Fabio Tiddia - Poesie

Nigredo

di Fabio Tiddia

O paradox! Black is the badge of the hell,
The hue of dungeons and the school of the night.

William Shakespeare, Love’s Labour’s Lost, IV, 3, 251-252

 

 

Azoth

Chiedi agli occhi plumbei di Isaac Newton,
chiedi chi ha tessuto la tristezza dei mari,
maledetto Behemoth non mi pari sogno o phantasma.

Chiedi agli occhi senza pupille di Isaac Newton,
chiedi quanto è sola ogni montagna saggia,
ci faremo vette, Cesare morendo si velò le gambe.

Chiedi agli occhi carbone di Isaac Newton,
chiedi perché Mosè si levò i sandali a Oreb,
il crogiolo ardente nello sguardo della Pelagonitissa.

Chiedi agli occhi tutti neri di Isaac Newton,
chiedi del sonno di Saturno che anelo,
esilio, óstrakon, segrete nuvole del Piranesi.

Chiedi, agli occhi plumbei chiedi,
dell’abisso che noi siamo il termine.

 

 

 

A Patroclo

Ti scrivo dal Ponto, dal cuore di Aleppo,
con un bagaglio d’ansia e nostalgia
per la sorte delle ossa del Macedone.
Perchè gli opposti non coincidono.
Languidi sguardi di narcisi e di sirene.
Abbiamo un carico di vite
pregresse che sfocia nell’oblio.
E ci resta un cuore malato di politeismo,
che gli ipocriti brandiscono.
Ma non è una spada, nè l’arco dei Mongoli.
Ho il fisico della foglia io,
“la povertà è il suo vanto”
così ci scrissi un giorno sopra, amore mio.
Ci resta un senso d’incompiuto. L’ignoto.
Lo zefiro di quel giorno. L’addio.
In mille colori lo scarabeo egizio
volato via. Oltre i muri del paradiso.
Ma si apre ancora il tuo viso.
Dietro la maschera d’oro, non impallidisce
la primizia e il gelsomino.

 

 

 

Ananke

Anche se non ho ucciso nessuno
scappo come Cellini dal mio io.
Mi fermo con gli angeli di Guariento
a parlare di gioia mancata, mi fissa
crudele l’uomo nero ma io continuo:
fin dove sorge la sfinge.
Quel corpo che lavano sarà il mio?
Non oppone resistenza, la colonna si disfa:
sulla spiaggia una miriade di cicindele,
inseguivamo un nome e trovammo l’inizio.
Che importa finire selvatico come il Parmigianino,
sommerso da ghiribizzi di strane fantasie?
Il vento profuma di ginestra, annuisce
al Re dei Re ho rubato il regno.
Il Perseo è puro fallimento.

 

 

 

Improbe amor, quid non mortalia pector cogis!

Virgilio, Eneide IV, 42

Lo specchio rosso

Amore antico come una cometa
ma pur sempre effimero il mio,
tornerà dall’equivoco dell’esistenza
allo specchio rosso che sorge,
colui che in noi unì fuoco e neve.
Uscirà da questo secolo di gramigna
come il tuonante carro d’Elia,
il serpente imbambolato incanterà
prima che morda il suo incantatore,
avrà rugiada e non ruggine di Cipro.
Dove abbandonarono muta Didone
svettano spighe di grano che ama il sole,
i baci sono onde ciarliere, il mare muore,
la fortuna della vita è l’amore.

 

 

 

Estate

Non guarirà il mio amore per te
una corona di viole, né Costantinopoli.

Non salverà il mio cuore che è tuo
lo scarabeo blu, vanità dello Spinario.

Il maestrale che piegò i ginepri e le stelle
la polvere mia dalla tua soglia soffierà via?

Le cicale cantano ovunque si posi l’estate
dannata che machomet mandò all’inferno.

Che coraggio trovano a Luglio le rose
per fiorire e non finire come il Tasso?

Non per desiderio, né fede, ma l’amore
sbagliasti tutto, come Galla Placidia.

Venuta è l’ora per il rosso airone, Ora
di custodire su una gamba lo zircone.

A che servono gli occhi
se non posson vedere te
ripetevo io, il poeta Sordello…

 

 

 

L’angolo

Odioso è l’io, odioso è l’io
per lui tace la voce delle sfere
profanata la pudicizia di Corradini
ammutoliscono gli iris, Dioniso e Cristo.

Odioso è l’io, odioso è l’io
che diecimila cuori nelle viscere
di Adamo ripone, quanto i dolorosi
fichi che a Calcante spezzarono l’orgoglio,
ma una, una è la pietra che i costruttori eliminano..

Odioso è l’io, dovrò tuffarmi anch’io
tra i flutti di un mare mercuriale
precipitarmi incredulo nel fuoco
come Calano a Babilonia nella neve.

Non fece lo stesso l’araba Fenice?
Non fu lo stesso per il curioso Frate Elia?
Non apprendesti d’Aristeo la famosa bugonia?

 

 

 

δέδοικα μωρὸν κάρτα πυραύστου μόρον.

Ardor caeli

Asperrima ingiustizia la vita, canìcula
quale cristiano vi porterà il mio fio
e quale pisaura espierà la follia?

Nelle grinfie del tortóre odio è la speme
salva la zizzania, arso il buon seme
felicissimo è l’amor delle Pleiadi.

Sai quali nimbi pianser la tristìzia del mare
e quale folgor esatta ferì Anchise, ma vedi
o non vedi chi splendidamente i gerani incenera?

D’etere non forgiasti i sogni tuoi,
chi importuno consolò Giobbe resiste,
lieti i lumi plorano alle stelle, sempre sole e fisse.

 

 

 

Come gli dèi

Quanti dardi servono per tinger di gioia il viso?
Dagli intermundia han mai versato lacrimine
per un fiore armeno volato via il terzo giorno
o la donna arsa viva nel cuore dell’India?

Il sole illumina pure il volto della gorgone,
dovere del nome è estinguersi
per l’eco migrare nel Ponto:

sarò mai indifferente alle grinfie di Scarlatti
come Arcimboldo al vìride Rodolfo secondo?

Non posso rispondere, non posso sorridere.
Onora gli dèi dell’Olimpo, muori ad Aprile.

 

 

 

Leviatano

Se il mio amore infinito ti ha atterrito
se il mio amore t’ha condotto troppo lontano,
t’avrei amata meno, non come i folli marinai
che fuori di sé il Leviatano inseguono.

Eppure era solo amore quello che ci ha gettato
tra le braci, gelidi tizzoni ardenti, ai Leoni,
non avrei potuto scegliere una fine altra
la Pizia farfugliò che la tua mano è l’alba.

Se il mio amore infinito ti ha impietrato
se il mio amore è salpato per la via lattea,
t’avrei amata meno, non come gli alchimisti
che per l’oro dilapidano gli anni, la speranza.

Eppure era solo l’amore che sul coccio
ha inciso beffardo i nostri nomi, senza patria
le sirene ascoltiamo, ammiriamo le ossa candide,
la Sibilla balbetta che il tramonto è la tua guancia.

Fùlmini o diòscuri sfiorano le barche.

 

 

 

Baba-Jaga

Non so dire se mai ho vissuto.
Cosa risponderebbe la mia ombra?
Fu reale Ninive? Fu vera Ur?
Il tordo che liberai dai ceppi ero io o era lui?
Nell’oscura tenebra il serpente
non era la corda arrotolata,
fu sogno anche l’abbraccio
fraterno di Enkidu?
Il giglio e il suo principe sono appassiti.
Pallido il colorito di chi dice:
guarda quella fontana, noi
siamo Castore e Polluce.
Dal tuo ventaglio miri Baba-Jaga,
l’ennesimo quadro d’esposizione:
la betulla d’argento non lascia
che l’illusione di aver scelto,
e ti perdi, come un pirata nel bosco.
Nessuno libererà Benito Cereno?