Don Gianni Carparelli - Poesie e Racconti

Prua e Poppa

 

L’ho scritto anche in un mio libro “O Liquidificador e a fruteira” (Il frullatore e il cestino di frutta, Toronto-Rio De Janeiro, 2013). Riflessione nata durante il mio primo viaggio verso il Brasile. In nave, come mi era stato suggerito da amici. La Cristoforo Colombo faceva il suo ultimo viaggio prima di essere poi, nel 1982, portata a Taiwan (Kaohsiung) per essere demolita. Furono 13 giorni di riflessione. Ricordo quel viaggio iniziato alle cinque di mattina a Viterbo, salutando mia madre e le mie sorelle. Poi in macchina con due cari amici, Gianfranco e Rita, verso Napoli. Per imbarcare e affidarmi a un futuro, in quel momento sconosciuto, rivelatosi poi pieno di sorprese, sfide, anche errori, ma di cui non rimpiango un istante. Solo, pensandoci ora con più saggezza, tante cose le avrei fatte meglio e con risultati forse migliori. Ma come mi avrebbe poi detto Kim Phuc, la bambina della foto Pulitzer in Vietnam, in un incontro a Toronto con la mia organizzazione Caritas-School of Life, il 17 ottobre 2003, il passato non possiamo cambiarlo, il futuro invece possiamo renderlo migliore. Torno a quel primo viaggio, il primo di tanti in giro per il mondo, soprattutto il Brasile e l’Amazzonia (Oiapoque), la Germania, il Canada, Uganda con un medico del CUAMM (il dr. Gino Bucchino), Ecuador a Quito con Suor Serafina e a Simiatug, nella cordigliera occidentale delle Ande tra i Quechua di Padre Alessandro Chiecca nel 2018, Inghilterra tra gli Italiani di Enfield e Londra. Mentre viaggiavo in nave non lo sapevo, ma passeggiando tra poppa e prua, navigavo tra un passato che lasciavo e un futuro che non conoscevo. Guardavo indietro con nostalgia e poi davanti con tanta fantasia e forse speranze. Ma le speranze non sarebbero arrivate per posta. Dovevo costruirle affrontando, lo avrei visto e capito a fatica, anche attraverso i miei difetti e fragilità. Sono un tipo primario e impulsivo e questo mi ha non raramente condotto a scelte e reazioni di cui mi sarei pentito. A volte mi dico: “Se potessi tornare indietro…”, ma non posso. Solo posso vivere meglio il mio presente cercando di dare sapore a quello che faccio e che dico o scrivo, con quella “gentilezza” che aiuta tutti, me compreso ovviamente, a sorridere anche nelle divergenze di idee e di scelte. La gentilezza serena aiuta a non inasprire gli animi e le reazioni. Lo si impara se ascoltiamo la vita con un pizzico di umiltà. Quel viaggio comunque fu l’inizio di una interessante avventura: la nostalgia del passato con la sua ricchezza da amare sempre con gratitudine, il desiderio di un futuro con le sue incertezze ma ricco di speranze tutte da costruire, e il presente con i suoi errori e fragilità che ci chiede di essere vissuto con passione. Il poeta Rumi, della cultura persiana Sufi, deceduto nel 1273 scriveva che “l’oceano scorre come dentro una conchiglia e si può dire che sembra nuotare dentro un pesce. E’ il mistero che dona pace al desiderio, e il cammino verso casa diventa la mia casa…” (da: Ocean in a Jar).



Sei vergine anche se non lo sei

 

Cerco di evitare che le persone di questa vicenda possano essere riconosciute. Una giovane bussa alla porta di una casa famiglia che offriva ospitalità e una proposta di cammino diverso da quello che lì le aveva portate. Era in condizioni pietose. Sotto effetto di qualche sostanza psicotropa. Poi gli esami medici riveleranno cosa: speedball o anche powerball ben conosciuta per le strade di una grande città americana. Come non poche ragazze non doveva pagare per la droga. Loro e il loro corpo era il prezzo. Per due anni e più visse nella casa. Silenzio, servizi, tempo, riflessione… Con non poca fatica riuscì a crescere e non solo in età. Gentilissima e delicata, rispettosa e tranquilla. Solo dopo un anno o poco più la famiglia accettò di incontrarla. Anche loro avevano avuto bisogno di venire fuori dalla delusione, dalla rabbia, dalla paura, dalla vergogna anche. Le circostanze poi della vita mi portarono altrove e la persi di vista. Sapevo solo dalla responsabile della casa che la giovane aveva chiesto di restare con loro per aiutare altre che entravano e a volte uscivano perché trovavano difficile il percorso fatto di silenzio, riflessione e lavoro, ma lontano sia dalle loro famiglie, che dagli amici e dalla strada. Lavorare per guadagnare non era al momento una priorità. Come ai bambini in tenera età ai quali non si chiede di andare in fabbrica o negli uffici, così per chi ha “non-vissuto” nelle strade o che si è alimentato di robaccia per tenere addormentati sentimenti e desideri, la priorità è “crescere”. La carta di identità dice solo la data di nascita, non la data di vita.

……

Un giorno vado a visitare la prima responsabile della casa, ormai avanti negli anni e malata, in un centro per anziani non più indipendenti. Mentre facciamo due chiacchiere sul nostro lavoro, mi dice: “Adesso ti faccio una sorpresa”. Dopo alcuni minuti si apre la porta ed entra una giovane con il caffè. Uno sguardo, un sorriso sorpreso, un abbraccio. Era lei, la giovane di cui stavo parlando. Mi dissero: ha deciso di dedicarsi al servizio di chi si avvicina al termine della vita. Nel frattempo studia come assistente sociale nel campo delle dipendenze. Tornerà a lavorare in un centro per giovani sbandate in cerca di aiuto. La giovane chiede di potermi parlare in privato. Mi guarda sorridendo e dice: “Desidero farmi suora e aiutare le persone come loro hanno aiutato me. Ma non sono vergine, come ci si aspetta dalle suore”. La guardo con affetto e… “Credimi, sei vergine. Forse più di coloro che lo sono anatomicamente. Perché la verginità è un colore dello spirito, quello che tu per anni hai tenuto nascosto, impolverato forse e che ora sta emergendo pieno di luce”. L’ho abbracciata. Era commossa e anche io. Non l’ho più vista. Ma so che è felice.



La felicità con si compera

 

Tutti cerchiamo la felicità. Magari non sappiamo definirla se non con il vocabolario dei nostri desideri, spesso poco sani, ma alla domanda “Vuoi essere felice?”, la risposta è certamente “si”.

Nei centri di recupero “Caritas/School of Life” in Canada c’era sempre un quadro con questo testo. Fu anche pubblicato in due libri in inglese “Ocean Drops”, poi “Back Home” e recentemente uno in italiano “E dal fango prese volo una farfalla”. Essere e sentirsi felici è come danzare la vita e non solo camminarla, perché:

La felicità non si compera nelle strade e dei supermercati

La vera felicità non la si può iniettare nelle vene con una siringa sterile

E neppure la si può ingoiare con una pasticca colorata

La felicità non la si può sniffare, neppure la si può fumare o bere

La felicità non la si vince alle corse dei cavalli

Non la si trova tra le carte da gioco, le macchinette o i tavoli verdi

La felicità non ha un conto in banca, una villa di lusso, 

E non naviga su uno yacht milionario

..

La felicità è una conquista lenta e faticosa

La felicità è un po’ come l’amore

Si impara ad amare amando

La felicità la intravedi laggiù

Nell’orizzonte

Dove incontrerai CHI ha amato per primo

La felicità è un sogno e

Solo chi è capace di sognare

Potrà essere felice.

…..

Desideri essere felice?

Guardati dentro, cammina la vita danzando e sappi attendere.



C’è una bambina nascosta dentro le foglie

 

Storia vera. Ricordo gli occhi di quella madre, addormentati dai tranquillanti. Per addormentare un tormento che non la abbandonava. Neppure nelle notti affollate da sogni senza colore. La sua “bambina” travolta da un camion a marcia indietro. Erano passati anni, ma non quello sguardo che penetrava la storia di una madre. Voleva parlare e parlare. Di quello sguardo che incrociava il terrore degli occhi materni. Per ore mi fermai ad ascoltarla. Senza interrompere. E ogni volta che entravo nella sua casa, lasciavo che parlasse e parlasse. E il racconto non era sempre lo stesso, le parole forse, ma non il dolore e la paura. Poi un giorno sentii il bisogno di scrivere in parole, forse versi, quello che leggevo nel cuore della mamma. Glielo lessi, con calma… e rilessi, a sua richiesta. Vidi un sorriso sereno affiorare sul suo volto. E pregammo insieme. Insieme al marito piantarono un albero nel giardino. E lo chiamarono con il nome della bambina.

Un bagliore

e si è subito spento.

Un sorriso veloce e sereno.

…..

Perché ci hai lasciato

… dolcissima figlia, sorella e amica?…

C’è un vuoto che 

piange nel cuore.

……….

Mamma, papà, nonni…

voi siete parte di me e io di voi.

Voi volate con me e

io cammino con voi.

Sono albero adesso

che cresce nel nostro giardino

Chiamatelo… chiamatelo… 

(ha un nome…  Sono io… Sono…)

Aprirete il cancello 

e io sarò lì che vi aspetto,

le mie foglie

sono parole e sussurri,

i miei rami abbracci di amore

la mia ombra è risposta al vostro dolore:

……..

Vi dirà nel silenzio e 

nel fruscio del vento: 

sono io, sono sempre con voi. 



Storia di una saponetta

 

Quando per ragioni di cui poi mi sono pentito, decisi di lasciare il Brasile e andare altrove, andai una sera a salutare amici e amiche che avevo in una favela (baraccopoli), conosciuta come “San Carlos”. Ci andavo a piedi da dove abitavo a Rua do Riachuelo. Ormai mi conoscevano e non avevo problemi con i trafficanti di droga o con i mercanti nella prostituzione. Il sabato lo passavo generalmente lì e la domenica invece nella favela “Mangueira” non lontana dal famoso  “Maracanã. Adesso sarebbe quasi impossibile e forse pericoloso entrare.

Al termine di quell’incontro di saluto una amica mi si avvicina, mi mette in mano una piccola scatola di cartone con una saponetta dentro e mi dice “spero di rivederti prima che questa saponetta sia consumata”. L’ho abbracciata ringraziando. Era la signora che cuciva i miei vestiti e li riparava, e risposi: “lo spero anche io”. Per anni dovunque andavo quella saponetta entrava nella mia valigia e non l’ho mai usata. Poi, non so come, andò perduta e restò il ricordo affettuoso di quella esperienza che mi aveva arricchito immensamente. Più dei miei studi e delle letture che pure mi affascinano. Questa immagine di gente semplice, spesso illetterata, che possono solo regalare una saponetta, ma che ti guardano negli occhi e desiderano sentirsi rispettati e apprezzati. Persone che non raramente sopravvivono facendo di tutto perché non manchi ai figli ciò di cui hanno bisogno. Persone che molti tengono lontano e forse considerano scarti non commerciabili. Anche io inavvertitamente “scartavo” fino a quando non mi sono trovato seduto accanto a loro e ho scoperto e sentito che la gente è diversa dal vestito che porta o dall’odore che potrebbe emanare. C’è un vestito e un odore che non sono firmati dagli stilisti di moda. Sono invece firmati dal mistero della vita. Ed è questo “mistero” che non si consuma mai. Come quella saponetta che ho perduto viaggiando, ma che mai ha abbandonato la mia fantasia e la mia memoria.



Abbraccialo in silenzio e digli: ti voglio bene

 

Un amico, padre di tre figli, viene a trovarmi e con il volto teso mi dice: “la mia compagna mi ha comunicato che nostro figlio è gay. Non so cosa dire o fare. E’ mio figlio”. La mia mente vola lontano a qualche anno prima, mentre lavoravo in Nord America. Volo rapido. Durante una riunione con la comunità di fede Anglicana, una mamma mi affronta quasi, dicendo: “Ma perché voi cattolici mandate all’inferno i nostri figli gay?” Risposi sorridendo: “se i figli o figlie gay, o come dicono altri ‘diversi’, andranno all’inferno, non sarà certo perché sono gay. Non credo proprio che Dio perda tempo con queste storie. Non è lui che li ha creati?”. Non entro a raccontare cosa mi costò questa risposta, quando se ne impadronì un gruppo che io chiamo bigotto e falsamente conservatore. Risposi a quel padre di cui sopra: “Amico mio, stasera entra nella camera di questo tuo figlio. Guardalo con simpatia negli occhi. Abbraccialo e digli: ti voglio bene. Non aggiungere altro e non parlatene più”. Non parlatene più almeno che questi figli o figlie vogliano parlarne per qualsiasi ragione. Ho detto “figli diversi” perché questo era il modo con il quale alcuni genitori riuscivano a parlarne. La gente non si alza la mattina e decide quale orientamento seguire. C’è una storia dietro gli orientamenti delle persone e ancora, se vogliamo dirlo, non si conoscono le ragioni. Ma non sono ragioni che possano permettere letture tipo: perversione, malattia, vizio… o altro. E’ un orientamento e tra l’eterosessuale e l’omosessuale c’è una gamma ben nutrita di condizioni umane e non abbiamo il diritto di giudicare con in mano le tabelle di un’etica che emargina. Certo come in ogni comportamento umano siamo invitati al rispetto delle persone compresa la nostra. E questo vale per tutti non solo per gli altri. Ormai ne conosco molti e con alcuni viviamo una profonda amicizia iniziata appunto dal rispetto e dall’ascolto. Non manca mai qualcuno che mi domanda: cosa pensi dei gay? Rispondo: “E perché debbo pensare qualcosa?”.  Se mi domandassero cosa penso dei non-gay non avrei nulla da rispondere. Semplicemente non penso all’orientamento. Penso alla persona perché tutti siamo persone. Non sono i dettagli anatomici e che non sempre corrispondono alla ricchezza emotiva-affettiva delle persone, a definire il valore e la dignità delle stesse. E’ la persona con la sua vita che dà valore al suo essere su questa terra e in mezzo a noi.



Cocaina, nome post moderno di Dio

 

Cocaina, io ti adoro e ti invoco. Tu sei la mia vita e la mia forza. Entra in me e donami una vita nuova. Grazie, mio Dio… scusate: grazie, mia Coca. Non è una invocazione che puoi sentire recitata, ma inconsciamente è sentita e forse pensata. Il prof. Navarro-Valls, psichiatra e direttore di stampa in Vaticano, disse una volta “La droga si propone come risposta a una domanda giusta di normalità inaccessibile e di efficienza irraggiungibile”. Nel dibattito non sempre discusso sul primato tra “essere e avere/agire” oggigiorno sembra che “per essere bisogna avere/agire e di corsa”. Se uno non ha o non corre per arrivare primo è come se sentisse di non essere. Non sarà che in fondo non vogliamo accettare la realtà di essere polvere umana? Ci ribelliamo forse all’idea che essere umili non sia un abdicare alla nostra grandezza, ma soltanto accettare che la grandezza e dignità umana vanno costruite, non sniffate. Se facciamo attenzione, c’è quasi sempre una buona dose di arroganza in chi vive o pensa di vivere cercando stampelle psicotrope o eccitazioni surrogate. Poi l’organismo si adatta e diventa disagio o disturbo patologico. Ritornare a vivere la vita senza stampelle non sarà facile. E non sarà sufficiente imbottire l’organismo di altre sostanze per combattere gli effetti delle precedenti. Né la soluzione la si incontrerà con qualche incontro, detto terapeutico, mensile e a pagamento. Servono certamente e sarebbe sciocco negarlo. Ma il cammino di risalita segue altre strade. Anzitutto si deve abbattere il muro della arroganza e dell’autosufficienza. Se si desidera arrivare in cima alla montagna ci si deve allenare e non basta entrare in una farmacia per doparsi, negli angoli della strada o mandare messaggi a chi sarà ben felice di “aiutare” a pagamento, con consegna a domicilio. Chissà perché da decenni molti ricevono aiuto e sostegno partecipando a gruppi detti Anonimi, dove come primo passo viene ricordato di accettare con umiltà il fatto di aver un problema che è sfuggito di mano e che si ha bisogno di qualcuno che dia una mano. Il vero cammino di resurrezione o rinascita inizia dal rimuovere la pietra tombale che impedisce di camminare nella vita. E’ difficile? Certo. Per questo con umiltà non si deve avere timore di chiedere aiuto e di accettarlo. 



La scuola di Atene

 

E se questa meraviglia di pensiero e colori del 1509-1511, ‘La Scuola di Atene’ (Raffaello, Musei Vaticani) potesse aiutarci a ripensare i cammini umani? Una specie di umanesimo e rinascimento terzo millennio? E’ come un ritiro per l’intelletto e per lo spirito dove poter rivisitare il significato della esistenza attraverso i personaggi ‘dipinti’ da Raffaello. Inviterei al Ritiro: giovani non solo nell’età che desiderano entrare in politica, amministrazioni varie, scuola, finanza, movimenti spirituali-religiosi… E’ una opera che mi ha sempre affascinato. A partire da quei due personaggi centrali Platone e Aristotele. Persone che si ritrovano in quello che Aristotele diceva di Platone “… Uomo che ai malvagi non è neppure lecito lodare”. Lo potremmo dire di tutti e due e degli altri, anche essi hanno un nome e una storia, che troviamo dipinti nell’opera del grande maestro urbinate. La cultura occidentale, nella quale nuotiamo, non può dimenticare la fonte delle acque che ancora bagnano le nostre radici. Quella mano, o meglio: dito, di Platone rivolto in alto mentre con l’altra mano sorregge il suo libro “Timeo” e la mano di Aristotele giovane che indica quasi rivolgendosi a noi i cammini umani e sorregge con l’altra la sua opera “Etica”. Ognuno dei due guarda verso l’altro quasi in dialogo fraterno. Posso aggiungere?… Cielo e terra, sogni e realtà, speranze e vita quotidiana… Nel dipinto abbiamo la sintesi della nostra cultura e che spesso dimentichiamo perché affannati o da una realtà o dall’altra. Ritrovare l’equilibrio invece tra corpo e spirito, tra “polvere del suolo e alito di vita” (Gen 2:7), andare anche a capire e dialogare con le altre bellissime forme culturali che costellano il nostro universo umano. Imparare per poter dialogare con tutti coloro che sono alla ricerca di un migliore equilibrio umano e sociale. Questa è la vera ricchezza che dovrebbe apparire sugli schermi della storia e della nostra vita-convivenza, nelle discussioni non sempre orientate a capirsi per incontrarsi nel dialogo. Invece costruiamo le torri di Babele dove nessuno più comprende nessuno. E l’urlo di chi, nel momento, appare come il più forte e cerca di sopraffare la voce di chi anche se fragile avrebbe molto da dire. Solo la bellezza può salvare il mondo, scriveva il grande Dostoevskij nel “L’Idiota”. La vera bellezza che a volte appare nella gentilezza delle persone, nel servizio pieno di compassione verso i più fragili, nella architettura dei geni, nella moda dei grandi, nella voce dei saggi e profeti, nella semplicità dei buoni… è come se il messaggio della “Scuola di Atene” cercasse di uscire dal quadro del Museo e si mettesse a correre spedito per le nostre strade e dentro le nostre menti affaticate. Diamogli spazio e che le sfumature di quei colori lascino un segno nelle nostre mani.



Il seme che non voleva morire

 

Non voleva proprio morire.  Stava così bene al calduccio dentro il sacco in un angolo della bottega. Quando qualcuno metteva la mano dentro il sacco per prendere una manciata di semi il nostro seme pensante si nascondeva sempre più in fondo. Per non farsi scoprire e poi prendere da quelle manacce callose e sporche. Lasciatemi stare, diceva tra sé e sé. E per molto tempo andrò avanti così.  Ma un giorno avvenne l’inevitabile. Il sacco era quasi vuoto e il padrone del negozio con un fare certamente non tanto gentile si mise a sgrullare e tutti i semi anche quello pensante finirono nelle mani del contadino. Il nostro amichetto non si rese subito conto di cosa stesse succedendo, Sballottato, sotterrato, circondato di terra e di letame, innacquato tutti i santi giorni… cominciò a sentire un doloretto, poi tanto dolore come se qualcuno lo volesse tagliare, squarciare dal di dentro. Sembrava che qualcosa stesse venendo fuori dalle sue viscere ma non se ne rendeva conto. Poi il dolore sembrò divenisse anche piacevole, finché un giorno si accorse che un filino verde chiaro -rassomigliava tanto a certe piccole foglie che aveva intravisto nel negozio dove abitava- gli stava venendo fuori e proprio dal suo cuoricino. Si mise a osservare questo strano fenomeno . Era come se non fosse più solo. Tutto sommato gli piaceva vedere quello che stava succedendo. E il filino cresceva e cresceva. Era come un gioco divertente vederlo crescere e diventare forte mentre si faceva strada tra le terra per salire e salire sempre più in alto. Il nostro amico seme non si rese conto di quanto tempo stesse passando. Non aveva la concezione del tempo. Non aveva ancora imparato a riflettere su quello che pensava. Ma un giorno osservò che sopra di lui e partendo dal suo cuore, era cresciuto un albero grande, con tanti rami robusti e belli, con tante foglie di tutti i colori e tanti uccelli che vi si posavano sopra per cinguettare e fare l’amore. Il seme capì e si addormentò in pace.

E’ una parabola. Sarei tentato di spiegarla, ma ho timore di offenderti. Solo una cosa vorrei dirla e a me stesso anzitutto. La vita del seme non muore. Ma se rifiuta di soffrire e di morire… è allora che veramente muore e nulla di lui entrerà nella storia della vita. 



Mangiare insieme è più che mettere cibo in bocca

 

Ho pensato di rifletterci sopra perché stiamo rischiando di stare seduti attorno allo stesso tavolo ma solo per ingoiare qualcosa. Per il resto è come se ognuno stesse passeggiando per conto proprio. Mi è venuto di pensarci dopo aver letto di Tolstoj una sua storia. Stava salendo le scale di una delle tradizionali case di legno in una zona rurale della Russia e che servivano per diverse famiglie. Una delle stanze era socchiusa e Tolstoj riuscì a intravedere una famiglia, numerosa, che attorno alla tavola stava consumando quasi religiosamente, come si diceva una volta, il pasto quotidiano. C’era tanta semplicità, amore, rispetto in quella scena che, dice la tradizione letteraria, il grande scrittore russo ne trasse l’ispirazione per scrivere quella grande immortale vicenda incentrata sulla famiglia Rostov. Così sarebbe nato, dicono, “Guerra e Pace”. Una giornalista della rivista Time, Nancy Gibbs, scrisse tempo addietro (giugno 2006) un servizio dal titolo “The magic of the family meal” dove diceva “Le statistiche parlano chiaro: i bambini che mangiano regolarmente con i propri famigliari, crescono meglio in salute, sono più contenti e vanno meglio a scuola”. E’ proprio il caso di dire, sorridendo: ecco la scoperta dell’America. Non penso assolutamente di cominciare a criticare il nuovo stile ormai dominante soprattutto nelle grandi città. Il mondo è cambiato per cui dobbiamo cercare di cambiare con esso e inventare altre strade. Ma la realtà di un disagio sempre più diffuso è davanti ai nostri occhi. Per fortuna che in molti casi ci sono i nonni a tenere le fila di questa disgregazione relazionale intra familiare. Non saprei neppure cosa suggerire per ricucire strappi che lasciano ferite e cicatrici senza sangue. Mi sento solo quasi obbligato a rifletterci sopra. Perché tante ne ho incontrate di queste “ferite e cicatrici” con nome e cognome. Quando ho potuto ho inventato famiglie alternative, dove si viveva insieme e dove il momento del mangiare insieme era momento sacro e quasi magico, dove si parlava insieme, ci si aiutava a vivere un minimo di galateo, non si usavano cellulari e non si accendeva la TV, non ci si alzava finché tutti non avessero finito, non si sprecava il cibo, si raccoglievano i piatti per facilitare il servizio degli incaricati di turno alle pulizie, si iniziava e terminava con un momento di silenzio dando spazio a chi lo desiderasse, di citare o leggere un pensiero o una riflessione… perché anche questo è cibo e bevanda. C’era sempre almeno uno spazio per un eventuale ospite, sempre gradito. Non si gridava né si alzava la voce. Si ringraziava chi aveva preparato anche se non sempre era un “goumet” di alta classe… La civiltà inizia a tavola o, almeno, la si può respirare attorno a una mensa.