Fiammetta Finazzi - Racconti e Poesie

Spezzare il fiato

Comincio. Parto veloce. L’inizio è sempre la parte più bella, la parte più facile. Quando sei ancora pieno di energie e le gambe desiderano il moto.
Respiro tranquillo. L’aria entra dal naso e da quello riesce.
Il vento fresco ancora mi abbraccia, il viso è disteso e pulito.
Il primo chilometro scivola via. Sento ancora l’adrenalina e sono concentrato su di me. Ma poi, il respiro si interrompe: è un attimo, lo sento crollare.
All’improvviso, l’aria non basta più. I polmoni non si riempiono più ed esce troppo presto! La bocca tenta prepotentemente di spezzare il mio ritmo, ma scelgo di resistere.
Sbuffo con violenza e continuo.
Infilo altri duemila metri, ma sono stanco.
Vorrei fermarmi ad ogni goccia che scivola lungo la tempia e giù fino al collo.
Ad ogni passo scomposto dei piedi ora distratti, resisto.
È il momento peggiore: quando le energie vacillano, il naso cola, la milza stride sotto la maglietta e le braccia non tengono più quell’angolo retto perfetto e oscillante.
Ora sono otto chilometri ed il corpo si riprende.
Il mio respiro torna regolare e va da solo adesso.
Ogni parte di me si regola da sola, senza più bisogno di ordini od inutili considerazioni sulla stanchezza.
Era solo colpa della testa, perché se lasci fare al corpo, quello può farti correre per delle ore intere, abituato a quella nuova percezione di te in perpetuo e cadenzato movimento.
Sono quindici, precisi, puliti e mi sento bene di nuovo.
Visualizzare l’arrivo diventa superfluo, perché il traguardo era sempre stato dentro di me.

 

 

 

Lo strappo

Mi presentavo a te con la diagnosi in mano: abbandonata, tradita, sostituita. Reinventavo la mia vita ad ogni passo.
Per accettare le cose mi serve capirle.
E tutti quegli atti compiuti per reclamare il mio posto, alla luce della mia inadeguatezza,
mi portano a sbagliare.
E come te, padre mio, adesso
abbandono, tradisco, sostituisco.
E tuttavia fatico ancora a comprendere.
È la libertà dell’artista
mi ci hai condannato tu.
O forse è il bisogno atavico di tornare a te.

Mi presentavo con una diagnosi in mano:
era sbagliata.
In principio vi era uno strappo
ed ingenua io a sintetizzarlo nelle tue braccia. La mia città, la mia famiglia,
i luoghi, forse non già a me cari,
ma memoria di quei miei primi passi. Sradicata da tutto in un battito di ciglia. Eppure, la vita, sempre egoista, ciclicamente mi chiede di scegliere. Proprio a me, che a nulla appartengo
e che mai nulla mi è appartenuto.

E loro pensano sia facile,
si complimentano per il mio temperamento. Mentre non sanno cosa significa
negarsi continuamente al proprio cuore.
Sicché mi rimetto in viaggio,
in fuga, come una ladra di emozioni.
Se devo dirti chi sono,
sono la parte cancellata di una poesia,
che non ti è venuta bene.
La nota sbagliata che hai toccato,
quando ti si sono intrecciate le dita sulla tastiera. Il primo matrimonio che hai fallito,
perché eri troppo giovane e innamorata. Tutte cose a cui si può rimediare,
solo ricominciando da zero.

Il secondo tentativo va invece a buon fine. E dentro gli occhi di tuo figlio,
cristalli neri di brillanti aspettative,
io con gentilezza,
mi lascio affogare.

 

 

 

Equilibrio

L’equilibrio è un tratto leggerlo, come matita su carta vecchia, che disegna contorni imprecisi del mio volto sempre uguale. Riga la guancia come una lacrima che non trova la strada per sprofondare verso il basso. Si arresta lì, sul profilo del mento, dove bisogna toglierla con il dito ed il gesto risulta superfluo, innaturale. L’equilibrio è come il confine dipinto nei sogni quando viene infranto dalla luce di una tapparella mal chiusa. Disturba gli occhi, persino nella loro impenetrabilità, dal tanto che ne percepiscono la natura ingombrante. Le iridi sanno che la perfezione non si può riscontrare in un raggio di sole, per questo non lo sopportano mai nella sua purezza. La bellezza per loro rimane in quel gioco di ombre sottili che si nasconde dietro le piccole bugie. Le bugie sì che conservano quello splendore che nasce dall’immaginazione; poiché saper creare una realtà inesistente è il più scaltro dei talenti. D’altronde cosa distingue la realtà da una fantasia, se non la concreta sperimentazione delle sensazioni che ci lascia dopo averla vissuta? Ma se un’immaginazione è tanto forte da conservare intatte queste sensazioni, come farebbe una tangibile realtà, si può davvero chiamare menzogna? Definire le cose poi ha tanta importanza? Che un sogno si può dire meno reale solo perché vissuto da un corpo inerte? E del corpo inconscio chi se ne occupa? Perché viene trascurato? Che io vivo nei sogni come nella cruda quotidianità e sperimento, sento, percepisco, con tutto il mio respiro anche ciò che altri chiamano impossibile. Mi hanno insegnato a sfiorare i confini della finzione e questo è una grande fortuna seppure mi è ancora troppo facile confondere quell’equilibrio con la felicità. Quando sprazzi di serenità si prendono gioco del mio cuore e si fingono gioia e si fingono coerenza. Invece è come la calma prima della tempesta, come l’elettricità statica nell’aria che gonfia le fronde degli alberi e copre di pesanti aspettative il cielo. E poi precipita giù e ci ritroviamo investiti dalla durezza di una vita che spezza qualsiasi romantica immaginazione. E le persone non ti capiscono, non ti abbracciano, non ti comprendono e fissano impaurite ogni più piccolo tentativo di portarle fuori da loro stesse. Che sia la tragedia dell’animo umano venire sempre limitato e svilito nella ricerca di qualcosa di più? Se ti allontani dall’ideale della gioia piatta a cui aspirano tutti gli altri, se nelle tue aspettative non hai una famiglia, una casa, una persona ma l’equilibrio delle parti che determinano il tuo essere. Nessuno si accorge che accompagnare le sfaccettature della proprio personalità, senza opporvi resistenza, consente un’armonia che rende liberi. E invece no, sei un uomo o sei una donna, sei fedele o sei un traditore, sei grande o sei piccolo e se osi essere qualcosa di più, se cerchi di trovare un compromesso il mondo ti respinge e ti ingabbia. Dobbiamo darci una definizione, identificare qualcosa in cui occorre per forza riconoscerci, per necessità catalogarci, ma io non voglio essere catalogata o limitata. E non mi piace essere messa di fronte allo spietato fallimento della mia ricerca sebbene succeda molto spesso, poiché non sono perfetta né equilibrata né serena. E allora rimango immobile, nell’inerzia soffocata di quella lacrima stanca quando i suoi occhi si gettano nei miei come scafi in bonaccia e mi riscopro gelosa, impaziente, innamorata.
Come qualsiasi persona priva di nobili scopi, ferma nella palude di sentimenti banali e modesti che non hanno niente a che vedere con il mio lato malinconicamente artistico. Non sono in equilibrio quando prendo decisioni spinta da venti contrari che mi portano da un lato all’altro della mia coscienza come una bussola impazzita. O forse è proprio qui che sta la mia armonia, nel lasciarmi trasportare dalle emozioni che mi danno la forza necessaria per continuare questa ricerca attraverso me stessa. Quella me stessa impaziente ma anche docile, collerica ma anche pacata, io che so farmi incendio pur capendo che l’unico modo che ha una fiamma di essere positiva per gli uomini è nel debole tepore di un camino acceso.

 

 

 

La grande corsa

L’amore mi terrorizza.
Mi fa paura tutto: gli anelli, le promesse, i matrimoni, le convivenze e i figli.
Non mi piace che qualcuno mi consideri sua, che si parli al plurale e che si confrontino le agende prima di prendere impegni. Non sono felice nell’ andare a pranzo dai parenti, stamparsi in faccia quel sorriso da mascella congelata e rispondere a tutto “sì” o “no, grazie”, “volentieri”, “per favore” e “di niente”.
Non mi piace organizzare le vacanze, pensare che si dovrà fare l’amore la sera perché il letto è comodo e ci stiamo rilassando. Non sopporto scrivere e ricevere tutti i giorni il buongiorno e la buonanotte.
Che all’inizio è tanto tanto dolce e dopo due settimane già diventa scontato.
Non sopporto che l’appellativo “amore” soppianti il mio nome proprio.
Diventare “la ragazza di…”, “la moglie di…”, “la fidanzata di…” nei racconti degli altri.
Orrore finale: “la mamma”.
Mi terrorizza la possibilità di svegliarmi un giorno incastrata in un “ci amiamo tanto” improvvisamente diventato un “c’eravamo tanto amati”. Perché io voglio essere desiderata sempre tanto e non sparire mai nell’organizzazione di un quotidiano che con me ha a che fare poco o nulla.
E piuttosto che questo meglio il nulla.
C’è una corsa a scegliersi ed io non riesco a partecipare.
E già l’abito bianco mi pare camicia di forza e i chicchi di riso tante piccole granate.
“congratulazioni”, “congratulazioni”: minacce di morte.
L’amore mi terrorizza.
E nonostante questo, mi innamoro.

 

 

 

Il gusto

L’unico senso che sento è il gusto.
Me ne accorgo quando mi reco nello spaccio del primo piano sottoterra e mangio il solito tozzo di pane raffermo per colazione. Se potessi uscire sarebbe l’ultima cosa che vedrei prima della luce del sole ma non posso, e quindi è sempre l’ultima cosa che vedo prima di andare a lavorare. Allo spaccio c’è una signora: il suo nome non lo so. Qui dentro conosco solo il nome dei maggiori e quello dei caporali, anzi conosco il loro cognome perché il loro nome proprio non ho idea di quale possa essere. Nella mia immaginazione si chiamano tutti “John” e non saprei spiegare il perché. Credo che sia il nome di quel ragazzino che durante il periodo della scuola di indottrinamento mi spingeva continuamente giù dalle scale. Sarà che da quelle scale non mi sono mai rialzato visto che ancora oggi le percorro avanti ed indietro nel tentativo di pulirle. L’immagine di me che rotolo giù continuando ad inciampare su me stesso però non riesco a pulirla via dalla mia testa e rimane il mio pensiero fisso quando cerco di non scivolare sull’acqua che uso per lavare i pavimenti.
Tornando alla signora dello spaccio senza nome, il suo aspetto è quello di una donna ormai sconfitta. La sua età è indefinibile ma dai fili di capelli grigi intrecciati nella crocchia ho sempre pensato che non potesse avere meno di una cinquantina di anni. Prepara i caffè per l’intera base militare e lo fa con poco più di un piccolo macinino e un fornelletto elettrico. Eppure, sono sicuro di avere ancora il senso del gusto perché quando il caffè non si macina a dovere sento quell’orribile sapore di acqua sporca che inspiegabilmente si trasforma in una sensazione cara ai miei ricordi: in quel sapore così amaro c’è il senso di ingiustizia
ed asprezza della vita che in quel luogo mesto condivido per lo meno con la donna dello spaccio.
All’inizio mi ero coccolato col pensiero che fosse un modo segreto che aveva per comunicarmi la sua compassione, in modo che io alzando lo sguardo dalla tazza col naso arricciato potessi trasmetterle quella stessa pietà. Ma era una fantasia. Quando il caffè usciva cattivo veniva servito cattivo a tutti quanti e lei era di certo più impegnata a sopportare l’irritazione dei soldati che glielo versavano addosso inzozzando bancone e pavimenti piuttosto che a perdere tempo con me. A ben pensarci, già dal sapore del caffè alla mattina potevo capire quanto lavoro avrei dovuto svolgere quel giorno. Diverso era stato con l’olfatto: quello mi ero costretto a perderlo immediatamente. Nella base non c’era aria pulita, si estendeva sottoterra per diverse centinaia di metri e tutto ciò che respiravamo veniva dai bocchettoni piazzati sul soffitto. Dormivamo in stanze piccole con brandine a castello e gli odori della mensa si estendevano violentemente lungo i cunicoli, mescolandosi all’ odore acre del sudore dei soldati. Mi reputavo comunque abbastanza fortunato vista la mia condizione, perché pulivo i piani superiori e qualche volta era successo che trovandomi su quelle scale, mi raggiungesse uno spiraglio d’aria proveniente dalla porta d’ingresso. In quei rari momenti mi fermavo sempre qualche secondo per respirare, ma constatavo in ogni caso di non avere più l’olfatto. Questo perché se mi fossi concesso anche solo per un secondo di lasciarmi raggiungere da qualche profumo esterno, come ad esempio quello dell’erba o della pioggia, proprio non avrei avuto la forza di tornare alla putrida aria del bunker.

Non eravamo in guerra, ma ne stavamo preparando una. Così ci avevano detto. La base si trovava sul confine della terra dei presunti nemici ed era stata costruita in tempi di pace, chissà come senza che nessuno se ne accorgesse. Si diceva che le lunghissime gallerie partissero fin dal bunker della capitale e che avessero cominciato a scavare da lì in modo che all’esterno tutto sembrasse immutato. Non sapevo quanto ci fosse di vero, ma di certo lo Stato confinante non aveva sospettato nulla finché dalla base principale non avevano cominciato a diramarsi trincee sull’orlo poco profondo del terriccio. Da quel momento in poi era stato chiaro a tutti che l’invasione sarebbe arrivata presto. Quando mi avevano spedito alla base principale avevo poco più di diciotto anni. I ragazzi dotati, quelli che ne capivano di strategia o si dimostravano gradevolmente predisposti all’asservimento erano stati tutti arruolati. Io al contrario, non riuscendo ancora a separarmi dalla percezione di me stesso in eterna caduta, ero stato inserito nella classe manutentiva, e neanche in quella più rispettabile. La mia personale dotazione era composta da uno scopettone assorbente e un set di stracci di seconda mano. Oltretutto mi ero domandato più di una volta a cosa servisse passare dell’acqua in quell’agglomerato di cunicoli deprimenti per cercare di tenere pulito qualcosa che per sua stessa natura era sporco e malvagio. Anche perché continuavano a camminare con gli stivali inzaccherati dove avevo appena lavato riducendo a nulla di fatto il mio operato. Di stipendio non se ne parlava, avevo la mia razione di cibo giornaliera (di cui abbiamo detto sentivo almeno ancora il sapore) e un letto per dormire ed era anche più di quanto meritassi in considerazione del fatto che non venivo impiegato come forza militare per l’imminente scontro. Quando finivo di lavare in terra, rifacevo

i letti del secondo e terzo piano interrato e poi passavo al lavaggio dei sanitari. Tutti i giorni allo stesso modo. Un giorno ero stato insultato pesantemente dal comandante John Sigar per aver urtato il secchio rovesciandolo sui suoi piedi. Mi disse delle cose orribili, insultò me, mia madre e aggiunse tutta un’altra serie di indicibili sproloqui sull’inutilità della mia stessa esistenza. Fu così che persi l’udito.
Per vista e tatto c’è una spiegazione ancora diversa. Sarebbe banale dire che rinunciai alla prima per non dover assistere alle brutalità della base, perché vi assistetti ugualmente e comunque per “rinunciare” non intendo letteralmente. Se mi fossi cavato gli occhi o mi fossi accecato spruzzandomi dello sgrassatore dritto nelle pupille si sarebbero liberati di me con la stessa velocità con cui bevevo quel famoso caffè alla mattina. La sanità pubblica era collassata anni prima, e delle pensioni di invalidità non si parlava per legge (come di quelle ordinarie d’altronde). Chi non poteva essere utile alla grande macchina da guerra, chi non si amalgamava alla catena di montaggio della sopravvivenza ne veniva barbaramente tagliato fuori. E a questo avevo assistito milioni di volte. Le morti alla base avvenivano rapide. Non si facevano domande. Sentivi un colpo esploso di pistola e sapevi che era intervenuta una qualche sorta di giustizia. Ovviamente non tutti possedevamo un’arma, quindi l’asservimento era ripristinato sempre dall’alto verso il basso. Per insubordinazione, disprezzo delle regole, persino per un pensiero fuori dalle righe si poteva rimanere uccisi da un superiore di passaggio. Io ne incontravo tanti durante le mie pulizie. Quindi rinunciai alla vista per non provare terrore tutte le volte che uno di loro mi passava accanto.

Del secondo che posso dire? Di anni ormai ne avevo ventuno e non avevo mai toccato una ragazza. Non parlo dell’atto sessuale in sé ma delle cose anche più banali: un bacio, un abbraccio. Ero passato direttamente dalla scuola maschile del regime ai gabinetti della base. Le setole dello spazzolone erano forse la cosa più simile a dei capelli che avessi mai accarezzato. Mi mancavano tutte le esperienze del contatto che si fanno in adolescenza, tanto che l’unica sensazione che potevo associare all’affetto era il vago ricordo delle carezze che mia madre mi faceva sulla nuca all’età di cinque o sei anni. Forse anche per questo le mie fantasie continuava ad indugiare sulla signora senza nome dello spaccio: era l’unica figura di riferimento femminile che avessi da anni. A volte prendeva il posto di mia madre e volevo soltanto piangere tra le sue braccia, raccontarle delle scale senza fine che affollavano i miei incubi, altre volte con un po’ di sforzo dell’immaginazione riuscivo a calarle qualche anno e potevo lasciarle vestire i panni della mia amante segreta. I fianchi le si stringevano, i capelli sciolti tornavano di un bel castano vivido ed i suoi occhi si tingevano di un verde luminoso. Così, ci incontravamo dietro la dispensa e mentre tutto il plotone dormiva noi facevamo l’amore sui sacchi di tela dei chicchi di caffè. Un amore tenero perché è così che nonostante tutto immaginavo la mia prima volta. Poi prima di lasciarla, le promettevo che un giorno avremmo lasciato quel posto insieme, semplicemente aprendo la porta d’ingresso del bunker. Come se fosse la cosa più facile e naturale del mondo. Credo che una parte molto latente di me pensasse che fosse possibile: uscire alla luce, respirare a pieni polmoni. Per l’essere umano una volta era innato, cercare di espandersi nella natura, diventare parte della stessa. Forse anche dominarla. Noi sembravamo averlo

dimenticato. A me non serviva dimenticare il piacere del tatto: non lo avevo mai avuto.
Quel giorno era cominciato esattamente come tutti gli altri e perciò non avevo alcun elemento per stabilire che si sarebbe concluso diversamente. Mi ero alzato alle 6 come sempre e come sempre avevo preso i miei strumenti e riempito il secchio che poi mi ero trascinato su per diciassette rampe di scale fino al primo livello sottoterra. Ero arrivato fino alla mensa prestando la massima attenzione a non rovesciare neanche una goccia dell’acqua del secchio e c’ero riuscito facilmente: era un’abilità che ormai avevo ben acquisito. La signora dello spaccio era sempre lì, a consegnare panini ai soldati disposti rigorosamente in fila indiana. Le feci un cenno che non ricambiò. Le scale erano terribilmente sporche, ricoperte da una patina di fango unta e spessa. Ormai dicevano che il virus non sopravviveva nel suolo ma pretendevano comunque che chi tornasse dall’esterno gettasse le scarpe in un tubo di scarico poco dopo l’ingresso collegato direttamente ad un inceneritore. Se ci fosse stato ancora bisogno di fornire una spiegazione ci avrebbero detto che era “per precauzione” ma quest’obbligo non lo avevano quindi ognuno rimaneva con le sue congetture. A me davano una piccola mascherina chirurgica quando pulivo quelle scale. Non avrei mai saputo quanto ero davvero in pericolo quando andavo lì.
Cominciavo sempre dall’alto, proprio vicino al portone di uscita, che ovviamente rimaneva ben sigillato mentre mi trovavo nei suoi pressi. Nessuno faceva caso a me. C’ erano varie telecamere che controllavano quei pochi metri ma nessuno passava da lì se non doveva uscire, o rientrare, perciò ero solo per tutto il tempo in cui passavo energicamente lo straccio. Spesso mi perdevo a

fantasticare su cosa avrei potuto trovare dall’altra parte: campi verdi rigogliosi, alberi cresciuti fino al cielo, fiori vivaci e grossi animali che si riprendevano tutti gli spazi che l’uomo aveva un tempo reclamato con le sue costruzioni di cemento. Doveva essere pressappoco così: tutto investito dalla luce. Le insidie dei nostri tempi erano invisibili, impercettibili nell’aria. Pensando all’esterno non mi soffermavo mai sulla presenza dei soldati nemici perché tutta la loro quotidianità si svolgeva sottoterra esattamente come la nostra. La loro immagine si alternava sfocata in quella vegetazione in cui tutti cercavano di rimanere il minor tempo possibile, cercando di non mescolarsi mai agli uomini che portavano una divisa diversa dalla loro: potevano essere infetti.
Versai un po’ di acqua dal secchio riversandola giù per i primi gradini con silenziosa inesorabilità. La gravità ci ha sempre portati verso il basso, nonostante tutti i nostri tentativi di vincerla, quindi era abbastanza scontato che l’essere umano avrebbe finito per ricongiungersi al terriccio. Non è mai stata nell’intenzione di Dio dotarci di ali e questo forse non siamo mai riusciti a perdonarglielo. Gli aerei non volavano più da tempo perché nei bunker non c’era spazio a sufficienza per assemblarli, tuttavia avevamo una visione ormai così ridotta della stessa terra che non ci interessava più rivolgerci al cielo. Io per primo, molto più che volare, avrei preferito immergere i piedi in un ruscello di montagna (mi avevano raccontato della sua esistenza, io non l’avevo mai visto) o annusare dei fiori. Anche se a ben pensarci, senza tatto ed olfatto lo stesso tentativo si sarebbe rivelato abbastanza inutile. Una volta indossati i guanti, cominciai a strofinare il pavimento con lo spazzolone, osservando con soddisfazione lo sporco che veniva via. Chi aveva

svolto quel turno prima di me aveva graffiato tutto il vecchio legno dei gradini: pesanti righe solcavano in orizzontale le lunghe assi. Ne scesi uno, poi un altro ancora. Con la scopa impregnata allontanavo l’acqua sporca dalle parti appena pulite.
Quando arrivai alla metà della prima rampa, un vociare mi raggiunse dal basso. Due uomini salivano le scale a passo spedito nella mia direzione. Il cuore mi balzò nel petto. Forse sarebbero usciti. Forse avrei visto la luce. Per un attimo smisi di respirare: li sentivo incedere verso di me. Il suono dei loro scarponi di gomma che pestavano il legno era inconfondibile. Intrattenevano una fitta conversazione, perciò cercai di fare rumore con la scopa, in modo che si rendessero conto che ero lì. Se avessero continuato a parlare per poi accorgersi che potevo averli uditi se la sarebbero certamente presa con me. Forse sarebbero arrivati ad uccidermi se l’argomento fosse stato anche della più lieve segretezza. Infatti, non appena si resero conto di non essere soli, interruppero bruscamente le loro frasi e proseguirono silenziosamente lungo la scalinata. Mentre mi passavano accanto abbassai gli occhi fino a terra. Mi superarono a passo veloce, e li catalogai immediatamente come due militari John, di quelli buoni, perché nessuno dei due si prese la briga di prendere a calci il mio secchio o di sporcare volontariamente dove avevo appena pulito. Perciò, quando passarono oltre li seguii con la coda dell’occhio. Il John più anziano tirò fuori dalla tasca una chiave a codice. Studiai il movimento delle sue mani quasi ipnotizzato. Non ne avevo mai vista una ma sapevo come funzionava: andava inserita prima nella toppa e poi manipolata con l’intenzione di riprodurre un codice a sette cifre che la serratura riconosceva dagli scatti. Ero venuto a conoscenza di questo procedimento mentre pulivo, anche

se quella volta il mio origliare era stato notato ed il secchio mi era stato rovesciato direttamente sulla testa. Sentii il rumore dei lucchetti interni che saltavano uno ad uno, e poi eccolo lì: l’uscio che si apriva cigolando verso l’esterno. Trattenni il respiro, come se in un certo qual modo fossi terrorizzato all’idea che l’aria mi raggiungesse. Forse ero davvero terrorizzato, ma non per quello che si diceva ci fosse nell’aria. Bensì per quello che avrebbe potuto raggiungere me solo: il desiderio di libertà. Ero a pochi metri dall’uscita. Se solo il prezzo di questa non fosse stata la mia vita, mi sarebbero bastati pochi passi per assaporarla. Un’altra paura che certamente avevo era quella di riscontrare che non avevo poi davvero perso l’olfatto, e sarebbe stata indubbiamente una tragedia, in quanto il solo misero odore di una margherita avrebbe costretto i miei piedi a mettersi a correre freneticamente verso quell’uscio. In realtà la porta che vedevo io non era che una prima barriera. Dietro di questa non era possibile scorgere la luce poiché un altro portello analogo, ancorato al muro da una spessa sbarra di metallo, ostruiva il passaggio. I due John indossarono le rispettive maschere antigas e avanzarono verso la seconda barriera. Se si fossero dati peso, come da protocollo, di richiudere la porta prima di aprire la seconda tutti i miei pensieri anarchici si sarebbero accartocciati in fondo alla mia coscienza e avrei rigettato senza indugio il mio sguardo nel secchio d’acqua sporca. Se la loro generazione fosse stata nuova a quel tipo di vita, se in loro fosse stato ancora intatto lo scrupolo che ogni cosa ai suoi albori domanda, allora ciò che poi ne seguì non si sarebbe mai verificato. Ma ad onore del vero, anche i più timorati della base erano ormai avvezzi alle condotte ordinarie e non mettevano più la diligenza del principio nel seguire le regole. Così che si

svolgeva in automatico e senza troppe elucubrazioni ogni azione che una volta si aveva premura di eseguire con la massima diligenza. Quindi io quel giorno vidi effettivamente la luce tra lo spiraglio di due porte socchiuse, e ferì i miei occhi con la prepotenza dell’ineluttabile.
Mentre i due militari superavano anche la seconda barriera, per chissà quale miracolo della fisica, l’uscio della prima porta si andava chiudendo con una lentezza quasi troppo inverosimile per non tentare di impedirlo. Lo scopettone mi cadde dalle mani e rimbalzò giù per le scale con un tintinnio assordante ma io non avevo l’udito e perciò non ci feci neppure caso. Le mie gambe incespicarono sul pavimento bagnato scivolando e poi recuperando stabilità mettendo un piede davanti all’altro. Quando sfiorai con le dita la barriera, con le mie mani callose e gli occhi pieni di lacrime, i due John avevano cominciato ad allontanarsi e non mi guardavano affatto. Non si preoccupavano della soglia lasciata aperta e io continuavo a vedere quella luce incredibilmente brillante, cominciavo quasi a sentire il vento sulla mia faccia. Avrei certamente raggiunto anche il secondo portone se nelle mie sorde orecchie non fosse rimbombato all’improvviso uno di quei suoni che anche non potendo realmente ascoltare, riconobbi perché marchiato a fuoco nella mia memoria: la carica di un colpo in canna.

L’unico senso che sento è il gusto per la vita e mi invade la bocca con un sapore metallico di sangue.

 

 

 

Riflettere

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritardi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Condivisioni mal riuscite

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Comprendersi