Eleonora Serra - Poesie

Roma

 

Lasciarti, Roma, mi frantuma di colpo
in pezzi di te.
Bruciali, Roma, rendili cenere, soffiali
fa’ che si disperdano nei tuoi vicoletti stretti,
che danzino festanti nelle piazze sconfinate
che entrino dalle bocche spalancate dei turisti adoranti.

Che li vedano i Santi dai colonnati
trapassare le vetrate blu delle chiese
lasciali arrampicarsi per le tue cosce spalancate

bianche, lisce, marmoree, travertine,
fino alle tue profondità segrete.

 

Infiniti giorni e infiniti battiti
nell’istante veloce di un treno che scompare.
E mi fanno male i finestrini.

 

Ahi, Roma, ebbrezza liscia di statue vive, 

le tue vestali di forme lunghe che si stagliano 

verso costellazioni di ali e suoni mischiati 

di esplosioni di marmi, di idiomi stranieri e musica da strada.

Sbattere azzurro di onde tiberine, 

bianco stridere di gabbiani, le tue melodie 

che paiono sgorgare dagli occhi fissi, dagli occhi tondi

di ponti eterni che seducono di fascino fermo
mentre tu danzi le sere sparse e tagliano parole.

Bella, Roma, bella, lancia in alto per me con dita lunghe, 

storie di bighe infiammate, 

movenze di guerrieri scolpiti, 

voli di cavalli imbizzarriti come manciate di semi 

sopra le stelle, sopra i tuoi occhi, sopra i miei occhi, 

sopra chiese sopra templi di divinità annoiate, 

sopra nomi imperiali che hanno vinto la morte

per te, Roma
sopra nomi di viali fatti di idiomi senza tempo, 

sopra l’acqua azzurra che sgorga imperitura 

dalle bocche dei palazzi

come da donne gravide di gemellari prodigi.

 

Roma, ossigeno sei, sei obelisco, giravolta di sogni, 

sorgenti azzurre disciolte in tritoni e volti,

lampade gialle nella coperta blu dei tuoi cieli notturni.

Sei mano d’artista che plasma e intreccia con corde spesse

i riti ai colonnati, i Santi alle false mendicanti
sacerdotesse delle tue menzogne.


Abbracciami, Roma, come abbracci i tuoi pini domestici.
Avvínghiati, ràdicati, arràmpicati con unghie e lingue

di strade lunghe, piégati dentro le mie profondità segrete
rendile fonti vive di te, verde, mossa sinuosità.

 

Ahi, Roma mia, mia bella Roma vittoriosa.

Tevere d’argento furioso che sbatte sul sole e l’infinito.

Tavolozza di artisti, stuoia di barboni, sete di turisti 

ma sei di più per i sognatori,

sonno e veglia le folli notti romane dagli odori di spazi larghi

satolli di incensi e metrò disordinati mischiati di voci.

 

Sei prosperosa e alta, Roma. 

Investimi a valanghe bianche rotonde di naiadi danzanti 

mentre ti tradisco per noia tra i portici sterili di altre città 

che son occhi belli senza sguardo, bocche aperte senza voce.

 

Mi par di toccare la tua pelle nuda di mattoni eterni, Roma

sotto tutti gli altri cieli.
Mi par di intravedere le tue volte azzurre
dietro i muri anonimi delle città.

Ahi, Roma, lontana, tremenda, nostalgia, dolore, fuoco.
Seducimi ancora, Roma, intrappolami, trattienimi,

scucimi, cuocimi e ancora illudimi 

con le tue promesse feroci di eternità.

 

Guardami Roma mentre mi allontano, mentre ti allontani, 

algida e lucente, fatta di spazi indifferenti e forme variegate, 

di imponenza e disfatta.

Mancami, Roma, lascia che ti tradisca di nuovo,
con banali amanti occasionali, sogghigna sapendo che mi possiedi.

Ahi, Roma che apri le cosce agli sconosciuti,
non sei mai mia, non sei mai abbastanza
non sono abbastanza per incatenarti al mio misero cuore.


Ahi, Roma, bella, Roma,

mi fanno male i finestrini del treno che se ne va.


 

Il modo in cui pronunci il mio nome

 

Non è solo perché le tue parole, d’improvviso, 

come una repentina meraviglia, 

hanno quietato il caos delle mie ossessioni 

e zittito il tempo e tutte le voci, 

con sconosciute tenerezze.

 

Non è solo perché dalle mie claustrofobiche prigioni 

umide di ferro e fumo, 

ho guardato le tue parole salire come un’alba rossa

ribelli ed achillee come un’orda di guerrieri

o armata di scudi e coltelli, 

squarciare pelli di serpenti, decapitare mostri,

spiazzare la mia disperazione, con lame brucianti d’oro, 

per salvarmi.

 

Non è solo perché le ho riconosciute, 

una sera di spade e sangue, 

come una melodia familiare.

 

Non è solo perché ho assistito allo spettacolo magnifico

dei tuoi occhi di lago salato

che esplodevano in fuochi artificiali, azzurri e segreti, 

dalle mie vene alle mie estremità, lì dove li ho sentiti bruciare

di fiamme calde, sospiri ispirati ed aromi deliziosi 

di inchiostro nero, oppio e cannella.

 

Non è solo perché ho visto le tue parole

correre d’improvviso fuori dai tuoi occhi, 

in un attimo di vampa, 

come un lampo giallo nella nera vastità, 

mentre la tua bocca taceva

e lì hanno trovato il mio sangue, abbracciato la mia linfa,

fino a certi abissi di luce che non conoscevo.

 

Non è solo perché mi hai fatto custode

della tua anima nuda, come già mi appartenesse

e tu lo sapevi.

 

Non è solo perché è dalle tue parole che ho trovato la luce

che mi ha lasciato percorrere

i cunicoli segreti delle tue profondità 

che scopro essere le mie.

 

Non è solo perché mi offri la mano che mi salva, 

senza che io la implori, quando sotto di me 

dirupi lupi e spume 

che si infrangono forti sulle pareti rocciose

della mia piccola vita. 

 

Non è solo perché sei lo sguardo

sull’orizzonte che contempla le mie risa, 

come fossero un’alba, mentre la gente non si accorge 

che li beffiamo tutti, dalle nostre stanze segrete.

 

Non è solo perché ho riconosciuto i tuoi occhi, 

una sera sparsa e li ho ricordati dentro la mia anima, 

dove li ho visti attendermi.

 

Non è solo perché 

ispiri sogni che non oserei sognare 

o perché sai infiammare la mia bandiera, 

perché sei parte adorante

di quello stesso fuoco.

 

Non è solo perché

trovo sempre te a salvarmi, 

quando soffoco tra le spire spietate di serpenti

e morsi iracondi di cani rabbiosi.

Ma è per il modo in cui pronunci il mio nome.

In quell’attimo preciso e veloce, lì io ti amo.

 

Perché quando il mio nome esce dalla tua bocca 

io mi riconosco. 

Perché mi piace essere plasmata da te, 

come scudo e lancia com’ io fossi statua di creta 

o ritratto a matita, nel suono che cambia, 

di umori e giorni, di stagioni di desideri e rovine. 

Esco dalla tua anima plasmata di me,

da te, per me, fatta di me, di te. 

 

Ed è una follia benedetta. 

 

Perché mi ammutoliscono le tue parole di me, 

mi spiazzano, mi colorano di umori e giorni,

perché scoprono tutti i veli mentre io resto lì

piccola e nuda, di carne e anima 

a guardarti esterrefatta

come guardavo, da bambina, l’albero di rose magnifico 

che piantò mio padre nel nostro giardino, 

lì 

nell’eternità.


Le nozze

 

Ipocrisia melodica di campane.

Si è celebrato in Chiesa

il funerale di un amore

con la solita

metodica frenesia.

 

Mi addentro nella piazza festante

come foglia morta trascinata dal vento

che svolazza

bassa e ansimante

in un giardino di crisantemi.

 

Una massa mascherata di rossetti e cravatte

gioca a scacchi con la mia sincerità.

E mi par che in un lampo intercetti

la solitudine che indosso

come un cappotto rosso

interrogato dalla nebbia.

 

E così, minuta grigia secca

cala la sua effimera gioia

tanto quanto ligia, enorme sgargiante 

s’innalza la mia agonia.

 

E domani sarà di nuovo noia

a criticar un’amante, una sposa e un ristorante.


Primavera

 

Questo mattino

col cielo addosso

ho osservato la Primavera

districarmi

pazientemente

i pensieri.

Con mani amorevoli li arrotolava

tra le dita lunghe, lunghi

come farebbe una madre.

 

Ed ho osservato il Vento, poi,

allontanare quei gomitoli da me

portarseli via, difendermi

come farebbe un padre.

 

Li ho seguiti allontanarsi nel cielo,

farsi piccoli, più piccoli

come stormi bianchi o lampade cinesi fluttuanti

per diventare celesti e infine argentati

sulle piccole ali di una colombina

mentre la banda suonava

da qualche parte.

 

E d’improvviso

sulla mia pelle

tela di neve invernale

schizzi gialli, caldi di sole

macchie celesti di cielo e linee mosse

di danze verdi

pois variegati di fronde.

 

Abbiamo parlato un po’

io e la Terra

di come sia salvifica per entrambe,

la Primavera.


Espressioni d’Autunno

 

Guaito di cani.

Giorno grigio.

Gusto metallico,

risveglio fumato

di occhiaie e tachicardie.

Grigio giorno

coi piedi nel fango,

lo smalto sbeccato

graffiato di noia.

 

E d’improvviso

di fronte a me

si spalanca l’Autunno di fuoco.

Vivo di movenze aranciate,

bruciante di danze gialle, 

variegati schizzi amaranto,

coralli tondi tra intrecci di abbracci

verdi olivastro.

 

In volo dalla terra al cielo

bighe dai cavalli ambrati,

chiome ramate, attorcigli di fronde mosse

come chiome rosse di donna.

 

Autunno di fuoco, dalle labbra carnose,

scarlatte e socchiuse.

Autunno di fuoco, terra di bosco, terra di Siena bruciata.

Terra che cova i suoi semi.

 

E nell’infinito plumbeo

in attesa di prodigiosi tramonti

una danza di ballerine sinuose,

una danza di libertà,

gli aironi bianchi.


L’Artista

 

Ed ecco, 

d’improvviso l’Artista 

non chiede il permesso

e spalanca finestre d’oro

nella noiosa oscurità.

Lesto, afferra il mio cuore pulsante

con mani sfrontate

graffiate di sogni,

e lo stringe tanto forte poi, 

rosso melograno maturo,

da far schizzare fuori

dalle sue dita di ali

il succo rosso della vita stessa.

 

L’artista lo inala e lo soffia

attraverso il ponte della sua arte

lo fa scorrere veloce 

attraversare valli

scivolare montagne

gimcanare tra radici e fronde di bosco

per poi infine

esondare 

sopra la vita stessa

ove precipita e si spande

cascata di semi scarlatti

sopra terre novelle

di rinnovata fertilità.

 

Un volo rosso.

La pienezza della semina.

La bellezza infinita della fioritura.

Un garofano giallo che esplode

in petali d’oro

nel buio notturno.


Tempesta di tigli

 

Questa sera,

la mia piccola città addormentata

è vestita di una silenziosa, timida

notturna Primavera.

La luna piena gioca al solitario

e diverte le magnolie

arrotolata com’è

nella coperta del cielo.

Non ci sono stelle nella tempesta di tigli.

Si sente solo suonare

in lontananza

una civetta.


Follia

 

Venere meschina

che giochi di sensi

non pensi a me cha agonizzo?

Realizzo di non avere templi di adorazione

se non giganti di vento

che coi deliri 

fanno della mia vita

dimensione d’aria e piaghe nel corpo

piaghe di sonno e d’inedia.

Impazzisco tra elastici colorati

e fiori di carta

forme di follia

che non d’arte ma di fumo

colmano le mie stanze.

Perché, Natura, hai fatto di me il tuo giullare

nelle ore di noia?

Era d’autunno o era d’estate

quando hai scarabocchiato la mia immagine

nel giorno?


Tu

 

Tu ami come il Vento

che stordisce le fronde dei salici.

Sono sponde pellegrine

quelle lambite dai calici,

così tu baci.

Taci al chiaccherìo di stelle sgomente

bollente d’estate

che ora, come allora, più non senti.

Menti al loro fruscìo

come il Tempo 

bugiardo

che oggi le mostra dense

e ieri

le spense.


Promessa

 

Per Te

che assapori la vita dalla coppa di Bacco

voglio danzare

e lambire il rubino dalle tue labbra

e gridare con le baccanti

isterici canti di frenesia

per amnesia e lussuria.

Infuria la terra

gelosa di noi

bramosa di vergini

e priva di dei.

Per te

che infiammi la vita dal carro di Febo

e ardi del fuoco del Sole

voglio tradire il mare

e darti da bere le onde impetuose

e le acque profonde

dalle sponde rocciose

agli abissi.