Fausto Cassone - Poesie e Racconti

Adrienne

Era tempo di neve

nel tuo paese lontano

e il tuo sorriso languiva

nei silenzi di ieri.

Ti abbuiavi

nei giorni dei merli bianchi

e quando cominciava

il cielo della notte

la malinconia arrivava

per trascinarti in un ballo lento

come le onde del mare.

Oggi hai contato

i petali del geranio viola

che scivola fiorito dal balcone

e in un istante di sogno

la lontananza è diventata vicina

mentre il giorno scorreva chiaro

nel castano dei tuoi occhi

come pensieri d’amore.


Respiro forte.

Contro il vento,

immobile, nel grembo azzurro

tiene distese le ali

la gazza a inseguire il tempo

dei nuovi nidi.

Con rami secchi di faggio

raccolti uno ad uno

intreccia un riparo

di frammenti di vita

tra le nuove foglie della betulla.

I morbidi passi scalzi

della ragazza con la gonna blu

in solitaria danza

sopra le piastrelle rosse

del pianerottolo vicino,

sollevano un lembo

sull’eterno groviglio

racchiuso in misteriose

profondità di madreperla.

Respiro forte

l’aria di questo giorno

per dipingere i sogni,

i tuoi, i miei,

in quel mondo unico

dentro di noi

di terra e di cielo


Sopra i tigli del viale

Acri volute di fumo

in questi giorni

in queste notti di vane parole

mi avvolgono l’anima,

impregnano gli occhi

distorcono i contorni

del nespolo in giardino.

Lenzuoli stesi

quasi piccole vele

gonfiate da deboli fiati

verso oscuri approdi,

ondeggiano lenti

nel limbo ancor grigio.

Adagio,con passi impacciati,

vago tra dune infinite

cercando un’alba

in fondo alla strada.

Intanto il primo raggio

illumina le foglie più alte

sopra i tigli del viale.


RIFERIMENTI

La mano di una madre

quando indica il cammino

riempie gli occhi

di percezioni sopra naturali.

Quando

nella torrida via dei giorni,

distorti  miraggi

di serpenti e locuste

si ergeranno per avvolgerti

in un baluginante pulviscolo,

troverai riparo

sfiorando una piccola mano

appoggiata alla scia

di una stella cadente


I girasoli di Maria

 

Ieri, Maria rincorrevi

gli sghembi rimbalzi della palla

sotto i pallidi lampioni gialli

nello stretto sentiero

accanto alla rete dell’orto.

Nei tuoi passi a ritroso

in un palpito hai rivisto

lo sbilenco e dolce

dondolio dell’altalena

nel tuo vecchio cortile

affacciato sul Mar Nero.

E con le mani,

hai scrollato via dai capelli

le ultime colorate  bolle di sapone,

sfiorando i girasoli, ormai chiusi per la notte.


Colori remoti

S’è sciolto

il colore della notte,

resta il profumo deformato

di braccia assopite,

di evanescenti labbra

disperse nel sottile tremore

del passato.

Attimi di colori remoti,

ora il cammino

è fuga nel nulla,

un viaggio

entro una torbida acqua

che sfugge dalle mani

come un’angoscia muta

d’inchiostro sbiadito.

Nel cielo schiarente,

i randagi occhi di un gatto,

silenziosa ronda di notte,

riflettono breve

l’ultima tenue luce di una stella.


La sposa bambina

I tuoi occhi profughi

pregavano quel Dio lontano

mentre il cielo diventava mare

e il peluche grigio inghiottiva

l’ultima luna prima dell’alba.

La paura era il manto

delle notti passate,

aveva il volto freddo del vento

sopra le foglie cadute dalle rose

del tuo matrimonio bambino.

Poi solo odor di bruciato

girava sopra le case piegate,

i rami spezzati pendevano frutti

dal sapore di morte

e il ricordo di un bacio avvizziva,

timido come il sussurro

di una conchiglia.


Saìd Amar

Era arrivato in Piemonte da pochi mesi dalla Cabilia.

Dei suoi antenati Berberi conservava la magra fierezza del volto scavato dai venti del deserto, una curiosità negli occhi scuri mai appagata, e l’amore per il verde, l’acqua e l’aria libera. Per via di questo patrimonio genetico, da inizio giugno aveva accettato con entusiasmo l’offerta di lavoro del “Margaro” Gepu che aveva conosciuto nelle strette vie medioevali del Borgo Castello, in occasione della Fiera della Ciliegia di Dogliani, mentre dietro il banco aiutava un cugino a esporre prodotti etnici artigianali della Cabilia.

Gepu cercava un portafoglio di grandi dimensioni, delle cinte in cuoio marocchino e, fermatosi a discorrere con il venditore, insieme al portafoglio trovò pure un aiutante per i mesi dell’alpeggio.

Saỉd ancora senza lavoro, d’istinto, come lo avesse sempre conosciuto, ascoltò l’anziano baffuto raccontare le difficoltà incontrate per trovare qualche giovane che custodisse gli animali in alpeggio “ Parlano che manca il lavoro, a un indiano ho offerto 1.600 € al mese per rimanere con me in alpeggio a Ostana, nell’alta valle del Po, ma dopo averci pensato qualche giorno, ha preferito lavare i vetri delle auto nel distributore accanto al supermarket appena fuori paese.“ Gli occhi di Saìd per un attimo fissarono il vuoto, si chiusero ripercorrendo le transumanze sulle pietre, sui sentieri a strapiombo dell’Atlante seguito dal gregge del villaggio. Si passò la mano sinistra sulla fronte per scacciare quelle immagini che lo avevano turbato, guardò dritto il vecchio nel volto e senza rendersi conto gli volò fuori dalla gola “posso guardare io gli animali sulle tue montagne, mi manca quel cielo che cambia rapido da un momento all’altro, da uno spigolo all’altro della montagna senza che te ne accorgi, se vuoi, vengo io.”

Gepu squadrò il giovane, si lisciò i baffi grigi, lo pesò con l’esperienza maturata in decine di estati solitarie passate in alpeggio, e con la furbizia acquisita nei mercati della pianura a contrattare con negozianti di ogni cotta chiuse il discorso in tre parole “ Alla cascina Reviglia,  il 23 giugno” e s’allontanò  dal vicolo, sicuro che l’avrebbe rivisto.

E alla vigilia di S. Giovanni, alle prime ore del giorno sopra una vecchia bicicletta, accompagnato dall’abbaiare dei cani, Saìd giunse nell’aia.

“Sei stato puntuale, da oggi al 29 settembre rimarrai sulle mie montagne, le confronterai con le tue, son sicuro che ti piaceranno, aspetto questi tre mesi tutto l’anno, per me sono la vita, vieni che dobbiamo preparare gli animali, gli autocarri arriveranno alle tre per il carico. Prima andiamo a far colazione.“

I tre mesi, scanditi solamente dal sole e dalle ombre che aprivano e chiudevano le giornate, volarono tra i silenzi del pascolo, i muggiti delle madri rivolte ai piccoli, e le note di fisarmonica che Gepu ogni sera intonava al cielo prima del buio della notte.

Saìd contava con apprensione i giorni del calendario perché sapeva che quella vita, immersa nel pieno contatto con la natura, tra poco sarebbe finita.

E, infatti, a fine settembre i capi ridiscesero in pianura, Gepu gli consegnò gli ultimi tremila euro della paga e abbracciandolo per il lavoro svolto e la compagnia ricevuta

lo ringraziò commosso “ Sei stato un amico più che un aiutante, il tempo è passato  leggero, ed ho imparato che anche la tua gente sulle tue montagne fatica e tribola come noi pastori margari. Il prossimo giugno se sarai libero, sarei felice di riaverti con me.”

Saìd riprese la bici arrugginita dal portico degli attrezzi e prima di uscire dal cortile, guardando all’indietro verso la finestra aperta della cucina, chiamò per nome il margaro

ciao Gepu, domani tornerò a salutarti ancora una volta.”

E come promesso, il giorno successivo verso le tre del pomeriggio, mentre gli animali stavano pascolando l’ultima erba di pianura, Said ritornò fermandosi accanto al gelso dove Gepu era solito appoggiarsi per schiacciare un pisolino ad occhi semichiusi per  controllare i movimenti della mandria. Scese dalla bici e gli porse una scatola ben confezionata.

“ Questo perché sei stato buon amico con me, così, quando vorrai, ci potremo salutare anche lontano” Gepu  si alzò, scartò la scatola,  l’aprì a fatica con le sue dita nodose e vi

trovò un cellulare ultimo modello pronto a funzionare. In un attimo il ragazzo inserì il proprio numero, spiegò quale tasto schiacciare per chiamarlo e lo consegnò nelle mani del pastore. Gepu con due dita alzò la visiera del cappello, impugnò il telefono con la sinistra,

e con il dito indice dell’altra mano schiacciò il tasto indicatogli e rimase sorpreso, quasi interdetto nell’ascoltare un suono vibrante scaturire dalla tasca di Said.

“E’ il suono del mio telefono, tu chiami e ti risponderò in qualunque città io mi trovi” La scorza annosa di Gepu non s’incrinò, soltanto gli occhi divennero più azzurri e nel dirigersi verso il pozzo disse soltanto “Va bene, ogni tanto ti chiamerò, buona fortuna “ e non si voltò più indietro per nascondere quel velo sottile che gli appannava lo sguardo.

Saìd senza lavoro si diresse alla stazione ferroviaria, e acquistò un biglietto per raggiungere la sorella Fadma e il cognato Idris emigrati da Milano a Capriate S. Gervasio.

Quando avvisò la sorella del suo arrivo, colse nella sua voce un attimo d’inquietudine subito sopraffatto dalla gioia del prossimo incontro.

Nel lungo viaggio nella pianura che scorreva veloce, attraverso il vetro della carrozza rivedeva ancora le montagne della valle Po attorno ad Ostana che lo riportavano alle immagini dei numerosi villaggi della sua Cabilia costruiti su creste simili per non togliere spazio alle colture lungo i fianchi dei monti e nelle vallate.  Poi, le immagini scomparvero e vennero sostituite da orticelli serrati da reti metalliche arrugginite, depositi ammonticchiati di rottami d’auto, e poi da alte costruzioni tutte eguali con uguali balconi di cemento sovrastate da foreste di antenne, secche come i rami degli alberi d’inverno.

Distolse lo sguardo dal vetro, tastò la tasca del giubbotto per controllare la presenza della busta di Gepu e, appoggiandosi allo schienale di finta pelle, si lasciò trasportare in uno stato d’animo di sospensione dal presente, in attesa di riabbracciare la sorella e i nipoti che non aveva mai conosciuto.

Socchiuse gli occhi e il ritmico oscillare dello scompartimento gli insinuò nella nebbia dei ricordi l’immagine ancheggiante di Fadma quando, giovane ragazza con le altre donne del villaggio, scendeva alla fontana nella valle per rifornire d’acqua la casa, sempre con il sorriso sul volto perché attorno alla fontana si potevano scambiare segreti e sogni.

Finalmente il rallentamento del treno lo tirò fuori dal dormiveglia, e, come dietro a un unico comando, gli uomini con le cartelle in mano, il giornale sotto il braccio e le giovani segretarie dagli abiti corti e colorati, incuranti dei barcollamenti, si ammassarono nei pressi delle porte d’uscita.

Perché tutta quella fretta? Il treno muoveva ancora, non c’era fuoco nelle cabine, rimase seduto osservando con attenzione sui volti l’insofferenza per l’attesa, e rimase colpito dal mutismo di tutte quelle bocche chiuse.

Lasciò scendere l’ultima ragazza e seguendo le indicazioni telefoniche della sorella si diresse alla ricerca dell’autobus di linea che lo avrebbe condotto a far visita ai parenti.

Anche nel breve tragitto in autobus i compagni di viaggio leggevano giornali, guardavano fuori dai finestrini con gli occhi fissi sul proprio riflesso, come attorno ci fosse il deserto.

15 minuti di viaggio e sotto la pensilina della fermata incontrò gli occhi della sorella, quegli occhi intensi che conosceva da sempre in una figura nuova. Scese gli scalini per ultimo, si avvicinò alla figura femminile ferma sul marciapiede e iniziò un abbraccio senza parole, denso di anni di lontananza, di vite oggi sconosciute.

Fadma indossava un abito italiano come portavano le donne incontrate per strada, aveva perso le curve dei fianchi e il seno si era ritirato, risucchiato dalle folate di un vento sconosciuto, insidioso, diverso dal vento delle creste della Cabilia.

S’incamminarono a passo lento verso l’abitazione della sorella, guardandosi negli occhi per raccontarsi con affanno gli anni vissuti lontano dal villaggio, imboccarono il vicolo Trieste e salirono nel piccolo appartamento.

“ Questa è casa tua, benvenuto Saìd- salutò Idris abbracciandolo a lungo per esprimergli il desiderio di appartenenza familiare, “ Io e tua sorella, viviamo qui da cinque anni, ci siamo trasferiti da Milano e abbiamo aperto un piccolo locale nel centro del paese in Via Vittorio Veneto, una kebabberia.”  Fadma interruppe la conversazione degli uomini

appoggiando sul tavolo un vassoio con due tazze arabescate colme di tè alla menta e si sedette accanto al marito in silenzio, rivolta al fratello con lo sguardo luccicante offuscato di tanto in tanto dal passaggio di una nuvola grigia.

“Si è lavorato bene fino allo scorso anno, con un po’ di turismo, con gli studenti, i giovani del sabato sera”- proseguì Idris sorseggiando il tè fumante- “ci siamo indebitati al fine di migliorare il locale, abbiamo cambiato gli arredi, il forno, e il frigorifero”. “Improvvisamente” continuò angosciato “un macigno s’è staccato dal cielo, ci è piombato addosso mandando in pezzi il nostro lavoro e quello di altri come noi”. Tutto cominciò quando un mattino “Una guardia del Comune è entrata nel locale per consegnarci un foglio con il timbro e la firma del Sindaco in cui si ordinava la chiusura delle kebabberie, e di tutti i locali gestiti da stranieri nella via del centro”. “Tempo un mese, abbiamo dovuto cessare l’attività, chiudere la porta ai clienti per spostarci in periferia, fuori dal passaggio.” Mentre il cognato, i gomiti appoggiati al tavolo, le mani contro la fronte, esponeva con amarezza venata di rassegnazione la situazione famigliare, d’improvviso gli ritornò  in mente il velo d’inquietudine avvertito nella voce della sorella quando le annunciò il suo arrivo a Capriate e ne comprese il motivo.

Saìd guardò in volto la sorella in piedi accanto a lui, le prese teneramente la mano e senza esitazione vi depose la busta con il denaro di Gepu. “ Questo è denaro dei pascoli di montagna, porta fortuna, vi aiuterà a pagare i debiti e a spostare il negozio, Fadma tenetelo voi ”.

Saìd terminò la tazza di tè e, senza attendere le reazioni, uscì sul balcone, appoggiò le mani alla ringhiera di ferro alzò lo sguardo al piccolo fazzoletto di cielo, chiuso tra i muri delle case, senza una stella per via di quel chiarore diffuso che offuscava il buio.

“ Ciao Gepu, volevo sentire la tua voce” disse appoggiando l’orecchio al cellulare prima di rientrare in casa, “Mi trovo in una città lontana, nell’abitazione di mia sorella, sono contento d’averla rivista, ma mi manca la tua fisarmonica la sera, l’aria bianca delle tue o meglio delle nostre montagne, non riuscirei a respirare in questo paese. Non si sente il respiro profondo del vento che scorre sopra gli alberi, le pietraie, qui il vento nei vicoli è silenzioso, freddo, quasi non lo senti ma ti colpisce alle spalle, ora vado a dormire, ciao Gepu.”

Chiuse il telefonino, lasciò la ringhiera, rientrò in casa, e abbracciando in silenzio la sorella che aspettava in piedi dietro la tenda bianca a ricamo, le sussurrò “Domani ripartirò, qui, per farvi tenere sempre gli occhi bassi hanno tolto il colore del cielo, la bianca trasparenza dell’aria libera.” Non vide nella semioscurità gli occhi di Fadma, ne colse soltanto il respiro affrettato e alzando il volto alle stelle proseguì “Non appena  potrò, vi manderò altri soldi, ma non dimenticate di alzare sempre lo sguardo perché nel cielo non esiste un centro o una  periferia.” 

Il mattino seguente, prima che venisse chiaro, aprì piano la porta e, senza esser visto,  rifece la strada percorsa il giorno precedente.

Forse sarebbe ancora arrivato in tempo per ascoltare la fisarmonica di Gepu prima di notte, alla Reviglia.