Erika Di Giulio

Poesie e Racconti


Granuli

E se riuscissi a parlare di quel che è il mare;
e se riuscissi a pensare senza dover rinunciare, a ciò, a ciò che vorrei diventare;
e se potessi sognare un mondo irreale;
senza doverti guardare, basterebbe immaginare;
quel che c’è da fare; i tuoi occhi saprebbero bastare;
e avanzare, avanzare, come le onde incalzare;
da sempre mi piace immaginare, e riuscire a sconfinare;
cantare e cantare; un amore da narrare…
E nello scrutare lo si scorge quel mare.

 


 

Conchiglia

Mi piace annusare il sapore del mare.
Svalvolare.
Guardarmi andare a capofitto primordiale.
Non dover giustificare. Non poter parlare.
Sentirmi protetta da un alone che potrebbe esser mortale.
Sognare di saper nuotare… nel pozzo dell’organo vitale.
Poter chiamare la me stessa originale.
Abissare, abissale il fondo della dicitura “amare”.

 


 

Fonte

Io mi nutro di termini e suoni composti.
Tu accatasti quelli che sono i detti, li accosti.
E ci sbraitiamo, scomposti.
Mi ardi dentro perché nessuno mai conobbi che parlasse come te, li rivolti.
Avvolti siamo, dalle fiamme: dammene, di sentenze: veemenze per l’animo mio.
Malgrado.
Malvagio nell’usare nomi, mi devasti; tornasti lesto, a mangiarmi la mente, ad inorridirmi il cuore di fuoco fatuo. Tempo vacuo.
Ma quel che tu mi dici: mi apri. Mi ripari.
Son la tua noce: voce settembrina, una bambina capricciosa. Vogliosa!
Sei nettare, dannato per il mio accusare.
Sei fatto di parole, mi ti divorerei.
Sei un essere mitologico, sei un dio: sei l’amore dello scrittore.
Come fonte eterna, effimera ti cerco affannosa: leccandoti invento lo stilare.
Perché sì, tu si, sei il mio parlare.

 


 

Deflagrazione

Gemente ti vedo mentire, costruire e costruirci per dannarci al soffrire.
Perché la codardia fa da padrona, sorniona ti divora, ti cattura: la paura.
E io stupida Calipso, rovente ti invoco, patisco: perché non mi vuoi, perché mi temi e gemiti nel vederci cospargerci di amore profano.
Invano ti chiamo: il ti amo.
Non me lo dice mai nessuno, affannosi mi guardano, mi scrutano beffardi: per la mia pelle, per la passionalità da trarne; ma io ho cervello e mi svendo per il bene velle.
Quello cerebrale, il più carnale: sì, per quello vale.
Solo con te, per la tua approvazione materiale, come insulsa Calipso con un Ulisse ormai blando, mi adorno di foglie d’avorio e piume d’oro; un canoro invito a non rifiutarmi più: sei tu, voglio un tuo volermi sonoro!
Ma non mi vuoi perché son stata la tua saggia Penelope e non come adesso vana Calipso membra di brace, vorace; ora, da quando ci danna il tempo, ho scordato il sentimento.
Però mi ritroverò e ci ritroveremo.
E lo giuro: noi saremo.

 


 

Elios

Questo è un fare sublimante,
guardarti ansimante mentre cerchi ciò che sono: un canoro canto di cui vibro e che intono,
quello spazio che intercorre,
ore perse nel volerci,
ebbri di una passione che in potenza era l’atto del separarci.
Crono che, affamato, bramava masticarci.
Ma divisi siamo lerci.
Disfarsi, di noi:
vuoti, vani, buoi del sole;
macellati dal calore di ciò che ci prometteva amore.

 


 

Νοστος

Io vorrei che tu tornassi.
Sbraitassi, urlassi.
Mi deviassi, altri passi.
Mi lasciassi, cuore in sassi.
Ti scostassi.
Altri lidi cercassi, altri lassi.
Ma guardassi, varcassi.
Tu che oltrepassi. Che mi trapassi.
Sentenziassi il no all’amarsi.
Pur solo, viaggiassi.
Strappassi, tagliassi, potassi.
Mirassi, se non me, i tuoi assi.
Contassi, i nostri sospiri, li rimembrassi.
Ti adattassi, se non a me, al bastarsi.
Che non mi condannassi…
Che ci perdonassi.

 


 

Fonte

Io mi nutro di termini e suoni composti.
Tu accatasti quelli che sono i detti, li accosti.
E ci sbraitiamo, scomposti.
Mi ardi dentro perché nessuno mai conobbi che parlasse come te, li rivolti.
Avvolti siamo, dalle fiamme: dammene, di sentenze: veemenze per l’animo mio.
Malgrado.
Malvagio nell’usare nomi, mi devasti; tornasti lesto, a mangiarmi la mente, ad inorridirmi il cuore di fuoco fatuo. Tempo vacuo.
Ma quel che tu mi dici: mi apri. Mi ripari.
Son la tua noce: voce settembrina, una bambina capricciosa. Vogliosa!
Sei nettare, dannato per il mio accusare.
Sei fatto di parole, mi ti divorerei.
Sei un essere mitologico, sei un dio: sei l’amore dello scrittore.
Come fonte eterna, effimera ti cerco affannosa: leccandoti invento lo stilare.
Perché si, tu si, sei il mio parlare.

 


 

Granuli

E se riuscissi a parlare di quel che è il mare;
e se riuscissi a pensare senza dover rinunciare, a ciò, a ciò che vorrei diventare;
e se potessi sognare un mondo irreale;
senza doverti guardare, basterebbe immaginare;
quel che c’è da fare; i tuoi occhi saprebbero bastare;
e avanzare, avanzare, come le onde incalzare;
da sempre mi piace immaginare, e riuscire a sconfinare;
cantare e cantare; un amore da narrare…
E nello scrutare lo si scorge quel mare.

 


 

Fruscio

Acqua stagnante di parole stanche che vanno leste a smuovere un cuore: conosciute non si arrendono, torturate persistono nello sperar la grazia del cambiamento.
Collocamento temporale, corale vento: il Maestrale.
Tonale, cromia micidiale vedervi cambiare.

 


 

Regno

Sono una sirena, figlia del padre mare.
Che mi ha insegnato a valere, ad amare il prossimo come me stessa.
Siamo pargoli tutti uguali, non c’è primo, né secondo, né terzo, siamo il mezzo dell’esempio.
Nostro padre ci ama, come nostra madre: la luce diurna.
Siamo nella notte portatori di speranza, irati dall’uomo che nasconde prede sull’avanzar della sera.
Siamo senza mezzi termini e non amiamo l’umanità; una castità eterna che ci fa idolatrare il cielo.
Io sono una sirena, e mio padre mi ha unita in matrimonio con l’umano; mia madre lo ha battezzato con i raggi solari.
Una donna dei due mondi ero divenuta; avevo tutto, senza saperlo.
Amavo il principe della terra, perché in lui avevo trovato la completezza che negli abissi non trovavo: come seme concimato esclusivamente dall’acqua.
Sono arrivati altri uomini, mi hanno derisa, scalfita, blandita, gestita, bandita; e lui, condizionato, mi ha abbandonata. Il flusso che era in me si stava prosciugando.
Il padre mare mi invocava nei dì di luna piena ed io, ora non ho più un cuore, lo ignoravo; mia madre piangeva le più buie delle sue notti: non uscendo, il cattivo tempo urtava il mare che invecchiava e invecchiava, e peggiorava.
Io non ascoltavo i richiami, dei miei fratelli avevo dimenticato il nome; io non ero più brezza marina.
E cercai, e cercai in tutti i litorali del mondo il mio promesso sposo, anche in quelli della fantasia, senza successo.
Ora dunque ho deciso di tornare in fondo al mare, se mio padre non mi caccerà e mia madre mi vorrà ancora un po’ di bene; altrimenti dovrò demolirmi come sabbia, e lui dovrà toccarmi ancora.