Domenico Intini - Poesie

Un po’ di pane e mortadella

Quell’inverno era stato particolarmente freddo. La neve, abbondante, aveva ricoperto i campi per molti giorni. Le gelate avevano portato via le speranze di un’annata migliore. Si prospettavano giorni di sacrifici. La gente non si era ancora ripresa dalla triste annata di due anni prima, il terribile inverno del ’56, ed ora si preparava ad affrontare un’annata forse peggiore. C’era fermento in paese. I signori si lamentavano per i prevedibili scarsi raccolti. E che lamenti! Ma loro già sapevano come ridurre le perdite! “Ma questi disgraziati non ci costano troppo? L’anno scorso sono arrivati a chiedere 420 lire al giorno per la mietitura, 380 per la raccolta dei pomodori e 450 lire, avete compreso bene, 450 lire per la vendemmia! Ma siamo pazzi? E chi ci ripaga per i danni delle gelate? Di questo passo andremo sotto sopra. Io non ce la faccio più. Voi altri fate come volete. Io gli riduco la paga. Facessero pure la rivoluzione. I braccianti me li vado a prendere altrove e sapete benissimo che li trovo.” A pronunciare queste parole nei locali del circolo, era stato don Antonio,livido dalla rabbia. Don Antonio era il maggior proprietario terriero del paese, aveva due frantoi, due mulini, un caseificio e molte stalle con centinaia di animali, a parte ettari ed ettari di terreno agricolo in tutta la provincia. Era convinto che gli altri se ne fottessero. Ma si sbagliava. Anche gli altri proprietari erano molto preoccupati. La preoccupazione era aumentata con i primi segnali di agitazione sociale che da qualche anno si stava manifestando sempre più chiaramente. Durante la festa patronale, l’anno precedente, c’era stata un’aperta contestazione da parte di una decina di braccianti. Mai in precedenza nel paese si era verificato qualcosa del genere.
Pasquale, un giovane bracciante, era stato uno dei più attivi. Sette figli e una moglie da sfamare non era certo una preoccupazione da poco. Lavorava come una bestia, ma solo quando gli veniva concesso di lavorare. L’anno prima, con il figlio malato da curare, aveva dovuto abbassare la testa ed accettare, nel periodo della mietitura, 390 lire al giorno più un chilo di farina. Almeno quella santa donna della moglie poteva fare il pane! Un’altra volta lui e i suoi compagni, invece dei soldi, avevano dovuto accettare la legna da ardere. Almeno potevano scaldarsi nelle loro casette! Con gli “almeno!” tiravano avanti a fatica, ma Pasquale mal digeriva questa situazione. L’ultima gelata di quell’orrendo inverno aveva accresciuto in lui e negli altri la determinazione a non cedere più, a pretendere il giusto. Ne aveva parlato molte volte con il Parroco, Don Nicola, che pure era un buon uomo. Ma più che parole di comprensione, insieme a qualche santino per i figli, aveva ricevuto solo esortazioni: “Prega, pregate! Vi farà bene!”. Ma le preghiere non erano sufficienti a togliere la fame a quei lupetti dei suoi figli. Quattro già andavano a scuola. E che sacrifici! Sperava che almeno uno di loro riuscisse a prendere la licenza di scuola media! Chissà?
Pasquale si era dovuto fermare alla terza elementare. La moglie, Rosetta, che aveva sposato quando aveva appena sedici anni, a scuola non ci era nemmeno andata. Ma lui le aveva insegnato a fare almeno la firma!
Maggiore comprensione Pasquale l’aveva inaspettatamente ricevuta dal Maresciallo dei Carabinieri. Un giovane Maresciallo, da un paio di anni nominato Comandante della locale Stazione, dove prestavano servizio anche un Brigadiere siciliano e alcuni carabinieri. Un giorno, non era ancora spuntata l’alba, mentre ad un lato della piazzetta aspettava insieme ad altri la “chiamata”, spuntarono all’improvviso le divise grigioverdi di un paio di carabinieri che procedettero ad un controllo. Volevano sapere chi gestiva le “chiamate”. Quando Pasquale fece per dire: “Ma fateci lavorare! Dobbiamo mangiare pure noi!”, gli chiesero i documenti. Lui non li aveva. Così lo portarono in caserma per l’identificazione. Qui incontrò il Maresciallo. Erano le sei di mattina. Quel Maresciallo aveva gli occhi di ghiaccio. Ma il cuore doveva essere buono perché appena fu introdotto da un carabiniere nel suo ufficio, gli disse di sedersi e gli chiese se voleva un caffè. Pasquale, strabiliato, rimase senza parole. Erano almeno due anni che non beveva un caffè! Non riusciva a dire né sì né no. Allora il Maresciallo, avvicinandosi ad una porta del suo ufficio, ad alta voce disse a qualcuno che doveva essere dall’altro lato della porta: “Titina, ci prepari per favore un paio di caffè?” Titina, come poi Pasquale ebbe modo di sapere, era la moglie del Maresciallo, che abitava nell’alloggio adiacente all’ufficio. Mentre la signora Titina preparava il caffè, il Maresciallo cominciò a dire che lui provava tanta pena per le condizioni dei braccianti e che stavano indagando per individuare quelli che li sfruttavano, ma ci volevano le prove! Disse che anche lui era figlio di un contadino, come peraltro la maggior parte dei suoi carabinieri. Il Maresciallo ancora non procedeva alla sua identificazione. Pasquale era sempre più sbalordito. Arrivò il caffè. Si misero a chiacchierare del raccolto, del modo di cogliere le olive, delle conseguenze delle gelate. Dopo un’oretta il Maresciallo gli disse: “Pasquale non ho bisogno di identificarti. So tutto di te. Puoi pure andare. Ti voglio dire solo una cosa. Tieni bene a mente le mie parole! Non perdere mai la tua dignità di uomo e abbi cura di te stesso e della tua famiglia”.
Pasquale avvertì una sorta di sentimento di amicizia e fiducia nei confronti di quel giovane Maresciallo, figlio di un contadino. Pasquale avrebbe tanto voluto ricambiare quel dolce caffè, quanto mai gradito, ma non aveva né la possibilità economica di farlo, né tanto meno il coraggio di avvicinarsi al Maresciallo per offrirglielo.
Con quell’inverno, così tremendo, il raccolto si prospettava incerto. Ed incerte si prospettavano anche le speranze di lavoro di tanti disperati. Quando arrivò il tempo della mietitura e della raccolta dei pomodori i timori si trasformarono in realtà. I signori, sobillati da don Antonio, avevano stabilito compensi da fame. Una vergogna! Pur di fronte a questi miseri compensi, avevano tutti dovuto ancora una volta abbassare la testa. Ma la misura fu colma quando si sparse la voce che Don Antonio e i suoi compari avevano deciso di abbassare ulteriormente i compensi minacciando di procurarsi altrove i braccianti se quelli del posto avessero fatto problemi.
La notizia si diffuse in un baleno e la rabbia montò tra i braccianti. Tranne pochissimi, nessuno si presentò alle “chiamate”.
Una mattina, ormai era novembre inoltrato, si ritrovarono tutti in piazza, vicino alla fontana. Stava per spuntare l’alba. Faceva un gran freddo e soffiava un forte vento di tramontana. Pasquale propose di scendere tutti giù alla statale e di bloccare uno degli accessi che portava al frantoio di don Antonio. L’adesione fu unanime. A passo svelto raggiunsero il punto prestabilito. Con un carro bloccarono la stradina che portava al frantoio e con delle cassette e delle grosse pietre ostruirono anche parte della carreggiata della statale.
Don Antonio fu subito informato dai suoi sorveglianti. Mai era successa una cosa simile! “E’ la rivoluzione!” fu sentito gridare. La notizia si sparse immediatamente. I signori cominciarono a tremare per le loro proprietà. “Chiamate i carabinieri!” urlava don Antonio. In realtà il Maresciallo era già stato informato che qualcosa di strano stava avvenendo. Con il Brigadiere e i pochi carabinieri a disposizione, si recò sul posto dove ricevette il supporto dell’unica guardia municipale del paese. I dimostranti avevano acceso dei fuochi anche con l’intento di scaldarsi. Ma minacciavano di bloccare la statale e di occupare il frantoio. Il Maresciallo capì subito che a guidare la rivolta era Pasquale. Lo chiamò a gran voce. Pasquale, molto lentamente, si mosse verso di lui. Quando furono a un metro di distanza, guardandolo fisso negli occhi, disse: “Marescià, voi siete una brava persona. Non vi debbo dire nulla che già non sapete. Ma voi stesso un giorno mi diceste: non perdere mai la tua dignità di uomo e abbi cura di te stesso e della tua famiglia. Marescià, i signori ci hanno portato alla fame e ci vogliono togliere pure la dignità! Non possono calpestare la nostra dignità. I nostri figli hanno diritto a vivere!”. Dopo aver pronunciato con le lacrime agli occhi queste parole, senza aggiungere altro, tornò dai suoi compagni.
Il Maresciallo, con la pena nel cuore, lasciati i suoi carabinieri sul margine della statale per evitare che fosse completamente bloccata, si mise subito in contatto con il Sindaco e con i superiori del capoluogo. Intanto i signori a gran voce pretendevano che fosse ristabilita la legalità. La situazione si stava facendo difficile. I dimostranti, per bocca di Pasquale, avevano dichiarato che in mancanza di condizioni di lavoro più dignitose avrebbero continuato la loro protesta. Minacciavano addirittura di dar fuoco al frantoio.
Dal capoluogo fu preannunciato l’arrivo di cinquanta carabinieri per reprimere ogni tentativo di rivolta. Ma il Maresciallo era ben consapevole che non era quella la soluzione. Si incontrò con Don Nicola, il Parroco, e con il Sindaco. Propose loro di parlare con Don Antonio e con qualche altro proprietario allo scopo di avviare un dialogo risolutivo con i dimostranti. Ma Don Antonio fu irremovibile! Prima doveva essere ripristinata la legalità!
La protesta ormai andava avanti da qualche giorno. La situazione nelle povere case dei braccianti si stava facendo davvero brutta. Arrivarono pure i cinquanta carabinieri di rinforzo, la qual cosa destò molta impressione. Mai si erano visti tanti carabinieri in paese! Le donne dei braccianti piangevano per i loro mariti.
Fu allora che il Maresciallo prese la decisione di parlare a tu per tu con Don Antonio. Lo convocò in caserma e gli disse: “ Don Antonio, io sono qui per far rispettare la legge. Questo è il mio dovere. Ma far rispettare la legge è anche evitare le “chiamate“ giornaliere con le quali voi e gli altri proprietari calpestate la dignità di tanta povera gente con paghe da fame. Conosciamo benissimo questa sconcezza! E ve lo dice il figlio di un contadino mandato qui con altri figli di contadini, a far rispettare la legge. Don Antonio, parliamoci chiaramente, se i braccianti stanno sbagliando anche voi e i vostri amici state sbagliando. Io non sono tenuto a dire nient’altro. Vi dico soltanto che applicherò la legge nei confronti di TUTTI! Io al momento ho deciso di non utilizzare i carabinieri inviati di rinforzo. Mi bastano i miei. Ma voi datemi la parola d’onore che con i vostri amici troverete il modo di trovare una soluzione dignitosa per quei poveri disgraziati. Solo così sarà ripristinata la legalità!”.
Don Antonio rimase fortemente scosso da quelle parole. Mai nessuno gli aveva parlato così! Guardò dritto negli occhi il Maresciallo, gli strinse la mano quasi a suggellare un contratto. In silenzio uscì dalla caserma.
L’incontro di don Antonio con gli altri proprietari nei locali del circolo fu tempestoso. Volarono parole grosse. Ma don Antonio fu irremovibile. Sentiva di aver suggellato con il Maresciallo dei Carabinieri una sorta di patto con quella stretta di mano. Ne andava del suo onore. Esercitò tutta la sua autorevolezza e convinse tutti ad andare incontro alle richieste dei braccianti.
Ben presto la notizia che i signori avevano ceduto, si sparse per tutto il paese. Anche i dimostranti ne furono informati. Ma troppe promesse erano state rimangiate negli anni! Troppe parole a vuoto prima delle elezioni! I braccianti, per bocca di Pasquale dissero che non credevano a quelle promesse. E decisero di continuare la protesta, semmai anche in maniera più determinata. I signori, su tutte le furie, rinfacciarono a Don Antonio il suo buonismo. Il rappresentante del prefetto, deciso a risolvere la questione. comunicò al Maresciallo di tenersi pronto all’uso della forza per far sgomberare l’area occupata, con il concorso dei carabinieri inviati di rinforzo. Il Maresciallo chiese che si evitasse lo scontro. La popolazione era impaurita. Con il buio il gelo scese dappertutto, anche nei cuori. Ci si preparava ad un’altra notte di freddo, di rabbia, di paura. Il Maresciallo ottenne che per quella notte fosse evitata la carica dei dimostranti. Rimase con il Brigadiere e cinque carabinieri sul ciglio della statale per evitare che fosse ostruita completamente. Da una parte i carabinieri, dall’altra i braccianti. Contadini e figli di contadini, da una parte e dall’altra. I braccianti per scaldarsi, avevano acceso dei falò. I carabinieri, ormai sul posto da ore, stremati dal freddo gelido, battevano i piedi sul terreno ghiacciato per riscaldarsi. Il Maresciallo, per tenerli su, aveva comprato delle pagnotte di pane e della mortadella che i carabinieri cominciarono a sbocconcellare. Ad un certo punto dalla parte dei braccianti si udì chiara una voce: “Marescià, avvicinateve. Fa fridd. Nu bicchiere e vino”.
Il Maresciallo riconobbe la voce di Pasquale e rispose “Pasquale, da qui non ci possiamo muovere. Io e i miei carabinieri ringraziamo te e i tuoi compagni. Bevete pure il vino alla vostra e alla nostra salute. Anzi, accompagnatelo con un po’ di pane e mortadella che stiamo mangiando anche noi. Avvicinati così posso dartelo. Non ti preoccupare. Noi siamo qui per garantire il rispetto della legge da parte di tutti. Don Antonio mi ha dato la sua parola. E tu e tutti i tuoi compagni mi dovete credere”.
A queste parole, Pasquale si avvicinò ai carabinieri. Il Maresciallo gli tese una busta con dentro un po’ di pane e mortadella. Si guardarono negli occhi. Pasquale prese la busta e tese la mano destra al Maresciallo. Fu una stretta di mano lunga, vigorosa e sincera. Pasquale tornò dai suoi. Nella notte illuminata dai falò si sentì dapprima un concitato vocio e poi un fragoroso: “Alla salute vostra e dei vostri carabinieri, Marescià!”.
D’improvviso si spensero i fuochi, fu rimosso il carro che bloccava l’ingresso al frantoio, furono rimosse le cassette e le pietre che ostruivano parte della carreggiata della statale. Braccianti agricoli e braccianti in divisa, mescolati tra di loro, presero la strada per tornare casa. In quella notte così gelida le lacrime di tante donne furono asciugate dal caldo soffio del vento dell’amore.

 

 

 

Il ciabattino
(Ciabattino per caso)

Il ciabattino, in dialetto napoletano, “o’ solachianiello”, è una figura ormai in via di estinzione. Ne ricordo uno, a Napoli. Lavorava in un piccolo locale, permeato da un intenso odore di cuoio. Seduto su una seggiola sbilenca, macinava scarpe su scarpe. E sì, perché un tempo le scarpe si riparavano, più volte, fino alla consunzione. Con i chiodini tra le labbra, martellava le suole, ritagliava il cuoio, stendeva con cura la colla, gradevolmente puzzolente. Guardava con amore le scarpe, quasi fossero sue creature. Qualche volta c’era con lui un ragazzo, forse il figlio …
Tempo fa, mi son trovato a scambiare quattro chiacchiere con un amico proprio nei pressi di quella che era stata la bottega del ciabattino. La vecchia porta d’ingresso non c’era più. Al suo posto un elegante portoncino.
Il mio pensiero, però, superò quella barriera e mi parve di rivedere, per un istante, il ciabattino, con i chiodini tra le labbra, alle prese con le sue “creature”.
Rimasi pensieroso e, all’amico che mi scrutava perplesso, parlai del ricordo che avevo del ciabattino. Mi guardò sorridendo e disse: “Stai parlando di Don Peppino. Tutti nel quartiere lo ricordiamo ancora con affetto. Sai quante scarpe gli debbono la vita? Se ne è andato qualche anno fa”, continuò il mio amico “ ma quando è morto non faceva più il ciabattino. Si era ritirato, mantenendo fede ad un giuramento fatto anni prima a se stesso”. A questo punto la mia curiosità dovette evidenziarsi tutta, tant’è che l’amico disse “Prendiamoci un caffè, così ti racconto la storia di Don Peppino”.
Ci sedemmo ad un tavolino di un vicino bar, e … “Devi sapere che Don Peppino era sì un ciabattino, ma diciamo la verità, un ciabattino per caso. O meglio, non si sarebbe mai sognato di fare

il ciabattino, ma certe volte la vita …
Don Peppino apparteneva ad una famiglia della borghesia napoletana, non ricca, ma benestante. Il padre, Don Luca, era un brillante e stimato avvocato. La madre, Donna Ines, di origini nobili, era laureata in storia e filosofia. Però non aveva mai insegnato. Aveva preferito dedicarsi ai tre figli, Anna, Ida e Giuseppe, al marito e alla vita di società.
Abitavano in un elegante appartamento, poco distante da qui. Alcune stanze erano utilizzate come studio da Don Luca.
Don Luca e Donna Ines si sposarono a gennaio del 1914. A marzo del 1915, nacque la primogenita, Anna. Allo scoppio della guerra Don Luca riuscì ad evitare l’impiego in prima linea partecipando, per così dire, al conflitto per circa due anni, seduto dietro ad una scrivania del Ministero della Guerra a Roma. Congedato alla fine del 1917, tornò a Napoli, dove riprese ad esercitare la sua professione.
L’attività professionale andava a gonfie vele. La vita familiare fu allietata, a luglio del 1919, dalla nascita di Ida. Giuseppe, il futuro Don Peppino, terzogenito, nacque ai primi di ottobre del 1922.
Né la vita familiare né quella professionale furono intaccate dagli sconvolgimenti politici dell’epoca. Don Luca, anzi, ne trasse abbondante frutto dopo aver da subito aderito al partito fascista.
Giuseppe, dopo le elementari e le medie, a quattordici anni fu iscritto in IV ginnasio al prestigioso Liceo Umberto I. Don Luca ne voleva fare un brillante avvocato e, a suo giudizio, quella era la strada giusta.
Allo scoppio della guerra, Don Luca e la famiglia, come tutti, si trovarono ad affrontare i disagi dei bombardamenti, sempre più frequenti.

Don Luca avrebbe voluto trasferire al più presto la famiglia in un paese del Sannio dove un suo cliente gli aveva offerto una sistemazione certamente più sicura. Ma a luglio del 1941 Giuseppe avrebbe dovuto sostenere gli esami di maturità; perciò, d’accordo con la moglie, decise di procrastinare la partenza subito dopo gli esami. Nonostante le bombe, Giuseppe riuscì a conseguire il diploma con la media del nove. Ai primi di agosto partirono per il paesello, dove per un po’ dimenticarono le angosce della guerra. Almeno in parte, perché Don Luca era costretto a periodiche, faticose trasferte a Napoli.
Le notizie provenienti dalla città non erano delle migliori. A novembre il ragazzo fu iscritto all’Università, neanche a dirlo alla facoltà di Giurisprudenza, ma, stante la situazione, fu deciso che per il momento non avrebbe frequentato.
Grazie all’iscrizione all’Università fu esonerato dalla leva militare, con grande gioia in famiglia. Alla fine del‘42 Giuseppe, benché iscritto al 2° anno, non aveva sostenuto nemmeno un esame. Il nuovo anno, il 1943, si presentò in maniera peggiore del precedente. Oltre tutto, Don Luca ormai riusciva a raggiungere la famiglia a stento una volta al mese.
Un giorno Don Luca non fece ritorno dai suoi. Ai primi di novembre – Don Luca non dava più notizie di sé da oltre due mesi – Donna Ines venne a sapere che, verso la fine di settembre, a Napoli c’era stata una rivolta. I tedeschi erano stati cacciati e molti fascisti catturati. Donna Ines, preoccupata, decise di rientrare a Napoli. Non fu facile, ma dietro esborso di una discreta sommetta, riuscì nell’intento. Con una vecchia Lancia presa a noleggio raggiunsero Napoli in circa otto ore. All’arrivo, con grande gioia e sorpresa, trovarono la loro casa praticamente intatta. Ma di Don Luca nessuna traccia. Dai vicini solo confuse indicazioni.

Qualcuno diceva che era andato via insieme ai tedeschi. Altri parlavano di uomini armati che lo avevano portato via a forza. Un giorno bussò alla porta di casa Michele, un ciabattino che lavorava in una piccola bottega in una traversa vicina. Donna Ines lo fece entrare e Michele, molto turbato, tra le lacrime, le disse che il marito, durante i giorni della rivolta, una mattina era stato prelevato a forza da casa da alcuni uomini armati. Nascosto dietro un portone, dallo spioncino aveva visto Don Luca divincolarsi e scappare verso un blindato tedesco fermo lungo la strada. Stranamente i tedeschi lo avevano fatto salire. Era seguito un breve conflitto a fuoco. Poi sparì il blindato e sparirono gli uomini che avevano cercato di catturare Don Luca. Da quel momento si era sparsa la voce che l’avvocato era fuggito con i tedeschi. Un’infamia!
Finita la guerra, di Don Luca non si ebbero mai più notizie. Nel frattempo, le disponibilità di Donna Ines si stavano esaurendo. Molti le avevano voltato le spalle; le figlie, lasciate dai rispettivi fidanzati, aiutavano facendo qualche lezione privata. L’università per Giuseppe rimase un sogno. Donna Ines fu costretta a vendere la loro bella casa, compresi i mobili d’antiquariato, i quadri e i libri del marito. Il tutto per una manciata di soldi. Quei pochi soldi, tuttavia, le permisero di prendere in affitto tre stanze, proprio sopra la bottega di Michele. La bella vita di qualche anno prima, ormai era solo un ricordo.
Donna Ines era molto depressa. Giuseppe sentiva ora tutto il carico della responsabilità sulle sue spalle. Fece il commesso in una libreria, lavorò perfino al mercato come scaricatore. Un giorno, mentre confidava le sue pene a Michele, si soffermò ad osservare con quanto amore il vecchio ciabattino trattava le scarpe che stava riparando. Fu come un colpo di fulmine.

Si innamorò di quel lavoro che oltre tutto avrebbe potuto offrirgli una pur minima possibilità di guadagno. Chiese perciò a Michele di poterlo aiutare. Il vecchio capì al volo e gli consentì di frequentare la bottega e di imparare il mestiere. Ogni tanto gli passava un centinaio di lire. Un giorno Giuseppe conobbe Luisa, una nipote di Michele. Era scesa in bottega a portare il pranzo al nonno. Una frittata di maccheroni. Michele ne diede una buona metà a Giuseppe. Un sorso di vino e di nuovo al lavoro.
Giuseppe quella notte sognò Luisa. Era perdutamente innamorato! Altro colpo di fulmine! Pochi mesi dopo erano felicemente sposati. Cerimonia in chiesa e pranzo a casa del nonno. Viaggio di nozze: una passeggiata fino a Santa Lucia. Il giorno dopo di nuovo al lavoro. Giuseppe era diventato proprio bravo. Ormai poteva considerarsi un ciabattino. Dopo un anno nacque Luca. Un bel maschietto, occhi e capelli e neri. Quando glielo fecero vedere (allora si partoriva in casa), Giuseppe giurò a se stesso che avrebbe smesso di fare il ciabattino il giorno in cui Luca si fosse realizzato nella vita.
Dopo qualche tempo, Michele decise di ritirarsi. Lasciò la bottega nelle mani di Giuseppe che ben presto guadagnò la fiducia dei clienti e, insieme alla fiducia, il titolo di “Don”. Tutti cominciarono a chiamarlo affettuosamente Don Peppino.
Donna Ines non riusciva ancora a darsi pace per il marito. Anna e Ida, rimaste zitelle, continuavano a dare lezioni private. La famiglia di Don Peppino crebbe ancora con la nascita di due belle gemelline, Ada e Lia.
Sveglio ed intelligente, a scuola Luca era il primo della classe. Superato alla grande l’esame di terza media, il padre lo iscrisse in IV ginnasio al Liceo Umberto I, il suo Liceo! Intanto Don Peppino continuava a prendersi cura delle sue creature, come chiamava le scarpe che gli portavano i clienti.

Scarpa dopo scarpa, chiodo dopo chiodo, suola dopo suola, la giornata di Don Peppino si svolgeva sempre allo stesso modo. Anche a casa. Dopo cena, si accomodava su una vecchia poltroncina e, dismessi i panni del ciabattino, leggeva qualche libro che aveva gelosamente conservato oppure un passo del Vangelo. L’indomani mattina era nuovamente pronto a rimediare agli oltraggi subiti dalle sue creature.
Quando Luca conseguì la maturità a pieni voti, l’iscrizione alla facoltà di Giurisprudenza fu quasi un atto dovuto. Il giovanotto si laureò in meno di quattro anni con 110 e lode e pubblicazione della tesi. Al momento della proclamazione al padre scappò una lacrima che a stento riuscì a nascondere.
Dopo la laurea, Luca subito si impegnò per preparare il concorso in magistratura, il suo obiettivo. Furono anni durissimi. Spesso scendeva in bottega per aiutare il padre. Le disponibilità economiche della famiglia erano più che modeste. Luisa, raggranellava qualche lira facendo la sartina. Nonostante gli acciacchi, il momento per Don Peppino di ritirarsi non era però ancora arrivato. Un giorno non aprì la bottega. La prima volta in tanti anni! Accompagnò il figlio a Roma dove Luca avrebbe sostenuto le prove scritte del concorso in Magistratura. Presero alloggio in una pensioncina. Durante le prove, che durarono tre giorni, Don Peppino rimaneva in trepida attesa.
Le prove scritte furono superate con successo. Seguirono mesi di duro studio in vista degli orali. Quindi nuova chiusura della bottega e nuova trasferta a Roma, questa volta di un solo giorno. Sostenuta la prova, si venne a sapere che l’esito sarebbe stato comunicato dopo una ventina di giorni, con lettera raccomandata. Già dopo due giorni Don Peppino era lì a chiedere notizie al postino.

Una mattina era sceso di buon’ora in bottega per una consegna urgente. All’improvviso si aprì la porta. Era Luca: “Papà, urlò a squarciagola, ABBIAMO vinto!” e così dicendo gli consegnò una lettera che avrebbero riletto ancora centomila volte: “Si comunica che la S.V., risultata vincitrice del concorso … è stata nominata UDITORE GIUDIZIARIO …”.
Don Peppino, commosso, abbracciò il figlio, si tolse il grembiule, uscì dalla bottega e, mantenendo fede al giuramento, abbassò per l’ultima volta la saracinesca. Fu lì che incrociai il suo sguardo, mentre con aria felice si avviava verso casa con il figlio”.
Terminammo l’ultimo caffè. Salutai il mio amico, lo ringraziai per la storia che mi aveva raccontato, ma non mi allontanai. Rimasi a fissare quello che era stato l’ingresso della bottega di Don Peppino. Ai miei occhi non appariva un moderno portoncino, ma una porta sgangherata con i vetri un po’ appannati e sporchi. E dietro quei vetri “nu solachianiello” seduto su una seggiola sbilenca, con i chiodini tra le labbra e “na creatura ppe mane”, una creatura lavorata con amore, da riportare a nuova vita. Ebbi la sensazione di incrociare, per un solo istante, il suo sguardo. Quanta dignità negli occhi di quel “ciabattino per caso”!

 

 

 

Gli occhi del gatto
La (IN)gratitudine

Quei giorni spensierati e felici della sua infanzia a Marco erano rimasti indelebilmente impressi nella memoria. La casa in campagna, le corse nei prati, i campi di grano, posto ideale per giocare a nascondino tra le bestemmie e le urla di Totore, il mezzadro. Una cosa però gli era rimasta particolarmente impressa. Un giorno d’una estate rovente, poteva avere sì e no sette anni, mentre scorrazzava in bicicletta, insieme alla sgangherata ciurma dei suoi compagni, lungo il sentiero che portava in cima alla collinetta, si accorse di un batuffolo pieno di sangue sotto un albero. Frenò, lasciò a terra la bicicletta e si avvicinò, un po’ incuriosito e un po’, anzi molto, tremante di paura. Era un gattino. Era evidente che stava proprio male. Perdeva sangue da una zampetta. Mentre lo raccoglieva da terra aveva avuto la percezione che il gattino lo guardasse con sguardo implorante e al tempo stesso di gratitudine. Guidando come un pazzo la bici con una sola mano, si precipitò a casa con il cuore a mille. Lo accolse il gelido sguardo di rimprovero della madre quando lo vide tutto sporco di sangue. Sul momento aveva pensato alle conseguenze delle pazze corse che il figlio faceva con la ciurma sconsiderata dei suoi compagni, dalla sera alla mattina. Lo sguardo di rimprovero della mamma si intenerì, tuttavia, non appena si avvide del gattino. Subito rinfrancato dalla comprensione della mamma, Marco, o meglio Marcolino, decise di prendersene cura. Ripulì e medicò il gattino insieme alla mamma. Si sentiva alle stelle. Sul momento decise, vai a capire il perché, di chiamarlo Ernesto. – Ernesto? – chiese la mamma – Ma che razza di nome è questo da affibbiare ad un gatto? – E giù a ridere. Cresceva Marcolino, cresceva anche Ernesto. Coccolato, vezzeggiato, anche troppo.

Marcolino era oltremodo fiero di aver salvato il gattino da sicura morte. Aveva parlato a scuola del suo gesto e la maestra lo aveva elogiato davanti a tutti i suoi compagni. Addirittura il suo gesto aveva offerto lo spunto alla maestra per un dibattito tra i bambini sul tema della solidarietà e della generosità verso i più deboli e gli indifesi.
Un giorno, sempre d’estate, mentre stava disteso all’ombra di un albero, fantasticando del più e del meno, accadde qualcosa di inesplicabile. Marcolino si accorse che il gatto, dopo un bel balzo da un muretto, si stava lanciando di corsa verso di lui. Sul momento pensò che stesse inseguendo un topino. In men che non si dica gli fu addosso, sul torace. Questa volta Ernesto non era cerimonioso, come al solito, ma aveva negli occhi un qualcosa di strano. Pensava che volesse giocare. Ma, mentre stava per fargli, come sempre, una carezza, all’improvviso il gatto, con la zampa, lo graffiò profondamente sulla guancia. Incredulo ed impaurito al tempo stesso, Marcolino inconsapevolmente sentì la necessità di guardare fisso Ernesto, quasi sperando di intravedere nei suoi occhi un minimo segno di gratitudine per averlo a suo tempo salvato. Ma niente, gli occhi del gatto gli apparivano freddi ed inespressivi, quasi di ghiaccio. Un’altra zampata, più leggera questa volta, e via, per sempre. Con il volto pieno di sangue Marcolino corse a casa, piangendo più di rabbia che di dolore. Fu necessario portarlo al pronto soccorso. I graffi erano profondi. Gli rimase una brutta cicatrice sul volto, una cicatrice che lo avrebbe accompagnato per la vita. Anzi due, perché l’altra, la più profonda, gli era rimasta nel cuore.
I giorni che seguirono furono penosi, non tanto per i postumi dei graffi sul volto, quanto per i postumi dolorosissimi del

graffio al suo cuore. Un graffio inaspettato, reso ancora più straziante dalla rabbia e dalla incredulità, che nessun medicamento al mondo avrebbe mai potuto cicatrizzare. Fu allora che la mamma, di fronte a tanta pena, strinse a sé Marcolino e gli sussurrò alcune parole che lo avrebbero accompagnato per il resto della sua vita: “ Marco, tesoro mio, una volta che hai fatto del bene a qualcuno, uomo, gattino o cagnolino che sia, non importa, nel momento del tuo bisogno, se te lo dovessi trovare di fronte evita di guardarlo negli occhi sperando di percepire in quegli occhi il benché minimo segno di gratitudine nei tuoi confronti. Rimarresti mortalmente deluso.” Questo “messaggio” – come gli piaceva definirlo – materno gli rimase negli anni profondamente impresso. Non che peccasse di generosità, anzi! Da questo punto di vista aveva ereditato ben altri “messaggi” da mamma Tina e da papà Pietro. Ma quel “messaggio” aveva un ché di particolare e, per certi versi, di inquietante.
Trascorsero gli anni e il bimbetto divenne un uomo con tutto il suo bagaglio di giovanili successi ed insuccessi, amori anelati, baci profondi, schiaffi cocenti, vittorie, sconfitte, pianti e risate, la donna della vita! Dopo un normale percorso scolastico ed universitario, Marco, conseguita la laurea in giurisprudenza, riuscì a tuffarsi in tempi rapidi nel mondo del lavoro, non prima però di aver assolto agli obblighi verso la Patria, per quasi un anno, come ufficiale di complemento. Per motivi che non riuscì mai a spiegarsi, se non con l’illogicità della logica dei militari, fu assegnato ad un reparto corazzato. Anzi con i gradi ancora freschi di sottotenente fu chiamato a ricoprire addirittura l’incarico di capo di una squadra carri nel corso di un’operazione di peace

keeping condotta nell’inferno dei Balcani. Una esperienza che gli consentì di guardare in faccia la morte, le miserie umane, il panico di vecchi e bambini, il dolore ed il pianto di tantissime vedove sconsolate e spesso violate, la cupidigia e la codardia di tanti, incredibilmente frammiste con l’eroico impegno di quanti, pur tra mille difficoltà, cercavano di lenire tanto dolore, anche a costo della propria vita.
Congedato, per così dire, con onore, dopo una breve esperienza nel mondo delle assicurazioni, Marco approdò rapidamente alla dirigenza della polizia municipale della sua città, dopo aver superato uno spigoloso concorso, molto selettivo. Un concorso affrontato con mille dubbi e perplessità, considerata la sua non peregrina preoccupazione per la possibile concorrenza di candidati “supportati”. Vinto il concorso, si inserì molto bene nel nuovo ambiente lavorativo dove ebbe la fortuna di incontrare anche la donna della sua vita, Linda, una giovane assistente,tanto graziosa quanto timida. Marco in breve tempo riuscì a far breccia nel suo cuore e nel giro di due anni si ritrovarono felicemente sposati con la benedizione di mamma Tina. Certo, mancava loro qualcosa, o meglio qualcuno. Un bambino! Tanto atteso e sperato, tardava ad arrivare e non arrivò. Si decisero allora ad avviare la procedura per l’adozione. Nel frattempo, a parte il lavoro, dedicavano tantissimo tempo al volontariato.
Un bel giorno – era la vigilia di Natale – erano quasi le 17 e si stava apprestando a tornare a casa. Come da tradizione, ormai da più di dieci anni si sarebbero riuniti a cena con Don Paolo, il Parroco, ed una famiglia indigente della parrocchia. Il giorno successivo, con Linda, sarebbero invece andati in campagna da mamma Tina per trascorrere insieme il Natale.
Era ormai prossimo a lasciare l’ufficio, quando sentì bussare alla porta. Era Misericordia, o meglio l’agente Guazzetti. I colleghi lo chiamavano scherzosamente “Misericordia” perché quando era di pattuglia era il primo a portare immediato aiuto a chiunque percepiva fosse in difficoltà. Un pezzo d’uomo, cinque figli ed un altro in arrivo. Misericordia!
– Misericordia che c’è? chiese Marco. – Dottore – rispose l’agente – sotto il ponte di via Sisto abbiamo recuperato questo ragazzo. Non ha fatto nulla di male, ma è in condizioni pietose. Che facciamo? Domani è anche Natale -. Così dicendo, insieme al collega Malfatti sospinse letteralmente all’interno dell’ufficio un ragazzo di non più di venti anni.
– Dottore, guardi che non è fatto! E’ soltanto disperato. Dai documenti abbiamo accertato che si tratta di Valerio S., di Macerata. Che ci faccia qui sotto un ponte la sera della vigilia di Natale, in queste condizioni, è un mistero. Che facciamo? – Marco tornò a sedersi dietro la scrivania, chiese al giovane se voleva una bevanda calda che Misericordia portò in men che non si dica. Congedò, dopo averli ringraziati, Misericordia e Malfatti, quindi fece il giro della scrivania e si sedette vicino al ragazzo. Questi si sentì rassicurato, anche perché Marco gli disse che gli agenti non avevano fatto alcun rapporto, perché non aveva fatto nulla di male. Lo avevano solo tolto da una situazione che avevano ritenuto di disagio. Rinfrancato da queste parole, nonché da un fumante cappuccino, Valerio cominciò a parlare. Sembrava un fiume in piena, inarrestabile. Venti anni, figlio di un generale e allievo di una scuola militare, ne era stato espulso da circa quindici giorni per reiterate gravi violazioni al regolamento di disciplina. Gli piaceva tantissimo giocare a poker ed aveva

organizzato all’interno della sua cameretta, in accademia, una sorta di bisca, come l’avevano definita i suoi superiori. Alla fine dei conti, solo lui ed un altro collega avevano pagato per tutti. Espulso dall’accademia e tornato a casa, il padre, infuriato, lo aveva letteralmente preso a calci e cacciato da casa. Disperato, digiuno e senza un soldo, grazie a qualche passaggio era arrivato fin là, senza nemmeno avere la minima idea di dove stesse andando. Quando aveva visto la pattuglia si era spaventato, temendo che volessero arrestarlo.
Quella sera, alla cena della vigilia, a casa di Marco e Linda ci fu un ospite in più. Linda non ebbe bisogno di tante spiegazioni. Docciato e rivestito con pantaloni e maglione di Marco, Valerio fu fatto sedere accanto a Don Paolo. Fu una serata bellissima! Valerio, poiché era il più giovane della compagnia, fu incaricato di deporre nel piccolo presepe fatto da Marco la statuina del Bambinello. Commosso, Valerio pianse ed abbracciò tutti. Don Paolo, dopo ammiccamenti vari con Marco e Linda, si offrì di dare ospitalità a Valerio per qualche tempo in canonica. Avrebbe potuto sistemarsi in una cameretta. In cambio, se avesse voluto, Valerio avrebbe potuto dare una mano in Parrocchia. Gli ammiccamenti volevano semplicemente sottolineare il contemporaneo sostegno economico e morale offerto da Marco e Linda. Il giorno successivo era Natale. Valerio, con Marco e Linda furono ospiti di Mamma Tina, che ormai viveva da sola, dopo che papà Pietro li aveva prematuramente lasciati. La giornata era proprio bella e piacevolmente fredda. Il cielo era terso, d’un azzurro carico. Valerio finalmente tornava ad assaporare il gusto della vita. Rifiutò, tuttavia, di fare una telefonata d’auguri al padre ed alla madre, come invece suggerito da Marco.

Da quel momento cominciò una nuova vita per tutti, per Valerio innanzi tutto, ma anche per Marco e Linda. Tutte le sere Valerio era da loro a cena, qualche volta accompagnato da Don Paolo. Spesso tornavano a trovare Mamma Tina.
Una sera di gennaio, era ormai passato più di un anno da quel 24 dicembre, Valerio non si presentò a cena. Venne solo Don Paolo. Il Parroco disse che Valerio, uscendo, gli aveva presente che sarebbe rientrato tardi. La cosa si ripeté più volte. Don Paolo cominciò a preoccuparsi seriamente e con lui Marco e Linda. Il Parroco disse che Valerio, dopo aver svolto con cura gli incarichi di volta in volta assegnatigli, verso le 18,00, prima della messa vespertina, usciva senza dar alcuna spiegazione e faceva ritorno non prima delle due di notte. Però alle 7 del giorno successivo era già in azione! D’altra parte, le poche volte che ormai andava a cena, quasi non profferiva parola. La situazione si stava facendo insostenibile. Per un momento avevano tutti pensato ad un lavoro saltuario. Eventualità certamente possibile, ma tutta da verificare. Marco, fin dall’inizio dell’ospitalità offerta da Don Paolo, contribuiva con un versamento mensile di 400 euro, di cui 300 a Valerio ed il rimanente per le esigenze della Parrocchia. Quindi era ben possibile che Valerio avesse cercato qualche altro lavoro. Ma la cosa non convinceva nessuno. Oltre tutto Valerio appariva scostante e, sempre più spesso, qualche sua risposta rasentava la maleducazione. Don Paolo riferì, tra l’altro, che negli ultimi tempi, in più di un’occasione, gli aveva chiesto del denaro. L’ultima volta a fronte di una richiesta di ben 500 euro, Don Paolo gliene aveva dato 150 e lui l’aveva presa proprio male. Marco decise allora che era venuto il momento di approfondire la questione.

Con molta discrezione ed anche abusando non poco del suo incarico, fece seguire Valerio nei suoi spostamenti misteriosi. Ebbene, alle 18,00 in punto di quasi tutti i giorni Valerio usciva dalla canonica, percorreva a piedi due – trecento metri per poi salire a bordo di un’autovettura verde con targa svizzera guidata da uno sconosciuto. L’auto, verso le 18,20 si fermava immancabilmente al civico 20 di Piazza Tindari, dove veniva parcheggiata in area riservata a disabili. Ne scendevano Valerio e lo sconosciuto guidatore ed ambedue si infilavano in un portone. All’1,30 i due uscivano dal palazzo, entravano in auto e ripartivano. Poco prima delle due Valerio veniva lasciato nei pressi della canonica. Un mistero! A questo punto Marco, con gli elementi a disposizione, diede vita ad un’indagine più approfondita, riservandosi, se del caso, di interessare la Procura. Anche con l’aiuto di qualche confidente, gli fu immediatamente chiara la situazione. Valerio era entrato nel giro del gioco d’azzardo clandestino messo su da un giovane italiano residente a Chiasso, anch’egli ex allievo di una scuola militare italiana. Valerio era dunque ricaduto in quel vizio che aveva determinato la sua espulsione dall’Accademia. Sul momento Marco decise di non far nulla, ma di seguire gli eventi. Linda era spaventata, non riusciva a rendersi conto della decisione di Marco, che assolutamente non condivideva. Anche Don Paolo era molto spaventato, perché, oltre tutto, le richieste di denaro erano sempre più frequenti. Ma Marco aveva paura che denunciando quel giro di gioco clandestino, avrebbe perduto definitivamente Valerio. Sperava di recuperarlo. Anche se in realtà non sapeva come. Non aveva un progetto. Riuscire a parlare con Valerio era difficile.

Le poche volte che era con loro a cena, rimaneva pressoché muto, salvo a chiedere un “aiutino” nel momento di andar via. Finché una sera Don Paolo si presentò da Marco e Linda profondamente turbato. Mentre, come ormai era solito, Valerio era fuori, aveva scoperto sul suo comodino un biglietto con il quale un certo Fabrizio, nel rammentargli che i debiti di gioco vanno onorati, chiedeva a Valerio, senza mezzi termini 2.000 euro a stretto giro, altrimenti …. Di fronte a questa situazione, purtroppo paventata, Linda cominciò a singhiozzare. Don Paolo era furioso. Disse chiaramente a Marco che non poteva e non voleva più ospitare quel ragazzo. Ed era assolutamente fermo nella sua decisione. Il giorno seguente, durante la cena cui per puro caso partecipò anche Valerio, Marco gli disse che per problemi di ristrutturazione lo stanzino in canonica non era più disponibile e, pertanto, se avesse voluto, si sarebbe potuto trasferire da loro fin da subito. Valerio non batté ciglio, ringraziò Don Paolo e quella sera stessa, con le sue poche cose, si trasferì da Marco e Linda. Nei giorni che seguirono il comportamento e l’umore di Valerio non mutarono di molto. Marco e Linda cercavano in ogni modo di fargli capire la loro vicinanza. Ma lui si rinchiudeva sempre di più. Era evidente che qualcosa di molto preoccupante occupava la sua mente. Fu allora che Marco, senza dir nulla nemmeno a Linda, decise di prelevare dalla banca 2.000 euro in contanti. Natale era nuovamente vicino e lui intendeva fargli una sorpresa. Prelevato il denaro, lo mise in una busta che ebbe cura di celare tra alcuni incartamenti sulla scrivania del suo studiolo. Nel far questo, si avvide solo tardivamente che la porta dello studiolo era rimasta aperta. Ma non si curò in maniera significativa di questo particolare. Anzi, uscendo,

non la chiuse nemmeno a chiave. Era ormai tardi. Valerio, come al solito, non sarebbe tornato prima delle due, se non dopo. Raggiunse Linda a letto e si addormentò profondamente. Verso le tre di notte fu svegliato da alcuni rumori insoliti. Pensò che Valerio fosse rientrato. Ma di solito non faceva rumore. Senza svegliare Linda, si alzò, uscì silenziosamente dalla stanza e percorse tutto il corridoio senza accendere la luce. La stanza di Valerio era aperta, ma al buio. Dallo studiolo, invece, filtrava la luce di una torcia. Percepì il rumore di qualcosa che cadeva a terra seguito da una bestemmia. Sul momento pensò che qualcuno si fosse introdotto in casa per una rapina. Un po’ esitante, entrò nello studiolo. Non aveva con sé nemmeno la pistola d’ordinanza. Con grande sorpresa, vide distintamente la figura di Valerio vicino alla scrivania. Tutto intorno un grande disordine. Valerio stava rovistando tra le sue carte! Molto probabilmente quel ragazzo stava cercando di rubare quel che lui voleva invece donargli, gli venne da pensare. – Valerio! Ma cosa stai facendo? – Valerio chino sulla scrivania, si voltò di scatto e, sorpreso di vederlo afferrò con la mano destra un lungo coltello appoggiato sulla scrivania. Il terrore misto a rabbia si impossessò di Marco quando vide quel coltello improvvisamente rivolto verso di lui. Vistosi ormai perduto, incapace della benché minima reazione, istintivamente guardò fisso negli occhi Valerio cercando di intravedere in quegli occhi il benché minimo segno di gratitudine per quanto aveva da lui ricevuto. Ma quegli occhi erano inespressivi, di ghiaccio. Gli stessi occhi del gatto! Fu allora, in quell’ultimo istante di vita, che Marco rammentò il “messaggio” della madre. Rimase così, inesorabilmente e “mortalmente” deluso.

 

 

 

Solitudine

L’ orizzonte lontano,
irradiato dal sole calante,
la dolce carezza del vento,
lo sciabordio delle onde,
il richiamo d’un gabbiano,
un cane che corre.
Null’altro.
La spiaggia deserta,
silente mi fa compagnia.

 

 

 

Momenti

L’emozione
d’un momento
ormai lontano
nel tempo,
d’un tratto m’assale
a guisa
d’improvvisa folata
d’un vento impetuoso
che scuote,
violenta
il mio cuore.

 

 

 

Gli anni delle verdi colline

Verdi colline,
spighe dorate,
ramarri guizzanti,
lucertole,
passeri,
colombi,
piumati cardilli,
d’amore impazziti.

Urla felici,
richiami festosi,
scherzi feroci,
pianti infelici,
per baci sognati,
ben presto svaniti.

Giochi di bimbi
protesi alla vita,
verdi speranze,
aneliti,
sogni.
Acerbi pensieri,
futuri ricordi.

 

 

 

Lacrime

Gocce di pioggia?
No! Lacrime amare
di madri dolenti,
d’inermi fanciulli,
di vecchi ormai stanchi
per inutili orrori
spalmati di gloria,
ma intrisi d’un mare
di sangue innocente.

 

 

 

Di notte

La luna mi guarda
mentre affondo le dita
nell’umida sabbia.
Le stelle ricamano il cielo.
Il battito del mio cuore
s’alterna al pulsare
d’un faro lontano.

 

 

 

La finestra sul mare

Nel silenzio della notte
L’oscuro orizzonte
Asconde i miei sogni..
L’aurora è ancora lontana.
Mi è compagna la luna.

 

 

 

L’antico orologio

Il dolce rintocco
delle campane
dell’antico orologio,
che ha cullato, bambino,
i miei sogni,
tacitando ogni ansia,
scandendo momenti
di gioco e di gioia,
primi sussulti d’amori innocenti,
sovente ritorna a farsi sentire,
donando tuttora al mio cuore
palpiti intensi,
memoria di giorni felici.