Donato Riccardi - Poesie

La tortora nei campi

 

Apro gli occhi e su di me una lastra turchina e rosacea di cielo.

Ancora timida la luna bianca, quasi trasparente, e timido sole arancio, s’affaccia a oriente.

Pioggia di petali e profumo d’estate.

Come grano cernito le voci si riversano lungo il paese.

Al riparo degli arbusti scroscia l’acqua del ruscello, e canta la tortora nei campi, solitaria,

la scorgo da lontano e taccio, stupito,

si incrociano gli sguardi ed è mattino.


 

Profumo di te

 

Il tuo odore su di me,

come il fieno e la fragranza di mille fiori al vento nel mese di maggio.

La paglia al sole d’estate, la salsedine, la sabbia e l’acqua salata al mare.

La pioggia sulla nuda terra di ottobre, lungo il tappeto di foglie verdi e gialle, tra muschio, licheni, e funghi sui tronchi umidi degli alberi.

Il succo d’uva fermentato nelle grotte, di settembre, e il legno stagionato nelle botteghe, cosparse di segatura.

Il fumo dei camini, e le castagne al fuoco d’autunno, mescolato al vento e alla neve d’inverno.


 

Labile essenza

 

E’ un lampo di sole,

veloce battito di palpebre,

ombra passeggera come nuvola, tra l’aprirsi e il chiudersi degli occhi,

mutando l’esistenza in ricordo.

Labile pugno di fumo al capriccio del vento, nella memoria.

Come di marzo, il tempo incerto, l’esistenza muta tra bagliori di luce e oscurità.


 

Terra nera

 

Distesa terra nera del sud, 

matura, fertile, lavorata più volte sotto l’aratro e la zappa, 

bruciata dal sole e fecondata da neve, pioggia, nebbia e grandine. 

Calpestata da più piedi, rimodellata sotto il peso degli anni.

Madre paziente e saggia, la tua pelle porta il segno del tempo, 

le mammelle leggermente cadenti, dignitose hanno allattato innumerevoli figli.

Foresta tempestata di fiori, erbe di ogni tipo, arbusti e piante che s’attorcigliano a pietra e legna, cosi la tua riccia chioma di peli neri, folta tra le tue gambe, copre il solco aperto, di larga fessura di grotta d’un tempo, origine della vita, riparo dell’uomo.

Nuda, con naturalezza e semplicità in una posa materna di comprensione e affetto, ricevi ancora colate abbondanti di seme, mentre aumenti appena il tuo respiro, e un leggero rossore sul viso, coi suoi solchi, al calore del tuo corpo.


 

Samantha

 

Ti scorgo in lontananza, nel soave su e giu di un’altalena, al canto degli uccelli, tra cielo ed erba.

Ti penetro con il mio sguardo, severo e duro, sprofondando nella tua calda anima.

Sono gemiti d’innocenza e di purezza, che scorrono dai tuoi capelli d’oro, attraversando il tuo lungo vestito scarlatto.

Ti confondi con i fiori, nel giardino soleggiato, schizzi colorati di olio su tela, come fiocchi di neve che fecondano la terra d’inverno, mentre i lupi dormono nelle loro tane, nel ricordo dell’estate trascorsa, in attesa, come puerpere gaudiose, della lieta stagione.

Il tuo corpo, seta pregiata al vento, nella sua leggiadra danza.

Il tuo viso offeso dall’indecenza del mondo.

Dentro te, come grotta, nel profondo più buio, intravedo il plenilunio, ai piedi della montagna, nel bosco.

Uno squarcio profondo e languido da cui scaturisce dolore e piacere, sangue e vita.

Come pioggia, inondo la pelle delicata e candida, delle tue gambe, e poi fuggi, nella vita quotidiana, alla voce dei numerosi pensieri, che riecheggiano, come argonauti in una caverna, innalzandoti ai colori silenziosi del volo di mille farfalle.


 

Indelebili ricordi

 

Fiamme di candele, lungo un corridoio, tra la piacevole brezza mattutina dell’estate, e la nebbia notturna, invernale, ne accendono nuove, per dare inizio al caldo fiore, e luminoso del logorìo.

Lasciano impresse, lacrime di cera, al su e giu di una scala, in equilibrio tra cielo e terra.

Un soffio, un soffio solo. Un soffio, e quel che rimane, è labile fumo, che diventa graffito, nel silenzioso muro, ingiallito di ricordi.

E quello stesso faro, un tempo forte, guida e protezione, agli ingrati dispiaceri di gioventù, è ora fiammella tremante.

Perchè siamo nubi, fragili al vento, tra il giorno e la notte. Rugiada al mattino, che al vespro ritorna, vapore e gocce, sulla vetrata del firmamento. Lucciole nella breve notte, dalla sorte comune.

Due guanti di rete nera, alle fredde e bianche mani, che reggono una corona del rosario, e come barca, nell’immenso e volubile mare, la mente, in una vecchia strada, attraversata da gatti, al canto degli uccelli, e all’odore indelebile delle scorze d’arancia bruciate, e del legname, lavorato, impresso come chiodo nelle narici, nei nevosi inverni.

E ancora, la polvere delle cartucce dei fucili, chiusi a chiave nell’armadio, e il sapore del cioccolato svizzero.

E’ un mare troppo profondo, e vi si annega.

Foto in bianco e nero, cumuli di stoffa e lana, che rappezzano, il lungo sentiero della storia personale, di milioni di persone, che all’unisono marciano, al ticchettìo di un orologio.


 

Donna Lucania

 

Ripida e tortuosa, la strada che porta al paese, dalle grotte delle fontane, dove le massaie fanno il bucato.

Ancora s’ode, nelle notti d’estate, il canto di una bambina, alle stelle.

Con i sandali fatti di legno e spago. Sotto gli occhi vigili, dei pastori e dei contadini. Il papà ritarda a tornare da quel 15-18, che durerà in eterno, ma la mamma, mantiene tutto in ordine, come i capelli che fa alle signore, acconciate per le feste di paese.

I mattoni d’argilla fabbricati nella fornace ardente, tra le terre macchiate di grano, e le vigne, sorvegliate dai guardiani.

Dalla montagna i zampognari, con la lunga barba, vestiti di pelle di capra, e i cacciatori, nascosti come i fucili all’interno dei camini. Un asino bianco sul dorso della strada, e un frate per la questua agricola. Un grosso maiale, nel recinto della casa del dottore, tra le galline e i cani da caccia. La raccolta dei fasci di legna all’alba, per un chilo di farina, da portare al forno.

Riesco a immaginarne l’odore.

Due forme di formaggio su una finestrella.

I giochi di carte nelle cantine, durante i rigidi inverni, nei discorsi ubriachi di sentenze, e memori dei briganti. E’ l’eco del ricordo amaro, tra lacrime, dolore e nostalgia; nero e stropicciato come il lungo e casto vestito, da sobria signora d’un tempo, che ancora piange i suoi figli, e nel silenzio d’una smorfia sconsolata sul viso, s’addormenta, spegnendo la luce di quella stella, che finalmente è arrivata nel pozzo, tra le braccia di madre terra, unita ai suoi antenati. Lascia il ricordo del bene fatto, in una vita vissuta, dura di pane, bagnato di lacrime, e di vino rosso, come il sangue.

Di poche parole, la forte voce, che è rimasta, come sibilo lontano, nelle mie orecchie, è nebbia nel bosco, alla vista di lupi in lontananza.

Cosi l’esistenza e il suo senso, diventa un grande abbraccio tra cielo e terra, sacro e profano, vita e morte, come i capelli raccolti e fermi, sotto il casto scialle.

Al riverente sussurro, d’un rosario perenne, nello scorrere dei grani, come della vita, che passa, dal pianto del neonato, al canto funebre; al riparo delle ombrose e forti mura dell’abbazia, sotto lo sguardo benevolo, della nera Madonna.

Donna Lucania, vecchia signora, rannicchiata su una piccola sedia di paglia, timida, sulla cartina geografica; tra la canonica, l’orto, e le mura domestiche. Circondata da fitti boschi, incontaminati. Estranea al mondo la fuori, con le sue stagioni, seduta di fronte al camino, ricamando a mano, tra le salsicce, i pomodori e i peperoni rossi, appesi al soffitto, a seccare.

Nella speranza di un futuro migliore per i tuoi figli, che, rondini, migrano, come poppanti staccati con la forza, dalle tue aride mammelle.


 

Il cammino della vita

 

Ci svegliamo all’alba,

quand’è pieno giorno,

e arriviamo a sera ch’è gia notte.


 

Strega

 

Tempesta luccicante di emozioni scintillanti di mille colori, si riversano dal cielo, al plenilunio, lungo il sentiero rappezzato di fitti alberi, che porta sulla montagna, trasportandoti in un viaggio astrale, verso una dimensione parallela.

Sulla tua pelle tatuata è cosparso il magico unguento.

Col tuo vestito aperto, corto, dalle frange nere che appena arrivano sulle bianche cosce, ti strusci, a piedi nudi, sul membro eretto della grande statua in legno, del caprone infernale, dio dei boschi: ti siedi, lo abbracci, lo sfiori con la lingua, le mammelle e il basso ventre, davanti e dietro in un frenetico sacro balletto zigano, ritmato dalla voce ferma e decisa con cui pronunci i tuoi incanti in antico aramaico, legando velocemente i nodi di un nastrino rosso, ed emetti i gemiti di piacere, al respiro affannato, mentre balli, al ritmo della fiamma, che, come onda marina in burrasca, cambia dimensione al vento, e si fonde col tuo spirito.

Il riflesso della leggera peluria nera che si intravede ad intermittenza tra le tue gambe, spezza i tuoi biondi capelli vibranti in aria, e gli occhi azzurri, felini.

Ti pieghi leggermente in avanti, mettendo in mostra la perfetta forma, armonica, delle tue natiche delicate.

Al centro del tuo petto, pende un pentacolo d’argento e una runa in legno, lavorata a mano.

Si ferma il tempo, dall’alto del noce, ti guarda nella notte profonda, il tuo famiglio; la cui immagine è riflessa, gigante in cielo.

Ti fermi, chiudi gli occhi, poi ti siedi stanca, con la viva terra che bacia i tuoi piedi; le tue labbra rosse, carnose, sono baciate dalla luce lunare, e le tue sorelle t’accompagnano, danzando in cerchio attorno al fuoco fino all’alba.


 

Maitreya

 

Non è una persona fisica, ma un concetto.

Qui ed ora, dentro te, dentro me, in tutti gli esseri animati ed inanimati, ovunque.

I Cristiani lo conoscono come il Cristo e aspettano il Suo imminente ritorno. Gli ebrei lo aspettano come il Messia; gli Indù attendono il ritorno di Krishna; i Buddisti lo aspettano come Maitreya Budda; i Musulmani aspettano l’Imam Mahdi.

I nomi possono variare ma tutti indicano lo stesso concetto. Io lo chiamo Salvatore Universale, la scintilla divina presente in ogni essere.

Chi la trova è illuminato e in pace con se stesso.