orgoglio, che selettiva cerne dal redimito cordoglio; sottili psichedeliche segrete gravitazioni nell’acrimonia, fralezze emotive di rime agognate con melodia.

 

Tace il calamo.

 

Si risveglia da oriente screziata l’aurora, bellamente sfumando tutta l’etra di rosa; esiliata è l’illune notte a dormire, meco l’insonne poeta torna casto a patire.



TERZA GLORIOSA: GOLA

 

 

NIHIL MORTE CERTIUS

 

 

Di prische ossa tu sei rivestita, secluso vestimento uguale ad ogni vita, belle o brutte che sian le membra, golosa rapisci senza far differenza.

 

Baci la fronte di ogni mortale, inattesa intervieni a colmare o privare, non indugi alla selva di preci implorare, a tutte le età scendi all’ora fatale.

 

Guerre ed ospedali son tuoi campi prediali, d’infanti e gioventù fai lacrimar ai funerali, sorbendo il tuo petto dell’aure vitali, pasci burrasche di promiscue stragi.

 

Frullana affilata adergi potente, la scagli veloce sicuro fendente, successi e insuccessi finiscon per sempre, di tutti quei corpi sepolcri e più niente.

 

L’alme ghermite porti alla stadera, inizio finale per chi teme e spera, osservi oculata salire e cadere, color che in passato godean del piacere.

 

Sublime primigenia perdizione onnipotente, con pompa e mai sazia raccogli impaziente, atri sipari involan la mente, di ogni dolor sei angoscia clemente.

 

Nei fiotti del Sole ti odo passare, usmando zelante vai svelta a predare, urlando insistenze seguendo il tuo andare, trai vivi ansimando mi trovo a sudare.


QUARTA MEDITOSA: INVIDIA

 

 

ALL’OSSARIO

 

Guardingo me ne vado cogitando, camminando sotto un cerulo cielo d’inverno, fra acervi d’arricciate foglie aduste, vezzeggiate maldestramente dai refoli del Grecale, in ostaggio d’un abbacinante malumore.

Studio euristicamente i colori dell’aria, pantagruelico parco convito delle nude brume, per percepirne il nutrimento che stucca l’inedia, dell’esistenza che mi ha risecato dentro, ma che ora il miraggio d’un afflato risento.

Distrattamente m’accorgo sorpreso, di condividere lo spazio con altri uomini e donne, frazionando del pane prezioso che è il tempo, mendicando fidente sapidi sforzati sorrisi, di sconosciuti magagnati conosciuti in un bar.

L’obolo raccolto è poco, scansante gli equivoci d’una ierodulia fraudolenta, una giumella di monocordi discorsi e forbiti modi apparenti, che celano in fondo a quei corpi meschini dal vestire elegante, superbi istrionici caroselli di riposte pravità.

Deluso accorro all’ossario dei vati, una meta dovuta per animi ambasciati, dove spigolose cinta di crepato marmo dilavato, s’estendono marziali fra ultronei trastulli d’ombra di bigi nembi, rendendo quel luogo obliato da tutti incantato.

Tra quelle cupe vetuste mura diroccate, ricerco le vestigia dei sommi del passato, nell’acre profumo d’un giglio boccheggiante lasciato, che come mosto di passito oramai fermentato, inebria di speme quel presago lugubre star.

File ordinate di incliti nomi, riempiono il bieco solingo obelisco, contornato da verzura ingiallita ed edere spoglie, polito dagli evi e da infelici mani superstiziose, che qualcuno come cimelio volle toccar dall’uzzolo d’una benedizione.

Nella quiete assordante di voci interiori, invoco Voi munifici dispensatori d’auliche odi, perché io possa attinger dalle Vostre ossa inumate, quella possa creativa contesa tra la vita e la morte, che il poeta anela berciando nell’avello ridestare.


QUINTA VANITOSA: SUPERBIA

 

 

SOROR

 

Vi chi è in balia degli amori, vi chi è in balia dei dolori, ma io e te, restiam cuori soli.

Depressione, da cenobiti condividiam questo corpo mortale, come fausto talamo nuziale, figli morganatici d’una plaga conviviale. Tu, ributtante fiele che effluisci veemente, il sangue muti in Stige arzente, abbrivo d’un terrore incipiente.

Sorella. Della Atropo vuoi esser gemella, sempre a pugna istigando procella, adontando Lachesi dell’aspo lavoro, e la Cloto con concioni d’uggiosità.

Gitana. Sei regina della carovana, sui destini vai errando lontana, belluina precludi le genti, nei vagiti d’avite realtà.

Cortigiana. Guitta adorni la stessa collana, cui le perle contengon la letana, d’ogni sorta di pene e afflizioni, che paga inoculi di nera beltà.

Mondana. Ai frali t’inchini da dama, d’Afrodite n’eguagli la fama, e impetrando gli amanti insipienti, poi li edulcori della tua voluttà.

Sincera. Prava svelli le manse espressioni, irretendo d’orpelli le azioni, schietta porgi i sparuti doni, mai provando scaglie di pietà.

Aeda. D’elegiache odi fai scorte, le componi di strofe ritorte, gorgheggiando accompagni alle fosse, chi carpito dal timbro sarà.

Spontanea. Con la flemma trami le decisioni, nel propor le miglior soluzioni, vellicando quell’ime emozioni, di chi brama questo mondo lasciar.


SESTA TORMENTOSA: IRA

 

 

INSOMNIA

 

 

Avviluppato in una coperta di notte, tra sgualcite cortine di tenebre sorde, attendo rassegnato un spiraglio di bagliore, araldo foriero dell’albore vicino.

 

Sfuggono granulose le lagrime del tempo, dalla clessidra riposta su ogni umano lamento, come un padre gemente al capezzale vegliare, il morituro figliolo nell’imminente trapassare.

 

Desultori pensieri s’alternan ansiosamente, fra gli stenici piaceri dell’arcano latente, nel tramestio perpetuo di passi agitati, del demone vegliardo che pungola lacchè.

 

Ruggisce tagliente il vento del rimorso, riesumando quella coccia a cui dar vita non posso, modellando gli avanzi di ciò che rimane, del sentimento che elice l’alma col lacerare.

 

Aleggiando nell’ebrezza dei ricordi sepolti, incensate immagini d’attimi allegri trascorsi, m’aggrappo accorato ai momenti più forti, nei vissuti nostalgici di ludiche serenità.

 

Non trovando conforto nei miraggi passati, oramai sbiaditi dai candeggi dei pianti, giacendo tremulo sull’ara dell’oblio, immolando me stesso m’avvio all’addio.


SETTIMA VOLUTTUOSA: LUSSURIA

 

 

LA BALLERINA

 

 

Carni toniche oscillano indomite agitate dal forte clangore del suono, d’un moderno tamburo che abile evoca l’atro rugliare del tuono.

Sopra un cippo di ferro ossidato e alla base imbrattato vi arrocca la donna, muove a tempo la menade danza estasiando l’invito con la minigonna.

 

Osteggiando una diafana pelle la flava creatura si strema annaspando, fra gli euforici olezzi agrumati lo spazio contiguo va lieve impregnando.

Solo un nastro bovino piliere tutela la vista del florido seno, e le amazzoni cosce di reti marine son cinte da intrico ameno.

 

Dionisiache isteriche mosse esegue flessuosa su quel Citerone, reclamando a Tersicore musa di esser baciata da nuova attrazione.

Lei conturba la foga Tebana d’impudiche mani e losche intenzioni, eccitata da occhi allenati a sfamar gli appetiti dell’abominazioni.

 

Nello sciame dei lampi cangianti di fari accecanti m’aggiro invadente, io di Core son satiro nunzio il cui rito proibito osserva ingaudente.

La fanciulla dai zaffiri iridi s’occulta repente a ventaglio cipiglio, quando scorge il mio volto d’oplite affrancato guerriero di lei puntiglio.

 

Coagulato ho il suo ego specioso titillando virtuoso quel lascivo desiderio, per non essere stato ghermito dal funebre desco di Penteo deleterio.

Storce il labbro inferiore di scarlatto colore con una smorfia di cupa mestizia, mentre callido intono la querula rima che di Dice vindice nequizia:

 

Verrà ignoto il severo silenzio in cui mollemente giacerai ferma e dura, ove ciurme mostruose di edaci vermi balleran sulla tua sepoltura.

Sdilinquita una mano dagli anni imbibita dai pianti lascerà cristallina, una viola stillante dolore dalle strilla imperiose per la mia ballerina.

 

+NIHIL MORTE CERTIUS+


PROPOSITI TENAX

 

Chronos, ottimo Padre, allevatore e corruttore di tutte le cose, so che non posso arrestarti. A te vado tributando le estreme testimonianze d’affetto mentre il corpo cresce vivacemente adagio, ma tu ghiotto dei resti di un misero banchetto, con rapidità lo dissolvi. Mi lasci segnarti nel computo dei giorni, mi lasci sfogliarti nelle tane del remoto passato, mi lasci traghettare dalle recondite fitte emozioni, mi lasci guardarti trasformare le ampiezze dello spazio destinato, mi lasci impotente infiacchire la memoria nella prossima soglia alla senescenza, ma ciò che posso non lasciarti superare in virtù, tiranno severo, è farti attendere senza indulgenza quell’orizzonte, il giorno che imparerò a volare, non acciuffato da te, allora sarai tu a invecchiare e io padrone di me…no, non lo farò, il senso del limite pondererò…non taglierò, non premerò, non salterò, non legherò, non inghiottirò, non stringerò, non brucerò…non piangerò, sì, respirerò fintanto che così sarò, ci proverò…Sarà mai troppo tardi? Sento premente l’orrore della voce del risveglio dar permesso all’azione, con parole rudi e inesperte, grandinando accuse, quando oramai il pendolo dalle ore s’è svuotato, volgendo lo sguardo penoso a ciò che di me è più basso, or son alto. No, non lo farò, non procomberò, purché la vita mi basti a placar i gemiti delle sventure che colpiscono acerbamente.

“Naturam expelles furca tamen usque recurret” ( Quinto Orazio Flacco)


VOLONTA’

 

Chiunque a te sconosciuto, si prodiga nel prestarti aiuto, lo fa solo per se stesso, carpendo l’infrangibile immortalità, in un tristo rituale. Diffida dai palmi aperti e dai sorrisi marmorei. Scantona l’abbaglio che un tuo simile possa dirimere gli affanni, senza la tua Volontà. Non essere più crudele del mare teco medesimo: puoi fare i peripli del mondo intero, vagheggiando dalla coffa, ma sempre sulla stessa sostanza increspata dalle onde, lontano da fidate prode, squassato e incerto, diuturno la scinderai ansito.


PIANTO

 

I fulgidi occhi, imperlati di sale, sono basse cateratte, disadatte a contenere, la cui tiepida alluvione, ingravidando il volto, sommuove dal fondo, nuovi giorni natali.