Roma
Lasciarti, Roma, mi frantuma di colpo
in pezzi di te.
Bruciali, Roma, rendili cenere, soffiali
fa’ che si disperdano nei tuoi vicoletti stretti,
che danzino festanti nelle piazze sconfinate
che entrino dalle bocche spalancate dei turisti adoranti.
Che li vedano i Santi dai colonnati
trapassare le vetrate blu delle chiese
lasciali arrampicarsi per le tue cosce spalancate
bianche, lisce, marmoree, travertine,
fino alle tue profondità segrete.
Infiniti giorni e infiniti battiti
nell’istante veloce di un treno che scompare.
E mi fanno male i finestrini.
Ahi, Roma, ebbrezza liscia di statue vive,
le tue vestali di forme lunghe che si stagliano
verso costellazioni di ali e suoni mischiati
di esplosioni di marmi, di idiomi stranieri e musica da strada.
Sbattere azzurro di onde tiberine,
bianco stridere di gabbiani, le tue melodie
che paiono sgorgare dagli occhi fissi, dagli occhi tondi
di ponti eterni che seducono di fascino fermo
mentre tu danzi le sere sparse e tagliano parole.
Bella, Roma, bella, lancia in alto per me con dita lunghe,
storie di bighe infiammate,
movenze di guerrieri scolpiti,
voli di cavalli imbizzarriti come manciate di semi
sopra le stelle, sopra i tuoi occhi, sopra i miei occhi,
sopra chiese sopra templi di divinità annoiate,
sopra nomi imperiali che hanno vinto la morte
per te, Roma
sopra nomi di viali fatti di idiomi senza tempo,
sopra l’acqua azzurra che sgorga imperitura
dalle bocche dei palazzi
come da donne gravide di gemellari prodigi.
Roma, ossigeno sei, sei obelisco, giravolta di sogni,
sorgenti azzurre disciolte in tritoni e volti,
lampade gialle nella coperta blu dei tuoi cieli notturni.
Sei mano d’artista che plasma e intreccia con corde spesse
i riti ai colonnati, i Santi alle false mendicanti
sacerdotesse delle tue menzogne.
Abbracciami, Roma, come abbracci i tuoi pini domestici.
Avvínghiati, ràdicati, arràmpicati con unghie e lingue
di strade lunghe, piégati dentro le mie profondità segrete
rendile fonti vive di te, verde, mossa sinuosità.
Ahi, Roma mia, mia bella Roma vittoriosa.
Tevere d’argento furioso che sbatte sul sole e l’infinito.
Tavolozza di artisti, stuoia di barboni, sete di turisti
ma sei di più per i sognatori,
sonno e veglia le folli notti romane dagli odori di spazi larghi
satolli di incensi e metrò disordinati mischiati di voci.
Sei prosperosa e alta, Roma.
Investimi a valanghe bianche rotonde di naiadi danzanti
mentre ti tradisco per noia tra i portici sterili di altre città
che son occhi belli senza sguardo, bocche aperte senza voce.
Mi par di toccare la tua pelle nuda di mattoni eterni, Roma
sotto tutti gli altri cieli.
Mi par di intravedere le tue volte azzurre
dietro i muri anonimi delle città.
Ahi, Roma, lontana, tremenda, nostalgia, dolore, fuoco.
Seducimi ancora, Roma, intrappolami, trattienimi,
scucimi, cuocimi e ancora illudimi
con le tue promesse feroci di eternità.
Guardami Roma mentre mi allontano, mentre ti allontani,
algida e lucente, fatta di spazi indifferenti e forme variegate,
di imponenza e disfatta.
Mancami, Roma, lascia che ti tradisca di nuovo,
con banali amanti occasionali, sogghigna sapendo che mi possiedi.
Ahi, Roma che apri le cosce agli sconosciuti,
non sei mai mia, non sei mai abbastanza
non sono abbastanza per incatenarti al mio misero cuore.
Ahi, Roma, bella, Roma,
mi fanno male i finestrini del treno che se ne va.
Il modo in cui pronunci il mio nome
Non è solo perché le tue parole, d’improvviso,
come una repentina meraviglia,
hanno quietato il caos delle mie ossessioni
e zittito il tempo e tutte le voci,
con sconosciute tenerezze.
Non è solo perché dalle mie claustrofobiche prigioni
umide di ferro e fumo,
ho guardato le tue parole salire come un’alba rossa
ribelli ed achillee come un’orda di guerrieri
o armata di scudi e coltelli,
squarciare pelli di serpenti, decapitare mostri,
spiazzare la mia disperazione, con lame brucianti d’oro,
per salvarmi.
Non è solo perché le ho riconosciute,
una sera di spade e sangue,
come una melodia familiare.
Non è solo perché ho assistito allo spettacolo magnifico
dei tuoi occhi di lago salato
che esplodevano in fuochi artificiali, azzurri e segreti,
dalle mie vene alle mie estremità, lì dove li ho sentiti bruciare
di fiamme calde, sospiri ispirati ed aromi deliziosi
di inchiostro nero, oppio e cannella.
Non è solo perché ho visto le tue parole
correre d’improvviso fuori dai tuoi occhi,
in un attimo di vampa,
come un lampo giallo nella nera vastità,
mentre la tua bocca taceva
e lì hanno trovato il mio sangue, abbracciato la mia linfa,
fino a certi abissi di luce che non conoscevo.
Non è solo perché mi hai fatto custode
della tua anima nuda, come già mi appartenesse
e tu lo sapevi.
Non è solo perché è dalle tue parole che ho trovato la luce
che mi ha lasciato percorrere
i cunicoli segreti delle tue profondità
che scopro essere le mie.
Non è solo perché mi offri la mano che mi salva,
senza che io la implori, quando sotto di me
dirupi lupi e spume
che si infrangono forti sulle pareti rocciose
della mia piccola vita.
Non è solo perché sei lo sguardo
sull’orizzonte che contempla le mie risa,
come fossero un’alba, mentre la gente non si accorge
che li beffiamo tutti, dalle nostre stanze segrete.
Non è solo perché ho riconosciuto i tuoi occhi,
una sera sparsa e li ho ricordati dentro la mia anima,
dove li ho visti attendermi.
Non è solo perché
ispiri sogni che non oserei sognare
o perché sai infiammare la mia bandiera,
perché sei parte adorante
di quello stesso fuoco.
Non è solo perché
trovo sempre te a salvarmi,
quando soffoco tra le spire spietate di serpenti
e morsi iracondi di cani rabbiosi.
Ma è per il modo in cui pronunci il mio nome.
In quell’attimo preciso e veloce, lì io ti amo.
Perché quando il mio nome esce dalla tua bocca
io mi riconosco.
Perché mi piace essere plasmata da te,
come scudo e lancia com’ io fossi statua di creta
o ritratto a matita, nel suono che cambia,
di umori e giorni, di stagioni di desideri e rovine.
Esco dalla tua anima plasmata di me,
da te, per me, fatta di me, di te.
Ed è una follia benedetta.
Perché mi ammutoliscono le tue parole di me,
mi spiazzano, mi colorano di umori e giorni,
perché scoprono tutti i veli mentre io resto lì
piccola e nuda, di carne e anima
a guardarti esterrefatta
come guardavo, da bambina, l’albero di rose magnifico
che piantò mio padre nel nostro giardino,
lì
nell’eternità.
Le nozze
Ipocrisia melodica di campane.
Si è celebrato in Chiesa
il funerale di un amore
con la solita
metodica frenesia.
Mi addentro nella piazza festante
come foglia morta trascinata dal vento
che svolazza
bassa e ansimante
in un giardino di crisantemi.
Una massa mascherata di rossetti e cravatte
gioca a scacchi con la mia sincerità.
E mi par che in un lampo intercetti
la solitudine che indosso
come un cappotto rosso
interrogato dalla nebbia.
E così, minuta grigia secca
cala la sua effimera gioia
tanto quanto ligia, enorme sgargiante
s’innalza la mia agonia.
E domani sarà di nuovo noia
a criticar un’amante, una sposa e un ristorante.
Primavera
Questo mattino
col cielo addosso
ho osservato la Primavera
districarmi
pazientemente
i pensieri.
Con mani amorevoli li arrotolava
tra le dita lunghe, lunghi
come farebbe una madre.
Ed ho osservato il Vento, poi,
allontanare quei gomitoli da me
portarseli via, difendermi
come farebbe un padre.
Li ho seguiti allontanarsi nel cielo,
farsi piccoli, più piccoli
come stormi bianchi o lampade cinesi fluttuanti
per diventare celesti e infine argentati
sulle piccole ali di una colombina
mentre la banda suonava
da qualche parte.
E d’improvviso
sulla mia pelle
tela di neve invernale
schizzi gialli, caldi di sole
macchie celesti di cielo e linee mosse
di danze verdi
pois variegati di fronde.
Abbiamo parlato un po’
io e la Terra
di come sia salvifica per entrambe,
la Primavera.
Espressioni d’Autunno
Guaito di cani.
Giorno grigio.
Gusto metallico,
risveglio fumato
di occhiaie e tachicardie.
Grigio giorno
coi piedi nel fango,
lo smalto sbeccato
graffiato di noia.
E d’improvviso
di fronte a me
si spalanca l’Autunno di fuoco.
Vivo di movenze aranciate,
bruciante di danze gialle,
variegati schizzi amaranto,
coralli tondi tra intrecci di abbracci
verdi olivastro.
In volo dalla terra al cielo
bighe dai cavalli ambrati,
chiome ramate, attorcigli di fronde mosse
come chiome rosse di donna.
Autunno di fuoco, dalle labbra carnose,
scarlatte e socchiuse.
Autunno di fuoco, terra di bosco, terra di Siena bruciata.
Terra che cova i suoi semi.
E nell’infinito plumbeo
in attesa di prodigiosi tramonti
una danza di ballerine sinuose,
una danza di libertà,
gli aironi bianchi.
L’Artista
Ed ecco,
d’improvviso l’Artista
non chiede il permesso
e spalanca finestre d’oro
nella noiosa oscurità.
Lesto, afferra il mio cuore pulsante
con mani sfrontate
graffiate di sogni,
e lo stringe tanto forte poi,
rosso melograno maturo,
da far schizzare fuori
dalle sue dita di ali
il succo rosso della vita stessa.
L’artista lo inala e lo soffia
attraverso il ponte della sua arte
lo fa scorrere veloce
attraversare valli
scivolare montagne
gimcanare tra radici e fronde di bosco
per poi infine
esondare
sopra la vita stessa
ove precipita e si spande
cascata di semi scarlatti
sopra terre novelle
di rinnovata fertilità.
Un volo rosso.
La pienezza della semina.
La bellezza infinita della fioritura.
Un garofano giallo che esplode
in petali d’oro
nel buio notturno.
Tempesta di tigli
Questa sera,
la mia piccola città addormentata
è vestita di una silenziosa, timida
notturna Primavera.
La luna piena gioca al solitario
e diverte le magnolie
arrotolata com’è
nella coperta del cielo.
Non ci sono stelle nella tempesta di tigli.
Si sente solo suonare
in lontananza
una civetta.
Follia
Venere meschina
che giochi di sensi
non pensi a me cha agonizzo?
Realizzo di non avere templi di adorazione
se non giganti di vento
che coi deliri
fanno della mia vita
dimensione d’aria e piaghe nel corpo
piaghe di sonno e d’inedia.
Impazzisco tra elastici colorati
e fiori di carta
forme di follia
che non d’arte ma di fumo
colmano le mie stanze.
Perché, Natura, hai fatto di me il tuo giullare
nelle ore di noia?
Era d’autunno o era d’estate
quando hai scarabocchiato la mia immagine
nel giorno?
Tu
Tu ami come il Vento
che stordisce le fronde dei salici.
Sono sponde pellegrine
quelle lambite dai calici,
così tu baci.
Taci al chiaccherìo di stelle sgomente
bollente d’estate
che ora, come allora, più non senti.
Menti al loro fruscìo
come il Tempo
bugiardo
che oggi le mostra dense
e ieri
le spense.
Promessa
Per Te
che assapori la vita dalla coppa di Bacco
voglio danzare
e lambire il rubino dalle tue labbra
e gridare con le baccanti
isterici canti di frenesia
per amnesia e lussuria.
Infuria la terra
gelosa di noi
bramosa di vergini
e priva di dei.
Per te
che infiammi la vita dal carro di Febo
e ardi del fuoco del Sole
voglio tradire il mare
e darti da bere le onde impetuose
e le acque profonde
dalle sponde rocciose
agli abissi.