Emidio Albanesi

Attimi in versi


Un giorno, una vita
Fosso della Montagna, 12 marzo 1944

 

Se ne sta lì per terra, appoggiato a quel ruvido tronco. È ormai l’alba. L’alba di un giorno come tanti. O forse no! L’aria è fredda, pungente. Persino il vecchio castagno è scosso da impercettibili tremiti. Colpa della neve. Ancora quella maledetta neve! Più di tre palmi, e in una sola nottata!
Ma poi cos’è questo strano silenzio? Solo il gorgoglio sommesso del fosso. E quella foglia giallastra che, nell’ultima agonia, prova a librarsi nell’aria grigiastra. Pochi balzi interminabili, inutili, ed è già nella putredine del sentiero melmoso, sotto quei giganti secolari.
Se ne sta lì per terra, appoggiato a quel ruvido tronco, Branko Mantic. Come un vecchio lupo ferito. Respira a fatica. Respiri corti, affannosi. Quel dolore non gli dà tregua. E c’è quella macchia rossa, all’altezza del petto, che si allarga pian piano sulla vecchia e lisa camicia di fustagno.
È esausto. Le gambe non vogliono più sentirne di camminare! D’altronde ha girovagato, senza una meta, per tutta la notte. Ha persino provato a correre, quando si sentiva inseguito, anche dalle proprie paure. Sovente è ruzzolato a corpo morto in quei bianchi pendii scoscesi, sotto la sferza della tormenta, con le grida che gli morivano in gola. Sempre alla ricerca d’un riparo, d’un soccorso, d’una voce amica.
Invece niente. Nessun’anima viva! Soltanto lui, e la vecchia montagna, che gli ha urlato negli orecchi tutto il suo livore, come una bestia ferita. Ora è solo. Disperatamente solo. Chissà dove sono i suoi compagni! La battaglia è stata davvero cruenta! I tedeschi, maledetti!, li hanno colti di sorpresa, all’alba del giorno precedente. Sono stati svegliati di soprassalto, dal crepitare delle armi leggere, e dai primi boati dei mortai, che hanno preso a infierire sulle case già martoriate di quei poveri disgraziati montanari d’Umito.
Gli sembra di avvertire ancora le grida del suo vecchio comandante. Tra gli spari, li incitava a trovar scampo su per l’erta del Maolaro. No, capitano! Noi restiamo qui, tra questa gente. La nostra gente! A morire, se necessario!
Così sono rimasti in molti, lì per terra. Lividi, esangui, tra quelle case annerite.

Se ne sta lì per terra, appoggiato a quel ruvido tronco. Nel biancore indistinto, pochi pallidi raggi a filtrare tra la spessa coltre grigiastra. In quella gelida mattinata di marzo, ancora quel silenzio assordante. La morte alita ancora nell’aria!
Ma poi torna l’eco mai spenta delle grida di dolore. Così, davanti ai suoi occhi, rivede cadere lì nella piazzetta John, l’inglese, le carni dilaniate da un terribile scoppio. Rivede pure quel greco, Alexis, piegarsi in due in una terribile smorfia, raggiunto da una raffica. Subito dopo, uno dietro l’altro, Gregorio, Mario, Italo: i diletti compagni italiani! E nel fumo greve dei primi incendi, ancora altre figure indistinte che si accasciano.
Nel frattempo, sempre più da presso, le grida strozzate e le intimazioni rabbiose di quelle belve in divisa. Rauss, rauss!…E sfondano usci e finestre. Rauss, rauss!… E spingono, e ammassano a forza sulla piazzetta, quei poveri disgraziati montanari. Rauss, rauss!… E sparano e uccidono e incendiano, nella loro furia cieca. E poi ancora, lo strazio di quelle urla.
Sente ancora distintamente gli strilli disperati di quella bimba, tra le fiamme. E pure i singhiozzi inconsolabili di sua madre agonizzante, lì presso alla casa che brucia. Alla fine, si spegne anche lei, assieme alla sua bambina, folle di rabbia e di dolore, con la morte nel cuore e negli occhi, sparando fino all’ultimo respiro contro quegli aguzzini.
Dunque, a che serve recriminare adesso? A che pro menare i pugni al cielo? D’altronde che altro potevano fare loro, poveri banditen? Hanno sparato! Sì, hanno sparato all’impazzata, là in mezzo alla torma truce delle SS. Hanno restituito morte alla morte. Hanno resistito, fino all’impossibile. Poi hanno dovuto fuggire, in una fuga ignominiosa e disperata. Braccati e inseguiti, senza pietà, dal piombo nemico.
Non c’erano alternative. Chissà, forse era meglio immolarsi, senza la speranza di un giorno migliore! Tanto valeva morire subito: morire tutti, in quell’alba di sangue! Piuttosto che aspettare ancora, magari il tenue profumo delle prime violacciocche o, chissà!, quello inebriante delle rose di calendimaggio!…

Se ne sta lì per terra, appoggiato a quel ruvido tronco. Deve essere svenuto. O forse è già morto! Quel dolore lancinante, invece, lo riconduce a forza sui sentieri tortuosi dell’esistenza. Perciò riapre timidamente gli occhi, sul mondo.
Poi esplode in un urlo amaro, fragoroso. Subito dietro, il volo nerastro di quelle stupide cornacchie spaurite. Adesso no: non ha più alcun timore! Che vengano pure a prenderselo i crucchi! che vengano a trascinarsi il peso inutile della sua carcassa!
Intanto, timoroso, il sole fa capolino tra l’intrico dei rami. Il fosso, di là, canta allegramente, con la sua voce antica. Chissà come saranno felici, i gamberi! Niente più incursioni notturne, niente più insidie e trabocchetti!
Di certo lui l’aveva imparata bene quell’arte. Grazie anche a un ottimo maestro! Il vecchio Franció era stato veramente prezioso in quelle notti trascorse all’addiaccio, rubate chissà come a quella guerra crudele. Un po’ di spago, qualche pezzetto di prosciutto, e tanta pazienza. Ma ne valeva la pena. Che mangiate di gamberi! E che… bevute! Già, il vino cotto. Aspro e leale, come quei ruvidi montanari!
Così ora ride, in cuor suo. Lui, Branko Mantic, studente serbo di ventiquattr’anni e di… belle speranze, è dovuto venire sin qua, in questo sperduto paesino di montagna, per imparare a pescar gamberi. Mah, va a capire la vita!
E subito dopo, sono frotte di pensieri che volano. Come quei passeri infreddoliti. Timide macchie oscure e sfuggenti, là in mezzo ai castagni impietriti. Chissà se ce l’ha fatta, il caro Ilja! Già, Ilja Ivanovic, l’amico più caro di tanti imboscamenti, di tante battaglie.
L’ultima volta che l’ha visto, stava dietro di lui. E ansimava e imprecava al cielo. Accade spesso che in quei frangenti ci si possa perdere di vista. Si cercava soprattutto di salvare la pelle, nell’attesa di fargliela pagare a quei farabutti assassini!
Proprio allora è arrivata, inattesa, stramaledetta, quella pallottola. E subito dopo una fitta terribile, come d’una sottile lama infuocata, a trapassargli il torace. Ilja, amico mio, aiutami! Ma Ilja non stava più al suo fianco…
Sulle prime, non riusciva neanche a respirare. Pure le gambe non gli reggevano più. Ma pur a stento, doveva proseguire. Da solo. Bisognava ancora lottare, resistere!…
Di nuovo il pensiero corre a Ilja. Forse ce l’ha fatta a trovare un riparo, nell’intrico più fitto del bosco martese. Almeno lui potrà salvarsi! Così potrà tornare a Belgrado a terminare gli studi. A diventare finalmente, lui sì, un bravo ingegnere!
Di colpo si fa triste. Sente la vita sfuggirgli. E con essa, i sogni e le speranze. Ancora più struggente, torna la malinconia per la sua terra lontana. I tiepidi raggi pomeridiani rischiarano quella gelida conca innevata. Lentamente i frammenti del suo passato riaffiorano tra le pieghe più intime della memoria. Davanti ai suoi occhi, sembra spalancarsi la visione della «sua» campagna. E là, tra le stoppie giallastre, la vecchia casa di sassi grigi. Il camino fuma ancora! E poi via via quelle care dolci sensazioni: i muggiti e i campanacci del pascolo; poi l’odore del caglio, e il profumo di calde focacce; quindi, i richiami e le voci di un tempo.
Dunque, a casa, finalmente! E d’improvviso svaniti per sempre, il sangue, l’odio e la guerra. Ora sì che può andarsene, Branko. Non senza un abbraccio e l’estremo saluto agli affetti più cari.
Ciao, vecchio Dragan! Fuma pure tranquillo la tua pipa, padre mio! Vedrai, finirà questa guerra!… E tu Meritza, dolcissima madre, non piangere! Se ti diranno dov’è tuo figlio, rispondi ch’è andato a morire lontano, in terra straniera! È andato a morire su questa montagna, così aspra e crudele, e pure bagnata dal sangue di tanti compagni. Qui il tuo amatissimo Branko riposerà per sempre!…

Se ne sta lì per terra, appoggiato a quel ruvido tronco. Il volto è finalmente disteso in un largo sorriso. La morte ormai al suo fianco. Adesso può riposare in pace, senza più l’assillo del nemico e di nuove cruente battaglie. Le tenebre scivolano rapide giù dalle pendici innevate. Già s’apprendono tenaci alla campagna d’intorno. Quel gelido cielo di marzo gli regala il conforto delle prime stelle.
Ma in quell’ultimo crepuscolo, c’è ancora il tempo d’un miracolo. Proprio lì al suo fianco, un fiore. Una tenera primula, spuntata chissà come, tra l’umidore del muschio. L’accarezza estasiato e ormai respira a fatica. Poi, con gesto estremo, l’afferra nel pugno. Quindi l’accosta al volto: inspira profondamente: si bea per un po’ di quel tenero aroma.
Ora sì! Finalmente può andarsene, per sempre! Con quella fragranza che gli riempie le narici. Dolce olezzo della primavera incipiente, e pur amarognolo, come il rimpianto della sua giovane vita spezzata. Forse è proprio questo il profumo inebriante della libertà!

A tutti gli eroi e resistenti, caduti in nome della libertà!