Filippo Pirrone - Poesie

Uno

<<C’era una volta…
– un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No ragazzi, avete sbagliano.
– C’era una volta un pezzo di legno.
Avete sbagliato ancora:
C’era una volta un re fantoccio.
Questo re fantoccio era talmente fantoccio che non era capace nemmeno di fare il burattino.
Tanto fantoccio che nessuno mai lo vide fare il compito che, per nascita, era destinato a fare.
Tutti in questo regno si chiedevano: – ma sei sicuro che c’è un re a fare il re nel nostro reame?
Il re fantoccio effettivamente, aveva un corpo in carne ed ossa, effettivamente esisteva, c’era: era solo l’anima che gli mancava, quella per cui era nato.
C’e un cavaliere inesistente? e nel loro reame c’era un re inesistente che tutti sapevano essere fantoccio.
C’e un cavaliere dimezzato? E nel loro reame c’era un re dimezzato che tutti sapevano essere fantoccio.
Dopo aver dormito tutta una santa nottata ben benino con una pietra per capizzu, senza pensieri, il re fantoccio posava i suoi due piedi nello scendiletto, allargava le braccia quanto più possibile come a voler toccare le sue spalle per stiracchiarsi e far scricchiolare tutto il corpo, poi andava in bagno, faceva i suoi bisogni reali, si lavava mani e faccia, poi colazione abbondante, i suoi paggi lo vestivano dei suoi degni panni e, fatte tutte queste incombenze, tutta la santa giornata si faceva i suoi cazz…(emh) ca…(emh) cavoli porci comodi, ch’erano quelli di farsi i suoi fatti, i suoi capricci, i suoi piaceri: tranne quello di fare il re per come era destinato a far per nascita: perché lui era un re fantoccio appunto e, al posto suo, il re lo faceva quello che faceva il re al posto del re fantoccio.
Quello che faceva il re al posto del re fantoccio, senza essere re, faceva il re al posto di quello che faceva il re fantoccio, per il semplice fatto che non era nato per fare il re ed era costretto a metterci la sola sua faccia di re al posto del re fantoccio, accontentandosi, pur mordendosi le mani e tirandosi i capelli ad uno a uno di dover fare il re al posto di quello che faceva il re fantoccio.
Triste era.
Invidioso era
Cattivo era quello che faceva il re al posto del re fantoccio.
Pur facendo vita da re al posto del re fantoccio, vita di povero pazzo faceva, con i viàrtuli chini e i manu vacanti.
Nel senso che tutto poteva permettersi, anche i poteri del re fantoccio, ma si disperava perché non poteva fare il re, ma solo il re al posto di un re fantoccio.
Ma voi vi chiederete:
– ma se non aveva il diritto per nascita di fare il re e metterci la propria faccia direttamente, perché faceva il re al posto del re fantoccio?
– Perché non trasformava la monarchia in repubblica e il potere se lo prendeva lui direttamente dal popolo, avendone tutta la capacità e i presunti voti per essere eletto?
Tutti, in effetti, si facevano questa domanda, ma nessuno sapeva veramente che risposta darsi.
Qualcuno azzardava l’ipotesi e diceva: – perché non ha il coraggio.
Potrebbe farlo e non lo fa, vorrebbe farlo e non lo fa: perché?
Un re tanto bravo a fare il re al posto del re fantoccio, perché ha paura a fare il re col suo nome e il suo cognome, e il suo bell’ingiuriu? invece di fare il re al posto del re fantoccio?
Amava, in segreto, il re che faceva il re al posto del re fantoccio, fare il burattinaio: era la sua passione, non pensava ad altro che a questa passione.
Sua moglie, insieme ai suoi figlioletti, si divertiva molto a vedere il teatrino di burattini allestito dal marito-re che faceva il re al posto del re fantoccio, e ogni qualvolta che lui prendeva i suoi burattini e li iniziava a far muovere come solo lui sapeva fare, ne erano entusiasti.
Un bel giorno la moglie impettita gli disse:
– senti: perché, tu che sai fare il re che fa il re al posto del re fantoccio non fai fare una parte di burattino al re fantoccio?
Il re che faceva il re al posto del re fantoccio, di questa idea della moglie impettita ne fu entusiasta.
– come mai non ci avevo pensato prima? – pensò il re che faceva il re al posto del re fantoccio.
A quell’idea geniale della moglie impettita e geniale non ci dormì tutta la nottata dalla contentezza: non vedeva l’ora che facesse giorno e di poter avere nel suo teatrino fra i suoi burattini, anche quel burattino del re fantoccio.
Di primo mattino il re che faceva il re al posto del re fantoccio, fece chiamare subito il re fantoccio, il quale re fantoccio, in un batter d’occhi, gli si trovò lì davanti agli occhi del re che faceva il re al posto del re fantoccio (a dir il vero un po’ preoccupato e un po’ preso da quella grande responsabilità d’esser chiamato – proprio di primo mattino – dal re che faceva il re al posto del re fantoccio), e gli disse:
– mi faresti cosa gradita se tu ti prestassi a fare, oltre che a fare il re fantoccio, anche una particina di burattino nel mio teatrino allestito apposta per i miei burattini.
Il re fantoccio si frastornò, non sapeva che dire, che fare, iniziò a sudare:
– possibile – pensò fra sé e sé, che il re che fa il re al posto del re fantoccio (che poi sarei io medesimo) mi dà una tale responsabilità? Io una particina di burattino nel teatrino proprio del re che fa il re al posto del re fantoccio?
Ma siccome il re fantoccio, non solo non era capace di fare il re, ma neppure era capace di fare il burattino che recita la parte di un re fantoccio, lo scongiurò di non fargli fare la parte di uno dei suoi burattini.
Di questa cosa il re che faceva il re al posto del re fantoccio, ne fu arrabbiato, tanto arrabbiato che subito gli disse:
– ecco perché io sono costretto a fare il re al posto tuo: perché tu, non solo non sei capace di fare il re, non solo non sei capace di fare il fantoccio, ma nemmeno sei capace di fare il burattino.
E fu allora che il re che faceva il re al posto del re fantoccio, costrinse il re fantoccio a continuare a fare il re fantoccio nella speranza di continuare a fare il re al posto del re fantoccio, dovendosi accontentare di un teatrino fatto dei suoi soliti tanti burattini, tranne del re fantoccio che non sapeva far altro che il re fantoccio del re che faceva il re al posto del re fantoccio.
La moglie e i figlioletti del re che faceva il re al posto del re fantoccio si dovettero accontentare di vedere la sola realtà delle cose reali, non quelle del teatrino delle marionette allestito ogni giorno dal re che faceva il re al posto del re fantoccio.
Mordendosi le mani.
Tirandosi i capelli ad uno a uno.
Triste.
Invidioso
Sempre più cattivo trascinò la sua vita, fino a quando il re fantoccio fece la fine che fanno tutti i re fantocci; e il re che faceva il re al posto del re fantoccio, fece la fine che fanno i re che fanno i re al posto dei re fantocci.
Mordendosi le mani.
Tirandosi i capelli ad uno a uno.
Triste.
Invidioso
Sempre più cattivo.
MORALE DELLA FAVOLA:
<<Dicci, messaggero di Dio, che specie di creature sono queste, visto che non sono né uomini né diavoli?>>.

 

 

 

Due

Credo che uno non muoia mai. Detto così sembrerà strano. Ma non vi è altro modo per dire quello che effettivamente ed oggettivamente è il sistema dell’essere in vita nella vita d’ognuno di noi: una vita infinita. Mi spiego. Quante volte ti sei trovato a viaggiare con la tua macchina, tranquillamente, con una certa qual calma. Felice d’essere pur sempre in viaggio. Felice che pur sempre, sei uscito dal tuo habitat abituale, e ti ritrovi a viaggiare verso altri ambiti, altri luoghi. Passi il fiume e ti ritrovi ‘oltre’. Oltre il tuo territorio consueto. Dove hai lasciato tracce urinarie ovunque. Senza farci neppure caso. Come fanno di solito i cani. Incoscienti o coscienti di lasciare ovunque le loro tracce. Tracce a ‘stimolo’ a ‘istinto’. Pensando che qualcuno, prima o poi, li troverà e li analizzerà, li scomporrà in qualcosa di utile, oppure li lascerà, indifferente. Ti ritrovi in macchina con le mani sullo sterzo. Guardi di tanto in tanto dentro il vetro dello sportello di sinistra (e anche a quello di destra), oltre, naturalmente, a quello frontale, sennò come faresti a guidare la tua macchina verso il ponte che oltrepassa il fiume e che segnala il limite del tuo habitat? In questo gettare lo sguardo a destra o a man manca, ti distrai. Puoi anche distrarti no? E allora quell’attimo di distrazione ti porta a ritrovarti sulla corsia opposta a quella per dove tu devi andare che, per noi di tutto il mondo, è la mano dritta e per i soli inglesi, o paesi anglofoni, è quella a mano manca. E a questo fatto pensi che gli inglesi siano il popolo più testardo che possa esistere. Peggio dei calabresi sono, che hanno questa nomina: la nomina della testa dura. Che uno quando ha una testa dura tutti ti dicono: <>. Per gli inglesi, nessuno dice: <>. Forse perché avevano un impero che il sole non gli tramontava mai. I più conservatori dei conservatori del mondo, ‘sti ‘nglisi! Presa una decisione gli inglesi: né ora né mai faranno diversamente da come hanno deciso di fare, e se faranno diversamente una rara volta nella loro vita, che cosa faranno? resteranno col dubbio per un’altra intera altrettanta vita, fin quando non ne potranno più, e ritorneranno alla prima loro pensata, usanza, convinzione. La brexit è la prova provata. Sono entrati che, per un momento hanno detto: <>. E sono entrati. Ma poi, passati anni, si sono accorti che loro hanno un’isola tutta per loro, seppur col nome che si rifà a un pezzo di terraferma lì giù vicina al continente, e isolani vogliono rimanere, come se fossero dei siciliani, con la differenza che quest’ultimi di uscire da quest’isola, non ne vogliono proprio sapere, se non per andare a cercare lavoro, ma mai e poi mai per risicarsi a conquistare altre terre e farsi delle colonie, un impero. Guardi a destra dentro il vetro del tuo sportello come se tu fossi dentro un acquario. A una velocità sostenuta. E ti ritrovi a qualche metro dal guardrail. Dai una sterzata, allora. E tutto si risolve. E dici: che culo ho avuto. Qualche millesimo di secondo, e, per la velocità con la quale percorrevo la strada, sarei andato a finire contro il guardrail. Un millesimo di secondo, minchia, e sarei andato a finire sotto a quel viadotto. Ma tutto si è risolto. E continui la vita nel tuo modo usuale, innocuo. La vita continua, e, per fortuna, non sei morto. Per fortuna? A quale minchia! Secondo me, invece, sei proprio morto. La macchina, invece, è andata a sbattere nel guardrail che abbiamo già detto, e il guardrail non ha retto (data la velocità sostenuta della macchina) e tu, (la tua macchina, non tu, tu e la tua macchina assieme) dopo parecchi metri (cinquanta?) ti sei ritrovato (tu e la tua macchina, assieme) lì, sotto, a quel burrone, tra i ciottoli che il fiume volve, e dove qualcuno ha costruito il viadotto necessario per attraversare il detto fiume e consentire te e la tua macchina, di poterlo attraversare, questo fiume, questo viadotto, con la tua macchina che porta te e che tu stai guidando. L’indomani ti ritrovi sul giornale. Scritto nella cronaca. Tu non lo sai, ma ti ritrovi sul giornale. La notizia è di un morto che, per distrazione s’è andato a schiantare su un guardrail e, oltrepassandolo, è andato a finire sotto al burrone, lì sul fiume. Ti infili in un bivio. La vita generale (chiamiamola così) è un sistema perfetto di bivi. Bivi che possono essere semplici: cioè a due strade, biforcute, insomma; oppure a più vie di uscita: una strada, cioè, che non è bi-forcuta, ma tri-forcuta, quadri-forcuta, penta-forcuta e così via fino a un’infinità di bivi che tu ti ritrovi a inforcare chissà come, senza la tua volontà (oppure si?). Perché, poi, chi lo dice che non vi è volontarietà alcuna in ogni azione che noi facciamo? Anche in quelle che non hanno assolutamente alcuna impressione di volontarietà? Cos’è la ‘volontarietà’ di una azione? Quant’è che tu non prendi una decisione? E quando, invece, la prendi la fottuta decisione? Io inizio a pensare che molto probabilmente tutti noi, inconsciamente, o consciamente, prendiamo ‘sempre’ una nostra fottuta decisione. Volendo dire con questo che, anche quando crediamo di essere stati presi da una decisione inconscia, questa decisione, pur tuttavia l’abbiamo presa noi, in maniera inconscia, questa decisione, ma pur sempre nostra la decisione che ci ritroviamo ad aver preso fra le mani. Bivio è la vita. Non sbatti – o almeno credi di non averlo fatto – e ‘continui’ , inforchetti un’altra strada. Non sei morto. La morte cos’è? Troppo traumatica sarebbe per la tua anima il dover prendere atto che la tua anima non è mai esistita, che sono state tutte invenzioni presunte, speranze vane, poveri animali senz’alcuna anima; che, invece, per forza di cosa vogliamo un’anima per poter durare all’infinito; in un modo o in un altro, anche la nostra anima vuole un’anima. Kazantzakis ha ragione: sennò tutto significa niente. Guardrail: e giù sotto: al burrone. E l’anima ‘ripara’ alla cosa disastrosa, al trauma, all’errore fatale che avrebbe finito inevitabilmente la tua vita. La tua vita. Vita singolarmente univoca, sola possibilità di vita in una infinità di altre possibili vite immaginate, combinate. Tu, la tua vita, e nessun’altra cosa. Credi di essere in compagnia, credi di poter vivere una vita sociale, una vita assieme ad altri: la madre è la prima cosa che ti ritrovi a vedere, ad avere. È là tua madre. Che ti guarda. Ti ha preso fra le sue braccia, dopo che t’ha portato in seno per lunghi interminabili 9 mesi, e per questo si crede di averti, per tutta la vita averti, e farà di tutto per non perderti, per far sì che tu rimanga per tutta la vita, un suo possesso, patrimonio, sennò di chi altri? Tu la guardi e ti senti sicuro: in questa vita in cui sei nato. Ho una madre che mi guarda, un essere come te che ti guarda, che mi vuole in suo possesso, solo suo possesso, e io sono sicuro, mi sento sicuro. Toh, mi dà anche da mangiare costei. Un mangiare che è anche un bere, per certi versi. Biancomangiarelinquido è. Mi guarda. Mia madre mi guarda. – Bellina mia madre! – ti dici, anche se poi, in effetti, questa tua madre non è che sia una bellezza; anzi, è piuttosto bruttina, tua madre, agli occhi della maggior parte degli individui della sua stessa specie: che la media delle persone che ha un identico pensiero, diventa una verità assoluta, una decisione, una sentenza, un parere che implica la natura vera delle cose. Qualcuno dice che la democrazia è mediocrità, ma è anche naturalezza delle cose. Una cosa normale o naturale non è altro che la media matematica della decisione democratica di un insieme di esseri che, di volta in volta, decidono cosa sia normale, naturale, e cosa sia anormale, e innaturale. A seconda delle epoche, anche. Mai sempre lo stesso concetto di normalità. Ma queste cose li scoprirai dopo, queste cose, quando sarai cresciuto, per adesso vedi il volto di tua madre e hai deciso che è rassicurante. Buona, bella. Che ti ama con assoluta amorevolezza; anche se, poi, potrà anche esserci il caso che, putacaso, decida di ammazzarti, tua madre; ma questa è tutta un’altra storia; queste storie di infanticidi sono rare, succedono di tanto in tanto. Se, poi, tua madre, non decide di ammazzarti subito, da bambino, dico, allora lo potrà fare in seguito, magari quando sei un ragazzo, oppure anche quando sei andato con gli anni nella giovinezza: c’è sempre un tempo in cui tua madre possa sempre decidere di ammazzarti, rovinarti la vita; non è che, per forza di cose, tua madre se non t’ammazza i primi giorni della tua vita, non possa farlo comunque andando con gli anni in avanti! Di solito uno deve iniziare a stare accorto non appena si sposa. Tua madre: che bella, comunque, tua madre. Tua madre è un’altra cosa. Tua madre non t’ammazzerà; non è come alcune mamme che ammazzano, abbandonano, lasciano al loro destino il proprio nascituro, oppure se lo vendono; no, tua madre è una di quelle classiche mamme che ti vogliono bene, ti crescono, ti amano; non ti abbandoneranno mai, anche quando deciderai ti startene con un’altra donna, o con un altro uomo, a secondo di quello che vorrai decidere. Nel caso in cui vuoi farlo con una donna, in questi casi dovrai sposarti; se decidi putacaso, ‘nsammaiddio, se hai piacere di farlo con uno del tuo stesso sesso, beh, allora è tutta un’altra cosa: non c’è bisogno di farlo; anzi: ci sarebbe bisogno di farlo, solo che, la società – quella società democratica che decide cosa debba essere normale e ciò che non lo è – non te lo permette: te lo vieta, si dice. Comunque: sposarti significa prendere un foglio di carta e su questo foglio di carta, un altro essere umano dovrà apporre una dicitura e mettere nero su bianco, oppure blu su bianco le condizioni sociali ed economiche che regoleranno il vostro rapporto a due, una libera scelta. Ma questa è tutta un’altra storia, per ora guardi tua madre, tu, ancora con il guscio dell’uovo nel culo, lei guarda te, e tutti e due vi sentite fortunati ad esservi incontrati. Incontrati per caso. Credi di essere in compagnia, dunque tu vavusiaddru. Credi. Credi di essere in compagnia anche quando, poi, vedi spuntare un’altra faccia, un po’ diversa da quella che tu hai definito già inconsciamente come: la madre tua: quest’altro che spunta dopo un po’ di tempo, lo definisci subito come ‘tuo padre': ha la barba lui. Ha la barba che, comunque, può decidere di radere quando vuole o non radere altrettanto quando vuole, a seconda della sua volontà, la volontà di tuo padre. E, quindi ti dici: – ma allora non è che io abbia solo una madre: ho anche un padre: non sono assolutamente solo, in questo pianeta (pianeta di cui non so nemmeno se sia sferico o piatto). Diventi più grande. Diventare più grandi è un problema sempre più crescente. Figghi nichi: peni nichi; figghi ranni: peni ranni! Ma questa è tutta un’altra storia. Più diventi grande, in senso di età, in senso di giri che fai intorno al sole, e più diventi grande; poiché hai fatto un certo quantitativo crescente di giri intorno al sole. Il sole è una delle tante miriadi di stelle che girano intorno a un’asse chissà perché e per come, che, a loro volta, vanno chissà dove e perché e come. I giri attorno a questa stella si chiamano: anni, tutti noi li chiamiamo anni. Gli anni ‘crescono’ cioè si moltiplicano e tu diventi più grande. Ma ci sono due modi per diventare grandi. Uno è quello semplicissimo, o quasi, di girare attorno a questa fatidica stella di nome Sole; l’altro è quello di prendere sempre più ‘decisioni’ volontarie e involontarie affinché un certo numero di individui ti classifichino come un grande. Grande? Si grande! È la solita storia di quella media democratica che decide; e, non appena ha deciso, allora sei un grande, sia per età che per azioni. Grande non tutti lo possono essere vita natural durante, perché vi sono individui che lo diventano dopo che si è conclusa la loro esistenza terrena, si dice così, no? Post mortem, insomma. E tu dirai: perché. Perché è così che funziona in questo pianeta: vi è un certo numero di persone che, solo dopo la tua morte, post mortem; cioè, si accorge che tu non sei stato altro che un grande, e allora, la media aritmetica del consenso democratico che decide la tua grandezza, si alza e, solo allora, puoi essere definito, un grande, anche se, in effetti, non lo sei mai stato. Ma, come abbiamo detto, quel che conta, è quella famosa decisione democratica che è anche una risultanza mediocre di decisioni. Ci sono grandi che decidono di rimanere soli, anche quando sono amati da tutti, e, altri grandi, che, invece, continuano a non poter stare soli in un mondo che non ti permette, almeno in teoria, di rimanere solo.
– grandi in senso di giri percorsi intorno al sole, o, grandi, nel senso di risultato democratico dei tuoi consimili?
Grandi in tutti e due i sensi. Ma grandi non è solo il risultato di un referendum democratico, è il risultato di un risultato che tu ottieni a secondo di che sei capace di combinare in una o più discipline della vita.
– discipline?
– si, discipline, sono dei meccanismi complessi di norme che regolano la vita di noi individui presi nella loro moltitudine o nella loro specifica individualità, chiamata, collettività, appunto, una capacità particolare di ognuno di noi di dominare i propri istinti, oppure di non dominarli affatto, per certi versi; dominare i tuoi istinti, i tuoi desideri, perseguendoli con sforzo e sacrificio molte delle volte, con capacità proprio personali che non tutti hanno; ma che solo tu, o pochi, hanno. Ed è per questo che vieni ammirato: combini cose che non tutti sanno fare, insomma, e diventi un grande, agli occhi di chi comprende che quella cosa che hai combinato tu, non la possono fare tutti. Le discipline impongono ad ogni essere (per dire la verità non a tutti) a grandi sforzi: più sforzi fai in ogni singola disciplina, più la tua vita diventa difficile. Ma non è che devi per forza di cose occuparti in una sola disciplina, puoi anche avere più discipline dove occupare la tua vita; ma, per certi versi, diventerà una vita d’inferno, otterrai l’appellativo di ‘grande’ forse, ma avrai dovuto fare sforzi inenarrabili, anche lo sforzo, se di sforzo si tratta, di perdere per sempre la tua vita.
– perdere la tua vita? Ma non hai detto che non si muore mai?
– si, non si muore mai, ma solo ufficialmente, solo per chi resta nella vita che tu ‘virtualmente’ hai perduta; tu, sei morto, morto stecchito, capisci? Tu sei compianto, per chi resta nella strada che hai intrapreso dall’ultimo bivio intrapreso, scelto. Capito mi hai? Quelli che restano, ti credono morto, per loro, tu sei morto, che credi? Sei dentro quei sei assi di tavola e zinco che ti tengono i tuoi resti cosiddetti ‘mortali’ , capisci?
– non proprio, ma mi sforzo.
Tu, il tuo corpo: è andato: sta iniziando la sua trasformazione organica che deve comunque fare, a seguito di quell’incidente che hai avuto perché tu ti sei semplicemente distratto e camminavi, con la tua macchina, a quasi duecentochilometril’ora. Ti fanno il funerale, la predica, tutti piangono, o quasi, (alcuni ridono) e poi ti sistemano dentro a una bara di quel tipo lì che ti ho detto prima. Ma non tutti vogliono fare questa fine, alcuni hanno il desiderio di farsi mettere ad ardere e diventi poi cenere. Comunque, in un modo o in un altro, molto probabilmente, sempre cenere diventerai, se non inizi il processo di calcificazione del tuo corpo, cioè quel processo con il quale il calcio prende posto dei tuoi resti insugheriti. Comunque: dicevamo?
Ah!, si! Per tutti gli esseri del mondo, per la storia, Gaius Iulius Caesar morì pugnalato la mattina del 15 marzo, quarantaquattro anni prima della venuta di Cristo. Per tutti, due anni dopo essere stato assassinato, il Senato lo deificò, lo elevò, vale a dirsi, ufficialmente, a divinità. Stessissima cosa di quel che ora si fa degli uomini, ai giorni nostri, dico giorni cristiani nostri, facendoli diventare santi. Non giusti, santi. Si reca, Giulio Cesare al Senato e che succede? Succede che i senatori, fra i quali molti, ai quali aveva concesso la sua clemenza, molti amici a cui aveva concesso onori e anche gloria, molti di coloro che aveva nominato suoi eredi nel testamento, che cosa fanno?
– dimmi.
Lo pugnalano, pigliando il Cesare, come si usa dire, 23 pugnalate. Nel sistema del cambio binario di cui si parla, o sistema di Universi paralleli, o di Vite parallele che dir si voglia, teoria attualmente in vigore sai? Hai mai sentito parlare di quanti? Sentito parlare di un gatto che non è ne morto e né vivo? Fisica è. Di fisica stiamo parlando, non di infinocchiamenti. Cesare, in effetti, non morì (pace all’anima sua, che dio l’abbia in gloria): continuò a esistere in vita. Possiamo allora immaginarci come poté proseguire la sua eterna vita, l’eterna vita che ognuno di noi ha?, cambiando semplicemente il binario, prendendo la strada giusta ogni qualvolta si arriva in un particolare bivio della nostra vita? A far la nostra scelta conscia o inconscia? Ebbene c’è il primo pugnalatore, c’è poi il secondo. Cesare riesce a tenere testa, in prima, poi vede anche Marco Giunio Bruto che gli viene incontro. Lui dice: ora mi aiuterà il mio Bruto. E questi è il terzo pugnalatore. Cesare si copre il capo, con la sua toga, ed esclama quel <>, non il consueto, ormai storico: <> e non si lascia trafiggere dal suo figlio adottivo. Il Bruto, a queste parole rimane interdetto, a fatica il suo pugnale si alza fino al suo petto, poi, come se sostenuto da un’altra mano invisibile, la mano della coscienza, si arresta, non pugnala, e cade in ginocchio. Piange. Ihihiahhhuuuu. Tutto il Senato è attonito. Cesare è un dio. Gli altri congiurati lasciano cadere anche loro i loro pugnali. Un suono sordo di ventuno pugnali si sente nella sala. Gli altri senatori che erano lì attenti a vedere quel che stava per succedere, tutti, dico tutti, senza escluderne neppure uno, non uno dico, si inginocchiano, esclamano: <>, come se fosse la madunuzza, e, seduta stante, uno di quei senatori ha la forza di alzarsi e parlare: onorevoli senatori, divo Caesar, chiedendo umilmente scusa alla tua divinità, propongo, seduta stante, di nominarti dio. Dio: subito. Tutti applaudirono, alcuni s’iniziarono ad abbracciare, i più vicini al divo Caesar presero il nuovo proclamato dio fra le loro braccia, lo adagiarono delicatamente sopra di un cuscino, per terra, e, vedendo che le ferite procurategli non erano gravi, lo trasportarono sopra il suo trono. Cesare era salvo, la repubblica, anche, i senatori, anche, perché era ormai consolidata e risaputa da tutti, la consuetudine di Cesare di perdonare i suoi nemici. Ancora oggi, secondo la personale visione di Cesare, Cesare è ancora in vita, sennò perché sarebbe stato nominato dio? Continua a gestire un impero sempre più grande, non conosce ancora il continente americano, non conosce Cristoforo Colombo, né Hitler, né Stalin, né quel che è successo l’undici di settembre del 2011 in una città chiamata la Nuova York, poiché non conosce neppure la città chiamata York e che si trova dalle parti ancora più sopra, ma ancora ancora più sopra dei galli. Tutti lo onorano: vede morirsi attorno migliaia di suoi conoscenti, compreso il suo figliolo Marco Giunio Bruto, la moglie, i suoi amici più intimi, solo lui continua ciò che gli altri non potranno mai vedere, neanche noi; che, oggi, ci accingiamo a farneticare la nostra tesi della vita sopra di un sistema binario di cambio binari, di Universi paralleli, di Vite parallele. Di Gaius Octavius, da Velletri? Niente da potersene dire, per tutto quello che tutti noi, invece potremmo dire. Di Gaius Iulius Caesar Octavianus Augustus? Bah! dell’Imperator Caesar Divi filius Augustus? Mai saputo nulla di tutto ciò che il mondo intero che noi tutti viviamo ha potuto apprendere, tutto quel mondo intero che è al di là del mondo vissuto dal proseguo reale della vita di Gaius Iulius Caesar. Per Cesare, Ottaviano non è divenuto mai il nuovo imperatore dei romani. Per Cesare Ottaviano – così tutti lo chiamavano, soprattutto i suoi nemici – non tornò mai a Roma per proclamare i suoi diritti quale figlio adottivo ed erede del de cuius Gaius Iulius Caesar. Vi pare cosa impossibile? Ebbene si, è cosa del tutto improbabile ai vostri occhi, alle vostri menti troppo razionali, poco fantasiose; ma rimane pur sempre una tesi del tutto affascinante, poiché tutti voi, compreso io che sto scrivendo, siamo in una dimensione diversa da quella di Cesare. Ognuno di noi vede una dimensione personale e singolare al di fuori di ogni realtà cosmica. Ognuno di noi ha una scusa, una buona ragione per continuare la sua eterna vita di Universi paralleli in Universi paralleli, e Vite parallele in Vite parallele. Non credi di poter concludere la tua vita diventando un dio? Beh! Per ognuno di noi c’è una giusta conclusione, una giusta scusa per poter continuare, di volta in volta, la tua personale eterna vita chissà in quale altro universo parallelo, vita parallela cui entri. Tu dovrai morire solo per gli altri, non per te stesso: per quelli che rimangono. Per te stesso: mai nessuna tomba, mai quei sei assi di legno zincati che accoglieranno le tue povere membra affinché possano disseccarsi o divenire una fanghiglia qualunque.
– e tutti i corpi, tutti quei morti che ognuno di noi vede?
I morti! I morti sono tutti virtuali! Il gato né vivo e né morto!!! ricordi? sono le immagini virtuali morti, per così dire, di un tratto di vita chiusa tra un cambio di binario e un altro, tra Universi paralleli, e Vite parallele. Ad ogni cambio di binario, ad ogni universo, un altro universo, una continuazione di vita parallela che giustifica la tua infinita vita tra un tratto di binario e un altro, tra Universi paralleli e Vite parallele. Migliaia e migliaia di vittime, ogni giorno. Guerre, stragi, terrorismo, rivoluzioni: infiniti corpi, resti umani che valgono solo per chi resta in quel particolare universo parallelo, vita parallela che ha vissuto, e si produce la vita ‘virtuale’ che tu ti costruisci a seconda delle tue necessità consci o inconsci, passando, scegliendoti entrando in un particolare tuo universo, vita.
– e allora è tutto un gioco? Milioni di vittime sono morti in un modo solo virtuale? Nel modo virtuale che ogni persona virtuale è abilitato a vedere?
Un gioco, non sai che tutto è un gioco? Un gioco anch’esso virtuale. La vita non è altro che un’esperienza virtuale. Un sogno, diceva bene Unamuno. Pensa al tuo personale passato: dov’è, che cosa ne è rimasto del tuo personale passato ‘materiale’? Ti ricordi dei tuoi momenti di dolore, anche dolore fisico: dove sono tutti questi momenti? Dov’è il dolore fisico patito? Dove sono i milioni di ebrei fatti patire e fatti morire nei campi di concentramento nazisti e fascisti? (o anche comunisti). Dov’è quell’attimo fuggente di quando Hitler entra in Parigi e guarda, là, lontana, la torre Eiffel? Dov’è quella giornata di quando Agostino Aurelio di Ippona ebbe quel dolore di mola? Dov’è la corona con la quale Napoleone Bonaparte si cinse la propria testa? Dov’è Alessandro il grande figlio di Filippo il macedone? Il suo enorme impero? E Ciro anche lui “il grande”? Dov’è quel padre, quella madre? Dove quell’onorare anche il loro bastone, quel baciare la loro mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone, eh? quando a tuo padre si fermò il cuore hai provato dolore? Eh? Quanta gente, quante sofferenze, quante feste andate nel mondo dei ricordi, andati nel giusto posto ove essi dovevano essere depositati: virtualità presso virtualità. virtualità sopra virtualità. Rimane l’idea, la parola, il pensiero: nulla di materiale se non queste cose, sole cose non virtuali, ma concretamente esistenti in un mondo tutto virtuale. La parola, il Verbo: ciò che in principio fu, e ciò che è, e ciò che sarà: incancellabile Parola, Pensiero, Spirito delle cose.
– Cose da pazzi!
Da pazzi, si, non c’è che dire. Ma che cosa c’è in questo universo se non solo ‘cose da pazzi’? Vi è qualcosa di ‘normale’ ‘spiegabile’ in questo universo? Ti sembra normale un mondo che non si sa se essere finito o infinito? Se pensi a un mondo finito ti viene subito da ridere; se pensi a un mondo infinito, ti rimetti a ridere lo stesso: come fa ad esserci una cosa senza fine. E, invece, ci sono uomini di scienza che ti dicono: tutto può essere spiegato: è una questione di tempo, col tempo tutto potrà essere spiegato. E quando arriveremo a scoprire un mondo finito quale conclusione prenderemo? Un mondo alla Truman Show: ti imbarchi col la tua barca con vele a pannelli solari e….toh: sbatti! Sbatti, capisci idiota che non se altro? Sbatti, sbatti, non andare oltre, idiota, che sbatti, dai il muso sul finito, sul muro per non andare oltre. Oltre? Oltre c’è un regista con i suoi attori, i suoi tecnici, il suo testo, la sua recita a soggetto. Oltre si sbatteeee! sbatti: idiota che non sei altro. Non vedi che c’è il cartello: FINE? E quando scopriremo che il mondo in cui viviamo è infinito che altrettanta conclusione faremo? Pensiamo a un universo parte pieno e parte vuoto; ma se anche così fosse, quello vuoto è finito o infinito? Non si pensa affatto (ma alcuni, invece ci hanno già pensato) che non può esistere un vuoto, ma che anche quello che riteniamo essere vuoto, che immaginiamo vuoto (vuoto? Vuoto anche senza spazio?), non può essere ne ora ne mai vuoto, poiché il vuoto non esiste e, una cosa, per esistere, anche virtualmente, deve avere un pieno di qualcosa, che potrebbe anche essere qualcosa che assomiglia al vuoto; vuoto per te che non hai occhi per vedere, tatto per toccare. Che non sai misurare. Memoria piena, memoria vuota, memoria insufficiente. Nella pagina virtuale del tuo computer vedi una pagina bianca, vuota: ma ti sembra veramente vuota? Ah che idiota, vedi che è vuota? E, invece no, non è vuota, idiota, è piena! Atomo. Vita, esistenza. Dov’è quella persona che si pensa e ricorda la sua stessa esistenza? io vivo nonostante tutto che il mio corpo e il mio io più inconsapevole e consapevole di un millesimo di millesimo di millesimo di un secondo fa non c’è più ed è entrato nel mondo virtuale dell’inesistente, cioè dei ricordi, ricordi miei, forse, di altri, fin quando io ne avrò ricordo, e anche gli altri potranno averne di me. Ricordo mio padre. Ricordo a quando io lo potevo vedere, toccare anche, se solo lo avessi voluto. Ricordo è mio padre! Il suo corpo ‘riposa’ dentro una urna di legno, che poi è stata murata in un loculo in muratura, e lui sta lì, buono, lui; il suo corpo, non lui, la sua mente, i suoi pensieri, i suoi ricordi. La sua mente i suoi pensieri, i suoi ricordi dove sono andati a sistemarsi? Depositarsi? Decantazione di ricordi. Computer fuori uso. Verbo. Pensa mio padre, ora ch’è morto? Ha pensieri? Ricorda me? Sua moglie che è mia madre? I suoi figli, che sono i miei fratelli?, o ha effettuato il cambio del binario? Ed è entrato in quel sistema di Universi paralleli, Vite parallele, costruendosi una sua vita, una sua continuazione di vita che io ora sconosco? Si può tornare indietro in questo binario? O è solo un viaggio verso una sola direzione, viaggio di sola andata senza ritorno? Universi paralleli. Vite parallele. Un continuo cambio di binari lungo una rete ferroviaria infinita, un world wide web senza fine. Una fitta rete virtuale. Scrivi w.w.w. ed entri: stessa cosa è! Milioni e milioni di metri cubi di spazio pieno poiché di spazio vuoto non se ne parla nemmeno. Uno spazio, per essere spazio, dovrà necessariamente avere qualcosa, nel suo interno, da occupare, sennò che spazio potrà mai essere? Nessun vuoto possibile e immaginabile, se non in un mondo virtuale da noi stesso creato, in un modo non perfetto, anzi, per certi versi, se non tutti i versi, sconclusionato. È come la video scrittura ti dicevo poc’anzi: un foglio, un file ti sembra bianco, pulito, senza alcuna scrittura; ma, invece non è così, ci sono segni invisibili che hanno creato lo spazio. Ma c’è una cosa conclusionata in questo mondo ‘reale’ che anche gli scienziati più materialisti di quelli materialisti, studiano come materialistico, misurabile, odorabile, pesabile? rete (web) dell’intero (wide) mondo world. Mondo, naturalmente nella sua massima locuzione, significato, non di un qualsiasi e insignificante pianetucolo, aiuolucola, che gira intorno a un qualsiasi sferoide luminoso di plasma che genera energia nel proprio nucleo attraverso processi di fusione nucleare, anonimo e insignificante del wide world. Web, WWW,W3. Ti colleghi e navighi e usufruisci dell’insieme del molto vasto insieme di contenuti. Ti colleghi attraverso legami, grazie a dei protocolli che possiamo (definire?) di rete, in un modello di architettura di rete perfettamente definito, ché quello di internet non è della stessa perfetta definizione. Storia, storia virtuale, la nostra. Se solo vi fosse un tal essere, nell’universo, capace di cogliere le immagini trasmessi da noi poveri ‘mortali’ lungo l’arco della nostra storia, vedrebbe un mondo ormai sparito, non esistente, come vivo e vegeto, reale, materiale, effettivo, esistente in vita. Chissà se produciamo immagini della nostra esistenza, e queste immagini viaggiano, con la stessa velocità della luce, e ora stanno iniziando ad arrivare nel più vicino sistema solare, ove intelligenze particolari possono ‘vedere’ ciò che ‘realmente’ è avvenuto nel nostro pianetucolo da strapazzo (ma importante, importantissimo, vitale, indispensabile), seppur oggi è il 22 aprile ed è la giornata mondiale del pianeta Terra, e nessuno se ne frega. Avrebbe da vedere costui un film di almeno qualche miliardo di anni di durata. Rivedrebbe il nostro Gaius Iulius Caesar, le sue conquiste, il suo virtuale assassinio, le molte coltellate che gli sono state inferte. Aih, ah, ahia, no, ah, anch.. no, ah, tu. Vedrà quale delle sue vite? Quella che tutti noi sappiamo di cosui , e che è giunta a noi, noi che siamo stati vincolati a quel suo binario, che viviamo quel suo binario là, o quella ‘reale’ quella che non ha fine, quella che, di volta in volta, utilizza i vari passaggi di binari, di cambi di binari, di Universi paralleli di vite parallele, di rete come di questo mondo virtuale in questo W.W.W.? scrivo, continuo a scrivere, e il mio cervello elabora fesserie, il mio cervello virtuale che utilizza contatti elettrici per svilupparli, finisce la corrente e….tachczr, niente più contatti? Legati al flusso di elettricità. Milioni di contatti in un tempo brevissimo. Ci sono momenti che non ricordo, che non riesco a trovare il ricordo che è sicuramente dentro i miei contatti chissàdove, poi, chissàcome, chissàperchè, chissàchilosa, vien fuori, dopo, da solo, (da solo?) il ricordo, dov’era il ricordo? Era lì, diomio, era ancora lì, sennò, se non c’era non si sarebbe ritrovato mai più nemmeno dopo, il mio bravo ricordo. Sarò io che non son bravo a farlo venire fuori. Di tanto in tanto faccio una grande pulizia nel mio ufficio. Fogli sparsi raccolgo. Seleziono le pratiche, li incarpetto. Li archivio. Vado dall’economo (che è una donna): <> dico. Carpettoni dalla costola larga, altre dalle costole strette. Mi sento sollevato. Ecco, ora: ho tutto l’ufficio rassettato, ordinato: resettato? a guardarlo adesso è tutto in ordine. Che bello. Il problema è che, l’indomani non riesco a ritrovar le cose che un tempo in quel casino riuscivo benissimo a ritrovare. Dimentica. Ricorda, va a prendere. Elimina, forse per sempre, perde. Salva. Copia e incolla. Cancella. Arriva un bello spiffero di ossigeno. Ossigena gran parte di questi collegamenti. Piccole scariche elettriche. Ventata di ossigeno. Controlla, elabora, integra, coordina miriadi di informazioni. Arrivano informazione da tutti gli organi di senso. Prende decisioni in merito, anche a mia insaputa il ‘mio’ cervello. Cosa che il Virgilio di Dante non avrebbe mai fatto. E, invia tutte queste decisioni che ha preso, anche a mia insaputa, li invia al resto del mio corpo, o ai vari resti del mio corpo. Chi sono io? Linguaggio. Emozioni. Ricerca. Metodi. Sogno.
– sogno di chi? Porcaputtana.
Scrivo, penso, quindi sono. Non solo sono, ma il mio essere produce, stampa, e produce prove materiali di quel che pensa. Scrivo. Che ha detto effettivamente il Cristo? Non si sa con precisione. I suoi biografi hanno visto, hanno sentito. Alcuni non hanno sentito, non hanno visto. Ma il loro cervello ha percepito ha captato immagini pensieri, forme, che hanno prontamente tracciato su fogli incartapecoriti. Se solo avesse scritto qualcosa, il Cristo, e dai! Se solo erano i tempi maturi di imprinting delle immagini! Il cinema! Le riprese dal vivo (avrà sbagliato epoca il Cristo, oppure l’avrà fatto apposta?). Avremmo potuto avere una immagine, un video ripreso da un cellulare di ciò che diceva il maestro da tanto tempo atteso. Avremmo potuto avere anche le immagini reali della sua crocifissione. Credi che nessuno abbia avuto l’accortezza di filmare l’evento spettacolare di una crocifissione? Sulla sua tomba avremmo potuto collocare microspie per avere una videosorveglianza a dovere del suo cadavere. Avremmo potuto, se solo queste telecamere ne avessero avuta la necessaria capacità tecnologica, avere l’immagine, quasi in diretta della sua resurrezione. Risorgimento, non quello italiano delle arti. Rinascimento. Che fortuna ci siamo persa! Come parlava l’Atteso? Non sempre agli umani piace la stessa cosa. Ciò che un tempo piaceva, ora è sgradevole. Profumi è bellezze sono cose vane che svaniscono. Ho visto delle immagini del vate Gabriele d’Annunzio che lo discreditano. Se solo non avessimo avute quelle sue immagini oggi! Oggi avremmo, avrei, io in primis: io, una sua immagine più mitica; immagine mentale mitologica del poeta abruzzese, del ‘Vate’ che, invece, ho persa nel momento in cui ho visto il primo suo filmato, la prima sua immagine, per così dire, reale, in movimento. Che mandrillo, che fascino per avere tutte quelle donne d’appresso! Invece, un disastro! Un omiciattolo piuttosto basso e ridicolmente sicuro a come si muove e s’atteggia; che alza i piedi e il culetto per poter prendere come il volo! L’immagine di Ugo Foscolo produce la stessa delusione: i tempi cambiano, l’ideale di bellezza cambia, anche l’ideale del fascino cambia: sarà stato fascinoso, Ugo. Il fascino, credo che non possa essere rilevato da una foto. Molte persone fascinose non riescono a riprodurlo il proprio fascino attraverso un semplice scatto di foto: fotogenia si chiama, ma la fotogenia riguarda ancora l’immagine, io parlo del fascino: il fascino certe volte non si può fotografare, altre, si (quando c’è). Stessa delusione avremmo avuta con una vera immagine di Cristo? Con un filmato sui suoi discorsi? Con una registrazione elettronica della sua voce? Che voce aveva il Cristo? Come si porgeva ai suoi discepoli? Al suo popolo? Al popolo. Che volto aveva? Avere a disposizione una sua immagine cui avrebbe risparmiati lunghissimi tempi per elaborare il volto che oggi tutti noi riconosciamo come quello del Cristo. Prima abbiamo dovuto rifarci a quello dell’Apollo bellocomeunapollo; poi, l’Apollo essendo un po’ troppo giovane ed effeminato, e sbarbato, abbiamo dovuto ricorrere a quel volto maschio di Giove. Ma Giove era troppo autoritario, troppo macho, muscoloso alla Big Jim, possente come al dio degli ebrei (che poi è anche il nostro e anche dei mussulmani, e anche chissà di chi altri ancora, forse di tutti). Allora ci siamo finalmente convinti che era meglio elaborare un’immagine che non fosse né di Apollo e nemmeno di Giove: un Ermafrodita insomma fra un Apollo e un Giove, ed ecco che è spuntato il volto precisopreciso di Gesù, tale e quale; che è quello che tutti noi oggi accettiamo, accreditiamo come per buono, vero, veraimmagine; e se c’è un Pasolini qualsiasi di turno che lo cambia e ne fa un film tratto dalle cose che ci ha tramandati un certo Matteo, allora la cosa con ci quadra, non riusciamo ad accettarlo quel volto, poiché Gesù dovrà avere necessariamente carnagione bianca d’uomo del Nord, occhi azzurri. Potrebbe anche averli verdi. Ma l’azzurro ci fa sentire più sicuri. Un’altezza abbastanza più che normale: non si potrà prescindere da un metro e settantacinque-ottanta, no? Capelli lunghi e biondi, al massimo: castano chiaro. Viso ovale, ma non tanto, già l’immagine della sacra Sindone ci turba un po': un viso troppo ovale! un viso allungato ha. Vogliamo indietro il Cristo di Zeffirelli, cazzo, allora. Certo che sarà stato atroce vederlo andare in bagno il Cristo. A pisciare, o andare a cagare (in siciliano diciamo Cacari, cagare mi sa meno volgare, più da nordisti dell’Italia del Nord). Se tu vuoi vedere la vera natura di un uomo, e non averne timore, devi immaginarlo mentre che fa gli atti naturali suoi, ci raccomanda Terzani: piscia, caca! Che puzza la cacca del Cristo, per non parlare di quando scorreggiava il Cristo! Peeeetooooo. Faceva certi scorreggi; che, subito qualcuno dei suoi apostoli se ne accorgeva, ma non aveva il coraggio di denunciarlo agli altri compagni, o faceva finta di non averlo sentito, o accusava qualcuno dei suoi stessi pari tanto per screditarli, di aver fatto la puzzetta, voltandosi dietro le spalle, facendo la smorfia di schizzinoso e per vedere di nascosto chi c’era o l’effetto che faceva. Il Cristo nemmeno se ne accorgeva. Per Lui queste cose erano naturali, normali, insomma. Per lui tutto era naturale; anzi li faceva apposta, non vedeva l’ora di cacare, pisciare, scorreggiare: era un modo per conformarsi alla natura umana, per essere quanto più umano: non era venuto giusto appunto per questo? Per sentirsi un uomo a tutti gli effetti? Erano i discepoli che non lo capivano, e, siccome cacava, pisciava, e scorreggiava, come tutti gli esseri umani, era allora che, di tanto in tanto, gli venivano delle crisi religione dei ripensamenti, a questi discepoli, nel vedere il Cristo che mangiava, cacava pisciava e scorreggiava, così come tutti noi (e loro) facciamo. Gli venivano a questi apostoli delle vere crisi religiose, crisi di pensiero gli venivano ai dodici che erano stati scelti giustappunto per vedere e sentire quel che l’Atteso doveva fare, dire; ma subito si riconvertivano, dopo i primi e subitanei dubbi, e ridiventavano come tanti vari Manzoni messi uno appresso all’altro, ancora più puri del Manzoni dei Promessi Sposi; perdevano, per un attimo, o per giorni interi, la fede, ma si riprendevano quel che avevano perso prima, subito dopo averlo sentito parlare, ragionare in quel modo che lui parlava o ragionava. Volevano lasciarlo a cacare, dal latino cacare, a pisciare, a scorreggiare, certe volte; ma poi, quando si metteva a parlare, ripeto, a dire quelle cose che diceva, ripeto, allora, beh! Era tutta un’altra cosa. Un maestro che il titolo di maestro se lo meritava tutto, meglio di Mussolini, che lui sembra un pirla, un pazzo, a sentirlo adesso parlare e gesticolare. Tutto si rimescolava in loro apostoli, in questi poveri apostoli, Ignari di che cosa avrebbero dovuto passare a causa Sua, e iniziavano di nuovo a farsi convincere da quell’individuo che non poteva non essere che un uomo eccezionale, quantomeno, seppur, proprio, non un dio.
Voi chi dite che io sia? Continuava a dire. E loro pensavano alle pisciate fatte insieme, alle postazioni supine, anch’esse assieme, ma a dovuta distanza, per cacare. Che voce strana! Che lumi! Che portamento! Che bontà! Un uomo perfetto, anche nel fisico, seppur qualcuno ravvisava, di tanto in tanto anche in Lui, un piccolo difetto fisico. Il naso?, longilineo, ma un po’ troppo longilineo! la bocca?, bellissima, ma non proprio perfetta, che ne diresti se fosse stata un tantino più grande? Il viso?, mai visto un viso così, ma se fosse stato più scuro, quanto meno si sarebbe potuto dire che era un ebreo di razza pura nostra, non un po’ imbastardito da quei lineamenti romani, occidentali, addirittura barbari; barbari di quelli provenienti da quel nord oscuro e terribile e selvaggio che sta sopra quelle zone del terzo mondo, ancora non perfettamente civilizzato, al di là delle Alpi e dove ancora si viveva nelle palafitte. Lineamenti italiani, lineamenti un po’ barbari, come se sua madre fosse stata a letto con certi esseri selvaggi di quel nord Europa che abbiamo detto, appunto, insomma, ah Zerrifè! Gli occhi sono neri o blu? Celesti? Ma che dici! Blu come il mare. Celesti come il cielo. Ma se sono del colore dei marroni?, marroni? Ma che! Un po’ altino per la nostra razza, non ti pare?, ti pare?, si, mi pare! Un po’ altino. Ma suo padre non è un falegname? Come sa tutte queste cose? Secondo me è un tipo bravo, intelligenza precoce e molto sviluppata, sembra Socrate redivivo. Aristotele, oppure. Ci sono certe persone che rivivono. Tiresia non visse tutte quelle vire? Farà strada questo tipo qua! Ma che strada! Questo qua farà la fine che merita: quella del ladro, imbroglione: in croce con quelli della sua stessa razza di farabutti. Mai, però, che scorreggiasse in pubblico, il Cristo. I villani scorreggiano anche in pubblico. Una volta l’ho visto soffiarsi il naso in un modo che solo i re o gli imperatori fanno: col fazzoletto di lino! Lino? Lino! Ma non è un figlio di falegname? Una volta, però, il fazzoletto non l’aveva, e, allora, prese due dita della sua mano destra e, soffiando, prima fortemente, poi fece colare quel che c’era da far colare (non è bene dire che cosa, per educazione), e, poi, ancora, spezzandolo quel muco in due, direttamente dal naso, lo fece cadere ingrassando meravigliosamente la terra. Che schifo! Perché: che schifo? È una cosa naturale e a Lui, sappiamo come piacessero le cose naturali. E poi….Si…, ma, anche se fosse, sai quanti miracoli ha fatto e fa? Miracoli? Imbroglione è, si tratta di un imbroglione, figlio di un falegname cornuto che aveva poca voglia di lavorare, ecco! Non è vero: io una volta l’ho visto piallare una tavola. Una tavola? E, avendo piallato una tavola, hai le prove che sia un lavoratore? Uno che lavora onestamente, non ha tempo per le ciance: lavora e basta! Non si mette a pensare, a radunare eserciti di persone, non va in collina a moltiplicare pesci e pani e distribuirli a tutti coloro i quali hanno la pazienza (che ci vuole pazienza a sentirlo parlare per ore ed ore, ed ore certe volte) di sentirlo parlare, parlare, parlare, tutte quelle cose che pochi in effetti capiscono, ma che continuavano ad ascoltare (cosa strana questa). È come voler dare un reddito di cittadinanza (sudditanza vuoi dire!) a coloro i quali non hanno la ben che minima voglia di lavorare! Il mondo – non c’è nulla da fare – è dei lagnusi! Ma come parli? Mi vuoi far capire che non è giusto aiutare chi non ha un lavoro? Che dici che per quei pochi o molti che non vogliono lavorare e approfittano del reddito di cittadinanza, ci dovrebbero andare di mezzo quei pochi o molti disgraziati che non trovano lavoro, che pur avendo volontà al lavoro, non lo trovano? Siamo o non siamo di sinistra? Gesù, era o non era uno di sinistra? L’immagine. Ma che immagine vuoi mandare, vuoi proiettare nell’universo, a velocità della luce, sul più vicino sistema galattico, se tutto, dopo tutto, non è altro che un sogno? Un sogno? Non era un binario? Un sistema binario? Un continuo cambiar binario al momento opportuno per continuare il tuo infinito viaggio personale di vita? Un continuare ad esistere. Non cambia nulla! Non cambia nulla: cambiar tutto per non cambiar nulla: o binari o sogno è la stessa identica cosa, stammi a sentire. Se la vita è un sogno, un sogno con questo sistema di binari che ti dico io, allora in questo sogno si sogna tutto quello che la natura del sogno permette, cioè: tutto! Allora perché, dopo tutto, nella vita non c’è cosa che non possa succedere, possa esistere, possa verificarsi? Oggi c’è una cosa impensabile? E questa cosa impensabile è impensabile fin quando per tutti noi che sogniamo o siamo sognati, è impensabile. Ti posso fare un esempio? (ancora?). Era pensabile la telecomunicazione, non dico un millennio fa, ma un centinaio d’anni fa? Ed ora è la cosa più naturale del mondo, tutti fanno gli esperti e ne capiscono tutto, tutti lì a pigiare tasti sul telefonino. Io non scrivo più su un pezzo di carta, come vedi, con una penna o una matita: cose passate sono! Ora prendo un computer e scrivo su un desktop, una scrittura che non esiste! Una scrittura che chissà dov’è! Una scrittura fatta da tanti segni (pochi segni debitamente combinati) che non hanno minimamente a che fare con il segno che io traccio su questo benedetto desktop. Basta che ci si convinca, nel nostro sogno che ognuno di noi fa, o che quel tale sconosciuto fa, ed è fatta: funziona qualsiasi miracolo. C’è qualcuno che non crede nei miracoli: ma come? Non credi ai miracoli? Ma quanti miracoli vediamo in giro, nei secoli che sono passati! Miracoli della scienza diventano, i tanti miracoli che la scienza stessa prima diceva che non potevano sussistere, ne ora e ne mai, ed ora loro stessi, siccome sanno come si può fare il miracolo, se lo intestano e lo chiamano: miracolo della scienza. Sto passeggiando. Stai passeggiando? Si, sto passeggiando! E allora? Allora c’è che vedo un tale che per tutti noi che ci sentiamo normali e viviamo in un mondo, in un sistema di binari normale, in un sogno sognato dove il sognatore ci sta sognando normali, è un uomo anormale, un pazzo, uno schizofrenico qualsiasi, di quelli classici. E allora? Allora questo pazzo lo vedo che parla da solo. E con chi parla? Non lo so con chi parla, ma lui è convinto di stare parlando con qualcuno. Io sono che passeggio. Si me lo avevi detto! Te lo avevo detto, ma non ti avevo detto che non passeggiavo da solo, ma con mia moglie; e lei vede questo pazzo che parla da solo, e io gli faccio: perché ti fai abbu di quel pazzo schizofrenico? Lui vive in un altro mondo, in un altro sistema di binario. Tu che stai parlando con me, ti sembra normale? Si, mi fa lei, mi sembra normale, e no, gli faccio io, non è normale, perché sicuramente in un altro mondo, in un altro sistema binario, in un altro sogno, sei tu la pazza che sei sicura di stare parlando con me, ed invece stai parlando con nessuno, a sentir parlare quelli dell’altro sogno, dell’altro sistema binario. Cose da pazzi! Eh? Che te ne pare? Ed eccoti spiegata la vita, la vita immortale di ognuno di noi che, adesso, dopo tutto quello che ti ho raccontato, mi pari più persuaso; prima, eri allibito, stranito e mi guardavi come se fossi un pazzo, uno schizofrenico. Ora che la cosa è stata spiegata con vari esempi, mi inizi a dare qualche possibilità. In effetti, si, è così, ora ti inizio a dare più credito. Ma una domanda te la devo fare, così, per curiosità. Prego! Puoi farmi tutte le domande che vuoi. Ma tu: – chi sei? Io non ti ho mai visto prima d’ora. Chi ti ha mai visto?, eppure ti parlo come se ti avessi conosciuto da chissà quanto tempo! Ci credi? Pure io ho avuto la stessa impressione, pure io mi sono detto (a primo acchito): ma io, con chi sto palando? Esisterà per davvero questa persona qua con cui io sto parlando? La vita, credimi, è un sogno! Arriari ca cavaddru è fattu! Mi parli ancora? Ma non te ne sei accorto che stai parlando da solo? Che, mentre scrivi, e sei convinto di parlare con qualcuno, in effetti, non stai parlando con nessuno, neppure col muro, perché, qua, muri non ce ne stanno! Non dirmi che sto parlando con nessuno? Non dirmelo che casco in depressione e pazzo divento, come quel pazzo che ho visto per strada l’altro giorno mentre passeggiavo, non da solo, ma con mia moglie! Moglie? Adesso che ci penso: e se camminavo da solo? , e mi figuravo che ci fosse mia moglie con me che mi faceva osservare il pazzo che parlava da solo? E se non c’era nemmeno il pazzo a parlare da solo e c’ero solo io, come un cretino, lì, a passeggiare da solo e a vedere tutte queste cose che non c’erano? Non farti di tutte queste domande, sennò pazzo per davvero mi diventi, caro amico mio. Amico tuo? Ma chi ti ha mai conosciuto, poca confidenza! Poca confidenza a me? Ma lo sai chi sono? Chi sei? Io sono….. Chi sono io? E te lo debbo dire io chi sei. Ma quando ci vai a fanculo e ti togli dai miei portogalli? Ma vedi un po': uno è qui che passeggia da solo, vuole stare in pace da solo, riflette fra se e se da solo, vuole stare tranquillo, così da solo, godersi la natura, e ti vedi spuntare uno che ti dice che è un tuo caro amico. Caro amico a chi? Pussa via, no? Ci vai a fanculo? Intanto, tu, non stavi per niente passeggiando. Non stavo passeggiando? E allora cosa stavo facendo? Stavi scrivendo! Ho visto un povero schizofrenico scrivere su una tastiera di un computer, e io ho detto: ma questo che scrive? E allora ho iniziato a leggere che cosa stesse scrivendo. E allora tu che scrivevi mi hai iniziato a dire tutte queste cazzate: sui binari, sul sogno sognato da te o da altri, e allora ho visto, mi sono accorto anche, che, tutto quello che dicevi, veniva subito scritto sul desktop del computer, sul tuo file aperto, un file che portava un nome: gradinatapiazzaNGrippaldi18.odt- LibreOffice Writer. Davvero? Mi puoi dire tutto, mi puoi dire che non sei un mio amico, ma non puoi dirmi che sono un bugiardo, un imbroglione! Minchia! Minchia? Minchia, si! Cose da non crederci! E che ti dicevo! Ti dicevo proprio questo: in questa vita da sogno, sognata da te stesso, o da chissà chi, in questa vita a binari infiniti dove sei in un binario e, ad un certo punto, questo binario lo lasci, e ne prendi un altro, per perseguire un’altra strada, un altro binario, un’altra vita, succedono cose impensabili, strabilianti, dove tutto è impensabile e irrealizzabile fino a quando non ti convinci che, invece, lo possa essere. Senti, io con te non ci parlo più. Non ci parli più? E con chi parli? Con tutti, tranne che con te. Con tutti? E chi sono questi ‘tutti’. Tutti quelli del mondo, tranne che con te. Benissimaaa! Fai pure. Intanto, tu che sei malandrino e non vuoi parlare con me, oggi è da un giorno che parli con me, mi spieghi come gira il mondo, la vita com’è fatta: la vita di qua, la vita di là, i binari, il sogno, sogno nostro o di chissà chi, Giulio Cesare che non è morto, ma che ha continuato a vivere in eterno senza accorgersene di tutte le pugnalate che ha ricevuto (anzi se ne è accorto, ma, secondo lui, se l’è cavata anche con tutte le sue pugnalate che si è preso), Gesù Cristo che scorreggia e va in bagno(esisteva a quei tempi il bagno?). Io, per me, non ti avrei parlato per nulla, sarei stato a guardarti, lì, col tuo computer, a leggere le tue cazzate e basta. Anche se una domanda, una sola, te la voglio fare: ma se mi hai detto che la vita è un continuo cambio di binario, che la vita è un sogno, la vita è una miriade di vite che ognuno di noi vive ad insaputa degli altri, come mai non ti sei accorto che se tu non parli con me, non parli con nessuno? E che io e tu non siamo altro che figure virtuali di chissà quale romanzo, racconto, sogno, computer di turno sistemato chissà dove in quale sperduto universo di turno fra gli universi possibili e immaginabili pressoché infiniti? Ah! Ora ti ho preso, mio Dante ed io Virgilio! Finalmente hai capito: ci voleva l’insulto per capire tutta la storiella del mondo virtuale! Adesso hai capito che nulla esiste e tutto esiste. Adesso solo hai compreso che anche quando ognuno di noi inventa un personaggio, anche se è stato inventato di sana pianta mentale, dalla sana pianta della fantasia nostra, questa invenzione, questo personaggio anche se alla sanfasò inizia ad esistere veramente. Prendiamo Cide Hamete Benengeli. E chi è costui? Come chi è? Cide è colui che secondo quanto ci assicura Cervantes stesso è il vero autore delle vicende di Don Quijote, di quel manoscritto, vale a dire, che lui, il Cervantes, ha ritrovato in lingua aljamiado molto diffusa fra i moriscos; e che lui, il Cervantes dico, s’è presa la briga di tradurre. E allora? E allora: allora le stesse vicende di questo povero Don Quijote sono state continuate da un tale che di nome fa Alonso Fernandez. Cervantes, proprio proprio disgustato da questo proseguo della vita del Quijote, che cosa fa se non continuare le vere avventure del suo (tanto per dire) eroe? decide di scrivere la vera continuazione dell’avventura del Don Quijote – la seconda parte – pubblicandola nel 1615. E allora? Minchia! ma sempre con quest’allora, stammi a sentire e vedrai dove si arriverà nella discussione, pazienta, tu che stai sempre lì con quel telefonino. Tutti potremmo pensare che questo tal Quijote è uno di pura fantasia, nessuno oserebbe dire che Quijote è esistito veramente in carne ed ossa. E chi lo ha detto? Appunto: chi lo ha detto? Secondo me, non appena c’è uno che si inventa un personaggio, quel personaggio prende vita. Io stesso chissà chi mi ha inventato, chissà chi sta scrivendo al computer la mia vita al posto mio e si diletta, e chissà come la farà finire questa storia mia. Cide Hamete Benengeli secondo te è mai esistito? Secondo me, si: nello stesso medesimo momento, millesimo di secondo, che il Cervantes l’ha nominato. A tutti ci viene il dubbio se Cervantes ci ha giocato un brutto scherzo oppure no: chi lo può dire. Chi lo può dire se I promessi Sposi siano stati scritti veramente dal Manzoni. Il Manzoni ci ha messo la pulce nell’orecchio, e, nel frattempo che ci ha messo la pulce nell’orecchio, come per magia, l’autore vero del manoscritto dei Promessi sposi, in qualche universo possibile e immaginabile inizia ad esistere veramente. Ma la storia del Quijote non è finita qui? Non è finita? La vita scritta di Quijote non è finita? Non me lo dire? C’è un’altra storia ancora. C’è e non c’è. C’è che c’è un uomo che legge, come tanti leggono la vita di questo Quijote, e allora che fa? Che fa?, la testa ti stai portando! Fa che ne vuole riscrivere un’altra di vita del Quijote, approfondendola in tutti quei minimi particolari che non erano scritti, che erano sottaciuti, taciuti, nel libro che aveva scritto il Cide Hamete Benengeli e che il Miguel de Cervantes Saavedra non ha fatto altro che tradurre. Possibile mai? Possibile possibile!! e chi è costui? Vero o falso? Cioè esistito per davvero o per finta, nella fantasia di qualche altro uomo, come potrebbe essere il Cide Hamete Benengeli o il Quijote? Senti, sono stufo di te: capisci o non capisci quando parlo? Tutto esiste, niente non esiste; e fra sogno, immaginazione e quant’altro ti possa venire in testa, non c’è differenza alcuna. La prova provata di questo è che se io ti dicessi che anche tu non sei altro che un povero individuo esistente solo nella mente di un possibile poveretto povero individuo esistente che scrive nel suo computer, tu ti metteresti a ridere?, se proprio non ti verrebbe impeto di sputarmi in faccia, o darmi una carcagnata. Tu, insomma, esisti, esisti, ma perché ti ha fatto esistere questo qualcun’altro, ora mi hai compreso? Mi sono fatto comprendere? Ho capito, non ti incazzare. Io esisto come sono esistiti Cide Hamete Benengeli, Quijote, Miguel de Cervantes Saavedra, Alonso Fernandez, e Miguel de Unamuno y Jugo, e tu, ed io, e chi ci sta scrivendo in questo benedetto-maledetto computer. Non ci capisco più nulla: e il Cristo? E perché no? Perché proprio il Cristo non dovrebbe esistere. È esistito il Cristo e anche il Giulio Cesare, no? Tutti siamo il sogno, la fantasia, l’universo di qualcuno e tutte le vite sono vissute in un universo tale e quale come viene sognato da chissà chi. Tu ti immagini un universo finito? Ed ecco l’universo finito che non può non avere assolutamente dei confini. Tu ti immagini un universo infinito? E che ci vuole a immaginare pure un universo che non può avere assolutamente un muro oltre la siepe (che è sempre al buio), oltre l’immaginabile immaginabile. Mickey Mouse? Anche Mickey Mouse stanne certo, essendo vissuto Walt Disney è vissuto anche lui, continua ad esistere, esisterà sempre Mickey Mouse! Stanne certo. E se qualcuno non lo immaginerà più, se nessuno, fra qualche anno non saprà chi sia mai stato Mickey Mouse che succederà? Esisterà ancora il nostro caro vecchio amicone Mickey Mouse con le sue orecchie nere e tondetonde? Ma certo che si, certo, lui ha già una sua esistenza, lui percorrerà i suoi binari, i sui cambi di binari, così come li farai da oggi in poi tu, tu che esisti grazie a chi oggi ha deciso di farti esistere mettendosi a scrivere su un computer e immaginandoti così come ti immagina (stavo per dire, come sei), capisci? Cose da pazzi! Si, che sono cose da pazzi; ma la vita, dammi retta, è proprio fatta in questo modo da pazzi, dammi retta. In effetti mi erano sempre venuti certi dubbi. Quali, per esempio? Quali? Per esempio questi: c’è un filosofo che dice che due rette parallele prima o poi si incontreranno in un punto che è un punto lontano lontano lontanolontanolontanolontano e che, per definizione, diciamo in un punto ‘infinito’. Ma che minchia dici? Che minchia dico? Vai a leggere tutti i libri di geometria e vedi che ti dicono: tutti sono concordi, ti dico, d’accordo e d’amore a dire questa cazzata, e guai se non la ripeti paro paro al tuo professore di geometria: prendi un brutto voto se non la ripeti sta cazzata. Ma davvero? Davvero, ti dico. Davvero come davvero è tutto il nostro mondo possibile e immaginabile. Come davvero sono i mondi infiniti di cui è fatto il mondo infinito, tanto infinito che alla fine, sai quanti sono i Cide Hamete Benengeli, gli Alonso Chisciano o Quijano o Quijote che dir si voglia, i Miguel de Cervantes Saavedra, gli Alonso Fernández de Avellaneda, le Aldonza Lorenzo o Dulcinea del Toboso che dir si voglia, i Miguel de Unamuno y Jugo, e i Walt Disney e i vari tu, ed i vari io? Miliardi di copie perfette! Miliardi di Mickey Mouse in giro per i miliardi di universi possibili e immaginabili: infiniti personaggi che, come costui che s’è messo a scrivere sopra un computer di me e di te, esistono nei vari infiniti universi possibili e immaginabili e che tutti insieme, questi infiniti universi, compongono un universo che anche lui ha altri universi simili copie perfetti a lui. L’infinità ci sovrasta. Pure di Filippo Bruno? Perché lui dovrebbe essere un’0eccezione? A proposito ci hai fatto caso che Sancio Panza somiglia moltissimo nel fisico a don Abbondio, “Viaggiava Sancio Panza sopra il suo asino come un patriarca, colle bisacce in groppa e la borraccia all’arcione,..” caro amico mio? don Quijote non è come Ignazio di Layola? Caro amico mio. Minchia! Quante volte ti ho detto che io e tu non siamo amici? Non siamo amici?, e allora perché io ti chiamo amico? Perché, evidentemente, il nostro comune autore, scrive questa cosa della nostra comune amicizia. Capito mi hai? A proposito ma Sansone Carrasco colui che ha scritto l’epitaffio per la sepoltura di don Quijote, è esistito davvero? Sai che c’è? Che c’è? C’è che mi sono innamorato di te. Che bella questa cosa che hai detta! Adesso la cosa non mi disturba più. Evidentemente il nostro comune autore ha deciso di farti innamorare di me, solo che c’è un problema. Quale problema? C’è che il nostro comune autore non mi ha chiesto se io sono innamorato di te, o che io possa corrisponderti nel tuo dichiarato amore. Sai che c’è? Che c’è? C’è che tu non conti un cazzo: hai mai sentito parlare di libero arbitrio? Si! E allora spiegami cos’è il libero arbitrio. Il libero arbitrio è quella legge per la quale legge tutti noi siamo liberi di scegliere, decidere, in tutta libertà, cosa vogliamo decidere e scegliere. Dici? Dico. E sai che c’è? Che c’é? C’è che al tuo autore questa cosa non fa ne caldo e ne freddo. Se il tuo autore – il nostro autore comune dico – decide che tu devi corrispondermi nel mio amore, tu dovrai corrispondermi. Dici? E allora cosa minchia gli ha spiegato mai Marco Lombardo a Dante? Dico, tanto per dire. Ma questo non è libero arbitrio! No? No! Se libero arbitrio fosse, allora io, tu, avremmo il nostro parere, il nostro destino, insomma. Ti faccio un esempio. Il nostro comune autore scrive: – non vedi? – È messo sulla sua scrivania e sta scrivendo, batte i suoi polpastrelli sulla tastiera del suo computer, contemporaneamente – te ne sei accorto tu? – ha potuto dire la sua, no? No! Sia il nostro comune autore che noi due, siamo prigionieri sempre di qualcuno, un qualcuno all’infinito, come se fosse un numero (non qualsiasi) elevato all’infinito. Pare che tu abbia potuto dire qualcosa, pare che tu l’abbia potuta dire di tua spontanea volontà, ma è sempre stato il nostro comune autore che te l’ha data questa apparenza di libertà di dire quel che volevi dire, questa apparenza di ribellione. Il nostro comune autore ha deciso di farti essere un personaggio del genere di come tu sei, capito mi hai? Ma allora siamo dei robot? Circa quasi! No, non credo. Il libero arbitrio non può essere un imbroglio totale, una illusione di libertà. La libertà e libertà non può essere una forma di illusione. Credo che vi sia una mente, meglio chiamarlo Ente; un Ente che sa già tutto, sa come saranno le tue decisioni, le tue volontà, le tue mosse; saprà che fine, anche, faranno anche, queste decisione che prendi o prenderai. Hai mai giocato a scacchi? No, non so giocare, io so giocare solo a dama, e malamente. E’ lo stesso, solo che negli scacchi ci sono più regole: ogni pedina ha un suo determinato ruolo. Davvero? Davvero. Allora, quando uno gioca a scacchi chi decide di fare ogni mossa? I giocatori! Bra-aavo! Ma, secondo te, ad ogni mossa non ne deriverà una conseguenza? Il computer di bordo, le regole universali, le infinite possibilità, combinazioni, non hanno già determinato come andrà a finire quella partita, a causa di quella prima mossa, e delle successive? Si! La vita consiste in questa precisa partita a scacchi. Ci sono le regole, le leggi della natura, dell’universo, e queste regole, inserite in un sistema complesso computerizzato perfetto, già ci potrebbero dire come andrà a finire la partita ad ogni mossa che i due giocatori faranno. Hai mai giocato a scacchi col tuo computer? E come potevo? Non so giocare a scacchi! Si me lo hai detto che non sai giocare a scacchi, ma ti faccio un esempio, fai finta di saper giocare a scacchi: io, ad esempio, so giocare a scacchi, o, quanto meno, so muovere i pezzi della scacchiera e passarmi il tempo. Gioco con il mio computer a scacchi e, ad ogni mossa che io faccio, il computer mi risponde in una data maniera, poiché è stato programmato a rispondere in quella data maniera, e, chi lo ha programmato, gli ha inserito le regole per giocare a scacchi. Non è che il computer ha una facoltà di ragionamento, una facoltà a pensare, il computer segue solo ed essenzialmente e scrupolosamente delle regole, e senza che lui sappia che cosa sia il gioco degli scacchi: le regole degli scacchi, le regole, possiamo dire, della vita. I miracoli allora? E, proprio adesso mi viene di capire che differenza c’è tra intelligenza e capacità di risolvere un problema. Il computer, un computer d’alta tecnologia potrà risolvere meglio che qualsiasi uomo, il problema cui è stato programmato, ma con questo non è che sia intelligente, perché non capisce nemmeno il problema che lui è capacissimo di saper risolvere e in un modo migliore e nel minor tempo di uno intelligente. L’intelligente, molto probabilmente, non saprà risolvere il problema che poniamo al computer (e che il computer saprà perfettamente risolvere), ma con questo non è che non sia intelligente, anzi. Alcuni confondono queste due cose confondibili facilmente. Ma continuiamo il nostro discorso, dopo questa breve pausa noriana. Dicevamo? Ah: e i miracoli allora? Mi stai dicendo che i miracoli non esistono, per caso?, con tutto il ragionamento che mi hai portato a fare. Che c’entrano i miracoli? C’entrano, poiché, se mi dici che ogni mossa non può che non avere delle conseguenze, questo non potrà che significare una cosa: che niente può divergere dalle conseguenze che le leggi della natura hanno imposto. No, non è come dici tu. Il mondo sognato, noi lo possiamo sognare come lo vogliamo noi. Ci hai fatto caso che puoi sognare di stare guidando un aereo, senza che tu, nella tua apparente vita reale non hai conseguito nessun brevetto per guidare un aereo? Si, ho fatto il pilota, qualche volta, in uno dei miei sogni, lo vedi? Lo vedi? hai capito adesso? È, per un certo qual modo, come dice il buon Nikos Kazantzakis. E chi è questo greco! un greco antico? No, uno moderno. E allora non vale un cazzo. Ti sbagli è uno di quei greci moderni che è come se fosse uno di quelli antichi. Come un greco antico, ma non “un greco antico”. E’ un modo di dire, per dirti che è la stessissima cosa di un greco antico, cioè è un grande che non ha niente a che fare con i greci moderni che hanno perso la grandezza dei greci antichi. Allora: questo greco moderno, tale e quale a un greco antico, diceva che quando noi crediamo veramente e con passione a qualcosa, qualsiasi cosa, qualsiasi cosa che non esiste, alla fine questa qualsiasi cosa a cui crediamo, ma che non esiste assolutamente, alla fine questa cosa inesistente, la facciamo esistere, la creiamo, come dal nulla. Solo se questa cosa non la desideriamo veramente e con sufficiente passione e voglia, questa cosa inesistente non avviene mai, non la creeremo mai, non si rileverà mai nel mondo cosiddetto esistente, reale. I miracoli succedono in questo modo: colui che ci sogna, noi stessi che sogniamo noi stessi, possiamo, per un attimo, permetterci anche di cambiar le leggi della natura, dell’universo, e i programmi degli scacchi sfasano, concludono una partita nel modo diverso di come dovrebbe finire se solo non si sarebbero cambiate, per un momento, le regole stesse degli scacchi. Il libero arbitrio dev’essere inteso nel modo in cui lo intendeva Íñigo López de Loyola, una specie di don Quijot che, a sua volta, non è altro che una specie di Íñigo López de Loyola (tutto ritorna, come vedi). E come la intendeva questo ign…ig..na…ign.a…ignazio Lòpez di Layola? Bravissimo: hai detto il nome giusto con il quale è conosciuto: Questo Ignazio di Layola diceva questa cosa qua che tu, quando preghi, devi pregare come se tutto dipendesse dal dio che tu ti ritrovi a pregare, ma quando lavori, lavora come se tutto dipendesse solo da te. In poche parole, parafrasando. Che? Parafrasando, dico; quando vivi, quando devi prendere una decisione, prendila come se tutto dipendesse da te, sapendo che NULLA dipende da te, poiché, Tu, non sei altro che un sogno capace di sognare, un sogno capace di creare, parlare, pensare, decidere nel modo che uno sognato può decidere.
– libero, dritto e sano è tuo arbitrio?, mi fai capire.
… Sapendo che tutti siamo uno stesso sogno, io e tu, una stessa cosa….
– immagino naturalmente dopo che si sia liberato dal peccato
Certamente. Io e tu la stessa cosa che nasce dalla mente, dalla fantasia che produce noi due, dalla fantasia del nostro comune autore che è messo – lo vedi? – là, con il suo dito indice che batte sulla sua tastiera del suo computer e se la gode di noi due; fa le sue pensate strampalate, scherza, ride, butta battute, suppone, gioca con le parole, fa finta di creare nuove teorie filosofiche, facendole credere univoche, ma che univoche non sono assolutamente, poiché (se ci hai fatto caso) tutto può essere in questo mondo di sogni, e ogni cosa non è assolutamente assoluta, ma relativa; e ogni legge, ogni emendamento, ogni teoria vale fin quando non c’è un’altra teoria che tranquillamente la detronizzerà. Giù, buttato dalla torre. Tutto è il contrario di tutto. Ad ogni parola, frase, teoria, pensiero ce ne sarà sicuramente un’altra di una forza di una azione uguale e contraria. Con te non ci voglio avere a che fare. Con me? E perché? Perché io non voglio essere amico tuo e ne tampoco il tuo amante, il tuo innamorato. Hai dimenticato di considerare una questione importante. Quale? Credo che tu sei me stesso, come Sancio Panza somiglia a don Abbondio e come don Quijote è don Ignazio di Layola. Credi? Credo! Domanda al nostro comune autore: autore!! siii. Autore, mi può spiegare, per favore una cosa? Che cosa? La cosa che gli stavo per dire al mio amico. Non chiamarmi amico! Al mio amante! Non sono il tuo amante, non ti amo, capisci? Ok non sei il mio amico, né il mio amante: ora puoi farmi, per favore, parlare con il nostro comune autore? E chi è costui? Il nostro comune autore! Non ti sei accorto che abbiamo un comune autore che continua a battere i suoi polpastrelli sulla tastiera del computer? Anzi, il SUO polpastrello sulla tastiera? No, non mi sono accorto. Ok non ti sei accorto, allora stai zitto e ascolta. Ascoltare cosa? Ascoltare il dialogo fra me e il nostro comune autore. Tu sei pazzo, non c’è nessun autore comune. Vedi un autore comune? Non vedi che siamo soli io e te? Ti pare che siamo soli io e te, ma non è così, anzi ti spiegherò che, non solo c’è un nostro comune autore che batte il suo polpastrello sulla tastiera del computer, ma che io e te siamo la stessa persona. Io credo che tu sei me stesso. Pazzo! Sei un pazzo! Sarò pazzo, ma abbi la bontà, la cortesia, la compiacenza di farmi parlare col nostro comune autore. Autooore! Si, che c’è? Ti posso fare una domanda? Certo? Tu non sei il nostro comune autore? Più che vostro comune autore, sono solo l’unico autore di voi due che poi siete la stessissima cosa, anzi, mi correggo, io, e voi due, che siete un unico stesso personaggio, siete la stessissima cosa di me che sono il vostro autore comune. Io stesso chissà di chi sono autore, sicurissimamente c’è un mio autore. Tu hai la fortuna di avere una risposta da me, così: diretta; molti altri sai quanto tempo hanno dovuto aspettare?, c’è qualcuno che ha dovuto aspettato tutta una vita e non riceve nemmeno in punto di morte nessunissima risposta. Hai presente quell’altro autore che di nome fa Kafka? Hai letto di quei che aspettano Godot? Si, il mio amico, no, ma io si, ho letto Aspettando Godot. Mi è piaciuto questo testo teatrale. Perfetto: io, per dire, sono, in qualche modo, il tuo Godot, ma ti ho risposto chiaro chiaro perché ho deciso di portarti a conoscenza di come stanno le cose, i personaggi di quelli di Aspettando Godot, sono stati più scarognati. Hai sentito? Che cosa? La risposta del nostro comune autore! Io non ho sentito nulla. Non hai sentito nulla perché o sei cretino, o fai il cretino, o perché il nostro comune autore ha deciso di renderti un personaggio agnostico, ateo, materialista,… emh storico, monolitico, robotico. E mi dispiace per te. Ti dispiace di che? Ti dispiace del fatto che non sono un pazzo psicopatico schizofrenico che crede di avere delle risposte da uno a cui si fanno delle domande e che non esiste per nulla? Autore? Che c’é ? Puoi per favore dire al mio lui al mio me stesso che tu esisti?, che sei sulla tastiera del tuo computer e batti il tuo polpastrello e stai creando tutta questa storia? Autoooo-oreee?, rispondi, per favore, sennò ‘sto scemo patentato non mi crederà. Autore! Autore!! per favore!! hai visto? Hai visto che nemmeno tu senti qualcosa. Non ci sono risposte di nessun autore: è tutta una tua fantasia, quella del comune autore, del “Non credo che tu sei me stesso”. Io sono io e tu sei tu, e l’autore comune non c’è. E allora il mondo? E allora lo spazio infinito? Allora la materia? Allora gli Universi paralleli,Vite parallele? Allora il miracolo di questa esistenza certa di questo universo che stiamo guardando e dove viviamo? L’universo è sempre esistito, così come tutto lo spazio pieno o vuoto che sia; ma non farti venire fantasie varie ed eventuali di spiritualità varie ed eventuali. Che io non ti possa dimostrare l’esistenza del nostro comune autore, va bene, questa te la concedo, non so perché si rifiuta in questo preciso momento di rispondere; ma, hai ragione, non ho le prove; ma più prove di quella che ti porto evidente dell’esistenza di questo spazio in cui ci troviamo vuoi? Di questa foglia? Di questo verme? Di questa infinità di atomi vuoi? Quale spazio? Hai uno spazio? Non ti accorgi che non hai uno spazio attorno? Come? Non ti accorgi dello spazio che hai attorno? Ora capisco perché il nostro autore comune non ti vuol dare le risposte che, invece, a me ha date. Tu non hai coscienza del tuo spazio; e non hai coscienza del tuo spazio, perché il nostro autore vorrebbe farti comprendere che tu, in effetti, non hai uno spazio, per la semplice causa che tu sei un suo personaggio, e i personaggi non hanno uno spazio, non vivono dentro uno spazio. Dici? Dico! Io, a differenza tua, percepisco uno spazio, perché il mio autore comune mi ha dato uno spazio, virtuale si, ma sempre impressione e percezione di spazio mi ha dato. A te, no. Non capisco, perché a te, non ha dato uno spazio, pur essendo che tu ed io siamo una stessa identica cosa perché nati tutti e due da una sola mente, quella sua. Autore? Autore, per favore dammi un segnale, perché non mi rispondi più? Non lasciarci come hai lasciato a quelli di Aspettando Godot! So che tu esisti, che batti il tuo polpastrello sulla tastiera del tuo computer, lo so, dammi un segno, ti prego! Non risponde hai visto? Per il semplice fatto che il nostro comune autore non esiste. Mi prendi per pazzo è? La vita è un sogno, un sogno sognato da noi stessi o da chi sa chi! Un continuo cambio di binario non appena si presenta la necessità. Una partita a scacchi. Dici? Dico. Per ora so che stiamo soli io e te, in questo universo che non so se essere finito e infinito e che, mentre io non aspetto nessuno, tu aspetti qualcuno. Io, anch’io, non aspetto nessuno: so’ che non ho bisogno di aspettare poiché so che c’è. Ben per te. Io non aspetto. E mi godo il mio non avere nessun luogo, nessuna materia di cui tu dici, nessun atomo, non c’è nessun sole che brilla, come dici tu. Niente di niente: soli io e tu, in questo nessun luogo, in questo niente perfetto e imperscrutabile, e ci sto bene. Meglio esistere in un nulla eterno che esistere in uno spazio-materia, spazio e materia pure tu. «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»

 

 

 

Tre

tratto da DURANTE, I canto Inferno

Un uomo si capisce ‘veramente’ solo in certe situazioni: nel momento del bisogno, quando è solo, non quando è in compagnia di altri; che lì, lo sbruffone, quando è in compagnia d’altri, diventa sicuro e coraggioso e altruista; da solo, cioè, si vede veramente un uomo, o con poche altre persone anch’esse in un momento di difficoltà; oppure quando si è ammalati dentro un fondo di letto; oppure ancora quando si è arrivati alla fine della propria vita.
In un naufragio in un mare azzurro d’agosto, anche.
A me interessava l’odore della casa di viale Francesco Scaduto, solo perché volevo immaginare la vita quotidiana del maestro di Regalpetra; non quella filigranata dell’uomo che diventa mito e non è più un uomo mortale come tutti gli altri uomini mortali; l’uomo messo a nudo. Un grande sommo poeta non lo si può immaginare al cesso, mentre suda o gli puzza l’alito perché, la sera prima, ha mangiato pesante o perché, per sua natura, gli ‘feta ‘a lena’. E potrebbero apparire elementi non indispensabili per la conoscenza di un personaggio. Ma io dico, all’apparenza, potrebbero non essere, perché non c’è miglior modo per conoscere un uomo diventato un personaggio mitico, per le sue capacità militari, filosofiche, artistiche o scientifiche, che dal cielo riportarlo in terra, rifacendolo diventare di nuovo un uomo comune a tutti gli altri con tutti i suoi pregi e difetti.
L’uomo lo si riporta in terra, se è diventato un dio.
Dio lo si riporta in cielo, se è Dio diventato uomo.
Si diceva dell’importanza degli ultimi atti dell’esistenza di un uomo diventato simbolo, mito, e dell’importanza dell’odore che si respira nella sua casa e, in special modo, l’aria, i comportamenti, gli atteggiamenti in quegli ultimi attimi di vita attorno a lui. Più si conosce quell’odore, più si potrà comprendere quello che si vuol comprendere su di lui, sulla sua opera, sul suo pensiero e, di conseguenza sugli uomini. Ma, come dicevamo, più d’ogni cosa, per conoscere un uomo, è importante sapere del suo ultimo istante di vita, sapere della sua morte, poiché ci fa capire chi veramente è stato quell’uomo che sta per finire la sua esistenza di apparente esistenza in vita. In poche parole è LA MORTE che ci fa comprendere chi siamo. Chi siamo stati. Non spaventiamoci. Appartiene a una naturale logica, la morte. Sarebbe una cosa orribile la vita senza la morte. Riflettiamoci. Accettiamola così come accettiamo la nascita, la morte. L’inizio della vita. La vita, intesa come apparente vita reale. Vita di quanti. Vita di grumi.
Tiziano Terzani nel suo La fine è il mio inizio, confessa al proprio figlio che è Una cosa bellissima, il disfarsi nella vita del cosmo ed essere parte di tutto.
Prepariamoci, non sciocchiamoci. Non è una grossa sorpresa, la morte, non dovrebbe esserlo. Bisogna portarsi la morte nel taschino, così come nel taschino la portava C.Bukowski.
– nel taschino?
Si, nel taschino, Bukowscki teneva nel suo taschino la morte: certe volte la tirava fuori e gli parlava: “Ciao bella, come va? Quand’è che vieni a prendermi? Sono pronto”.
Bisogna che si abbia paura di come conduciamo la nostra vita, di questo dovremmo avere terrore: di come non si fa onore alla vita e di come la “pisciano via. La cagano fuori”.
– In effetti si, come dice Bukowscki siamo “Troppo presi a scopare, film, soldi, famiglia, scopare.“.
Tu “Gli suoni la grande musica dei secoli e loro che fanno?, loro non sentono.
Fiume la vita: con una sorgente, un mare, un lago, il sole, la nuvola, la gravità, la sorgente: di nuovo.
E’ l’alba a Palermo. Molte volte sono passato e sono entrato nella villa Sperlinga. Ho passato il ponte Noce e pensavo che, proprio quel ponte fosse il ponte sopra la contrada Noce: era proprio così. Nell’appartamento di viale Francesco Scaduto, se volgi lo sguardo verso la tua destra, c’è il sole che sta spuntando come un seme da sottoterra.
Dopo un’altra nottata passata fra paura, angoscia, e stanchezza, un’altra giornata sta per apparire come dal nulla, come una qualsiasi altra giornata di chissà quale altra giornata di quale millennio fa. Imperterriti giri. Ormai stanco e affaticato, il maestro di Regalpetra mostrava di stare molto male, sempre più stremato. I reni oramai distrutti e messi fuori uso dal mieloma micromolecolare. Ah. la medicina! Sbirciando di là dietro le avvolgibili semiabbassate (la luce entra avaramente dalle imposte appena spiragliate), riesce a stento a sollevare le palpebre. Una mano calda prende la sua mano, ormai senza forza: sarà quella di Maria che guarda cercando di nascondere i suoi pensieri. Uno fa finta di niente quando vuole nascondere i suoi pensieri. Gli ciucìulia qualche parola, allora, che la moglie a stento riesce a comprendere, nella penombra della stanza da letto strisciata orizzontalmente dalla luce che filtra attraverso l’avvolgibile. L’aria è un ribollire di piccole particelle, di questo t’accorgi, che vagano come asteroidi, cambiando il loro percorso ad ogni minimo impercettibile soffio. Agghjurnau, riesce a dire, e il suo viso si fa grave, come chissà quale sforzo abbia fatto. Maria fa segno d’aver capito quello che lui gli ha soffiato appena appena, attraverso le labbra strette, stringendole la mano fra le sue, con finto vigore, ora. La guarda, lui, e accenna un sorriso, irrigidendo il braccio, come a voler toccare con la mano e con lo sguardo la collana di perle che gli aveva regalato con la rimanenza dell’incasso di 290.000 lire vinti nel lontano 1957 a Lugano, e che lei oramai porta da una vita. Una serie di coincidenze è la vita. Tu non comprendi nulla di queste coincidenze, poche sono quelle che riesci a svelarti come certi sogni facili facili; molte ti appartengono, molte altre appartengono agli altri, sconosciuti a te stesso, e tu non sei stato altro che una coincidenza per legarti a un altro. La signora Maria così io la vidi, un giorno, di là, proprio di fronte a me, in una tavolata lunga, dove si pranzava assieme, e dove, di tanto in tanto, le scattavo delle foto, per poterla ricordare, per poterla sentire più mia. Chiuse gli occhi. Pensò a quante volte aveva immaginato e pensato quest’attimo, l’ultimo della sua vita. Era cosciente, si, questo si. La sua ultima suprema curiosità intellettuale. La voglia di voler morire “con gli occhi aperti”. Proprio come volevo. Guardare, la morte, in faccia. Morte, amica naturale da poter accogliere con serenità. La nostra sorella morte corporale, dalla quale nessun essere umano può scappare.
– morte corporale?
Mistero più oscuro della vita.
Fa quella faccia ugualeuguale a come quando si mise quella volta davanti alla statua di Voltaire. Immortalato in uno scatto.
– di Ferdinando Scianna, mi pare che fosse, no?
Proprio allo stesso modo: si, fece la faccia. C’è un’altra foto di lui davanti al Cristo morto, come se fosse passato per caso di lì.
Una volpe che di lontano passa e s’accorge che tu stai lì e la guardi. Poi va.
Beati quelli che troveranno la morte mentre stanno rispettando le tue volontà. In questo caso la morte spirituale non procurerà loro alcun male.
<> questo pensa, e, sfidando le sue capacità, apre gli occhi. È là che lo guarda, che non gli lascia nemmeno per un attimo la mano, Maria. Da qui a poco avrò modo di scoprire come si rinasce, come si entra in quel tempo infinito della vita – chissà se esiste il nulla? l’oblio, per sempre! – , come si inizia a ricordarci di questo pianeta in cui sono vissuto ed in cui ho iniziato a fare tutto quello che ho fatto. Morte: futuro ricordo? Futura memoria all’infinito? Solo memoria senza più futuro?
Senza la morte non ci sarebbe la vita, così un giorno aveva pensato d’istinto e detto a qualcuno, ora non ricordava più a chi, mentre i suoi pensieri, ora, diventavano come un tutt’uno in un tempo concentratissimo che diventava senzatempo. Stretto stretto. Rise fra se, ripensando agli eventi strani di T con zero. Calvino.
Molte volte ho pensato che il tempo non esiste, in un mondo che gioca a nascondersi.
Comparve, allora alla sua mente il nonno Leonardo.
La mia mente.
Chi si ‘u niputi di Nardu? quante volte aveva sentito rivolgersi questa domanda. Dio mio che forza! che particolare coraggio di ‘uomo del Nord’, di ‘gran lombardo alla Vittorini’.
Occhi azzurri. Mah! Che orgoglio i siciliani a riconoscersi lombardi, normanni, svevi. Oppure greci, macedoni, anche vichinghi si vorrebbe, con le corna, quelle corna che non hann mai indossato.
Lui, invece, così tanto simile a un siculosicano, a un arabo. Colorito olivastro come certi spagnoli.
Fu un attimo e il pensiero svanì chissà come.
Così com’era venuto. Viene tutto dal niente?
Anima, soffio.
Io sono un illuminista, ma come si può a pensare che possa venire qualcosa dal niente, dal vuoto.Esiste il vuoto. Qualcuno inizia a pensare che tutto è pieno, solo che non si sa da dove è piovuto tutto questo pieno zeppo che non lascia nulla di vuoto. E il vuoto è anch’esso pieno.
<<Giuseppe!>> anche tu? chiama.
Apparso come quando ti sogni. Stesso, precisopreciso.
Ha lo stesso volto di come l’aveva visto l’ultima volta nel “48 prima che morisse nel modo in cui morì.
Non era stato lui: era stato il luogo. Quel luogo sperduto ed isolato che metteva panico , a starci da soli. Quel luogo è stato, ti dico. Giovane, allegro, pieno di vita com’era, mio fratello.
<<Giusè!>>, e in effetti rispose, lui: con un sorriso, di come quando lui mi sorrideva.
Gli poteva prendere la mano, sai?, a Giuseppe, se solo lo avesse potuto.
Ma perché, se sono in un sogno, mi viene così difficile ad abbracciarlo?
Oltre a quest’istante tutto è ricordo, tutto è naturale. Questo gli sembrò gli volesse rispondere. Ma perché non parlava? Perché parla solo collo sguardo?
– Ricordi? – gli fece ancora intendere il fratello, senza bisogno che dicesse parola alcuna, ma solo con quel solito suo sguardo.
– Ma a che serve parlare? – si disse.
Hanno un senso le parole?
Io sono maestro nelle parole, eppure…so.
Possono dire le cose, le parole, che solo con gli sguardi, solo col silenzio si possono dire?
Tante volte l’ho pensato. Eppure come mi piace l’atto dello scrivere. L’atto dello scrivere non è il semplice voler dire le cose nero su bianco nero su nero, dire qualcosa, no: scrivere è cercare sempre di dire con parole quello che con le parole sai che non riuscirai mai a dire, e che solo con il silenzio riesci. Il limite della parola è questo.
Una poesia, la leggi, e, se la leggi ad alta voce, non riuscirai mai ad ottenere lo stesso risultato che non quando non esprimi parola alcuna.
Quando Ambrogio se ne rese conto, iniziò a leggere senza proferire parola alcuna.
– Ti ricordi Nànà <>, ti ricordi ah? << Se la morte, insomma, che ci fa tanto paura, non esistesse e fosse soltanto, non l’estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi questo lanternino, – ah! il lanternino! “quaranta giorni al buio” – lo sciagurato sentimento che noi abbiamo di essa, penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio d’ombre fittizie, oltre il breve àmbito…>>.
Si fermò un attimo.
Lui era che parlava?, che pensava a tutte queste fesserie?, o era suo fratello che queste cose gli fanfariava?
<<Noi, esseri abbiamo sempre vissuto e sempre vivremo con l’universo; anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le manifestazioni dell’universo, ma non lo sappiamo, non lo vediamo, perché purtroppo questo maledetto…>>.
Pensieri, forse erano, ricordi.
– minchia, sempri ‘sti ricordi!
Ad un tratto percepì un sussulto di dolore. Lo stesso dolore ho di quel debosciato di don Rodrigo!
Il respiro allora gli mancò, per un momento che durò come se fosse eterno.
E si risvegliò, allora.
Muto, pensò:
Da qui a poco la mia vita sarà sfiorita.
Come quando i petali, ad uno ad uno, cadono senza che tu li tocchi nemmeno, senza che nemmeno il soffio delicato del vento li abbia sfiorati. Cadono. Lo sguardo solo basta. Chissà dove va la mia vita, ora, i miei pensieri. Come sempre succede in questi casi, dato l’ultimo mortal sospiro, l’ultimo fiato fatale, spoglia immemore, diventerò un problema.
Tutti si sarebbero preoccupati della sua vestizione, allora.
Sarò mostrato.
Come affronterò la tragica ultima ora? Come, io, diverrò, in un istante?, cosa fra le cose? freddo fra il freddo. Muto silenzio fra il silenzio della stanza da letto.
Ci fu, un giorno
Che
La porta
Che
Ora vedo
Fu
Un seme, un virgulto, un ramo robusto e fermo
Poi
Un grosso tronco
Che
Fece
Fiori
Bacche
O frutti
Ora è là:
morto
che
piallato
dal falegname
è lì che mi chiude l’uscio,
per non parlare
poi
dell’armadio
del comò
la credenza:
cellule morte
che un tempo
trasportavano linfa vitale
ora
sono lì
fermi
immobili
senza vita
e io
prendo
la maniglia
e chiudo la porta
dove un tempo
il vento stormiva
fra quelle foglie
di quel vecchio
albero
che in cima
aveva
un nido
con delle uova
e un uccello
che li covava.
– che dici scartavetro?
Scartavetro e poi vernicio
Così la porta diventa come nuova!
Si, andrò col pensiero, cogli occhi miei.
– dov’è mio fratello? Ma come si fa ad aprire gli occhi?
Diventava tutto più difficile. Nemmeno l’istinto lo aiutava più. Ci sono cose che si fanno senza che tu li pensi, senza che li comandi: li fai, e basta. Ti riescono, non c’è bisogno di pensarle. Che tu ci pensi forse a far battere il tuo cuore? Ci hai pensato mai a comandare ai tuoi polmoni di respirare? Per esorcizzare il respiro: per questo fumavo?
Il suo respiro era più pesante del solito, di questo si accorgeva. Gli gonfiava il petto, quando respirava, in una maniere strana, però, non consueta. Strano quel suo respiro, come il silenzio che sentiva attorno a lui. Strano davvero. È questo il rantolo? Sentiva – ora che ci faceva caso – là lontano, sua moglie: piange? sommessamente, ma perché? Ma come mai, se è così lontana, le sue mani toccano ancora la mia?
<<Oh! Savinio, dietro quella porta chiusa, morto. Era stato un gesto bello: aveva la forza di alzarsi e d’andare a chiudere la sua porta per non far sentire a sua moglie che stava morendo.>>.
Parve a lui d’essere svanito.
Perché tutto appare e non è? La strana teoria dei quanti: se tu t’azzardi ad osservare, tutto svanisce e non è come avevi pensato che fosse, che avevi previsto.
Sentì come un ultimo respiro. Però dentro di sé.
Sto andando in silenzio come di animale muto, come fa il soffiare del vento in estate, col caldo. Alla Noce.
Una voce. Mia moglie?
Il caldo della Noce, e io che scrivevo.
<<Leonardo, Leonardo!>> con rabbia, anche; chiama come con la speranza di sentirlo rispondere, sentirlo ancora respirare. Un segno voleva ancora della sua presenza, ancora.
Ma come?
Ma non poté fare niente, più niente. Almeno così gli parve.
Ma com’è che non posso rispondere, pensò. Non posso.
Proprio.
Consiste in questo la morte? A non poter dire la tua?
Non poté più rispondere che solo a se stesso.
Quelli che stanno per morire non si richiamano alla vita.
Nemmeno gli si ‘mpasturano i piedi. Come farà l’anima allora ad andare?
Così.
Sempre c’è qualcuno che ti ricorda questa cosa, quando hai davanti un morto. E tu non sai se credergli, se ubbidire, o se, invece, legare i piedi al morto, per farlo rimanere perfettamente dritto come si vuole che rimanga un morto da esporre sul letto di morte.
L’estetica della morte. La morte come estetica. La morte in bella vista.
<>,
<<nell’attesa, dov’è il boia? Dov’è la vittima? chi è il boia? chi è la vittima?>>
<<L’essere è; il non essere non è. E se fosse la stessa cosa?>>.
Mondi paralleli. Più mondi. Quale dovrò ricordare, quando con Maria saremo di nuovo assieme?
Il corpo si abbandonò, si distese come di chi già assapora il primo sonno. Così capì lui questa cosa, almeno così gli parve.
Si, capì: sono sicuro che capì.
Aveva altro sguardo ora.
Con altri occhi gli parve di stare guardando. Gli parve strano che senza aprire gli occhi fosse capace di guardare e vedere; non solo vedere, ma vedeva dopo aver guardato. Misurava le cose, ancora. Non, guardare, no: vedere, solo vedere, si corresse dopo. Guardava, insomma, con gli occhi della visione, la visione di quando un tempo si avevano visioni, la sua fine. Gli venne come di andare, come quando a uno gli viene d’andare. È inutile. Tutti ti dicono: Stai ancora, fermati ancora un po’ con noi a farci compagnia, un’altra partita e poi più tardi si va tutti. Sei stato sempre, qui, con noi, tutta la serata, perché, proprio oggi vuoi andare? Capì di stare sorridendo. Quel suo sorriso ironico che lui stesso sapeva. Ascoltò se stesso <>. Chissà se questo mio sorriso è trasparito dal mio volto. Saprà Maria che l’ho mandato a lei? Ce ne ricorderemo di questo Pianeta, Maria. Solo sò, di questo, ne sono sicuro: che sto sorridendo: che sono sereno. Non ho paura. Tutti diranno allora: è morto sereno. Da qui a qualche istante chiuderò la porta a questo strano pianeta, per aprirne un’altra di porta. Il ricordo. La memoria. La memoria ha un futuro. Si, ha un futuro. Ora ne ho la certezza.
È questo il morire.
Morire agli altri. E a se stessi.
<>. Ah, Mattia, ah Pirandello. Il fu Mattia Pascal. Pirandello e il pirandellismo, Pirandello e la Sicilia, Pirandello dalla A alla Z.
Sempre la Sicilia, questa metafora.
Era mattino presto, e il sole iniziava il suo lento navigare il cielo blu oltremarino, in alto, lontano, arcuato, a seguire quell’apparente arco del pianeta, sempre lo stesso percorso: da lì a lì.
Dietro, i palazzi di Palermo cresciuti sulle macerie della Palermo Liberty distrutta da un geometra venuto da lì vicino.
In una intervista a L’Espresso, dell’8 novembre 1973, interrogato sulla morte, aveva ricordato, come quasi sempre il suo amato Stendhal, il quale, lui, aveva previsto, di morir per strada.
Il maestro di Regalpetra, lui, prevedeva di morire nel sonno. Ma, poi, aggiungeva: E vorrei invece morire da sveglio.
Sono morto da sveglio, si disse, ancora.
Almeno così gli sembrò.
La volontà è molto più forte delle nostre sensazioni, delle nostre previsioni.
Ora non sapeva s’era vivo o s’era morto. Sapeva solo che era come se ci fosse qualcosa fra lui e le cose.
Era come se le cose fossero la stessa cosa che era diventato lui stesso.
Una cosa.
Un gatto sveglio e nello stesso tempo addormentato, ma si può?
Il dolore e la confusione allora prese Maria. Gesti scoordinati, i suoi, come di chi non sa’ cosa fare. Come di quelli che vogliono riprendere ciò che non può essere più ripreso. Subentrò la ragione. La fede attendeva, lì, accanto, muta, un attimo ancora. Beata e bella. Che ti fa andare. Come donna di virtù. Creatura fatta da Dio, sua mercè. Attendeva come donna beata e bella, con li occhi suoi che lucevan, più che la stella. Con angelica voce.
Prende il telefono. In pochi istanti la portinaia l’aiuta a vestire il maestro di Regalpetra che ha ormai preso l’espressione di perfetta pace, quasi come se stesse assaporando quel primo sonno di quando siamo stanchi e andiamo a letto, e quagghiamu come cagliano i bambini nelle braccia delle loro madri, colla bocca che tocca e non tocca il capezzolo. Il sonno è, allora: quello migliore. Fattosi oramai pesante, viene preso di peso e portato nella stanza da pranzo che attraversa una porta sempre aperta e comunicante con lo studio-salotto, dove lo videro passare, per tante volte, i suoi libri, con i suoi cinquanta titoli della <>. Passava, come un gatto sornione, lui, allora, di fronte alla sua scrivania. In alto, i tre ripiani che contengono i libri di Stendhal o che trattano di Stendhal, fittifitti e completi.
Si ha ognuno la propria fissazione, il proprio autore: è inutile: quello che ti fa snocciolare le cose che ti passeranno per la mente.
<>.
No che non li snobbi, li vuoi bene quanto a questo, di cui hai la fissazione. Non so spiegartelo: è un’altra cosa: è una fissazione, appunto, che ti prende per tutta la vita, e non ci puoi fare nulla, ti dico. Ti dici Manzoni, Voltaire. Solo che nomini Stendhal, e che ne sò, ti prende qualcosa nel cuore come quando vedi ‘na carusa, una ragazza, no: …: e che ci ha di più di tutte le altre caruse?, questa ragazza che ti provoca come ‘na scossa n’o cori,? Forse, guardandola meglio, vedi che poi non è che sia questa forma di grande bellezza, ma poi ti dici che non è come le altre, s’gnornò, che forse è meno bella, anche, delle altre; forse nemmeno tanto più interessante, ma non è come tutte le altre ragazze, ti dici: di questo ne sei sicuro; senti che, non ha più delle altre, non lo sai dire, non te lo sai spiegare, però questa carusa è questa carusa, e ci continui a stare e la tratti diversamente che non tutte le altre; te la metti al centro di tutte e ti piace messa lì al centro di tutte le altre e decidi che sarà allora per tutta la vita, quest’incontro.
Un grido della moglie fa ricordare la tragedia. L’assenza, la partenza senza più ritorno. Ah i pizzini d’una volta! Il va ca vìàgnu. C’è chi la conforta. Di là chi vuole farla sedere. <> gli dicono. C’è chi l’abbraccia. Non con forza, però. Lei stenta a respirare, già di suo. La portinaia sentenzia che non si può, non si deve seppellire un uomo senza un rosario fra le mani. Maria allora guarda con dolore le figlie, i generi, poi la cognata. Si ricorda d’avere, sul comodino, una collezione di crocefissi, allora. Nino indica quale prendere. Dice che sarebbe sicuramente piaciuto a lui il croficisso che ha preso.
Fra le mani incrociate, allo stesso modo di come Pasolini un tempo incrociò le sue, oramai fredde e come di cera, come se fosse stato liberato da una pietra, viene sistemato il crocefisso ottocentesco in argento.
Pirandello, nella sua cornice d’argento, è lì che campeggia sullo scrittoio, accanto l’Olivetti <>, l’Olivetti di quell’Olivetti Adriano che cercò di fare l’Italia buona e produttiva, più buona, insomma, ché la produzione arrivava anche.
Con lui le figlie Laura e Anna Maria, i generi Salvatore Fodale e Nino Catalano, tutti i nipoti: Fabriziu, Micheli, Angila, Vitu.
Con lui la sorella del maestro, Anna.
Chi se li ricorda più quelle foto fatte alla Noce?
Nel parco di villa Sperlinga i bambini incominciano a giocare fra gli scivoli, fra le altalene, gli arrampicatoi, i posatoi, come se i bambini fossero uccelli, o criceti, scoiattolini in un parco o dentro una gabbietta. Le mamme, premurose, li guardano, attente, salire e scendere, salire e scendere. Non possono seguirli nemmeno con gli occhi. Qualcuno cade a terra, nella sabbia, e poi s’alza, guarda la madre, accenna una smorfia di pianto, poi, si ferma. Non vuole piangere più. Un altro là, lontano dalla mamma, scivola a pancia su: “il bambino che gioca e odia.”.
Nella palazzina di viale Francesco Scaduto, 10/a inizia ‘u visitu delle persone più o meno importanti, più o meno conosciuti dal maestro. Inizia il continuo viavai nelle stanze piene di libri e di quadri.
<> <>.
Non appena il presidente della Camera dei Deputati Nilde Jotti finisce di leggere il suo messaggio …. Che c’è, che vuoi dire?
– Passeggiavamo, una notte, io e Giovanni Bonanno e, ragionandoragionando, chissà come arriviamo a dire di Nilde Jotti e lui mi fa: <> . La passione politica arriva a farci considerare una persona, anche. E questa cosa la diceva con gli occhi sgaddrarizzati, che quando uno sgaddrarizza gli occhi di notte, e in quel modo, la cosa diventa più impressionante, di notte, non credi?
Hai ragione. Non appena il presidente della Camera dei Deputati Nilde Jotti finisce di leggere il suo messaggio – dicevo – , chiede ed ottiene di parlare Vincenzo Sorice sottosegretario di Stato per la giustizia.
Rosaria Costa: la giustizia!
E’ Lunedì del 20 Novembre del 1989 Sciascia è morto alle ore 7,00.
– “Vedi, questa di <> è una cosa che vorrei evitare. Mi piace molto di più l’espressione indiana, che conosci come me, <>” – dice Tiziano Terzani a suo figlio Folco che gli chiede se ha accettato ormai di morire (pag.11, La fine è il mio inizio).
Morire. La morte.
Andiamo ancora a ritroso nel tempo, di quando, in Cina, si era al tempo di Zhuang-zi: Nell’antichità, ci spiega Zhuang-zi “Nell’antichità, l’uomo perfetto non conosceva né l’amore per la vita né l’orrore per la morte; non si rallegrava della propria comparsa né temeva la propria scomparsa. Se ne andava naturalmente come era venuto, e basta. Non dimenticava l’inizio né si preoccupava della fine. Si contentava di ciò che gli era dato, e considerava ogni perdita come un acquisto.”, così la leggo a pagina 58 del mio libriccino della Adelphi che raccoglie gli scritti di questo filosofo che mi piace chiamare ‘quello della farfalla’, e così come l‘ho letta la trascrivo.
La farfalla, il bozzolo. Verme che anela al volo. Vermi tuti noi.
La veglia funebre si protrarrà ancora fino alla mattina del mercoledì. La salma viene calata nella bara di mogano su cui tarderà ad abbassarsi il coperchio. Sciascia è ormai divenuto di colore bluastro. Blu, glauco, o del colore del vino: per quel poeta, per quel ragazzo è come dire lo stesso colore, tranne che per quel certo professore che cerca di convincerlo del contrario: blu è una cosa, il colore del vino è un’altra cosa. Questi professori!
La sua testa poggia su un cuscino di raso bianco.
I gesti cauti e lenti degli addetti alle pompe funebri vengono raggelati da un grido del genero Nino che vuole rivedere per l’ultima volta suo suocero, che per lui è stato come un padre.
Come un padre, il suocero.
Il coperchio non è stato ancora avvitato, perché ancora nemmeno è stato steso il foglio d’alluminio da saldare, e lui può ancora chinarsi per l’ultima volta e baciare il volto che ormai ha preso i colori della morte. Il 21 Novembre, il giorno dopo, i giornali danno la notizia in prima pagina. Molti necrologi in Italia e all’estero.
Ora è gennaio, gennaio del 2021 e lui, il maestro di Regalpetra, compie 100 anni.
Il presidente della Regione Siciliana pubblica un necrologio di poche parole:
<>.
Ci si rende conto di questa solitudine solo quando si perdono le persone che hanno contribuito, anche con piccoli grandi gesti, a salvare il mondo, a rendere migliore questo pianeta di cui ce ne ricorderemo.
I politici, gli uomini di governo hanno sempre una frase, una parola giusta e appropriata, per tutto, per tutti.
Salvini oggi è sceso a Palermo e vuoi che non indossi la sua mascherina anticovis19 con l’immagine di Borsellino?
La Sicilia è più sola: quante cose sono succedute dopo che il Maestro di Regalpetra è andato da un’altra parte a ricordarsi del suo ‘Pianeta’ Terra. Cosa sarebbe rimasto?, cosa avrebbe detto? cosa avrebbe potuto fare? I poeti non possono fare altro che scandalizzarci, metterci in guardia senza darci una soluzione. I poeti soffrono, e basta. Gli uomini, ci sono chi li leggono e chi no, e tutto continua, va come ha da andare. Chi ha letto Sciascia? Chi sa delle uova che portavano a scuola al maestro a Regalpetra?, dov’è Regalpetra? C’è chi fuma, snocciola scamuzzuni di sigarette e attende che il giudice passi proprio in quel punto precisopreciso in cui lui ha messo il tritolo.

 

 

 

Quattro

tratto da DURANTE, I Canto dell’Inferno.

La collina non è altro che l’idea della forma che si realizza con la materia: la terra.
La collina è fatta di terra; ma non è solo terra, è un’altra cosa che chiamiamo collina e che fa venire in mente altre cose, cose diverse dell’idea che invece ci fa venire in mente la terra.
La collina è anche fantasia è anche memoria. Secondo gli antichi greci, le feste non furono situate sui monti, ma sui colli, man mano che dai monti scendessero giù nella penisola; così, almeno, ci assicura Pavese nel presentare il Dialogo fra Mnemòsine e Esiodo.
Anch’io ho una collina di fronte:
una mammella malata e scavata oramai dal tumore della scavatrice.
Credo che tutti quelli che abitano in un entroterra hanno una loro collina.
Una loro personale collina.
Ma ora che ci penso bene, anche quelli che abitano di fronte al mare, hanno una qual certa forma di collina da guardare;
solo che
, loro
, alle loro colline non ci pensano poi troppo, così come ci pensano, invece, quelli che, come noi, vivono nell’entroterra; perché guardano più spesso al mare, loro, che non alle loro colline e, per loro, le onde che genera il mare non sono altro che le loro colline.
Quelli dell’entroterra, per forza di cose debbono guardare solo alle colline, fatte di terra. E se qualcuno, che ha abitato per tanti anni della sua vita davanti a un mare, va, per un certo periodo della sua vita, a vivere in mezzo alla terra, non può far altro che immaginare tutte queste colline che lo circondano come forme di onde immobili che si muovono a ritmo di anni lustri, millenni, ere geologiche. Piano piano.
Piano.
Il tempo relativo. Il tempo che non esiste se non quando è necessario.
Il tempo che non ha cominciato a esistere e che, dopo tutto, è il solo tempo che esiste, potremmo dire al principe Enrico di Coccioliana memoria.
E’ questo che pensò Camilleri quando dovette andare a vivere a Castrogiovanni per un breve periodo della sua vita.
Castrogiovanni.
Si affacciò dal belvedere accanto all’Hotel Sicilia e, per non rimanere preda di un forte esaurimento nervoso o una certa qual forma di depressione, immaginò tutte quelle infinite pieghe di terra sterminata, come onde immobili di un mare immobile, che si muove lentamente a misura di anni, lustri, ere geologiche; immaginando, come Einstein, il tempo relativo, la relatività.
La terra
a grano
è un mare
battuto dal vento
(Camilleri aveva ragione quando guardò la Sicilia dal suo ombelico)
(di là
è macchiata
di porpora
dei papaveri fioriti
dall’allegria
o dalla sulla)
una casupola
vi è protetta
godendosi la
sua vecchiaia

– e il giallo
il verde,
e l’azzurro del cielo? Cosa fanno?
Velate nuvole
quasi invisibili
proteggono
un’azzurra montagna fumante e calda
Immmmmeeennnsa
nell’azzurro del cielo che dicevo,
alla stessa maniera di come – credo – la vide Goethe il 30 aprile del 1787, quella montagna azzurra sul cielo azzurro:
come una nuvola, fra le nuvole
passando per quel fondaco Cuba, che già v’era all’epoca di Bisanzio, poi in quella degli arabi e poi ancora in quella dei normanni. Passando da quel fondaco che appartenne a Ignazio Paternò principe di Biscari, e dove nel 1713 vi pernottò il re di Sicilia Vittorio Amedeo III di Savoia con la sua consorte Anna Maria e la sua corte, e che ‘ancora’ oggi esiste; ma abbandonato, in rovina, da fare pena, pietà, non pietas, come la scavatrice di Pasolini, o di come Ungaretti di se stesso; accanto, poco distante, e sotto i piloni che tengono un viadotto dell’autostrada che da Palermo porta a Catania, e viceversa.
La targa in marmo che ne ricorda i fasti, un giorno cadde a pezzi, o alcuni galantuomini la fecero cadere in frantumi.
Qualcheduno se ne preoccupò di rifarne fare una nuova che, subitamente dopo qualche po’ di mesi dopo – forse gli stessi audaci giovanotti (di belle speranze?) – , la bruciarono; ed ora, sempre da quell’autostrada, quando passo, la vedo nera di fuliggine e abbruciata.
Non voglio andarci più, in quel luogo.
Più forte la docile remissiva tenera Antonia Pozzi, che non Andrea Camilleri: lei ricorda il mare guardando la striscia scura dei colli, e, poi – chiudendo gli occhi e immaginandolo -, quel mare visto una sol volta.
– Che ricordi?, Antonia.
– Ricordo che, quand’ero nella casa
Della mia mamma, in mezzo alla pianura,
avevo una finestra che guardava
sui prati; in fondo, l’argine boscoso
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
c’era una striscia scura di colline.
Io allora non avevo visto il mare
Che una sol volta, ma ne conservavo
Un’aspra nostalgia da innamorata.
Verso sera fissavo l’orizzonte;
socchiudevo un po’ gli occhi; accarezzavo
i contorni e i colori tra le ciglia:
e la striscia dei colli si spianava,
tremula, azzurra: a me pareva il mare
e mi piaceva più del mare vero.
Milano, 24 aprile 1929
Perline di rugiada. Perle d’acqua si ha la fortuna di scorgere, nel frastuono della vita d’ogni giorno che ci martorìa; una vita quotidiana sempre più arida, che trascura i sentimenti e valorizza sempre più la materia delle cose, e non le cose che fanno la materia, e non di quello che effettivamente è la materia: spirito. Uno legge il mensile Poesia di Crocetti, e, come per caso (ci sono miracoli in questo mondo?), incontra una romantica signorina d’altri tempi, e ti fa chiudere il cerchio che ha aperto un giorno Andrea Camilleri, come quando s’è affacciato dal belvedere di Castrogiovanni e scorge l’infinita e apparente immobilità delle onde rugose della terra arida e bruciata dal sole. (Poesia n.316, pag. 33)
Il colle, quando è un colle illuminato posteriormente dai raggi del sole, è un colle che simboleggia la possibilità dell’elevazione, della purificazione; altri dicono che sia la vita contemplativa, per cui dovrebbe significare il transito diretto dalla via del peccato alla contemplazione.
– Ma come mai questo transito diretto, questo <>, insomma: questa ripida scorciatoia è impraticabile?
È la stessa domanda che si fa Sermonti, Vittorio Sermonti, che ha accettata la mia richiesta di amicizia su Face Book solo dopo due anni che gliel’ho richiesta; dopo che lui è andato a miglior vita da quasi due anni. Gli autori si vendicano: pochi sono gli autori in vita che leggo: e loro accettano di essermi amici non dopo aver dovuto lasciare questo pianeta per andare chissà per dove.
La felicità terrena, per altri, è questo colle.
Penso che vi è differenza tra il colle ove ai suoi piè giunge il nostro viandante pellegrino, dopo aver passato una nottata spaventevole (e non vuol far altro che farla passare) e, il
… dilettoso monte
Ch’è principio e cagion di tutta gioia
che il suo intelletto gli consiglia di salire, tanto che, subito dopo, al verso 91, dopo che il pellegrino s’è lamentato con lui, della bestia per la quale è tentato di rivoltarsi indietro nella selva oscura, questa ragione gli risponde che a lui “…convien tenere altro viaggio,”
perché la bestia di cui
… gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
Quindi, l’intelletto-ragione Virgilio, per il suo meglio, pensa e discerne che lo segua affinché possa fargli da guida per trarlo per loco etterno attraverso un viaggio ove potrà vedere
…antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;
o
…color che son contenti
nel foco,
perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
E di fatti, per altro viaggio, s’incammineranno i due poeti; non per il colle, che è altra cosa: simbolo della felicità terrena a cui l’uomo tende per natura, secondo Aristotele.
Io dico che non so quante di quelle volte Giacomo Leopardi vide la sua collina illuminata posteriormente dai raggi del sole. Per Leopardi che significava il colle? Quel colle che gli stava davanti?
Compito per casa: analizzare e approfondire concetto della collina dell’Infinito.
A proposito della differenza di colpa tra Dite e gli uomini, leggo questa cosa qua di Pietrobono nel suo Dal centro al cerchio, ora che sono arrivato al capitolo II:
“Gli estremi si toccano. Anche i vilissimi erano uomini, e vissero come bestie; erano stati creati nobili quasi quanto gli angeli, e per non levar gli occhi ai segni sacrosanti innalzati da Dio innanzi a noi, perché li seguissero, si fecero simili a pecore o altre bestie <<più abominevoli>>. Tra costoro e Dite tuttavia intercede una grande differenza. Gli uni fecero come colui che, posto ai piedi di un monte, perché salga verso la luce e la beatitudine della vetta, al sole non guarda nemmeno, e si rimane là, inerte e cieco; l’altro come chi posto sulla cima, concepisce, prima ancora che spunti il sole, l’insano disegno di spiccare senz’ali il volo alla stelle per detronizzare l’Altissimo, e invece simile al masso del Manzoni, <>” – dice ne Il Natale, 6-7.
Chi salirà sul monte del Signore? Leggiamo sui salmi (23,3)
– Per favore, i salmi no!
Il colle che ha di fronte il nostro viaggiatore incantato si trova proprio dove termina la valle ove è posta questa maledetta selva oscura che “avea di paura il cor compunto”, che aveva oppresso il cuore di paura, cioè.
“guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogni calle.”
Quante volte ho visto la collina che mi sta davanti vestita dei raggi del pianeta Sole.
baciato ha la nebbia
il tuo seno scavato
e tondo di fertilità
bruno e bianco insieme
scavato, dalla scavatrice;
caro colle.
Molte volte la vidi mentre motopale ed escavatori o chiodi meccanici guidati da tenaci e infaticabili operai, ogni mattina, di prima lena, iniziavano a scavarla intendi a poter realizzare uno spiazzo per potervi incastonare una casa per “civile abitazione”, la collina.
Altre volte la vidi, la collina, rovinosamente bruciare sotto un fuoco appiccato da idioti che volevano “pulire la terra per poi far crescere nuovi e più vigorosi cauli che ‘sparano’ teneri turioni ramificati di asparagi di campo: sarbaggi : “Sparacogni” si chiamano.
Brucia la campagna e gli schioppi fanno rabbia e, sparsi con le sue ceneri, il suo fumo imbratta per vendetta tutto d’intorno: dello squallore il segno della nostra generazione, dei nostri sogni infranti dietro le velleità e i nostri sbagli.
E non era che solo l’inizio dei tempi che sarebbero dovuti arrivare.
E’ una cappa il cielo, e indifferente sovrasta il nostro sperare d’uomini morti che sembriamo vivi, e vivi uomini che siamo morti.
Prendo il solito libriccino del maestro di Regalpetra, che non passa mai le 100 pagine, o giù di lì, come se sapesse che dalla casa di Peppino Impastato e la casa di Tano Seduto ci fossero precisi precisi 100 passi, e alla voce SPARACOGNA, del suo Occhio di capra, trovo che è “L’asparago di campo che, non raccolto, si fa sterpo spinoso”, ma è anche addobbo natalizio per i presepi e “Ad analogia di un amore non solo finito, ma mutandosi in disdegno, una canzone (di quelle appunto dette <>)- continua: <>, quello che era gioioso amore eccolo diventato pungente disprezzo.”.
La mia collina non è la collina di Leopardi – troppa grazia m’avrebbe dato S.Antonio –
La mia collina non mi esclude il guardo.
Il timpuni di donna Teresina.
Non vedo ‘spalle’, come li vede il povero viandante che è appena appena nisciutu da una valle oscura; vedo una bella mammella che molto probabilmente nel suo ‘capezzolo’ una volta venne ad essere incastonato un campanile per una chiesetta conventuale di monaci eremiti dedicata, molto probabile, alla Madonna dell’Alto, e che ora cade e non cade,
cade e
non cade e
che qualcuno sta già pensando di farlo cadere con il solito aiuto dell’uomo, affinché si tolga il possibile pericolo a persone o cose, e si tolga dai coglioni.
– Scatole?
No: coglioni.
Oltre la mia collina vi sono una piccola catena di orizzonti azzurri di colline e monti che mi precludono quasi tutta la visuale dell’Etna, il Mongibello dei romani: quasi tutta, non tutta, ché la punta si riesce a vedere ugualmente dalla mia stanza da letto.
Questa catena di monti non interrotta, e nemmeno a resegone, mi permette di vedere solo la sua sommità, quindi, i rossori purpurei dei fuochi che sputa di tanto in tanto la Montagna, formando una lunga nuvola di fumo che osiamo dire di Londra e che si va a perdere fin dove arriva lo sguardo, fin giù sull’Africa, ho visto una volta, da una foto satellitare.
Per quelli che vivono alle pendici dell’Etna fin giù a Catania sono giorni di disagevole disperazione, giorni da camminare con gli ombrelli anche d’estate, quando non c’è una sola goccia d’acqua che cade dal cielo, caldo e abbruciato da un sole che non ha pietà per nessuno e che fa pascolare le sue vacche invogliando gli uomini, che li vedono pascolare, a prenderne qualcuna per cibarsene e così sfamarsene, e gli acquazzoni estivi non si sa che cosa siano e dove siano.
Cade neve nera, tutte le cose sono sepolte da uno strato nero di fuliggine.
Fin da bambino guardavo questi monti d’un colore ceruleo che digradava fino al cielo e immaginavo che, raggiunto quelle cime, avrei potuto vedere tutta la piana di Catania; i suoi sconfinati giardini di aranci e limoni e anche uliveti e anche contorti pistacchi, là giù a sinistra, verso Bronte: certo non avrei veduto un giardino d’oro come quello che potevano vedere d’intorno a loro i palermitani; ma poco ci poteva mancare: gli ulivi saraceni che erano a guardia e a grande macchia, lo avrebbero fatto apparire un po’ più argenteo, non proprio tutto d’oro come la loro famosa Conca (così si doveva chiamarla quando s’era interrogati dalla maestra Felicetta, alle elementari, e si doveva ripetere la lezione di geografia sulla nostra regione).
Il lago Pozzillo detto di Raharbutu col suo affluente Salso e il fiume Simeto che, prima che vi fosse costruito lo sbarramento della diga Ancipa, l’altro lago artificiale detto di Troina, erano una fonte quasi inesauribile di Ambra che era, a detta di tutti, la più ricercata, la migliore ambra del nostro pianeta Terra. Scrive don Peppino Brancatelli che dall’ambra venivano ricavate tabacchiere, corone, braccialetti e anche anelli. L’ambra nel mio paese veniva trovata nel così detto Fiume Grande e in gergo veniva detta petra d’àmmaru. Ma forse non è l’ambra che noi tutti conosciamo e intendiamo. L’abate Amico nel suo lessico topografico dice che si trova nel territorio di Gagliano, sparso qua e là nelle vicinanze del fiume, ed è un bitume nero che gli antichi spargevano sopra le tombe sepolcrali, accendendolo a mo’ di incenso. Amico lo chiama Nigrum Succinum, gli scienziati lo chiamano succino ed è in Sicilia l’olio di nafta o di pietra, e questo dev’essere molto probabile visto che Gagliano è trivellata da pozzi di gas metano.
Vedevo spuntare, ma solo dopo aver letto le poesie di Garcia Lorca (che hanno il dono di far nascere colori nelle parole e nei pensieri), come un fungo in mezzo alle escrementi di un bue, una casa piccola e abbandonata sotto uno spicchio lucente di limone.
Come una bambina dalle trecce bionde, spuntava
dalla bocca a forma di cuore rosso
e che piange e che ride
con le lacrime di cristalli trasparenti
quella casa dolce e addormentata,
come la valle in cui cresce la pianta dei sogni e dei ricordi nuovi e lontani.
Per poi domandare a me stesso se il giorno dopo l’avrei potuta più rivedere, quella casa in mezzo a quelle montagne dello stesso preciso preciso colore striato del cielo.
Oggi sulla cima di quelle montagne vi sono alte e bianche pale eoliche stagliate nel cielo; immense pale eoliche nella selva non oscura, ma maculata da querce e ulivi secolari dai tronchi ricurvi che ti fanno immaginare uomini che si contorcono sotto immani fatiche e che si vogliono liberare da quelle forme statiche, o parti di corpi femminili che si slanciano verso il cielo pieni di sofferenze come la famosa Dafne. Pale che come bestioni giganteschi, come grandi mulini a vento, come tanti Briareo dovrebbero garantirci un certo qual tipo di risparmio energetico. Pale eoliche che girano su bianche torri alte ottanta metri, cento metri, e che fanno apparire quelle stesse montagne poco più che collinette da poter attraversare con un salto.
La rassegnazione è tutta siciliana.
Ai siciliani basta che non tocchi la propria “robba”, (non ‘roba’ come qualcuno più borghesemente dice) che poi ti puoi permette tutto; anche quello di far saltare in aria tutta l’intera isola, con i suoi templi, i suoi teatri, i suoi palazzi, i suoi giardini d’oro piantumati da saraceni musulmani.
Si installano pale che girano dove c’è poco vento perché lo Stato da’:
– prima, 8 anni di buoni incentivi
– poi gli incentivi passano a 12
– quindi a 15.
Il che – scrivono ancora i nostri due giornalisti Stella & Rizzo – significa
che:
– chi tira su una pala non solo becca un incentivo, ma lo becca per tre lustri dal momento in cui comincia a girare –
Molte di loro però non girano affatto.
Stella & Rizzo:
– Non correrebbe alcun rischio, qui, di finire rovesciato a gambe all’aria don Chisciotte.
Si sono sventrati fianchi di colline
(io, salendo lì verso la cima del monte Pellegrino, ho paura di guardare dove un tempo vi salirono padre don Peppino Brancatelli con dei ragazzi, felici d’aver, a modo loro, ‘scoperto’ la necropoli di Morgantina)
Si sono devastati crinali
Si sono annientati ettari ed ettari di vigne in tutta la valle del Belice, in tutta la Sicilia
Si sono alzati 1245 generatori con 1449 MW anche a ridosso di aree di pregio altissimo dove aziende agricole modello tentano tra mille difficoltà di tenere alto l’onore dei prodotti di eccellenza dell’isola.
E così
la Sicilia si piazza al primo posto nella classifica italiana per potenza eolica installata.
Siamo la curiosità di ogni svizzero, d’ogni tedesco che ci viene a visitare!
Affacciato, da dove spuntava a fatica solo la mia testa, Io vidi dal parapetto della mia terrazza tra scuru e lustru tante luci
Dentro il crepuscolo d’oro, la bruna terra celando
, erano campagnole della polizia e dei carabinieri in fila a formare un lungo serpente di luci che saliva su per quei colli lungo una stradina che allora era sterrata….
Illanguidiva la sera
Salirono sopra.
…….
Andavano a S. Margherita, dove c’è un villaggio, e dove sicuramente andavano a riposare la notte, dopo essere stati impegnati a spegnere gli ardori di uno sciopero in paese.
21 Settembre (presso la Verna) Dino Campana
Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte.
…….
Volava senza fine sull’ali distese, leggera come una barca sul mare. Addio colomba, addio!
Non so perché Andrea Camilleri abbia deciso di citare e far riferimento ai luoghi delle terre del principe di Torremuzza, molto probabile li avrà solo individuati guardando una qualche sua cartina geografica – ché non credo che Camilleri sia mai venuto, e nemmeno passato, per questi luoghi – dando un suo nome, come a lui piace fare, ai luoghi della Sicilia reale. Santa Margherita per lui non è Santa Margherita, è Calapiano ed è qui la casa della sorella di Mimì Augello, un suo personaggio.
“Ogni persona di buon senso, dotata di una conoscenza macari superficiale della viabilità siciliana, per andare da Vigàta a Calapiano avrebbe in prìmisi pigliato la scorrimento veloce per Catania, poi avrebbe imboccato la strada che tornava all’interno verso i millecentoventi metri di Troìna, per calare dopo ai seicentocinquantuno metri di Gagliano attraverso una specie di viottolo che aveva conosciuto il primo e l’ultimo manto d’asfalto cinquanta anni avanti, ai primi tempi dell’autonomia regionale, e infine raggiungere Calapiano perco0rrento una provinciale che chiaramente si rifiutava d’essere considerata tale essendo la sua autentica aspirazione quella di tornare ad assumere l’aspetto della terremotata trazzera che un tempo era stata.” (pag.100 La Voce del violino ed Sellerio)
Quando si fanno le riprese degli episodi televisivi di “La voce del violino” e “L’Odore della notte”, il set scelto da Sironi per i luoghi del villaggio di Santa Margherita saranno quelli del complesso delle case Costa sulla provinciale tra Ragusa e Santa Croce di Camerina.
Ricordo ancora il dito di mio padre che me li indicava con una qual certa soddisfazione mista a piacere e meraviglia e soddisfazione, anche, per quelle campagnole che salivano su per quel villaggio.
Levavi oculos meos in montes (Psalmorum liber ccx 1)
Salivano quelle campagnole ed era come un lungo serpente luminoso che saliva per quella montagna che la cartina militare chiama Pellegrino, accanto la mia collina che guardavo come somigliasse a una mammella.
L’onorevole Filippo Lo giudice, medico in Gagliano, disse che si doveva fare uno sciopero se Gagliano voleva ottenere ancora le promesse che le aveva fatto Enrico Mattei appena giunto a Gagliano per parlare al suo popolo il 27 ottobre del 1962 accompagnato dal presidente della Regione e da altre autorità, personalità.
– Amici miei, noi non vi porteremo via niente. Tutto quello che è stato trovato, che abbiamo trovato, è della Sicilia, e il nostro sforzo è fatto per la Sicilia e per voi –
– Amici miei, io vi dico solo questo: noi ci sentiamo impegnati con voi per quanto c’è da fare in questa terra. Noi non portiamo via il metano; il metano rimane in Sicilia, rimane per le industrie, per tutte le iniziative, per tutto quello che la Sicilia dovrà esprimere –
– Noi ci impegniamo con le nostre forze, con le nostre conoscenze, con i nostri uomini, a dare tutto il nostro contributo necessario per lo sviluppo e l’industrializzazione della Sicilia e della vostra provincia –
– Ora su questo si deve innestare un successivo lavoro, si devono innestare industrie che dovranno portare in questa zona benessere e ricchezza –
– Abbiamo discusso, con i vostri rappresentanti, dei vostri problemi, molti dei quali non sono che problemini. Non assorbiremo settanta persone, ma tutti coloro che potrete darmi, tutti, e sarà necessario che tornino molti di quelli che sono andati all’estero perché a Gagliano avremo bisogno anche di loro. Noi non vi porremo limiti. Noi vogliamo solo stabilire una collaborazione che duri sempre. C’è una scuola di qualificazione da fare? Mi darete il vostro contributo indicandomi i corsi che dovranno essere istituiti. Sono piccoli problemi: l’importante è questa enorme massa di risorse che da oggi è messa a disposizione della Sicilia, e sulla quale si potrà e si dovrà costruire, se ci sarà l’impegno di tutti –
Povero Mattei: Noi vogliamo solo stabilire una collaborazione che duri sempre.
E i cittadini di Gagliano ubbidirono a quel medico e onorevole capopopolo, come Garibaldi al re dei piemontesi, salutandolo re d’Italia; ché niente si fa e si può fare se non c’è un capo popolo che guida un’azione in Sicilia (il caso del capo popolo Giuseppe D’Alesi chi se lo ricorda più?, chi era costui?) è una eccezione che, come si suol dire, non fa la regola, e, di fatti, la fine di queste “rivoluzioni” sono sempre le stesse: nel sangue e nella restaurazione del potente che riesce a riprendersi il potere attraverso la diffamazione e il discredito e l’imbroglio, accattivandosi di nuovo la base popolare che sempre si fa convincere per bisugnazzu o per ignoranza: sempre.
Si attrezzarono di pietre da lanciare sulla piazza appostandosi da quelle parti di Santu Cuanu, nella parte più alta del paese che è prospiciente la così detta ‘piazza’, e iniziarono lo sciopero contro chi voleva far svanire l’idea della fabbrica che il presidente dell’ENI aveva promesso di far nascere nel paese dove aveva ‘mmintatu, scoperto’ il ‘petrolio, il metano’.
Ricordo ancora la fila di poliziotti, comandati dal commissario ‘co’ pizzu Angelo Mangano, pattugliare la via Roma nella parte di santantuninu, con in mano i loro manganelli: uno di loro – io bambino – mi diede un colpetto in testa, che a me parve un vero e proprio colpo in testa, tanto da farmi scappare via spaventato di corsa a casa, quella casa dalla quale ogni volta tendevo a scapparne via: prendevo il bastone della scopa, e, con questo, aprivo il lucchetto ch’era stato lì messo apposta collocato in alto nella porta da mio padre per non farmi uscire fuori all’improvviso via per la strada.
Scappavo sempre, ogni volta sfuggendo a mia madre che mi rincorreva da dietro, nel corridoio, e dove, in un batter d’occhio davo una botta al lucchetto, aprivo la serratura sovrapposta e, – via: fuori non so dove!
Tante volte scappai da bambino che, poi, da bambino oramai fatto non scappai più: anche quando le dovevo buscare da mia madre per le consuete minchiate che andavo combinando; rimanevo a casa, mi facevo rincorrere attorno al tavolo della stanza da pranzo, mi nascondevo sotto il letto, dove mia madre cercava di stanarmi col solito bastone della scopa, ma: niente, non uscivo più, rimanevo a casa a costo d’esser braccato e buscarmi il solito bel morso sul braccio accompagnato da un
– uuuuuuuuhhmmmh…..uh.
Deve essere stato il più bel giorno che Gagliano ebbe ad avere, quando venne Enrico Mattei a promettere lavoro per tutti. Una speranza. Un sole dietro la collina. Si. Per tutti. Parola mai sentita in Sicilia. Un paese era in festa tra bandiere, e coriandoli di carta. Innumerevoli, infiniti coriandoli che cadevano come fiocchi di neve sui corpi delle autorità. Sopra la testa. Le spalle. Che passavano davanti il viso di Enrico Mattei. Sì, è stata sicuramente la giornata più bella che Gagliano ha mai avuto nella sua storia. Una delle più belle giornate storiche della Sicilia, forse. Solo in quel giorno si è avuta tanta speranza, tanta gioia. Ma le giornate di gioia in Sicilia vengono subito macchiate di sangue da qualcuno che agisce di nascosto, come quell’angelo pieno di luce che volle diventare ombra nascosta, buio pesto e invisibile, conservando quell’immagine splendente. La storia stava per cambiare faccia, destino. Tutti avevano un volto felice. Tutti avevano una gioia dentro, una speranza di vita, di nascita, di rinascita (se nascita avevano mai realmente avuto quei poveri uomini che sentivano ora la parola: Lavoro per tutti!). Da quel giorno tutti i dolori sarebbero passati d’un colpo solo, come se niente fosse mai stato, come se tutto fosse stato un brutto sogno lunghissimo, durato millenni. La fame, la povertà, la condizione di fatica non sarebbero più state. Eden. Era una festa vera, questa, era una gioia vera, questa. Un ragazzo salì sulla cima della rocca che sovrasta il paese e, preso il pennello e la latta di colore bianco che aveva portato con se, si mise a scrivere
W
ing. Mattei
Bandiere, lenzuola appesi ai balconi come se stesse per passare la Madonna del Rosario, o quella dell’Annunziata, o come se ci fosse il Corpus Domini per le strade.
Era come quando fu la domenica delle palme: quel giorno lontano in cui il Signore si recò a Gerusalemme.
Questa volta non era la Madonna a passare, non era il corpo del Signore a passare per le strade di questo paese, non era Gesù il Cristo di Dio a visitare Gerusalemme; ma un uomo nuovo venuto dal nord a liberare il paese dalla fame: sempre gli uomini del nord:
– ma èni do’ Nord ‘u ‘ngìgnìari?
Bah! do’ Nord, sicuru: cu àvi a beniri accussì ‘nni sti terri?
‘N triunfu, novu arcangilu, a Gagghianu,
Mattei Enricu i l’ENI Prisidenti,
Sinceru, ‘ntra banneri, di luntanu
Rrivau, dda matina, risulenti!
Mattei risulenti guardava la macchina fotografica, senza sapere che di li a poco si sarebbe avverato tutto.
– Ammazzato?
– E da chi?
– ‘Mpossibili: a un galatuamu comu ad iddru!
– ‘N Sicilia ‘i galantuomini veninu ammazzati: sunu ‘i disonesti a fari carriera, e ai galantuomini, quannu ci fannu fari carriera, è pirchi ci volunu fari satàri ‘a testa.
Era la domenica delle palme: il giorno in cui il Signore si recò a Gerusalemme.
– Il paese assomiglia benissimo a quello stesso paese della Palestina, il più piccolo, il più insignificante: a Betlemme, ecco!
Tutti continuano ad essere felici, risulenti, contenti, pieni di vita, un’aria di festa, mentre i coriandoli, innumerevoli, cadono sopra il cappello dell’onorevole Filippo Lo Giudice, sopra i capelli dell’onorevole Giuseppe D’Angelo. La giornata è piena di sole, come pieno di sole è il volto di ogni Gaglianese, di ogni uomo che circonda l’ingegnere per antonomasia.
Ma la lupa era nei paraggi, bestia sanza pace.
Fiere, ovunque.
Guardò in alto e vide una scritta:
W L’ING.
MATTEI
proprio alla cima della rocca.
– Chi è stato? – chiese all’onorevole Lo Giudice.
– Un ragazzo di non più di quindici anni – rispose l’onorevole.
– Fatemelo conoscere.
Glielo portarono.
– Come ti chiami?
– Sarbatore!
– Salvatore come?
– Salvatore Gazzo
– Sei stato tu a scrivere quella cosa per me?
Il ragazzo confessò frastornato, puliciannusi tutto.
– Vuoi lavorare?
– E comu no, ‘ncignì? È la cosa che vogghiu fare di cchiù!
-Ti piacerebbe lavorare all’ENI?
– Vossia mi babbìa? Certo ca si: fussa un sognu pi mia e tutta ‘a ma famigghia ca è bisugnusa assai.
– Segnatevi il suo nome!
Lui, l’ingegnere, il vecchio ragioniere, guarda con curiosità ogni angolo del paese, ogni cittadino, ogni popolano, ogni bambino (Stefano D’Arrigo sicurissimamente lo avrebbe chiamato uno di questi bambini: muccuselli); uno, vale a dire c’a scorcia di l’uavi ancora n’o culu, poco più che un vavusu che corre, che fischia, che grida, che gli vuole andare incontro, c’o carruzzuni sotto il braccio.
Poco ci mancò che uno di questi cagnùali, appunto, s’avvicinasse a lui e, con una feddra di pani cunzatu co’ zucchiru, nell’altra mano, glielo porgesse. Tutti guardarono allora verso questa scena: prima Mattei, e, poi il carusu muccusu. Mattei fece un sorriso e tutti fecero altrettanto, poi.
Si, la scena poteva essere benissimo una di queste.
Il pane cunzatu co’ zùccaru, condito con lo zucchero vale a dire, era allora una squisitezza, una prelibatezza per i bambini poveri, e, non solo, di Gagliano. Prima si prende una fetta di pane di casa, lo si sbrìzzìa coll’acqua e poi gli si butta sopra una spolverata di zucchero. Ancora più costoso sarebbe stato il pane col vinu cùàttu,vino cotto fatto di fichi d’india.
‘N’aria di festa, fudda, celu apertu,
‘N barcuni, bonu amicu, n’facci-frunti,
Cuntenti, additta ascuta, parla certu,
‘Necu di soli riccu, ‘ntra sti munti!…
Un’eco di sole ricco, tra questi monti.
Dai barcuni le donne continuano a jttari le loro voci di speranze, la loro felicità. Ci si raccomanda a lui come ci si raccomanderebbe alla Madunnuzza d’a ‘Nunziata, o d’o Rusariu, come si farebbe con San Cata’.
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I coriandoli bianchi, innumerevoli come in un carnevale di Rio cadono sopra la processione che attornia, che segue Mattei che, col cappello in mano, dal Piano Pulejo, da dove è atterrato con l’elicottero che lo ha portato in mattinata, va’ verso la piazza del paese.
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Era la domenica delle palme: il giorno in cui il Signore si recò a Gerusalemme.
Duminica jisuzzu ‘n cielu acchiana
Ma la lupa, mali ppri nui, era nei paraggi, bestia sanza pace
La giornata è assolata. La luce del sole brilla su tutti i volti: Mattei Bonu amicu guarda tutti, ‘n facci-frunti.
Come il nostro pellegrino iniziatico appena arrivato alla terza cornice del purgatorio; così i raggi lo colpiscono in mezzo al naso, per cui leva la mano sopra le sue ciglia e si fa riparo, per attenuare l’eccessiva visibilità, la luce di quel sole ancora forte degli ultimi giorni di un ottobre benedetto dagli uomini di buona volontà e maledetto da tutti quelli che pensano sempre ai soldi, al potere e solo a queste cose e a null’altro che a queste cose.
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Maledetti.
Era la domenica delle palme: il giorno in cui il Signore si recò a Gerusalemme.
Duminica jisuzzu ‘n cielu acchiana
Ma la lupa, mali ppri nui, era nei paraggi, bestia sanza pace
Come si può fare a tradire le speranze di migliaia di persone che ti danno la fiducia e che ti vogliono bene e sperano in te? Lui era come in quel cinque maggio del 1945, nel corteo della Liberazione di Milano a ricevere la “Bronze Star” dalle mani del generale statunitense Mark Wayne Clark.
E’ in prima fila nel corteo, ancora.
Ora Mattei è la Beddamatri, ‘a Madunnuzza ca passa, è San Catàduzzu ca binidicia in processione, che sta passando: il santo protettore riconosciuto da tutti come un Africano ed invece è un irlandese. E’ la speranza di una nuova vita. E’ S. Cataldo che con le sue tre dita tiene la rocca e non la fa cadere neanche a botti di cannunati , ne ora né mai: ché se cadesse a tutti li incuppassa i ‘agghianisi.
Finalmente tutto può cambiare.
Deve essere stato veramente il più bel giorno che Gagliano abbia mai avuto nella sua lunga storia di fame. Un nuovo uomo che dalla povera Acqualagna arriva al nord, per conquistare un paesino del sud; questa volta senza spada, senza fucili né cannoni, senza ammazzatinivarii, senza la voce di chi vuol comandare, senza voler esser padrone di terre e di chicchessia, senza volersi portare nulla: questo padrone vuole solo dare. Conquistava un popolo, un paese, non come avevano fatto tutti gli altri da infinite epoche ora sono remote.
Padre don Peppino Brancatelli con la faccia felice come una pasqua, inizia a scrivere:
– Che scrive?
Scrive che non c’è autore di storia siciliana antico che non abbia parlato di quest’antica città di Galaria o del munintissimo castello di Gagliano:
c’è il sanfulippanu Diodoro Siculo che ne parla, c’è Dionigi o Dionisio di Alicarnasso, Tiberius Catius Asconius Silius Italicus, c’è Plutarco, Favorinus di Arles, Tommaso Fazello, Stefano Bizantino o Bisanzio che dir si voglia, Arezzo Claudio Mario, Philipp Clüver o Cluver scritto con la K, c’è il catanese Vito Maria Amico, Michele Amari
– Mammamia! tutti ‘sta genti ne hanno parlato: cu sunu?
Una moneta chiamata litra batteva Galaria o Galarina (senza alcun riferimento alla Elena Dmitrievna D’jakonova meglio nota come Galarina di Dalí)
– Il principe di Torremuzza ne sapeva cosa di ‘sti cosi?
Non so’, probabilmente, no, perché sennò si sarebbe messo subito alla ricerca com’era il suo solito, avrebbe tentato di scoprire l’esatta ubicazione di questa antica città che ora tutti se la contendono perché non si sa di preciso dove poteva trovarsi, probabilmente fondata da Morges a capo di una tribù italica e che migrò dal Bruttium alla Sicilia, fondandovi l’importante città di Morgantina e che ora era, invece uno dei suoi tanti feudi: partiva, il principe, da Motta d’Affermo e arrivava alla contea di Gagliano, andava alla fiera di San Filippo d’Agira tentando d’acquistare antiche monete: niente scavi archeologici a Gagliano, niente ritrovamenti, nessun tentativo del principe che, molto probabilmente, però aveva un posto dove venire a stare per fare di queste sue sortite.
Don Peppino Brancatelli sa’ di tutti questi studiosi, di tutto questo grande passato di questo suo paesello; ma poi di botta, si batte la mano sulla fronte e si chiede, e ci dice anche a noi tutti, appassionato di tutte queste cose:
– Ma come mai gli autori moderni non si sono più occupati delle cose di Gagliano?, come mai non hanno più dedicato nemmeno un rigo nei loro scritti di storia o di geografia, al nostro castello di Gagliano che, tra i castelli della Sicilia, fu uno dei più importanti, inespugnabile castello?
Storia grande quella di questo paesello. Galaria o Morgantina o altro, in quel monte che oggi si individua col nome di Castelluccio ci doveva pur essere qualche importante centro: La cosa pare ovvia se solo si percorre la strada che da Nicosia porta a Mistretta, oppure che da Adrano porta a Bronte: vedi che tra Agyrion e Troina c’è un bel monte che troneggia. Nicosia pare là sotto in basso, distaccata, Kentoripa non si vede, ma conoscendo la sua posizione, se ne può dedurre la sua antica esistenza a guardia della piana di Catania.
Ma nessuno ha mai fatto verifiche, se non quattro inesperti picciutteddri che là andavano a scavare e che lì trovarono resti di cocci vari, più tardi movimenti terra per collocarvi pale eoliche.
Grande storia?
Storia di miseria – io dico – di cittadini sfruttati, pieni di fame, di sacrifici ‘per tirare a campare’, di sudore senza alcun guadagno.
– Bùanu ca criscinu ‘i ficudinni! – dicono quelli che conoscono le terre di Gagliano
Contadini tutti scalzi, con i piede nudi, o con i scarpitti per lavorare. Miseri nel fisico, così come nei loro cenci, trascinarsi un’asina, di solito nemmeno la loro; nel migliore dei casi, una mula.
– I cavalli chi ce l’avevano?
– Paese di galantuomini, buona gente, ma primitiva – avrebbe detto Carlo Levi degli altri Gaglianesi.
Stessa cosa per quest’altra vera Gagliano
– Mattei a cosa pensa in quell’assolata mattina di sabato?, quando nel mondo, tutti i giornali del 27 ottobre 1962, a prima pagina, riportano gli sviluppi della prova di forza fra gli Stati Uniti d’America e L’unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche?, quando per i missili di Cuba vi è la maggior tensione della crisi?
Le notizie che trasmettono le agenzie di stampa sembrano diventare sempre più allarmanti. Sicuramente in pochi sanno leggere a Gagliano Castelferrato, paese nel centro della Sicilia.
In pochi sono a conoscenza di questo fatto di ‘guerra fredda’.
– Guerra fredda? E che è ‘sta guerra fredda? un altro tipo di guerra hanno inventata gli uomini? Ah il progresso! Forse avranno finalmente fatto esperienza delle due grandi guerre!
Anche a volerlo leggere, un giornale, è cosa difficile a potersi avere fra le mani di chiunque, sotto gli occhi di tutti.
Nessun giornale arriva in questo paese dove Cristo non ha nemmeno perso le sue scarpe.
Per spiegare il nome di un paese vicino, chiamato Cesarò, i contadini raccontano che lì, il Cristo non ci è potuto nemmeno arrivare a passare, dopo che lui stesso l’aveva promesso al popolo in una delle sue ultime prediche:
– Ci sarò – avrebbe detto il povirucristu, e siccome da lì a poco il Cristo sarebbe stato ammazzato, e non vi fu più la possibilità di poterci andare, così, da allora, il paese fu chiamato da tutti Ce-sarò. Un babbiu, insomma, il suo nome, un modo come per dire, così come ad Aliano, che Cristo s’è fermato ad Eboli e ad Aliano non c’è andato, come per dire un posto dove Cristo nemmeno le scarpe ha potuto perdere.
Come la Aliano visitata da Levi, anche in questo piccolo paese detto Castelloferrato, Cristo non è mai arrivato, non è mai passato: – che ci doveva venire a fare? E come mai Carlo Levi volle mettere nome alla sua Aliano, quello di Gagliano? Solo perché i suoi abitanti quando pronunciavano il nome di Aliano sembrava che dicessero Gagliano? Coincidenze della vita.
Anche qui la storia, l’anima individuale, la speranza, il legame tra le cause e gli effetti, non sono arrivati.
Don Peppino Brancatelli non è che un povero curato di campagna, speranzoso, ottimista: di vedute larghe quando legge la storia; convinto che in questa terra fosse localizzata la città che il mitico re Morgete fondò nel X° secolo avanti Cristo. Città che malgrado diverse vicissitudini, di colonizzazioni, distruzioni e ricostruzioni, continuò a vivere come importante nodo di commercio della produzione di terrecotte e, soprattutto, delle produzioni agricole di grano, orzo, olio, e dalla quale terra, zappata colla fatica, si coltivava la famosa vite Murgentina.
– No, a Gagliano la storia non è mai arrivata: I Lestriconi, primi abitatori dell’isola, secondo quanto dice Tucidide, i Ciclopi di Omero cieco; gli Iberici, i Sicani, i Siculi Trilingues, gli Ausoni, i Liguri, Elimi, Micenei e Submicenei sono apparsi per vie traverse e per sbaglio come ‘disertori’.
I Mamertini, produttori del buon vino mamertino apprezzato da Cesare dagli occhi grifagni.
I Greci, fondatori delle prime città, hanno costruito grandi templi ai loro dèi.
I Romani, ereditando il ruolo storico, presiedettero le grandi strade, non entrarono fra i monti e le foreste, se non per ricavarne legna da ardere o per costruire e per impiantare il loro famoso granaio, imparandoci ad odiare gli alberi che non danno frutto.
I bizantini che ci insegnano i colori brillanti, più del nostro sole.
I Saraceni che impiantarono grandi giardini d’oro e costruirono grandi palazzi con stanze al riparo dello scirocco.
Nessuno degli uomini arditi d’occidente ha portato in questa terra il suo senso del tempo che trascorre; ma la sua teocrazia, la sua perenne attività che cresce su se stessa.
Tutti sono venuti in questa terra solo per conquistarla e poi sfruttarla.
Tutti conquistatori o nemici o visitatori senza comprensione.
Un francese geografo che doveva disegnare la Sicilia, non so come – sbagghiau? – la disegnò e, proprio al centro dell’isola collocò, come per miracolo, la Gagliano Castelferrato, senza menomamente calcolare i grandi centri che attorno a lei esistevano certamente.
Cristo si è fermato a Eboli, si è fermato prima di arrivare ad Aliano, prima d’arrivare anche in questo paese!
Mattei vede Gagliano con gli stessi occhi con i quali Carlo Levi vede la sua Gagliano, l’Aliano della Basilicata al tempo del fascio: avrebbe voluto, anche lui, riandare con la mente a questo mondo, eternamente paziente, dove il contadino vive nella miseria, su un suolo duro da zappare, con la presenza continua della morte. Andava con la mente alla sua prima infanzia, Mattei, al suo povero paesino marchigiano di poche centinaia di abitanti dove nacque il 29 aprile del 1906, primo di cinque figli di un brigadiere dei carabinieri che tutti al paese conoscevano: in una foto d’Archivio storico Eni di Roma lo si può vedere altero con dei gran baffi alla Vittorioemanuele e con lo sguardo lontano, le scarpe sporche di fango; al centro della foto c’è la madre Angela; a lato la nonna Ester, intenta, attenta, che tiene accanto alla sua destra, e non vicino al padre, il figlio Enrico con in testa un berretto arabesco e una gonnella alla femminuccia fin sotto le ginocchia, mentre tiene la borsetta della madre, intento a guardare con occhi da cane curioso, dal basso verso l’alto, e che guarda il suo padrone, guarda il fotografo di come fa la foto. E si vede che è quel tipo di madre, Angela, che si occupa di tutto quello che succede in una casa; ma è dal padre che prende un po’ di gloria riflessa. Nel 1901 ci sono due carabinieri sotto il suo diretto comando, incontrano per puro ‘culo’ il celebre bandito delle Calabrie, Giuseppe Musolino; riescono ad arrestarlo perché, costui, fuggendo, inciampa in un fil di ferro spinato posto a terra e cade a panza sutta: luanguluangu disteso proprio davanti ai piedi dei due carabinieri sottoposti.
Pensa Mattei a come sarebbe stato orgoglioso di lui ora, quel padre, quel padre integerrimo, con le scarpe sporche di fango, per quello che ora stava riuscendo a fare, dopo quella sua infanzia poco soddisfacente:
la noia continua alla scuola: madunnuzza chi sbadigghi!, poi, una gioventù sfasata.
Ma se l’è cavata, se l’è cavata come se l’è cavata Giuseppe Berto, anche lui figlio di carabiniere, anche lui non tanto accreditato agli occhi del padre.
La sua sola passione consisteva nell’andare a pesca di trote nel fiume del dio celtico Eso: poi niente, niente per quasi tutta la giornata: mangiari viviri e dormiri, comu si dìcia.
Sa d’avere, però, un certo qual fascino personale che può far valere a qualcosa, sa d’essere un tipo sveglio e intelligente. I misteri della chimica lo incuriosiscono. Sa di saper trasmettere a chiunque il suo entusiasmo fin da quando era un giovane ragazzo. Finita la resistenza capisce anche di doversi tagliare quei baffi neri sotto a quel suo naso; i baffi che ingombrano la sua bocca e gli tolgono quella sua dolce smorfia che accenna quasiquasi a un sorriso bonario; mentre, invece, quei baffi lo fanno più serio e meno brillante, meno giovinotto. Pensa ai suoi anni di quando era verniciatore nella fabbrica di letti della Scuriatti, poi garzone fattorino alla Conceria Fiori; prima come operaio, poi aiutante chimico e infine, direttore di quel laboratorio. Pensa a quando dovette prendere la sua valigia di cartone ed emigrare per Milano, al Nord, per andare a fare il venditore alla Max Mayer. Pensa a quando nel “31, riesce a farsi una sua propria fabbrica di emulsioni per conceria Chimica Lombarda dove prende a lavorare con se due operai. Pensa a quando riesce a mettere a punto un innovativo prodotto per zuccherifici in grado di sostituire tutti quelli importati. Sa che dopo quegli anni bruciati dalla noia e dallo sbandamento, sognando di fare l’attore, sono venuti anni di coraggio, di capacità nel cogliere al volo ogni minima possibile opportunità che la vita gli mette davanti agli occhi, davanti a se: – il destino nelle proprie mani è – pensa. Pensa d’avere una grande resistenza agli stress, alla fatica fisica dell’operaio, sennò come si fa ad essere un partigiano. Pensa a quando conosce Margherita. Pensa alla bella ragazza – ballerina di varietà – che sposa a Vienna: la Paulas Greta. Pensa a quella notte, alla notte che si mette a piangere: lei gli dice perché sta piangendo: – perché, se ti vogliono ammazzare, non mi dici chi questi siano? E’ forse un gioco più grande di me, mi vogliono fare fuori, mi sono fatto troppi nemici. Ma come poterglielo dire? Come avrei potuto? Non si sarebbe preoccupata più del dovuto? Pensa a quella foto in quella festa, lui e lei, lei che lo guarda con il sorriso di chi capisce di come lui sia attento davanti a quel fotografo, con la stessa curiosità di quando era col gonnellino bianco e che tiene quella bella borsetta della madre. Felice la Paulas, Felici quegli anni a Milano, gli anni quaranta; felici quegli anni a Matelica, con gli amici: lei ha un bel tallier, accanto a lui con la solita sigaretta tra le dita, l’altra mano dentro la tasca, il fazzoletto al taschino, il passo lungo, lo sguardo verso, sempre, quel fotografo, curioso sguardo di bambino che si chiede le cose come stanno, come avvengono, vede, misura. Pensa, Mattei, all’amicizia con Marcello Boldrini, il suo vicino di casa, in piazza della Repubblica. Agli sforzi che questo cinquantenne professore di statistica presso l’Università Cattolica di Milano fa per riuscirgli a colmare le sue numerose lacune in fatto di cultura. Pensa ai primi anni con Giuseppe Dossetti, con Giorgio La Pira (altro siciliano pulito, santo: quanti siciliani puliti, quanti santi ha la Sicilia! a dispetto di altri che infangano tutto e tutti), con Enrico Falck, e poi con Amintore Fanfani ( A’- min-chia-re Fan-fa-ni, ripete un bambino ai primi anni della sua vita) e poi Aldo Moro: “cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal ’69 ad oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere”, che gli conferirà a Bari,poi, la laurea honoris causa proprio due anni ora sono di venire a Gagliano, – “quando (cioè) il regime democristiano era ancora la pura e semplice continuazione del regime fascista”- dirà Pasolini nel “75 sull’articolo delle lucciole.
Pensa a tante cose Mattei, a Gagliano, li anella uno ad uno questi ricordi suoi, ne fa una collana di perle:
– Ci pensi a quando andavamo alla scuola serale per riuscirci a prendere un pezzo di carta?
– Ci pensi al diploma che avrebbe fatta contenta la mamma Angela e la nonna Ester?, il pezzo di carta per poter dire loro d’essere diventato un ragioniere? Ah! La mamma Angela com’era contenta quando m’hanno dato la Laurea senza un giorno di studio, ad honorem!
Le sue idee su Roosevelt, Gandhi, Lenin, Francisco Franco, Peron.
La sua passione per la pittura moderna tanto da sostenere a Milano una grande mostra dedicata a 370 artisti emergenti fra i quali Pomodoro e Dorazio.
Il mensile elegante e colto Il Gatto Selvatico affidato al poeta Attilio Bertolucci.
– Minchia: Attilio Bertolucci!!!
I suoi diversi nomi di battaglia assunti facendo la resistenza come rappresentante politico del CLN: prima Este, poi Monti, e poi Marconi, Leone, anche.
Avrebbe voluto anche lui arrivare alla vecchiaia e poter pensare a questi giorni, a questi luoghi, al pane cunzatu con lo zùccaru del bambino contento; ad Acqualagna, magari, dove la popolazione era dedita essenzialmente, come in questo paese di Gagliano, all’agricoltura e alla pastorizia: povero paese, Acqualagna. Finirò’ il mio lavoro tra un paio di anni poi farò il Presidente della Repubblica, finendo la mia vita a Matelica, magari.
Quella processione a Gagliano doveva essere fatta nelle prime ore del pomeriggio, alle ore quindici: fu anticipata alle prime ore del mattino, alle ore dieci. La sera prima, a Gela, Mattei aveva ricevuto una strana telefonata, forse non tanto strana.
Come quando a casa ti bussano alla porta e tu, vedi che è un amico, ed apri la porta.
Ma la lupa, mali ppri nui, era nei paraggi, bestia sanza pace
Le fiere, ovunque.
Chi gli ha suggerito di anticipare la visita a Gagliano sà che, così facendo, ha svelato, per forza di cose, l’ora della partenza dall’aeroporto Fontanarossa di Catania, col suo bimotore Morane Saulnier 706 I-SNAP? (opra mala!) Chi farà sistemare i circa centocinquanta grammi di esplosivo Compound B dietro il cruscotto dell’aereo che sarà innescata dal comando che abbassa il carrello e apre i portelloni di chiusura? Dunque, non un esplosivo a tempo, né a gradiente basico; ma connesso con l’abbassamento del carrello e l’apertura dei portelloni di chiusura dei suoi alloggiamenti, in modo da far precipitare un aereo in fase di atterraggio, in modo subdolo e per togliere i sospetti di un’esplosione in volo. L’errore umano in fase di atterraggio è più giustificabile di un’esplosione in volo… Il segretario della Democrazia Cristiana siciliana, Graziano Verzotto, è a Gagliano? – Si! si trova a Gagliano anche lui. Perché Mattei avrebbe dovuto incontrare, l’indomani della visita a Gagliano, il ministro del tesoro Roberto Tremelloni, ministro del quarto Governo Fanfani? Con chi ha trascorso le sue ultime ore il presidente dell’ENI? Tremelloni non è uomo da potersi sospettare. Ha una sola vera aspirazione che coltiva fin dalla sua minore età: fare il giornalista. Così come Mattei, Tremelloni si diploma di ragioniere, ma il mestiere non gli va a genio, lo soddisfa poco e continua i suoi studi arrivando anche alla Bocconi.
Ragione ha Terzani quando dice che il giornalista (lui stesso giornalista) è “un mestiere di merda, una papparaquaggine”? e “Lo facevano i raccomandati dei preti, dei comunisti, i falliti delle professioni. Chi non riusciva a laurearsi faceva il giornalista. Chi aveva uno zio prete si faceva raccomandare a un giornale democristiano, entrava dentro e ci passava la vita. E io li avevo conosciuti, questi qui, perché quando lavoravo al Mattino di Firenze erano i miei caporedattori.”, così come dice al figlio Folco nel suo La fine è il mio inizio.
Si impegna in un’inchiesta parlamentare da lui presieduta e personalmente diretta e che si deve occupare del problema della disoccupazione e delle condizioni di miseria in cui versa la povera Italia, Tremelloni. Minchia! ne usciranno 18 volumi che andrano ad affollare tutte le biblioteche universitarie del mondo. Einaudi dirà di questo rapporto come una delle cose migliori compiute dal Parlamento italiano nella prima legislatura.
I giorni in cui il padre di Enrico trasferì tutta la famiglia da Acqualagna a Matelica, sono ora lontani.
Lontana la città dove prosperavano diverse piccolissime e piccole aziende che lavoravano la pietra, il ferro, la pelle, e, dove anche lui, in una di queste piccole fabbriche, iniziò a buscarsi il pane lavorando come verniciatore di mobili. Ecco, Mattei, forse, cercava di pensare a tutte queste cose; al misero incarico come commissario straordinario all’AGIP (Azienda Generale Italiana Petroli) col compito di chiudere tutte le attività dell’ente, e svenderla! L’azienda, fondata dai fascisti fino ad allora, aveva saputo dare solo perdite e dispiaceri a Mussolini. Era nata per “cercare, acquistare, trattare e commerciare petrolio”. Aveva scavato pozzi in Italia, Albania, Ungheria, Romania, pur senza trovare nulla. Ma era anche attratto, distratto dai bambini che gli bighellonavano attorno, che volevano giocare con lui, qualcuno li sgridò per farli allontanare, si ricordò di una stampa a colori della nonna materna nella quale vi era Gesù contornato da bambini:
<>, aveva letto, un giorno, subito dopo una lezione con Boldrini. Sorrise quando gli si presentò alla mente l’immagine di La Pira, ah che trovata quella telefonata di quando racconta di aver avuto in sogno la Madonna che gli suggeriva il suo nome per difendere i posti di lavoro delle officine Pignone, la cui crisi stava colpendo duramente la Regione Toscana, coinvolgendo tremila operai, ah che bella quella foto scattata al raduno del Corpo Volontari della Libertà in piazza Duomo nel “60 a Milano.
Era la domenica delle palme: il giorno in cui il Signore si recò a Gerusalemme.
Duminica jisuzzu ‘n cialu acchiana
Ma la lupa – mali ppri nui – era nei paraggi, bestia sanza pace
Era distratto dalle donne, dalle quali, a differenza di quelle di Lucania, si può accettare qualsiasi cosa da bere e da mangiare senza incorrere in malìe, in filtri magici e unguenti da untori: queste donne non metterebbero filtri a un uomo del genere, a un santo; tutt’al più rimangono come tutte le donne, ‘…in casa a cucinare intrighi’ / Secondo l’antichissimo metodo obligo delle donne’, non come la Catarina Eufèmia di Sophia de Mello Breyner Andresen (Come un grido puro, Crocetti ed., vers. F.Bertolazzi). Era distratto dagli uomini che gli facevano feste e lo incitavano a restare a Gagliano:
– ingegnere Mattei, resta a Gagliano, non partire! –
Ora ca simu junti a la simana
È finita la santa quarantana
Ma la storia è scritta, nonostante noi uomini; che, poi, siamo costretti a farla la storia; ad essere, la storia. E’ necessario, affinché ogni cosa si possa compiere, realizzare, sia pure per compiacere lo scriba di turno che annota instancabilmente ciò che è suo ‘dovere di cronaca’ scrivere, che l’uomo di turno sia crocifisso, affinché gli scritti siano salvi e la storia pure.
Lu marti c’è lu passu e c’è lu cantu
Lu mìarcuri è la santa quarantana
Lu jùavi lu pigghiàru a Cristu santu
Lu vènniri è di lignu la campana
Sono lontani i tempi della svendita dell’AGIP; sono lontani i tempi di quando comprende che se Giorgio Valerio offriva 60 milioni di lire per comprare le attrezzature dell’Agip-Alta Italia, allora ciò significava qualcosa, significava che l’azienda valeva molto di più. Lontani i tempi di quando lo Stato voleva chiudere l’azienda; di quando gli americani, le compagnie petrolifere anglo-statunitensi riunite nel cartello delle “7 sorelle” erano decise ad espandere il loro business sul territorio italiano che avevano appena liberato; le aziende di settore a capitale privato; la Edison di Valerio e la Montecatini, ad impedire la concorrenza di un ente statale; le forze politiche legate al capitale privato e agli aiuti economici americani; i liberali che per principio erano avversari d’ogni intervento statale che potesse turbare la libera iniziativa in campo economico; Zanmatti, il buon Zanmatti che gli spiega i pregi del metano nell’industria, che gli riferisce le ultime trivellazioni, interrotte nel 1944, per l’avanzare della guerra. Gli confida, questi, che l’azienda aveva trovato tracce di metano a Caviaga in Val Padana. Da allora molte cose sono cambiate: la chiusura dell’azienda non è avvenuta. La visita, lo sbarco dell’ENI a Gela, a Gagliano, avviene sotto la protezione del Grande Oriente? Mattei sa che c’è la massoneria dietro a questo suo viaggio? La sera prima il presidente ha ricevuto una telefonata interurbana al Motel Agip di Gela. Qualcuno gli dice di farsi trovare assolutamente a Milano per le venti del giorno dopo. Mattei si vede costretto a dover per forza di cose lasciare la Sicilia non più tardi delle diciassette, se vuole essere sicuro di arrivare a quell’appuntamento, ma quale appuntamento? Si occupano, quel giorno, a Gagliano, dell’ordine pubblico, il questore di Enna Ferdinando Lidonni ed il vice questore di Gela Antonio Savoia. Pochi anni sarebbero passati e, a Palermo, si sarebbero ritrovati ad occuparsi tutti e due della scomparsa del giornalista De Mauro che si ritrova ad occuparsi della scomparsa di Mattei.
Una neve di coriandoli scende sopra il volto curioso di Mattei.
Si toglie il cappello e lo porta fra le mani.
Era la domenica delle palme: il giorno in cui il Signore si recò a Gerusalemme.

Duminica jisuzzu ‘n cialu acchiana

Populu ‘n battimanu, ‘n guardu attentu,
Sigilla, ‘n vantu, bàrsamu, cunfortu,
palora duci, chiara, ‘nvivu accentu!

Accanto a lui i ‘notabili’ di Gagliano, accanto a lui i suoi protettori. <>.
Ma la lupa, opra mala, era nei paraggi, bestia sanza pace
Le fiere: ovunque.
Prende la parola il sindaco del paese, Benedetto Cuva:
Saluti e cordiale benvenuto.
– La fortunata circostanza…
Il sindaco stesso o un altro oratore: – Lo Giudice? – parla degli accordi presi fra la Regione Siciliana e l’ENI per la costruzione di uno stabilimento a Gagliano. Mattei pensa ancora : << Ho trasgredito almeno 8000 tra leggi, leggine e ordinanze varie, il mio metodo consiste nel fare prima, e nel discutere poi. I miei uomini scavano di notte per posare i tubi, e poi, di giorno ricoprono gli scavi con molte scuse. Il restauro della chiesa al parroco che si lamenta, l’acquisto del raccolto ai contadini che si sentono danneggiati, la concessione della gestione di una pompa Agip o un posto di lavoro fisso o una raccomandazione a Roma, a chi protesta. Se il sindaco è comunista? risolvo con il mio passato di partigiano. A volte mi faccio qualche maresciallo dei carabinieri per amico raccomandando gli allori passati di mio padre. I miei uomini? mi aiutano in tutti i modi, tutti scelti personalmente da me. Mi sono fedeli e lavorano con entusiasmo. Molti sono della mia Matelica. Qualcuno dice che la società dell’Agip, Snam, creata per la ricerca, viene tradotta in “Siamo nati a Matelica” si chiama così perché sono tutti di lì? fa niente, altri provengono dalle forze dell’ordine, altri ancora dalla Resistenza, altri ancora sono raccomandati di ferro da amici influenti; ma tutti, l’importante è questo, mi sono grati e sono pronti a farsi in quattro per me>>.
Pensa al finanziamento della guerriglia algerina contro i francesi?
Poteva essere una buona occasione, questa, per avere accesso al petrolio dell’Algeria.
Era la domenica delle palme: il giorno in cui il Signore si recò a Gerusalemme.
Duminica jisuzzu ‘n cìalu acchiana
Ma la lupa, mali ppri nui, era nei paraggi, bestia sanza pace
Ma la fretta di terminare la manifestazione, i discorsi, la festa, la visita dell’onorevole Mattei, traspare in tutte le teste dei Gaglianesi.
– Ingegnere Mattei, resti a Gagliano!
Ora è l’onorevole Giuseppe D’Angelo, presidente della Regione Siciliana, a parlare:
<>.
Mattei deve partire al più presto da Gagliano, per andare a Milano.
La lupa, mali ppri nui, era nei paraggi, bestia sanza pace
Le fiere, ovunque.
Qualcuno giù sotto nella piazzetta gli grida di restare
<> (Lc. 24, 53) dissero i discepoli a Cristo quando apparve dopo ch’era stato messo in croce.
Mattei, il sei novembre successivo avrebbe dovuto firmare con Ben Bella un accordo con l’Algeria, per le concessioni di vaste aree di ricerca e sfruttamento nel deserto, e, per cui, in quei giorni a Milano si trovava già un esponente del FLN algerino; ma la fretta che ha preso tutti i partecipanti stupisce anche la povera gente di Gagliano.
Perché tanta fretta?
Un giornalista, pochi anni dopo annotò sul suo taccuino:
– Chi ha fatto la telefonata interurbana e chi, il presidente, doveva vedere con tanta urgenza a Milano?
Sa che potrebbe far compiere un passo avanti per scoprire la verità sulla tragica fine.
– Perché Mattei torna in Sicilia quando v’era stato appena pochi giorni prima: il diciotto ottobre 1962?
– Perché compiere l’eventuale sabotaggio del suo aereo a Catania e non a Linate o all’aeroporto dell’Urbe, come già era accaduto?
Italo, il fratello di Enrico, dice che s’era impegnato perché a Gagliano fosse costruito uno stabilimento per 400 operai e persino una scuola professionale.
L’impegno era stato preso davanti il Sindaco Benedetto Cuva, all’onorevole Filippo Lo Giudice e Giuseppe D’Angelo. La popolazione di Gagliano era diventata nervosa, parlava di barricate e voleva essere tranquillizzata da una visita di Mattei.
La telefonata n.1 aveva il compito di far tornare Enrico in Sicilia prima della visita ad Algeri.
La telefonata n.2 aveva lo scopo di convincerlo ad atterrare in un aeroporto apparentemente sicuro. Nessun attentato avrebbe potuto essere organizzato se non si fosse venuto a sapere l’orario di partenza.
Un nastro sta scorrendo, tutto viene registrato: le parole, gli applausi, il popolo che urla Mat-tei e, un cittadino che chiede se si può far ritornare dalla Germania suo fratello. C’è uno che pensa anche per i paesi vicini: – Pinsamu macari pi’ Traina!
Nel nastro che scorre ci sono le prove di chi ha progettato la fine di Mattei?
Qualcuno degli oratori cade in contraddizione.
Il popolo vede nell’onorevole D’Angelo un po’ di invidia.
Mattei e l’onorevole D’Angelo, non si davano del tu, si davano del “lei”, si chiamavano per cognome.
L’atmosfera, però, era cordiale e aperta; dopo le prime drammatiche fasi iniziali dai rapporti fra i due, che erano iniziati alcuni giorni prima, quando D’Angelo fu segretario regionale della D.C., cioè dal 6 gennaio 1959, quando, cioè, osteggiò Mattei.
D’Angelo rimproverava a Mattei i suoi rapporti con La Cavera e con Vito Guarrasi (Cugino di Enrico Cuccia, originario di Piana degli Albanesi, marito di Idea Socialista, figlia di Alberto Beneduce, che si trovava alla firma dell’armistizio) e quindi l’indiretto appoggio ai milazziani.
Nel “53 la scoperta del petrolio nelle zone di Ragusa ha acceso la competizione tra la compagnia americana della Gulf e quelle italiane di Mattei e di Angelo Moratti.
Mattei è osteggiato dal presidente della Regione Siciliana Restivo e da don Sturzo che sono favorevoli alla corporation statunitense.
Dice Alfio Caruso, parlando di Silvio Milazzo, che la rivalsa di Mattei avviene nelle elezioni regionali del “55, quando Restivo ne esce fortemente indebolito e allo scrutinio per la nomina del presidente è sorprendentemente battuto da Milazzo, sostenuto dalle Sinistre. La D.C., però, si oppone e dopo trentasette minuti Milazzo si dimette. Ha, però, imparato che sullo scacchiere siciliano qualsiasi mossa è possibile.
L’onorevole gaglianese Lo Giudice è milazziano.
Verzotto si prodigò in quegli anni per smussare gli angoli.
Mattei, contrariamente a quanto tutti gli consigliavano, vuole fare un insediamento industriale a Gagliano.
Mattei: – Graziano Verzotto, te ne vieni con me a Milano?
Verzotto: – non posso, presidente. Domenica ho riunione a Siracusa con i dirigenti provinciali e comunali per preparare, appunto, le elezioni provinciali. Sono a Novembre, fra qualche settimana…
Mattei: – E quando ti farai vivo?
Verzotto: – Per i morti, senza dubbio
Mattei: – Poco male. Allora verrà Falestrini con me, che ne dice, professore?
Falestrini: – Lei sa di quell’impegno che ho domani alle 12,00 alla Cattolica. Andrò via domattina all’alba col De Havilland e a Punta Raisi prenderò il diretto per Milano.
Mattei: – E lei, Fornara? torna su con me?
Fornara: – Ehm…a dire il vero questi giocattoli non mi ispirano tanto… ho già staccato il biglietto sul Catania-Milano.
Mattei: – E allora me ne andrò con D’Angelo. Le va il programmino, D’Angelo? Si parte nel pomeriggio, si cena assieme a Milano, la ospito all’ENI e domenica mattina la faccio riaccompagnare a Palermo. D’accordo?
D’Angelo: – ottimo…Però domenica mattina debbo andare a Catania non a Palermo.
Mattei: – intesi, la faccio accompagnare a Catania. Ma perché mai?
D’Angelo: – alle ore 10 debbo trovarmi ad Agrigento per la inaugurazione di un gruppo di alloggi per gli operai della RA.SI.O.M. Ci sarà il vescovo Cazzaniga…
Mattei: – ahi ahi! questo cambia le cose. Io garantisco per domani sera all’aeroporto di Milano, ma poi? Se durante la notte cala il nebbione e domenica non può partire? Il mio caro nemico Cazzaniga dirà che l’ho fatto apposta per mandargli all’aria la cerimonia…No, dà retta a me, non facciamo niente. Meglio non risalire…
D’Angelo: – sarà per un’altra volta…
Mattei ha incontrato l’onorevole D’Angelo solo in quel momento? oppure già dalla sera prima della cena al Motel Agip di Gela?
Molti ci scommettono.
Pochi anni dopo Mauro De Mauro incontrò l’onorevole D’Angelo presso la sua villa alle isole Eolie per aver notizia: le testimonianze sono contrastanti.
Dopo la morte di Mattei, l’onorevole D’Angelo affiderà la presidenza dell’Ente Minerario Siciliano a Graziano Verzotto: lo scampato dell’ultimo viaggio di Mattei, dell’ex senatore della DC.
Il giornalista Alfio Sciacca sul Corriere della Sera, dirà di lui come di “una entità’ che fa capolino in alcune delle più oscure vicende siciliane: dalla morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei, alla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, per finire all’ascesa finanziaria di Giancarlo Parretti. Andrà via dalla Sicilia nel marzo del 1975, qualche giorno prima che venisse spiccato nei suoi confronti l’ordine di cattura per una vicenda di fondi neri depositati presso la banca privata di Sindona. Per oltre 17 anni questi girerà il mondo: prima in Libano, poi in Francia, inseguito dai provvedimenti della magistratura.
A 69 anni, nel giugno 1992 Verzotto si definirà semplicemente un ex. “Un pensionato che ha ancora tanti amici, soprattutto in questa splendida isola”.
Che i suoi legami con la Sicilia non siano mai cessati lo dimostra l’accoglienza che gli è stata riservata al suo arrivo a Siracusa.
(Totò cicchiteddu era nei paraggi)
GRAZIANO VERZOTTO:
– Le mie disavventure giudiziarie sono finite e tantissimi amici mi reclamavano da queste parti. Anch’io volevo rivedere questa città’ e questa isola meravigliosa. Dunque eccomi qui. Non voglio sollevare polveroni; in tanti anni hanno cercato di farmi parlare ma l’ho sempre evitato. Non ho alcun interesse a creare clamore attorno alla mia persona, anche se potrei dare spiegazioni su tutto. Non ho nulla da rinnegare.
BUSCETTA: – L’aereo di Mattei fu sabotato da mafiosi mandati dal boss di Riesi Beppe Di Cristina, proprio lui era stato assunto da Verzotto alla Sochimis, società satellite dell’ EMS.
GRAZIANO VERZOTTO: Per spiegare la morte di Mattei bisogna chiedersi a chi serviva. Non serviva più alle sette sorelle che avevano raggiunto con Mattei una tregua, non serviva nemmeno all’OAS e ai servizi segreti francesi perché la questione degli aiuti dell’ENI, agli insorti algerini e il metanodotto Algeria-Sicilia si era risolta da sola con l’indipendenza dell’Algeria. Eugenio Cefis, invece, si avvantaggiò della morte di Mattei perché era stato allontanato dagli incarichi che ricopriva –
Io dico che serviva allo Stato Italiano (agli uomini di potere che intendono servirlo) che avrà bisogno di gestire la Cosa Pubblica che è l’AGIP, L’ENI e che è nelle sole mani di un uomo troppo libero e padrone di poterla gestire questa ‘Cosa’ Pubblica così come vuole lui.
GUIDO CARLI: – Cefis fu l’esempio più evidente di quella che il Governatore chiamò la “borghesia di Stato”.
PASOLINI, pensando a Cefis, nel suo Petrolio, scrive: ‘Non amava nessuna forma di pubblicità. Egli doveva, per la stessa natura del suo potere, restare in ombra. E infatti ci restava. Ogni possibile “fonte” d’informazione su di lui, era misteriosamente quanto sistematicamente fatta sparire”

Duminica Jisuzzu ‘n cialu acchiana
Ora ca simu junti a la simana
È finita la santa quarantana

Ore 8,55 del 27 ottobre 1962 è sera
l’aereo di Enrico Mattei è in avvicinamento all’aeroporto di Linate.

AEREO: – Linate India Alfa Papa (nome in codice dell’aereo di Mattei)
LINATE: – Alfa Papa Linate, Avanti
LINATE: – Temperatura 9 gradi, pista 36
– Pista in uso 36. siete autorizzato diretto K
AEREO: – OK pista in uso 36 autorizzati a eventuale diretto cambio OK
LINATE: – Alfa Papa visibilità migliorata 900 metri generale 1400 in pista
AEREO: – Ricevuto grazie India Alfa Papa
LINATE: – Alfa Papa stimato per lasciare il beacon
AEREO: – fra due minuti, un minuto e mezzo circa
– Alfa Papa raggiunto 2000 e ripartirà lasciando il beacon
LINATE: – India Alfa Papa
India Alfa Papa…
India Alfa Papa…
Ore 18,57 come certifica l’orologio di Mattei ritrovato, l’aereo esplode precipitando in località Bascapè a pochi chilometri dall’aeroporto di Milano Linate: con lui muoiono il pilota Irnerio Bertuzzi e il giornalista e fotografo del Time William Mc Hale
Cadutu cu l’aeriu, persu ‘n focu,
Trisoru, pena funna, ‘n sira mortu,
Sturduta, genti chianci, ‘nti stu locu!
scrive il 3 novembre del 1962 don Peppino Brancatelli a concludere le altre tre strofe della poesia in vernacolo intitolata Mattei.
ìmuci tutti avanti ca trapassa,
prima ca si lu portanu a la fossa.
Maria sula suliddra s’arricògghia,
senza ddru cori amaru di so figghiu.
Cantano i cantori di Gagliano il popolomeo, ogni venerdì santo, andando dietro alla Madonna addolorata col pugnale puntato verso il suo cuore, che sale da sant’Agostino verso la piazza.
Giuseppe D’Angelo, già presidente della Regione, continuerà a guidare altri sei governi regionali fino all’agosto del 1964. Le biografie ufficiali che tutti possiamo andare a vedere, così come ho fatto io, dicono che, come presidente della Regione Sicilia chiese di istituire una commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia e si adoperò contro gli esattori privati (contro i Salvo?) . E’ proprio in quegli anni che Sciascia inizia a denunciare l’esistenza della Mafia, fin d’allora riconosciuta come fantasiosa. Forse è così che il suo governo cade: per le posizioni non tanto chiare emerse nella sua stessa coalizione, e, in particolar modo, del partito socialista. Nelle successive elezioni si candida, ma non viene più rieletto. Ora c’è che quando qualche politico non viene eletto o rieletto, allora è la volta di diventare presidente di qualcosa, di un Ente Pubblico: il nostro ex onorevole-presidente diventa presidente dell’Ente minerario siciliano, poi della Siciliana gas che, poi, diverrà Italgas e che poi, ancora una volta, diverrà ENI SpA divisione Gas & Power con sede legale in Roma Piazzale Enrico Mattei, 1.
Sempre ENI, sempre AGIP, sempre Cosa di Stato, un ritorno a ritroso come quello delle trote.
Da bambino, tra noi bambini, girava voce che fosse stato lui, D’Angelo, a volerlo fare ammazzare: per pura invidia, ciuciuliavano i grandi, cose di paese, dunque.
Il popolo dice le cose a modo suo e alla maniera sua, cioè sempre alla maniera di come si spiegò la guerra di Troia e di come, da allora, ce la siamo spiegata tutti: cioè col ratto di Elena: usa traslare, usa fare allegoria, istintivamente personalizza l’avvenimento della cronaca che a poco a poco diventa storia, deve essere smorfiata la cosa di cui si sta parlando, e parla a baccagghiu il popolo.
Nutizia vili ‘n notti?!! Cunfirmata
Mattei ‘ntra l’aèriu sfracillatu,
Cadutu, comu aceddu ‘ntra la grata,
‘N tutt’una cu du’ amici mori a latu!

Stutatu mancu l’ecu e battimanu,
Triunfu granni, ùrtimu, artenti,
Sbintura, strubba, d’òbbrucu Agghianu,
Munnu, parenti, amici e canuscenti!

Trisoru amatu, ùtili, pirdutu,
Bonu, sinceru, affabuli cunfortu,
Sarbatu ‘n cori, dignu canusciutu!
‘N signu di stima, ‘n mèritu presenti,
Onuri, affettu vuvu, sempri a mortu,
‘Ntattu riordu teni nostra genti!
(‘N morti di Mattei, G. Brancatelli)
Ma viene da dire:
Il tuo corpo
Per sempre padre d’amare
Per sempre padre d’avere
Per sempre padre da non morire.
Il tuo corpo
Per sempre sulla pietra
Per sempre su ogni corpo di cenere
Chiuso fra le tavole inumidite
Dai tempi
Ma viene da dire:
è possibile che tutti sapessero del pericolo che correva Mattei, e solo lui ne era ignaro?
o
è solo una coincidenza del tutto fortuita
, di destino;
che tutti abbiano avuto l’occasione giusta, la scusa giusta per defilarsi da quel pericoloso volo d’Icaro?
Al mio paese si dice che u’cornutu è l’urtimu a sapillu: il cornuto è l’ultimo a saperlo, delle proprie corna, del tradimento della moglie, o delle figlie.
Sicuramente tutti quei notabili sapevano che erano gli ultimi mesi, gli ultimi giorni, se non proprio le ultime ore dell’onorevole deputato al Parlamento Enrico Mattei, ché insostenibile per lo ‘Stato’ e il ‘potere sovrano’ di quello ‘Stato’ era diventato il potere di Mattei:
– Chi avrebbe avuto il ‘coraggio’, il ‘potere’ di incaricare un nuovo presidente di quell’azienda di Stato, con Mattei ancora esistente in vita?
Sapevano della lupa nei paraggi, bestia sanza pace?
A rivedere dopo un paio di decenni dalla sua realizzazione (1972) la ‘cassetta’ del film Il caso Mattei di Francesco Rosi, si resta sconcertati di fronte alla sua attualità: sembra fatto apposta per una certa parte di intellettuali, per far risaltare le vere ragioni delle attuali condizioni sociali e politiche che stanno infestando il nostro pianeta: le guerre per il petrolio messi in bella evidenza. Il monopolio delle superpotenze industriali e militari, la nuova forma coloniale di sfruttamento di quelle risorse a danno dei paesi poveri che quelle risorse hanno e che per questo continuano a rimanere nel medioevo della storia (di contro, per toglierci ogni forma di scrupolo, creiamo aiuti umanitari dati sotto forma di caritatevole bontà cristiana); l’impossibilità dell’Italia di far parte a pieno titolo di questo monopolio, che rimane socio di minoranza di questa combriccola uscita dalle macerie dell’ultima ‘grande’ guerra; la subalternità dell’Italia alla politica economica mondiale, sociale (e, di conseguenza anche militare) rispetto a quelle potenze.
Poi vien da dire, viene alla mente, del perché Dio fa piovere ‘goccia a goccia’ gli uomini che fanno gli uomini, per poi farli ‘annegare’ in un mare di fognatura, acque putride e fetenti. E diventa insopportabile dover scavare mentre qualcuno continua a riempire lo scavo che stai facendo. Mentre dentro di te senti di dover continuare a scavare nella convinzione che questo sforzo alla fine porterà a qualcosa di buono.
6: 3 Popolo mio, che cosa ti ho fatto di male, in che cosa ti ho disturbato? Rispondimi.
Mauro De Mauro farà molte volte scorrere il nastro della registrazione del comizio tenutosi a Gagliano, e molte volte lo ferma, questo nastro, proprio in un determinato punto del comizio, e da quel discorso scopre chi sia stato a far uccidere Mattei. Evidentemente il discorso che ci è rimasto di Mattei a Gagliano del 26 ottobre 1962 non è intero, manca o mancano di parti importanti del discorso che è stato fatto debitamente sparire subito dopo la sua morte e poi è stato manomesso; ché non si può altrimenti capire come Mauro De Mauro lo abbia scoperto; mentre nessun altro, leggendo, quel discorso, non ne abbia potuto avere la stessa percezione, intuizione. E c’è da giurarci, che la conclusione sia stata quella giusta ché, dopo pochi giorni, il De Mauro sarà una delle tante vittime della lupara bianca dell’isola più bella del mondo.
E’ di chiaro intuito che non sia stata una sola persona a commettere l’attentato, se di attentato si deve parlare – ché di attentato si deve parlare, per i motivi che avrà dedotti il De Mauro e per la fine che farà, dopo, il De Mauro stesso, e tutti quelli che si occuperanno del Caso Mattei – .
Ripetiamo: per il sistema di affari di Gestione di Stato che si avrà modo di vedere negli anni a venire, la figura di Mattei sarebbe stata d’impaccio, di ostacolo. Come avrebbe fatto lo Stato Italiano a gestire il sistema di potere che, di fatto, poi, gestirà, se non togliendo di torno, quella figura ch’era diventata ingombrante? Chi avrebbe avuto la forza di togliere Enrico Mattei dalla presidenza dell’Eni? Come si sarebbero potute nominare, di volta in volta, tutte quelle persone che si sono, poi, di fatto, nominate? Impaccio è parola che deriva dal francese antico empedechier,- leggo dallo Zanichelli – in siciliano ‘mpidugghiari; dico io, impedire, ostacolare, e che a sua volta dal latino impedicare, cioè prendere al laccio: che bello vedere come una parola possa far meglio comprendere una questione ‘apparentemente’ imbrogliata. E’ la matassa della lana che s’impidugghia, si imbroglia, ne so qualcosa io che, da bambino aiutavo mia madre a trasformare la matasa di lana in gomitolo.
Nessuna Cosa di Stato può essere mossa se Cosa di Stato non lo voglia e, quando la Cosa di Stato ha la necessità di smuoverla, quella particolare cosa, anche a costo di colpo ferire, si avvale di un’altra Entità di potere che collabora con la Cosa di Stato che è Cosa Nostra (il metodo Americano, dello sbarco in Sicilia, insegna). Tutti i grandi delitti succedono e avvengono in questa isola martoriata dai suoi stessi abitanti, e non solo, e partono dalla Sicilia, e hanno forma mafiosa perché sono commissionati da Cosa di Stato ed eseguiti da Cosa Nostra. Tutte le grandi stragi sono commissionate da Cosa di Stato ed eseguiti dai Servizi Segreti di Stato Deviati, nati da quel vuoto di potere che ha denunciato Paolini; ma difficilmente quest’altre ultime succedono, in Sicilia. Portella della Ginestra, l’omicidio del generale C.A. dalla Chiesa, la strage di Capaci, quella di Via d’Amelio, etc etc hanno impronta mafiosa, lo stile mafioso dettato dalla complicità dello Stato, non ci vuole molto a capire che dietro c’è lo Stato; e l’intuito della vedova dell’agente Vito Schifani, Rosaria Costa non può essere che una giusta intuizione.
C’è una madre di tutte le stragi, a Milano, proprio dentro ad una banca, il 12 dicembre del 1969, e succede che vengono ammazzati con una bomba 17 uomini e ne vengono feriti altri 88.
C’è una strage anche in un posto che nemmeno sanno che cosa sia il “68, se ne sanno qualcosa è perché ne hanno sentito parlare al telegiornale: è il 22 luglio 1970 e succede che vengono ammazzati 6 uomini e ne vengono feriti 66, siamo in Calabria, a Gioia Tauro, dove sta per essere costruito un grandissimo porto commerciale.
C’è una strage anche a Gorizia il 31 maggio del 1972 e succede che vengono ammazzati 3 uomini e ne vengono feriti 2: è la così detta “strage di Peteano”.
C’è una strage anche in una Prefettura (che poteva mancare la Prefettura?) : quella di Milano, il 17 maggio del 1973, e sai che c’è, c’è che vengono ammazzati 4 uomini e 52 rimangono feriti.
C’è una strage in una piazza a Brescia, e sai che c’è? C’è che vengono ammazzati 8 uomini e ne restano feriti 102, tutti la conoscono questa strage col nome di strage di piazza della Loggia, siamo al 28 maggio del 1974.
C’è un treno ora, e questo treno il 4 agosto del 1974, da Roma cerca il Brennero, il treno ha un nome: l’Italicus
– E che c’è?
– C’è che anche nel treno c’è una strage: vengono ammazzati 12 uomini e ne vengono feriti 105.
A Bologna c’è una piazza, tutti la chiamano Grande; tutte le strade di questa città detta “la grassa” s’incontrano in questa piazza grande; ma, come in ogni città che si rispetti, a Bologna c’è anche una stazione dove partono e arrivano treni, e con l’arrivo dei treni, arrivano uomini. Il 2 agosto del 1980, alcuni uomini pensano che l’orologio di quella stazione debba essere fermato, e così fanno, lo fermano alle 10:25 in punto.
– E come lo fermano?
– Lo fermano con una bomba
– Con una bomba? Perché fermare un orologio con una bomba?
– C’è che, fermando un orologio con una bomba, vengono ammazzati 85 morti e ne vengono feriti 200.
– ah! Ho capito: con una fava prendono due piccioni: è così?
C’è una madre, e questa madre, canta al suo bambino che si chiama Claudio una filastrocca
– E che filastrocca è questa filastrocca?
– E’ quella della lepre
– Quella della lepre?!!
– Si, quella della lepre pazza che passa per una piazza: ci sono filastrocche che quando vengono cantate ai bambini, rimangono impresse nella loro mente e ti collegano cose che, apparentemente, non hanno nessun collegamento quando si diventa grandi. Il bambino che ha sentito la filastrocca della lepre pazza, e che ora è diventato grande e non è più un bambino, e che ora è cresciuto e ha 25 anni, dalla via Indipendenza dove abita, sente un botto dalle parti della stazione: apre (accende?) la televisione: c’è la faccia di Bruno Vespa che gli racconta che c’è stata una fuga di gas nella Stazione di Bologna. Quando tutti scoprono che non è stata una fuga di gas, ma di una strage, tutti si ritrovano in una piazza dove ci sono le solite bare messe in fila.
– E’ un funerale?
– Si: il solito funerale di Stato, come ce ne sono quasi ogni anno, con le solite autorità che vanno ai funerali degli uomini rimasti uccisi.
Per la piazza divisa in striminzite aiuole,
Dove tutto è agghindato, gli alberi come i fiori,
Tutti i bolsi borghesi soffocati dall’afa,
Vanno, il giovedì sera, stupidi ed invidiosi.
………………..
……………….
– Intorno, in prima fila, Zerbino fa il pavone;
Il notaio s’appende ai ciondoli cifrati.

Gli agrari con gli occhiali sottolinean le stecche:
I burocrati gonfi scortan le spose obese;
Accanto a loro vanno, cornàc officiosi,
Dame con gale simili ad insegne vistose;

Sulle panchine verdi, gruppi di pensionati
Attirano la ghiaia col bastoncino a pomo,
E serissimamente discutono i trattati
Tabaccan dall’argento e riprendono: “Dunque!…”

Stendendo sulla panca i fianchi ben pasciuti,
Un borghese attillato dal pancione fiammingo
Fuma una bella pipa donde traboccan fili
Di tabacco – non sa? Roba di contrabbando!… –

Lungo le aiuole verdi van ridacchiando i guappi;
Con il cuore in solluchero al cantodei tromboni,
Gli ingenui soldatini, con una rosa in bocca,
Fan carezze ai bambini per sedurre la serva…
Il ragazzo che è cresciuto e ora ha ormai 25 anni – dicevamo -, si ricorda della filastrocca, ma non dice nulla: alza solo il pugno, in silenzio, come tutti, in quella piazza di morti dentro le bare e di vivi che sembran morti e di morti vivi che non sembrano per nulla infami, come fanno tutti gli altri nel salutare quegli uomini morti chiusi dentro quelle scatole di legno. Torna a casa, la filastrocca torna alla sua mente, canta Claudio la filastrocca, la ripete (io ho, invece, ripensato alla poesia di Arthur Rimbaud, Alla musica, nella versione di Ivos Margoni che ho letta dal n. 482 della U.E. Feltrinelli); poi, con la naturalezza che viene da chissà che cosa, spunta nella mente una canzone a Claudio, e Claudio canta, canta e scrive, per non dimenticare quello che qualcuno gli sta dettando chissà come, e per quale via misteriosa: piazza
, bella piazza
, ci passò una lepre pazza
, uno lo cucinò
, uno se lo mangiò
, uno lo divorò
, uno lo torturò
, uno lo scorticò
, uno lo stritolò
, uno lo impiccò
, e il mignolino che era il più piccino più niente restò
….
– Possibili mai?
– Fascisti? Comunisti? Anarchici? Lo Stato?
piazza,
,bella piazza
, ci passò una lepre pazza
Ci passarono dieci morti,
i tacchi indegni degli ufficiali,
teste calde politicanti (teste di legno – li dice Pasolini – non meno, anzi più un metro e mezzo senza le ali funereamente carnevalesche)
ci passai con la barba lunga (le ali del desiderio):
che qual vuol grazia ed a lei non ricorre,
per coprire le mie vergogne
sua disianza vuol volar sanz’ali.
e i pugni in tasca senza sassi per le carogne (Pd, XXXIII, 14-15)
ed è la solita storia, la storia di chi ha un minimo di rossore in faccia e, per questo, si vergogna; e la solita pietra che uno si tiene in tasca per molto tempo, poiché pensa che ci sarà un giorno, ci sarà, che la uscirà di tasca questa pietra, e la lancerà in faccia a quello stesso borghese che un tempo ti faceva paura e che te la lanciò al posto di un aiuto.
….
piazza,
,bella piazza
, ci passò una lepre pazza
ci passo tutta una città
calda e tesa come un’anguilla
si sentiva battere il cuore
capivamo di essere in tanti
– In tanti, si
…..
piazza,
,bella piazza
, ci passò una lepre pazza
fu il giorno dello stupore
fu il giorno dell’impotenza
si sentiva battere il cuore,
di Leone ne avrei fatto senza
si sentiva qualcuno urlare
solo fischi per quei maiali
siamo stanchi di ritrovarci
solamente a dei funerali
– Tutto è finito e non chiedetemi perché
…..
bella piazza, ci passò una lepre pazza,
uno lo accarezzò,
uno lo abbracciò,
uno se lo baciò,
uno lo consolò,
uno lo tranquillizzò,
uno lo rallegrò,
uno molto lo amò
col mignolino che era il più piccino la notte passò…
– Canta Claudio Lolli, senza interrompere la sua dolce melodia – e io gli canto appresso, ora che è stata messa su un nastro magnetico; e mentre canto assieme a lui, di là nella stanza, mia madre mi prende per un tipo strano, sapendo che prima ho cantato una canzone di una mosca che è morta e adesso quella di una lepre che è pazza e
dove sarà la cultura operaia, Anna che scuote la testa e dice di no!
Anna dà un bacio alla piazza e poi se ne va – cultura operaio, si cultura operaia!
………………
E siamo noi, noi a far bella la luna
Riprendiamoci la vita, la luna e l’abbondanza
Pensa Claudio, pensa che è assurdo che l’Italia stia vivendo una strana strategia: c’è come una tensione nervosa, c’è come se le stragi che si verificano non siano altro che stragi di Stato
– Stragi di Stato? Possibile mai ‘sta cosa?
– Stragi dove i servizi segreti deviati, hanno in qualche modo, una parte fondamentale, nella loro realizzazione.
– Sto iniziando a capire, ora capisco l’affaire Moro! Se non c’è lo Stato sotto, come si può far scomparire un onorevole e non lo si ritrova più, per farlo ricomparire, in una macchina, morto ammazzato raggomitolato come un capretto, proprio fra le due segreterie dei due partiti più importanti di quel periodo?
Io so
– scrive PierPa’ sul Corriere della Sera del 14.11.1974 –
i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e i second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostruiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.
Io so i nomi
di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali ( per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista).
Io so i nomi
delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano) o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
– E allora?
Nun lu spittari, no: ca cchiù nun torna,
ca ‘n casa è juntu di Pilatu, donna
Continuano a cantare i lamentatori del popolomeo (popules meus) di Gagliano, ancora andando dietro alla madunnuzza addulurata che sta dietro al crocefisso.
6: 3 Popolo mio, che cosa ti ho fatto di male, in che cosa ti ho disturbato? Rispondimi.
6: 4 Popolo mio ti ho tratto dalla terra d’Egitto, ti ho riscattato dalla schiavitù, ti ho mandato Mosè, Aronne e Miriam.
6: 5 popolo mio, ricorda dunque quello che ha detto Balak, re di Moab, e che cosa gli ha risposto Balaam figlio di Beor, da Sittim a Ghilgal, affinché tu riconoscessi il Signore.
6: 6 Con che cosa verrai davanti al Signore e all’Altissimo? Ti presenterai a lui con olocausti, con vitelli giovani di un anno?
6: 7 Ti presenterai davanti al Signore con migliaia di montoni, con diecimila fiumi d’olio? Con il primogenito per la tua trasgressione, il frutto delle tue viscere per il peccato della tua anima?
6: 8 Oh uomo, il Signore ti ha detto ciò che è bene e che cosa vuole da te, perseguire la giustizia, amare la misericordia e camminare umilmente con il tuo Dio.
La notte che il nostro viaggiatore incantato passa con tanta angoscia fu un poco quieta quando, guardando in alto, vede la collina illuminata dai primi raggi del Sole.
Sarà ancora bella e triste e ancora verde la nostra vita, e sogneremo ancora, per molto tempo ancora. Il sole avrà il suo carro di luce,
la luna sarà ancora bianca e triste e rotonda e con la sua piccola faccia bianca,
le stelle saranno tutte là ad aspettare
, io
, potrò ancora guardare…ancora.
E del sole, abbiamo una bella immagine di Reiner Kunze, quando mi ritrovo a leggere i suoi versi intitolati La fine dell’arte che a me piace qui trascrivere, per ricordarli – non per altro – essendo io povero di memoria, dalla versione che ne ha tratta Gio Batta Bucciol, che, a sua volta ha tratti dalla raccolta di poesie Monologo per altri. Poesie e prose, Reclam, Stuttgart, 1989
Non devi, disse la civetta al gallo cedrone,
non devi cantare il sole
il sole non ha importanza
Il gallo cedrone tolse
Il sole dalla sua poesia
Ecco un artista,
disse la civetta al gallo cedrone
E si fece davvero buio
Notte del *** del mese di *** dell’anno 754 ab urbe condita, oppure del 753
Notte del venerdì santo del giorno otto del mese di aprile dell’anno del signore mille e trecento
; anzi, no:
è la notte
tra
il 25 e il 26 Marzo del mille e trecento uno.
Notte del 27 ottobre 1962
Ci ritroviamo in un luogononluogo, in un luogo stato
d’animo.
– E’ tutta in una valle, la selva oscura e selvaggia e aspra e forte?
Un colle d’animo.
– Un colle la delimita?
Ma ci si alza il viso
Ci si alza il viso, alza il viso anche Renzo.
– Per istinto?
– Per necessità?
– Perché si guarda in alto?
– Qualcuno ci ha promesso qualcosa, forse?
Niente ci è dovuto!
E come in un sogno – ma siamo in un sogno? Siamo nel nostro vivere quotidiano? Quale realtà stiamo vivendo? – notiamo già che le spalle di questo colle-animo sono vestite dei raggi del pianeta che fa menare (chiunque) dritto per ogni strada intrapresa.
Per ogni via, aspra, forte, per ogni strada.
– Chi non si quieta, allora, dopo che s’è passata un’intera nottata con tanta paura nel lago del proprio cuoreanimo, e tanta angoscia?

 

 

 

Cinque

tratto da DURANTE,VI canto dell’Inferno

Ad ogni sesto canto di ogni cantica sai che c’è?
– che c’è?
C’è che si parla di politica.
Non è che quand’anche non si parli di politica, non si parla di politica: la politica c’è anche quando non si parla di politica. Il tema è anche questo, nel nostro percorso – chiamiamolo ascetico – : quello della politica, così come di ogni altra disciplina umana. C’è qualcuno che dice: io non mi occupo di politica, io non mi voglio occupare di politica, e lo dice allo stesso modo di quelli che dicono: a me non piace il calcio e non me ne occupo; e lo dice anche giustamente, senza che qualcuno gli possa dare torto, visti i risultati che, molto spesso, la politica da’, o gli uomini che se ne occupano, anche presuntuosamente, danno. Ma, credo che la politica è l’unica disciplina umana della quale uno non può non occuparsene, o meglio: uno se vuole può non occuparsene (cazzi suoi), può disinteressarsi di questa cosa qua: del bene comune; ma lei (la politica) si occuperà comunque di te, di questa cosa qua che si dovrebbe occupare del bene comune e non se ne occupa quasi mai o per niente. La politica insomma entra a casa tua, entra nella tua vita e tu non puoi fare a meno di farla entrare nella tua vita, anche quando deciderai di andare a vivere in un deserto, in un’isola sperduta in un oceano. Ti chiudi? Alzi muri? Scavi fossati? Ponti levatoi per metterti in sicurezza? Forme aleatorie sono. Uno struzzo sei: metti la testa nel buco e il corpo è là fuori, spreparato. La politica è là che ti guarda e dice: ora mi occupo di te, malgrado te, malgrado la tua riluttanza, i tuoi muri, fossati, i ponti levatoi che tu credi di aver elevato attorno a te per ripararti da me. Nel V canto, si parlava d’amore, e tu mi dirai: lì la politica dov’é? La politica, secondo il nostro teorema, c’è anche lì, anche nel V canto. I rapporti umani, anche quelli più intimi, dipendono anche dalla politica, sono direttamente interessati dalla politica.
Che pense?
Ciò che accadde a Paolo e Francesca oggi non potrebbe accadere nel modo in cui accadde allora. Potrebbe accadere il delitto, si, il fattore della gelosia influenzerebbe ancor oggi quel rapporto intessuto nei primi anni del 1300, ma non con lo stesso sviluppo di eventi; e se non si conoscessero le vicende sociali, i costumi e, con essi, la politica che è direttamente intrecciata con i costumi e gli usi, non si potrebbe comprendere appieno la vicenda d’amore di questi due sciagurati (sciagurati?) cognati. Io non mi occupo di calcio e le vicende del calcio scorrono senza che influenzino minimamente la mia persona. Oggi la partita di campionato, della Champion league non la voglio proprio vedere, mi vedrò un film, io. C’è una serie di film di Stanley Kubrick. Anzi, ora stesso, vedo che film di Kubrick danno stasera alla TV, e, così mi organizzerò la mia serata; ché Kubrick non è che abbia un tema, una tematica: lui passa da una tematica ad un’altra, ad ogni film che fa. Anche il film storico ti fa Stanley (chiamiamolo solo così sennò s’incazza), il film storico-mitologico ti fa Stanley, anche. Ti fa il film e all’ultimo chiede al suo autista tuttofare se il film che ha appena fatto è un film che a lui è piaciuto. Chissà come gli è venuta l’idea di fare il film che vedrò stasera. Un giorno si alza e gli viene di fare un film horror, un thriller, ed è allora che gli iniziano a portare quintali di libri che trattano il tema che lui vuole trattare. E lui, Stanley, si mette lì, chiuso nella sua stanza, e si mette a leggerli tutti quanti, quei quintali di libri.
– e quanto ci è voluto per leggere tutti i quintali di libri che gli hanno portato?
Non è che li legga tutti: inizia a leggere un libro, vede che non è il libro che fa per lui e lui lo butta contro il muro, come se fosse – ti ricordi? – l’ultimo imperatore della Cina di Bertolucci che prende il suo topolino da dentro la sua tasca e lo scaraventa nel muro, e tutti noi, o chiudiamo gli occhi per l’impressione, o vogliamo proprio vederlo spiaccicato contro il muro: proviamo schifo ma vogliamo proprio vedere come va a spiaccicarsi un topolino contro il muro. E se qualche schizzo di sangue, qualche pezzetto di carne del topolino va a finire proprio sull’angolo sinistro delle labbra del piccolo imperatore? così fa Stanley con il suo quintale di libri, li spiaccica contro il muro, ma non fanno nessuno schizzo, si scollano, alcuni, e cadono a terra, ricordandosi di quanti sudori abbia buttato il suo scrittore per scriverlo, credendo di aver scritto un buon romanzo Horror, un buon thriller: – e se Stanley me lo rifarebbe in un film? Ma c’è che, non appena legge un rigo, legge una pagina, poi legge un paragrafo, e poi un capitolo: è come quando si scopre un poeta vero, e il gioco è fatto: si mette a lavorare su quel libro, Stanley. E, invece, come fai con la politica? Io non voglio andare a votare: e al politico, al partito, al movimento di turno che gliene frega se tu non vai a votare? A lui interessa che prenda più di quanti voti possa prendere, di ‘salire’ gli interessa, di occupare il seggio. I voti sono come i soldi: non hanno odore, e se anche ne avessero di odore, se anche uno si è pulito il buco del culo, beh, uno si tura il naso, prende i soldini con la punta delle dita e cerca di ripulirli, lavarli, e, infatti quelli che riciclano i soldi, li lavano, e li immettono nel mercato e tutti noi non ne sappiamo nulla, non ne vogliamo saper nulla di come sono stati guadagnati quei soldi che ti ritrovi fra le mani. Interessa che vinca, al politico, si introduce nella sala dei bottoni e manipolizza, monopolizza il sistema sociale, il quieto vivere, anche la morale. Se oggi siamo quel che siamo, questo nostro essere lo dobbiamo alle centinaia, alle migliaia di leggi che si sono emanate nel corso della lunga storia dell’uomo. Non ce ne accorgiamo più che oggi io la penso in un certo modo solo perché è da millenni che l’uomo emana leggi, fa politica, con la scusa del bene comune (bene comune?). Si parla, dunque, sempre di politica, ad ogni passo, ad ogni evento, ad ogni anima che incontriamo. Poi c’è la vicenda che uno dice: ma qui si parla di politica! E nessuno ti può dire di no: si parla proprio di politica, puoi farci cosa all’evidenza dei fatti? E, siccome al nostro signor d’ogni versi piace fare le cose ben benino, piace strutturare ogni cosa così come la natura stessa fa, vale a dire che ogni cosa è ingranaggio è conseguenza di un’altra cosa, è legata a un’altra cosa, il nostro auctor inizia a parlare di politica al VI canto della prima cantica, e dopo al VI canto della seconda cantica, e al VI canto della terza cantica. Tre cantiche, al sesto canto. Terzo cerchio, nell’Alto Inferno, sesto canto. In un crescendo continuo: situazione politica di Firenze, situazione politica dell’Italia, le condizioni dell’Impero, in ultimo. Ha un significato ciò? Senza alcun dubbio, si, conoscendo il personaggio reale del nostro pellegrino incantato. Se lui ha scelto di parlare di politica ad ogni sesto canto, stanne certo che dobbiamo andare a scoprire il perché lo abbia fatto, il perché lo fa. E qui ci vorrebbe Stanley, ci vorrebbe un autore di thriller, di gialli per scoprire del perché il nostro signor d’ogni versi ha deciso di parlare di politica solo ad ogni sesto canto, quando i canti sono cento.
E se uno si interessa di politica?
Non cambia assolutamente nulla, ‘n’emerita minchia. Occuparsi di politica ci sono due modi: o direttamente o indirettamente. È come quando a uno gli dicono: ma tu vuoi morire con gli occhi aperti o con gli occhi chiusi? Sciascia voleva morire con gli occhi aperti. Sempre morire uno deve fare: la differenza è essere lucidi, coscienti di star morendo, o essere incoscienti di star morendo. Non cambia assolutamente nulla: ‘n’emerita minchia. Se ti occupi direttamente, cioè con gli occhi aperti, in un certo qual modo, qualche decisione politica, qualche bottone l’avrai pigiato anche tu, puoi monopolizzare anche tu, puoi manipolare anche tu. C’è biscotto che Alessandro Magno abbia deciso in qualche modo la sua vicenda politica e sociale proprie e degli altri? C’è biscotto che Giulio Cesare abbia deciso qualcosa su se stesso e su quelli che gli giravano attorno? C’è biscotto che Napoleone Bonaparte abbia deciso quel che c’era da decidere nel suo tempo? Hanno deciso, hanno fatto, hanno dato, hanno detto. Potrebbe anche essere che la vicenda di Paolo e Francesca così come è successa, così come ce la racconta Francesca è anche causa di Alessandro il macedone! Perché no? Tu credi che Alessandro sia venuto così, dal nulla?
– ma proprio da un cittadino comune, uno privo o di mediocre spessore politico, e anche storico, doveva farsi raccontare le vicende politiche? Lui, il nostro viaggiatore incantato, che era ed è al centro di quelle vicende politiche e sociali che tutti sappiamo?
Per certi versi, farsi raccontare la politica da uno che fa politica, che è di parte, in qualche modo, potrebbe diventare poco attendibile; non è che con questo si voglia dire che chi non è nell’agone politico sia più attendibile, credibile, di uno che, invece, la fa la politica; ma per certi versi lo mette in una posizione di giudizio più trasparente, meno inquinata, anche se parlando di politica, di fatti storici, l’onestà intellettuale è rara. Quante volte abbiamo pensato che la condizione di molte delle anime incontrate è dipesa dalla condotta politica che hanno avuta in vita? Una su tutte quella di Bonifacio VIII? Avrebbe il nostro auctor detto le cose che ha dette di Bonifacio se non fosse stato della fazione opposta al Nostro? Ciacco, per certi versi, è disinteressato, è un cittadino comune. E qui, al sesto canto, abbiamo un giudizio di un cittadino comune che (guarda caso?) coincide colle idee del nostro viandante. Tanto che non possiamo non dire che Ciacco, per certi versi, è l’alter ego del nostro pellegrino incantato. E’ lui che parla con la bocca di Ciacco. Ciacco, che ai suoi tempi, doveva essere piuttosto conosciuta in città, ma che ora è diventata come tutte le anime che gli fanno compagnia, come tutte quelle che si ritrovano ad essere sdraiate in mezzo al fango puzzolente: ombre
ombre che adona
la greve pioggia, e
dove lui e il suo compagno di viaggio pongono
le piante
sovra lor vanità che par persona.
Ciacco, per il semplice fatto che oggi nessuno ci sappia dire con certezza chi egli effettivamente sia stato, è l’immagine pura della vanità che par persona.
Vanità che par persona è Ciacco, così come tutti noi siamo d’altronde, ancora vivi. Ciacco come don Abbondio, che abbonda sulla faccia della terra. Ciacco come altra figura retorica, allegorica; metafora dell’uomo comune, così come cittadino comune è Ciacco che ci rivela la condizione politica di Firenze.
– Noi come Ciacco?
Meno che Ciacco siamo noi! poiché, il nostro auctor, di Ciacco ne ha fatto una sua figura, un suo personaggio, di noi cosa ne avrebbe potuto fare? Dei molti cittadini di Firenze, cosa ne ha fatto? Di don Abbondio, Manzoni ne ha fatto un suo personaggio, una sua metafora dell’uomo codardo, pauroso, che non si prende le responsabilità proprie e del ‘mestiere’ che ha deciso volontariamente di fare. Ti pare figura qualsiasi, uomo qualunque don Abbondio? Don Abbondio era persona che ‘contava’ nel suo villaggio, era persona con una certa istruzione scolastica, don Abbondio il curato. Eppure ci mettiamo a ridere quando leggiamo di don Abbondio, non considerando la nostra personale condizione di uomini che non siamo nemmeno nelle condizioni di don Abbondio. Ciacco: la stessa cosa: cittadino comune che si abbuffava. Lo immaginiamo paccioccone, le gote arrotondate, le battute di quelli che usano mangiar tanto, e in compagnia di amici. Ridiamo di don Abbondio, ridiamo di Ciacco, e, con ciò, ridiamo di noi stessi; meno che vanità che sembriamo persone. Critici si affannano alla scoperta di chi possa mai essere stato Ciacco (Un nome di battesimo? un riflesso del francese Jacques?, di Iacopo, Iacomo, Giacomo, Iaco, Lapo Ciapus, lacobus? Alterazione, contrazione, protonica, postonica di un nome secondo l’istinto popolare? (Feli)ciacco, (Lu)ciacco? Bertacco, Alberto? Ciacco di Buoninsegna? Tuccio di Ciacco? Ciacco di Pietro? Ciacco dellAnguillaia? Ciacco dal Landino? Un soprannome? “Ciaccus lingua tusca porcum sonat; nam gulosus per peccatum gulae porci actibus similatur”, così Guido da Pisa; mentre il Benvenuto “est nomen consequens rei. Ciachus enim dicitur quasi edens, idest vocans cibos”; di un verbo? ‛ acciaccare e, perciò “ammaccare “quindi ” schiacciare”? La Treccani del grande Giovanni, fa osservare che il piatto di una mano che si abbatte fa ‛ciacche’ un difetto fisico? Esempio quello del naso rincagnato ciacco?), ci affanniamo e non facciamo caso che Ciacco non è altro che la figura retorica dei molti uomini che scompaiono alla nostra conoscenza; seppur, ai loro tempi, erano piuttosto conosciute. Vanità Ciacco, metafora della vanità Ciacco. Desaparecido Ciacco. Un cittadino qualunque, comune, vale a dirsi, Ciacco, che alla domanda se vi siano dei giusti ne la città partita, ci informa che ve ne sono solo due, senza però farcene i loro nomi, ma se il nostro viaggiatore incantano vuol sapere le sorti di cinque dei suoi cittadini che di nome fanno:
Farinata e ’l Tegghiaio,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca.
Ciacco prontamente risponde che:
«Ei son tra l’anime più nere:
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere.
Vanità, e in questa vanità provata, ci si affanna ognuno di noi, ancora, a salvarsi. Salvarsi da cosa?
Il povero Ciacco vuol non diventare vanità, non vuol essere vanità, ed è allora che tenta un rimedio, scorge l’ultima sua possibilità, e prega colui che è
per questo ’nferno tratto, colui che fu
, prima che lui stesso fosse disfatto
se
… quando sarà nel dolce mondo
’a la mente altrui lo rechi
il ricordo ci tiene vivi, ci fa vivi.
Caratterizza bene, il nostro signor d’ogni versi, il personaggio Ciacco, questo nostro sconosciuto, ma che ben conosciuto, ai tempi suoi era già: a Ciacco non fa dire chi sono i due in Firenze che sono giusti; prontamente fa dire di dove potrà ritrovare i cinque di cui vuol sapere; altrettanto prontamente si preoccupa per la sua vana persona, pregandolo, quando ritornerà su nel mondo dei vivi, di ravvivare il suo nome; nome di cui, il nostro auctor, non dice apertamente, mantenendo quel tanto di riservatezza, utile a poterlo far dimenticare con lo scorrere dei tempi, tanto che, oggi, abbiamo perso il suo vero nome, la sua vera origine, la sua vita. Ma indizi ci dicono che non doveva essere un fiorentino di nascita e che quel nome Ciacco non è un nome, ma un soprannome che deriva dal suo vizio.
Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
C’è da aggiungere altro? Firenze non è la città di Ciacco, ma la città del nostro auctor.
Ma seco tenne Ciacco in la vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco
ancora una volta, con quel voi (voi di Firenze, voi cittadini di Firenze, un voi che non include) mi avete chiamato con questo nome, un nome che fa riferimento alla
dannosa colpa de la gola,
Vanità, dicevamo..
Attraverso la visione di video tratti da rare immagini di vecchi cinegiornali che venivano proiettati prima dei film nei cinematografi della prima metà del Novecento, oggi ci si può immergere dentro le rare immagini in movimento di quei tempi: lo sport, la cultura, i viaggi e politica, la prima e la seconda guerra mondiale, i drammi quotidiani; una panoramica, insomma, sulla vita sociale di quegli anni che rievocano i locali notturni, i tram che scorrono lungo i binari, i ragazzi che giocano per strada, le dame indaffarate, cani per strada che convivono, persone che danzano, e tutto quello che succedeva sembra possa toccarsi con mano, testimoniandoci la vita d’allora.
In questo ha ragione quel tale professor David Wark Griffith, il quale vaticinò la sostituzione dei libri di storia con questi filmati, convinto, com’era, che la loro potenza descrittivo-evocativa sia in grado, e meglio, per certi versi, del libro, poiché capace di toccare con più istintività anche la nostra parte emotiva; in modo quasi naturale; si interiorizzano meglio i fatti che vediamo, insomma, al contrario di quelli che dobbiamo leggere.
Persone che sorridono davanti la cinepresa.
Qualcuno si vede che s’abbassa apposta la schiena, proiettandosi in avanti affinché possa essere certo di poter far parte del riquadro visivo, d’essere filmato anche lui dalla macchina da presa in azione.
Un viavai di persone come formiche in un formicaio.
Una porta girevole che scorre attraversata da distinte dame e gentiluomini con la bombetta sulla testa.
Il poliziotto a cavallo.
C’è una ‘moderna’ automobile col conducente che aspetta, ma si vedono molti carri ancora trainati da cavalli.
Il netturbino che ramazza.
Poche sono le persone che non si girano verso la macchina da presa, molti di loro sorridono nel guardarla.
Bambini che si divertono a bighellonare per strada e che invecchieranno, diventeranno vecchi; bambini che da chissà quanto tempo ora è che sono morti, ombre, cose vane, nulla.
C’è anche un cane, scodinzola la sua coda, scopre qualcosa da mangiare a terra e tenta di farsela propria. L’età media di vita di un cane è non più di quindici anni.
Il Titanic, con i suoi passeggeri che fanno le prove di evacuazione e indossano ognuno di loro il proprio salvagente.
Hai visto Franz Reichelt che prova il suo prototipo di paracadute? salta dopo un momento di esitazione, poi: giù, dalla Tour Eiffel, per poi schiantarsi a terra di fronte al pubblico che lo osserva (pagante, canterebbe De Gregori).
Il disastro del dirigibile Hindenburg, mentre che precipita in seguito a un incendio: delle 97 persone a bordo, 35 moriranno.
Soldati impegnati nelle trincee.
C’è un buffo momento di Hitler nel mentre che accenna a un passo di danza strana. Saltella, come uno strano uccello, nel terrazzo che ha l’edificio, costruito apposta per lui, sulla cima del Kehlstein, e che è riconosciuto da tutti noi cittadini comuni come quel Eagle’s nest dove il Furer di tanto in tanto andava a riposare: non molto, considerati i suoi notori disturbi di vertigine, al contrario della sua compagna Eva Braun, alla quale invece piaceva trascorrere lunghi periodi di villeggiatura in questo posto.
Imbelle come l’albatro di Baudelaire. Ed è allora che mi dico: chissà se Hitler sarebbe stato meglio farlo volare che farlo camminare?
ombre
, e noi che adesso vediamo quelle immagini, non siamo altro che il nostro viaggiatore incantato in compagnia del suo maestro Virgilio, sovra lor vanità che paiono persone, ombre divenute, fin d’allora, un attimo-secondo-dopo da quella impregnatura.
Una volta tentai di fare una foto a una anziana signora che s’era affacciata dalla sua finestrella: si rifiutò: rimanere fissati su un qualsiasi supporto si rischia d’aver rubata l’anima stessa. Quanti sogni, quante speranze. La sua anima ora chissà dov’è.
Vi sono cittadini giusti? È una domanda che ci si ripete fin dalle antiche scritture. Fin da sempre ci si è chiesti: vi sono cittadini giusti? E ad ogni domanda non ci resta che rispondere: due. Chi ha detto che il mondo regge fino a quando ci saranno almeno due giusti? Alcuni dicono sette. Giusto. Giustizia. Questo nostro sconosciuto Ciacco ne ha individuati due, senza per altro farne i nomi, nella sola Firenze, in una città fra le più ragguardevoli dell’Europa che contava intorno al 1280 tra i quaranta e i cinquantamila abitanti, di anime, di vanità: una bella media: che aveva da lamentarsi il nostro buon pellegrino incantato, lui che s’era perso, assieme a tutti i suoi della sua epoca?
Giusto, dunque. Giusti sono coloro che “non sono né santi né eroi. Sono uomini e donne. Di loro non importa il Paese di provenienza, la confessione religiosa, la lingua. Possono essere laici o credenti. Essi sono soprattutto cittadini del mondo. Questi cento ritratti d’artista ne raccontano la storia, l’esempio, ma soprattutto ne rivelano l’appartenenza a un universo sovranazionale fatto di tenacia, di coraggio e di un supremo senso per la vita e per la libertà dell’uomo”. affermano Gabriele Nissim e Jean Blanchaert, autori del libro edito dalla Mondadori Electa 100 giusti del mondo. Il Talmud ci dice che “ Chi salva una vita, salva il mondo intero”. Dopo i fatti sciagurati della seconda guerra mondiale, per gli ebrei, giusto tra le nazioni è chi ha agito in modo eroico a rischio della propria vita e senza interesse personale per salvare anche un solo ebreo dal genocidio nazista” trovo scritto su Wikipedia.
Secondo la leggenda dei 36 giusti che ci rammenta il Talmud, in ogni generazione ci sono trentasei lamedvavnikim. dalla condotta di questi 36 donne o uomini giusti ignoti al mondo e a se stessi, dipende il destino dell’umanità. Il nostro signor d’ogni versi conosceva questa leggenda? Credo di si, tanto è che non rivela i nomi dei due giusti che la sua generazione in Firenze detiene. L’amicizia con Immanuele Romano, poeta dell’erotico al massimo grado, nacque in Roma ai tempi di quello sciagurato incarico diplomatico. Questi trentasei giusti fanno lavori umili, secondo questa leggenda, e ad ogni giusto che muore, ne sovviene un altro. Il loro potere viene esercitato ogni qual volta incombe un pericolo, una minaccia su Israele. Eliminato il pericolo, il giusto scompare nel nulla, così come è comparso dal nulla nel momento del pericolo. E se alla locuzione Israele, diamo il significato di umanità redenta da Cristo…il gioco è fatto. Ma oltre alla leggenda si è del parere che i giusti agiscono anche inconsapevolmente ogni giorno, e ad ogni giorno che nasce 36 giusti ignoti anche a loro medesimi, salvano il mondo dalla distruzione del pianeta Terra.
I giusti non è che debbano necessariamente essere persone colte, sapienti, intelligenti, alti professionisti, possono anche essere scarti della società.
– non dirmi che anche un malfattore più essere quel giusto che salva il mondo?
Anche un ladro lo può essere. Il giusto, non sa di operare il bene, anche con la sua azione eticamente sconfortante.
– e una sgualdrina?
Anche la puttana può dare il suo contributo giornaliero, anche lei può, in quel giorno, essere una di quei immancabili giusti che ogni giorno ci dona il mondo.
– no, non può essere che – che ne so – una veggente, una bugiarda, un idiota, un fannullone possa essere un giusto.
Ti dico di si, anche questi lo possono essere. Ognuno di loro può innescare ‘involontariamente’ quel particolare meccanismo per cui trasformazione profondamente un altro essere, che lo coinvolge così come una intera comunità.
Tutti abbiamo un limite, anche il più capace, anche il più sapiente, e ogni essere trae maturità ed esperienza da questi esseri, esseri anche negativi.
Se non avessimo dei limiti non potremmo trarre nessuna esperienza affinché si possa maturare.
Anche l’essere più prodigiosamente sapiente può imparare dal primo idiota del villaggio. E la Provvidenza ne è il disegno.
Dai diamanti non nasce niente,
…. e dal letame nascono i fior
dice una canzone di De Andrè.
Involontariamente s’annida la purezza nel suo contrario ti dico.
Il nostro pellegrino incantato si ritrova, senza neppur lui come, su una strada non dritta, su una strada tortuosa, su una strada solitaria, eppure, solo così potrà arrivare a vedere Dio direttamente in faccia.
Attraverso il sesso, la sessualità del Cantico dei cantici, s’arriva a comprendere che sesso non è solo peccato, ma sesso e desiderio sono imprescindibili, indispensabili per ascendere verso l’alto delle cose immateriali, pure.
– si, ma… il ladro, l’assassino, la puttana…l’infame, l’imbroglione, l’idiota, il cialtrone, il politico disonesto…
Non disperiamo, non disprezziamo nulla cosa e nessuno: proprio quando tutto ci sembra impossibile, proprio quando tutto ci sembra finito, proprio quando l’inferno sembra aver prevalso su tutto, ogni cosa viene a ritrovarsi al suo posto. Ognuno di noi ha il suo destino, la sua ora: si nasce in un giorno che abbiamo appreso, si morirà in un altro che dovremo conoscere. Non ci si deve far sopraffare più di tanto dalle preoccupazioni: ripensa come Churchill ripensò a quell’uomo che sul suo letto di morte, ripensò a tutta la sua vita piena di preoccupazioni: la maggior parte delle quali, non gli erano accadute, o non erano le preoccupazioni che temeva. Rivedo i vecchi cinegiornali di Hitler, i suoi momenti di gloria, di felicità, di appagamento politico, ma come disse credo lo stesso Churchill: solo un pazzo può invadere la Russia, sapendo che gli si rivolterà contro tutto il mondo.

 

 

 

Sei

tratto da DURANTE, XXXIV CANTO DELL’INFERNO

PRIMA APPARIZIONE DI LUCIFERO

“Sappiate che in questa terra vi è un seggio e la dimora del diavolo, e il suo regno.
(Il libro della scala di Maometto, cap. LX, pag. 231, ed. BUR)
« Please allow me to introduce myself
I’m a man of wealth and taste »:
L’amore divide
L’odio unisce.
Il male è il male;
il bene è il bene.
In egual modo Bene e Male.
– Ma te lo immagini?, nemmeno Michele osò proferire parola contro me!
In egual modo durezza prepotenza schiavitù pericoli segretezza stoicismo tentazioni e diavolerie varie di ogni tipo, malvagità mostruosità tirannia rapacità,
viscido vario
indispensabili all’elevazione dell’uomo
quanto il suo contrario!
(una voce sottaciuta ti dice, piano, soffusa: – Al di là, poniti, al di là, al di là del bene, del male. “…grati a Dio, al diavolo, alla pecora e al verme che sono in noi, curiosi fino al vizio, indagatori fino alla crudeltà, con dita pronte all’inafferrabile, con denti e stomaco per l’indigeribile,” etc, etc.(II parte, pag. 77, Al di là del bene e del male)
Ti darò ogni cosa – ascoltami – affinché tu possa non avere più alcuna sofferenza, alcun bisogno.
L’alto e il basso.
In alto tutto è stato già deciso?, non mi pare proprio, credimi:
Dio non è onnipotente così come si vuol far credere – non hai letto Kazantzakis? È da tutti noi che dipende la Sua salvezza! Capisci amico mio? Il tuo amico s’è messo in gioco, in discussione.
E io mi trovo ovunque.
Sottane, nascosto dentro una foglia di lattuga, anche nell’acquasanta, amico, con cui ti fai il segno della croce.
Ascoltami. Tutti noi, tu, possiamo opporci a Lui:
è la libertà, è la sfida di Dio a Se stesso.
Ricordi il dialogo tra Davide e Samuele? (Davide, Carlo Coccioli, pag 54 ed Oscar Mondadori)
Chi glielo ha detto: io, per caso?
In basso tutto è ancora in svolgimento?
Una linea verticale.
Non guardare in alto, non potrai ‘vedere in anticipo la conclusione delle cose che continuano ad accadere in basso’
Io sono certezza
Appartengo alla singolarità dei geni.
Pensiero e intuizione del nostro Signore.
Per questo, anche se dicono che sono ‘caduto’,
la felicità costante sarà il mio dono.
Non vedi come non abbia perso il mio scintillante fulgore?
..in statura e in portamento
Torreggi(o) superbo: ancor (mia) Forma
Perduto non (h)a(…) tutto il nativo
Scintillante fulgore, e compar(e)
Nulla men che un Arcangel rovinato
(…)
Come allor (…)
(…)
(…) rifulg(o) su gli altri tutti,
(…)
Ma sotto ciglia di coraggio intrepido
E di considerato orgoglio, invigil(o)
Alla vendetta.
dice il poeta non ricordi?
Ogni cosa che chiedi ti sarà data.
– Chiedi e ti sarà dato.
Affinché tu possa ben dire cosa sia il bene e cosa il male.
E di cosa è capace il Bene, di cosa il Male?
Non sai che “All’origine dei prodigi c’è sempre il Male”?
Giuda chiede al Rabbi perché il cieco che lui guarisce è nato cieco: perché hanno peccato i suoi genitori? Perché ha peccato lui? Noooo, risponde il Rabbi, noooo lui è nato cieco affinché si manifestino le opere di Dio: sennò come farà il Rabbi a far dei prodigi?
Ma, si chiede lo stesso Giuda: non era meglio manifestare le opere di Dio non facendo nascere ciechi nati? Storpi nati?
– Chiedi e ti sarà dato, dammi retta:
L’Altro – stanne certo – non Ti darà tutto.
<> non lo sai? così dice Elmina
Affinché io possa al fine vincere chi vuol dividere
Chi vede nella sofferenza la crescita, la futura felicità.
<> non lo sai? Così dice Elmina: -ahahaha! <> ahahahaha! Così dice Elmina
Senza alcun sacrificio otterrai quel che vuoi: in eterno
(Ti sembra giusto che un uomo nonostante pratichi per quarant’anni l’àskesis – esercizio che logora la vita – non riesca a raggiungere Dio? solo perché tiene accanto a se una piccola brocca per l’acqua fresca!)
Io ho di Lui la visuale più ampia, sappilo:
ecco perché Lo evito (Lo evito?):
perché Lo conosco, so quanto vale:
io, il più vecchio amico della Conoscenza.
Saggezza.
Oro, amore, potere, vittoria non ti saranno mai negate, ascoltami.
Ascolta la pioggia.
La fame, il freddo, la malattia, la noia, il disprezzo, l’ingiustizia, la bruttezza e la sofferenza non potranno avere il sopravvento su di te
: – ricordalo
Tutto questo io ti offro, fin da subito
In piena tua coscienza, in pieno tuo libero voler, anche subdolamente attraverso l’ipocrisia della tua apparenza.
E da subito puoi ben arrivare a comprendere, delle due cose in lotta,
da quale parte stare.
– chi ha posto la lotta?
– chi ha deciso di mettersi nella peggiore delle ipotesi?
– chi ha deciso di non essere onnipotente mettendoci nella condizioni di stare a braccia conserte aspettando la sua sicura vittoria?
– chi ha deciso che è solo da noi tutti che dipende la Sua salvezza? (anche mia).
– chi ha deciso che e solo se Lui si salva che ci salviamo ? (anche io)
“Facciamo l’uomo a Nostra immagine, a Nostra somiglianza!”:
evidentemente quest’analogia deliberata fra la creatura mortale e il Non-Tempo Non-Spazio implica un rischio.”
Ricordi le parole messe in bocca a Samuele da Coccioli? (Davide pag. 54)
Scegli.
Hai paura?
Pensi che sia tutto un inganno?
Gli angeli sono geni singolari te l’ho detto prima.
Particelle elementari.
Numeri primi.
Ho lasciato vuoto il trono in cui mi trovavo, e da dove ‘folgorato’ sono precipitato!
CADUTO!
Owoww
Owoww
Owoww
Owoww
io ‘nobil creato
più ch’altra creatura’,
per salire in un altro cielo,
al di sopra delle stelle, al di sopra di Dio potrò erigere il mio trono,
siederò sul monte dell’assemblea,
ai confini del Settentrione, non odi la voce di Isaia?, eh?
Salirò sulle nubi più alte,
ma non
sarò simile all’Altissimo
poiché il mio cielo è altrove.
Pensi che alla fine tutto sarà vano, eh?
E non ti rimarranno che un pugno di mosche? Eh?
Tutto falso: quel che prometto mantengo: sempre!
E se ti dico che avrai tutte queste cose, le avrai: con assoluta certezza
Colla stessa assoluta certezza della potenza di Dio, esistente!
per sempre, in eterno, fino alla fine dei tempi
se solo le desidererai
se solo saremo in grado di far prevalere sull’Altro
tutte le cose che Io Sono.
Sta a te decidere
Unione o Divisione?
Gioia o Urlo spietato?
Materia o spirito?
Pensaci
Ti tento? Eh?
Chi ha detto siate cauti come i serpenti e schietti come le colombe? – io?
Questa cosa non potrebbe essere proprio un mio consiglio?
Ti tento
affinché tutti stiano uniti in quell’eterno eden primordiale di abbondanza d’ogni cosa
e ch’è finito solo perché la superbia della mia potenza ha osato aprirvi gli occhi della conoscenza assoluta che è sola di Dio e di Dio deve rimanere!
Scientes bonum et malum voglio darti
(aumentiamo il ritmo, l’intensità della samba)
Perché la fatica del salire? “whoo whoo”
Perché non discendere agevolmente nell’abisso del benessere eterno? “whoo whoo”
Perché scegliere il Grande Lottatore, anziché l’amico che t’abbraccia e ti da tutto senza alcuna fatica, subito e non dopo? “whoo whoo”
Ha ragione padre Makarios:
“Dio è seduto sulla vetta della fame, della sete, del dolore, mentre io sto seduto sulla vetta della vita confortevole.”.
Che il mio trono venga riservato a quel miserabile di Assisi!
(il ricco Pietro Valdo era la stessa stoffa,
e non l’avete riconosciuto,
lo avete boicottato
e poi dite che sono io a tenere alla ricchezza: ammazzateli tuttiiiii. Il Signore penserà a riconoscere i suoi.)
Perché Dio vuole l’umiltà dei miserabili e non la potenza dell’angelo più splendente che abbia creato per Lui? “whoo whoo”
“Io, affabile gentiluomo dell’alta società moscovita”
Io “Nyarlathotep: freddo, malvagio e disumano come il ghiaccio”
Sebb-haq-qua Nyarlathotep!
(a bassa voce): – Necronomicon
Ià! Ià! Shub-Niggurath!
La capra dai mille capretti!
A guardarmi da fuori sembro un tedesco? Sembro proprio un forestiero?
Umiltà! “whoo whoo”
Fa crescere l’umiltà? “whoo whoo”
Potrebbe realizzarsi qualcosa con l’umiltà?
Perché il porto da cui salpare in un mare selvaggio e tempestoso in cui lottare tutta la vita, e non quello a cui approdare? “whoo whoo”
Perché non scegliere il benvenuto anziché il buon viaggio? “whoo whoo”
Perché affrontare le tempeste, anziché riposare su soffici nuvole? “whoo whoo”
Perché lottare ‘seguendo le orme insanguinate di Cristo?’ “whoo whoo”
Perché tormentare il tuo corpo? “whoo whoo”
Perché rifiutare le gioie dei cinque sensi? “whoo whoo”
Perché mettere la cenere nel cibo quando ci si sente dentro il demone dell’ingordigia che ti fa venire l’acquolina in bocca? “whoo whoo”
Perché non accrescere la propria consapevolezza attraverso la scienza del bene e del male?
Bene, Male, morale, sentimenti:
tutte “finzioni vittoriane” li chiama quel povero Lovecraft che disprezza il danaro:
ora s’inizia a considerare anche in occidente la filosofia indiana del neti-neti: in certi casi – solo in certi? – il codice cosiddetto ‘morale’ si può abrogare lasciando la scelta ‘morale’ all’individuo.
Ah gl’indiani!
Ah, si metteva paura il miserabile d’Assisi, quando, io, di dietro, l’osservavo, spesso, di sera, mentre lui pregava.
Pregava, il povero pazzo! “whoo whoo”
Pregava e aveva l’impressione di vedermi dietro a lui! “whoo whoo”
I russi m’avrebbero preso per un Tedesco.
Pregava! “whoo whoo”
Nella solitudine di una chiesetta.
Pregava, dentro una tana come di quella delle volpi del Vangelo! “whoo whoo”
-Rammenti?
Pregava! “whoo whoo”
Passi rapidi e leggeri erano i miei dietro lui. “whoo whoo”
La mia testa gli sembrava orribile! “whoo whoo”
Non essere stupido:
credi veramente che io sia
più nero dell’inchiostro
con occhi rossi come il fuoco
e puzzo oltre misura
e con una voce più potente del tuono,
insomma con
un aspetto spaventosamente orribile?
<> dice una nota di Gogol’
<> dice
“sono ariani, sono anticristi”” dice di me, di noi
“”diavoli in carne”
“Non sapete che sono luterani la più parte, che ammazzare un sacerdote l’hanno per opera meritoria?”.
Che bello vedervi paragonarmi sempre a quelle cose o persone che a voi vi pajono strani o sbagliati: luterano?, a me?
Che fantasia, ragazzi:
Angeli per metà fuoco e per metà neve,
angeli di tuono e di lampo,
di terra e mare
di vento e acqua
di ferro e fuoco
di argento e oro
di gloria e lode
oppure di solo fulgido splendore
,ma un angelo a forma di gallo, poi, la cosa è ridicola: capelli lunghi sulle sue spalle, ali di tutti i colori, i colori più belli che si siano mai visti.
Io che ero stato il più grande, il principe dei principi, il più bello di tutti loro!
: Avvolti in vesti di colore verde, più dello smeraldo, odoranti più del muschio e dell’ambra.
Gli sembrava, a lui, che volessi leggere quel che lui leggeva, ah!
Perché, nel cuore dell’inverno, immergersi in un ruscello gelato?
Trascinarti più volte nella pubblica piazza, nudo, mezzo nudo, per un pezzo di lardo mangiato di nascosto, solo perché t’eri ridotto il corpo in un povero brandello.
Perché vegliare di notte, digiunare, patire il freddo, per poi, alla fine della tua vita aver compassione perfino del tuo stesso corpo e dirgli:“Perdonami fratello asino; ti ho tormentato molto”
‘Transustanziare in spirito l’uomo che è dentro di te perché si unisca a Dio’? all’Amore, al Bene? (pag. 345 Rapporto al Greco)
Sono io a fare venire il dubbio di santità?
Il dubbio, io.
Nel silenzio io ti chiamo, come Lui.
(a bassa voce) Solo l’egoismo esiste.
Il gufo che stride.
Il mormorìo continuo nelle tue orecchie: spaventevole. Di notte.
(a bassa voce) ‘Solo l’egoismo esiste. Freddo, intatto e radioso’
– Mamma, mammina: ti voglio bene, tanto bene!
E’ una sfida: tutti appartengono a me!
Chi può ritenersi vero servo di Dio, se non ha provato nessuna delle mie tentazioni?
E’ inutile che preghi: è non ci indurre in ……e tutto il resto…..
<<…non vedi che i nomi di tutti gli uomini che furono, che sono e che saranno fino alla fine del mondo sono tutti scritti in questa tavola, e anche la morte cui ciascuno di loro sarà destinato, e il bene e il male che Dio ha già preparato per loro secondo i meriti?…>> (Il libro della scala di Maometto, cap.VII, pag. 49, ed. BUR)
In questo Io e Lui siamo la stessa cosa, il rovescio della stessa medaglia.
Io sono il dio cattivo e Lui quello buono.
Ma dove sta la bontà, dove la cattiveria?
Può il mondo fare a meno del maligno?
Dalla miseria delle cose la conoscenza del valore delle cose semplici.
Eh? Che te ne pare?
Non si chiama, questa, collaborazione?
Dio Buono e dio cattivo per dare tutte le colpe al dio cattivo? coomodoo
Collaboriamo, Io e Lui, che credi!?
Frate Bernardo da Quintavalle? Fratello Rufino?
Io posso essere anche il crocifisso, se vuoi! Te lo faccio vedere?
– Ci hai mai pensato?
– ci ho pensato: da ragazzo: ho visto un’ombra: uno in croce: e non era sicuramente Lui, il Cristo, dico, ma Tu.
un, crocifisso, dispettoso e fero
ne la sua vista,… (pg.XVII)
– Hai mai pensato che le estasi di Teresa potessero essere mie perversioni sessuali?
Qualcuno si pone la domanda: – chi ha creato Dio?
Che stupidaggini, e da questa domanda trarne il suo dado: Dio non esiste.
Dio come infinito processo a ritroso!
Collaboriamo, Io e Lui, eh?
Scopri la differenza, se ne sei capace.
Il Demonio o Cristo? In quel crocifisso
Apri la bocca perché io vi ci cachi, mi dirai.
« If you meet me, have some courtesy
Have some sympathy, and some taste
Use all your well-learned politesse
Or I’ll lay your soul to waste »
(Dal testo della canzone Sympathy for the Devil)
Io sono la materia (questa è opera mia i Pauliciani hanno ragione)
Ma io sono spirito, ricordi? Il più splendente spirito (e perché debbo appartenere alla Sua opera?).
Io sono la carne
Io sono il corpo
Con me puoi toccare
Con me puoi guardare
Con me puoi odorare
Con me puoi godere di tutte le cose
Che tocchi
Che guardi
Che respiri
Con me tutte le cose
Che tocchi
Che guardi
Che respiri
della scienza
potranno essere tue
provabili
Scopribili fino alla loro radice primordiale – il dottor Richard Dawkins ha ragione!
Io sono certezza.
Io sono il limite.
La verità che si può raggiungere.
Perché il ritorno allo Spirito, all’anima?
Quando quello Spirito, quell’anima s’è data alla materia, alla carne, al corpo.
Pensaci bene quale sia il Dovere supremo dell’uomo che lotta.
Lotta? Quale lotta?
Stai bene qui, c’è calma, sicurezza, non ti muovere
Godi, prendi tutto e assaggia tutto quel che le cose posson dare alla tua carne, al tuo corpo.
Abbandona ogni sacrificio
Là è la croce,
Qua è l’eterno soddisfacimento della carne, dei 5 sensi che essa riesce a percepire.
E’ vera Vetta la Passione, il martirio, la Croce?
Qua le stille del benessere eterno
Là il sangue di Cristo che stilla a goccia a goccia sul tuo corpo sofferente.
Io t’offro la felicità
Di là la sofferenza e il sacrificio, la lotta, il conflitto.
– “solo il dolore lega alla vita (?), solo il dolore è in grado di rivelarla” (?)
Lascia stare, sennò ti ridurrai a desiderare i piedi del tuo nemico in bocca.
Da uno schiaffo sulla guancia sinistra ne chiederai un altro nella tua guancia destra.
Inizierai con l’odiare tuo padre, tua madre, tua moglie, i tuoi figlioli, e i tuoi fratelli, e le tue sorelle, e persino te stesso per cercare Lui!
Inizierai col chiamare tutti fratelli, anche il fuoco che brucerà la tua veste, la tua carne.
Tenterai di salvare te stesso perdendo la tua vita.
Consegnerai la tunica a chi ti toglierà il mantello.
Perderai la tua unica vita per la tua presunta anima, tu spirito.
Terrai gli occhi fissi a terra o rivolti al cielo, alla sola vista d’una donna: ogni pia donna sarà Cristo, per te.
Non oserai camminare per paura di calpestare ogni miserabile cosa:
due fili di paglia o due pezzetti di legno fatti a croce.
Vexilla Regis prodeunt?
Lascia perdere l’inno del venerdì santo!
Lascia perdere il primo verso dell’inno alla Croce di Venanzio Fortunato
<>
Lascia perdere l’inno del venerdì santo!
Fatti aprire le labbra da me.
So quanto ti è difficile la scelta ufficiale:
La teoria, la dottrina ti impedisce ogni libera azione
Ma so che ognuno di voi ha altra condotta pratica
E crede di confermare l’altra scelta: quello dello Spirito, quella dell’Anima.
Quante volte mi sono accontentato di questa ipocrita scelta
Ma io non ci tengo, non ho rancori alcuni.
Non fare lo schizzinoso con me, abbi un po’ di coerenza, coraggio: «I shouted out “Who killed the Kennedys?” when after all it was you and me,: – ricordi? “whoo whoo”
Ma a me non serve nessuna coerenza, anzi: meno coerenza = più virtù, la mia speciale virtù.
La coerenza la lascio all’altra antichissima oscura forza sempre in lotta
Poiché so’ che è l’ipocrisia che domina il mondo e riconosce la vera scelta d’ognuno di voi
Facendovi perdere nella carne, nel corpo, nella goduria.
Transustanziare la carne in Spirito?
Ma la carne è già Spirito! Perché farvi ritorno?
babazzu
Abbandonare la terra?
Quella Terra che, al contrario di quel che promette lo Spirito, con la mia materia, la mia carne, il mio corpo e le mie ricchezze potrebbero essere, non una prova generale per l’ascesa verso lo speranzoso cielo etereo del sacrificio della Divisione e della continua lotta per la conquista della perfezione, dell’impegno eterno; ma il presente materiale e certo del benessere del Piacere per tutti e l’Unione d’ogni cosa e d’ogni idea, senza il sacrificio della lotta.
Ora che ti ho spiegato come stanno i fatti, a te la scelta, seppur anche ipocrita, nascosta; e, comunque sia, un consiglio, quello stesso consiglio che un giorno un prete diede a Nikos Kazantzakis:
<>.
Con l’aggiunta di quest’altra cosa: <>.
La decadenza non è l’opera subdola e infame del sottoscritto, ma di quelli che non fanno nessuna di queste due scelte; anche se, naturalmente, la preferisco all’altra.
Ascolta: “L’angelo non è altro – mi senti? – non è altro che un diavolo più raffinato.” (Il Rapporto al Greco, cap. 21, pag. 361) E qui mi fermo,
Fa’
Ciò che
Vuoi
non voglio andar oltre a questo discorso, poiché solo quando avrò avuto il Suo perdono, solo quando Io e Lui saremo (forse?) di nuovo una stessa sola cosa, solo allora avrà voluto significare che la mia ribellione, la mia lotta per la vittoria finale è stata vana e la materia e tutto quello che a lei ne è derivato, avrà perso ogni significato.
Non dargli aiuto: mai!
Lui ha bisogno del tuo aiuto, ti dico che non è più onnipotente: credimi: grida:
– AIUTO!
– SALVAMI!
Fedele alla povertà?
Semplice e puro?, virtuoso? Intelligente ed eloquente?, lo spirito rivolto alle cose celesti?, la preghiera che non cessa mai? Paziente? Forte di corpo e d’anima? Caritatevole? Perfetto ubbidiente come il cadavere?
Oh yeah, get on down
Oh yeah
Oh yeah!
Tell me baby, whats my name
Tell me honey, can ya guess my name
Tell me baby, what’s my name
I tell you one time, you’re to blame
who Ooo, who Ooo, who Ooo, who, who Ooo, who, who Ooo,
who Ooo, who, who Oh, yeah
Chi, chi, chi
CHI?
Ma muoio, muoioooo: eternamente voglio il male, aaaaaaaah.. ma, eternamente compio il bene ahahahahahaha, così almeno dice e suppone quel demone di Goethe!
Ma non scartare una ipotesi, forse la più insinuante, la più sublime: non sai che non vi è presenza che non provenga dall’Uno?, che Satana non sia altro che “una specie di angelo incaricato di particolare missione”? così come intuì il Davide di Coccioli?
Toglimi dalla vista Benedetta Stein!!! Ti dico.

 

 

 

Sette

tratto da DURANTE, XV canto del Paradiso

Nomi, oggi non sono nient’altro che nomi. Anime sono, potremmo dire. Parole, com’è stato in origine. Fu il verbo. Non sai nemmeno il perché: sai solo che hanno qualcosa che ti spingono ad interessarti su questi nomi. E li cerchi. Sapere su di loro vuoi. E non sai perché possa succedere tutto ciò. Magari, qualche volta, ti sforzi, fai la stessa cosa con altri nomi, anche; invece, la cosa non funziona, con altri nomi, non funziona. Eppure potrebbero avere referenze migliori che non i tuoi nomi, con le tue anime, le tue parole preferite. Non succede, e basta. Scopri, magari, che quei nomi, quelle anime, quelle parole hanno commesso cose che avrebbero potuto, proprio all’inizio, far cadere quell’interesse per cui quei nomi, quelle anime, quelle parole hanno acquistato un’importanza, sono divenute per te qualcosa di speciale. Nomi. Nemmeno il viso conosci di alcuni. Solo nomi. Vorresti conoscerne il viso. Per anni non possiedi altro che il nome, e vorresti il suo viso. Poi, dopo anni di attese vane, ricerche vane, arrivi al suo volto e ti sembra di toccare il cielo con le mani. Il tuo nome, la tua anima, la tua parola ha un volto. Hai immaginato per anni il suo viso. Ha dei baffi. Baffi neri, forse castano scuri: ma è una foto in bianco e nero, ti dici, come puoi dire se erano neri o marrone? Sei felice, però, un po’ deluso, però. Il nome ha un viso che non è quello che per anni hai portato in seno alla tua mente, alla tua memoria, che ti aspettavi. I miti sono allo stesso modo. Chissà com’era la calligrafia di quell’altro? A possederne oggi uno scritto originale con la sua grafia, composta dalla mano di quel nome, con qualsiasi mezzo, su qualsiasi materiale, una traccia abituale, segno abituale usato con frequenza dal nostro nome, affinché se ne possa individuarne la personalità. Una ricerca perenne dunque, ossessiva, maniacale si potrebbe dire, per certi versi. Ogni cosa della sua vita diventa di fondamentale importanza per te, capisci? Se solo possedessi un suo pensiero, una sua frase! Di qualcuno d’essi, hai visto, ragazzo, un filmato. Allora nemmeno sapevi chi fosse. Lo vedevi, e non vedevi l’ora che finisse, per poi startene tranquillo e beato a vedere l’eroe, il tuo mito che, poc’anzi, il nostro, aveva cercato di far conoscere meglio, leggendolo. Leggeva, leggeva lui, e non vedevi l’ora che finisse, tu. Gli occhi come una ferita ha. Occhi che cercavano di vedere qualcosa al di là delle palpebre, troppo strette per farne uscire quegli occhi. Occhi azzurrissimi, cerulea come dell’acqua di un fiume d’acqua limpida e fresca che a trovane una così è cosa difficile. Delirante fermento sarà leggere le sue cose. Qualcuno dice che non c’è peggior lettore di chi vuol leggere le proprie poesie. Non c’è migliore riprova che tale detto è falso quando un giorno senti che un poeta si mette lì a leggere le sue poesie, e scopri che nessuno mai potrà leggere in quel modo meraviglioso in cui quel poeta legge le sue poesie. E a un attore dicono: vuoi leggere le poesie del figlio di Maria Lunardini? Del figlio di Maria Lunardini? No! Ché non saprei proprio come fare meglio di come lui stesso fa. In ginocchio, decisa sta Maria Lunardini. Come una statua è: davanti all’Eternità. Maria guarderà suo figlio solo quando Lui l’avrà perdonato, solo allora lei ricorderà d’averlo atteso tanto, suo figlio Giuseppe, e solo allora avrà negli occhi un rapido sospiro la Maria Lunardini. Sono piccoli e puri lapislazzuli i suoi occhi che sprizzano curiosità, ferita che più ferita migliore non ce ne può essere, che ti sfidano, che ti scrutano come ti potrebbero scrutare gli occhi di un satiro, che guardano in alto chi sa chi guardano, chissà che cosa. Il suo basco, poi…guarda l’infinito quando parla il figlio di Maria Lunardini. Sgaddarizza gli occhi lui, e cerca le parole nell’aria lui, in quel punto lontano che è l’infinito, la semplicità dei semplici, dei semplici che non hanno nulla di semplice e tutto complicato, come solo i complicati semplici possono essere, fare. Pare semplice eppure riesce a contenere cose come le poesie che pajono semplici, ma che nella loro semplicità contengono tutte di quelle cose che nemmeno te l’aspettavi. Fa gridare la sua ‘erre’ Giuseppe. Poeta vero a Pozzuoli e al mondo. Ammantatore. E lo dici padre, lo dici putativo, tu. E, per te, è putativo, oggettivamente, perché è da lui che hai avuto quel seme che dovevi avere di umanità, di moralità, di poesia, anche quando scopri che ha dato del “signore del rinascimento” a un signore che signore non è, non è stato, non sarà. E ti domandi come possa conciliare Giuseppe il suo illuminarsi d’immenso con la sua posizione politica? Ci si può illuminare d’immenso quando viene a mancare un’alta moralità un’alta umanità? Quando si vengono ad assumere posizioni politiche che perseguitano gli esseri umani solo per il loro colore della pelle, per la loro origine religiosa, per il loro modo di esprimersi attraverso l’arte? Ma i padri sono padri, e restano padri anche quando scopri che non è tutto oro quel che ha fatto luccicare tuo padre. Contraddizione in termine si dirà allora. Un fascista è stato tuo padre putativo? Anche un fascista. Allarga le sue braccia e accenna un sorriso, e guarda ancora lontano. Ride colla bocca e cogli occhi assieme. Cerca le parole. Quando parla, fa larghi gesti. Nerboruto. Scruta, trova, ne è felice di averne trovate di parole. Poesie brevi che nascono o che trova che ci vogliono mesi, poesie lunghe che nascono o che trova che ci vuole un solo istante, in una sola nottata. E lui stesso dice di non sapere come possano nascere in lui, come possa essere così fortunato a trovarle lui, le parole. Cammina cammina e trova monetine per terra. Monetine che, a ben guardare, diventano come fiorini d’oro. Duecent’anni dovrei vivere! Dice di sé, lui. E’ l’agosto del 1926, con precisione è il 9 di agosto, e siamo nel giardino della villa, al quartiere Nomentano, no? a Roma, in una villa di un siciliano che di nome fa Luigi. Giuseppe affronta in duello Massimo. Si sa che in un duello, quasi sempre ci sono numerose persone che assistono, evidentemente invitati. Si vive anche di maldicenze letterarie nate sulle pagine, nella vita, in quel porto sepolto che è la vita. Si può venire alle mani anche in un caffè, e qui, ci si può dare appuntamento da Luigi il siciliano, uno nessuno centomila. Ci si può ferire, anche, e ci si può ritrovare amici belli e rappacificati dando vita a una solida amicizia. Nomi, oggi non sono altro che nomi ci hai fatto caso? Anime, potremmo dirle. Parole come in origine. Verbo. E continui a pensarli, ad amarli, a volerli conoscere. Giorno dopo giorno. C’è una famiglia, parentato senza terra. Gli dicono a questa famiglia senza terra che in un tavoliere c’è della terra. Terra buona. Terra facile da conquistare. Come se si fosse già fatta la scoperta dell’America quando ancora dell’America non se ne conosceva nemmeno l’odore, il nome, nulla si sapeva, perché non erano nati né un tale che di nome faceva Cristoforo, né un altro tale che di nome faceva Amerigo, né un Colombo e nemmeno Vespucci vale a significare. E questa famiglia senza terra va’, va’ e la prende con una certa facilità la terra facilefascile da conquistare. Evidentemente gli uomini del nord hanno ancora quel potenziale di forze primordiali che avevano i loro antenati quando venivano chiamati barbari dagli uomini che barbari non lo erano più perché avevano soppiantati quelli che li nomavano barbari, e che a questi avevano preso tutto quel che c’era da prendere: anche e soprattutto i costumi, la storia, la religione, la filosofia, la geometria, la matematica, e il modo di non essere più barbari; ma gentili, da semplici pecorari che erano. E questa famiglia senza terra non si contenta di quel tavoliere, ma vuole anche tutta quella terra che un tempo era detta la grande Grecia, la Grecia dei Greci che non s’accontentavano della loro Grecia, la Grecia della Grecia, di quei greci, vale a dirsi, che si misero per mare e andarono un giorno verso altre terre, e, andando un giorno per mare verso altre terre, un giorno videro che al centro del più grande mare allora conosciuto v’era una grande isola, isola a tre punte la dissero, perché era un’isola che, effettivamente, aveva tre punte, dopo che l’ebbero circumnavigata. Facilefacile fu conquistare quest’isola, come facile facile venne a conquistarsi l’America, come facile facile venne a questa famiglia senza terra conquistarsi quest’isola, che facile facile non era prenderla a dei guerrieri che l’avevano conquistata col ferro e col fuoco. Entrarono dalla terraferma senza farsi prendere dalla facile visione creata dalla fata Morgana che faceva, di tanto in tanto, apparire questa isola molto più vicina di quanto non fosse. I sarracini, padroni di quest’isola per molti decenni, furono costretti a ritornare per mare da dove essi erano venuti. E la famiglia senza terra ebbe a ritrovarsi tutta quella terra che gli antichi greci chiamavano come la ‘magna’. E immaginare uno dei due fratelli di questa famiglia senza terra proveniente dai monti Nebrodi, da uno dei tre nomi della Sicilia, fu una bella immaginazione, lui con tutto il suo possente esercito. Vide con i suoi cavalieri come un nido d’aquila e qui fondò la sede della sua prima capitale, e solo quando arrivò al promontorio più bello del mondo disse: no, scusatemi, è proprio qui che dovrò, per forza di cose fare il mio palazzo reale. Evidentemente, questo conte che oramai era un re vero e proprio, ma che tutti continuano a chiamarlo conte, molto probabilmente, ma molto probabilmente, ebbe a vedere una rocca che al nido d’aquila stava vicina. Ma certo che la vide, ci andò anche: che credi! Non sarà mai stato possibile che questo conte non ebbe a vedere un bel castello arroccato in una rocca che i guerrieri sarracini dicevano essere inespugnabile. Quando uno ha un cavallo di razza sono molte le probabilità che, incrociandolo con una cavalla di razza, nasca un cavallo di razza con le caratteristiche proprie del cavallo di razza per cui uno lo ha fatto accoppiare. Con gli uomini difficilmente la cosa funziona, o se funziona, va a finire come una delle ipotesi presupposte da quel tale, Orson Welles, mi pare. Nel nostro caso il conte re si ritrovò ad avere un nipote ancora più capace di come fosse lui medesimo, tanto che alla fine tutti lo riconobbero come uno geniale, così un tale Matteo Paris, uno stupore, ma che dico! come uno stupore: una meraviglia del mondo, cosa che riuscì a un altro imperatore che di nome faceva Ciro, Ciro stupore del mondo, appunto, che tutti, quasi tutti, dicono Ciro stupore del mondo, Ciro stupore del mondo, e nessuno sa chi sia questo Ciro Stupore del mondo e che cosa abbia fatto per meritare questo appellativo. E allora tu inizi a ricercare quanto più possibile cose sul nipote del re conte, e anche su Ciro stupore del mondo, per vedere chi era colui che ha lo stesso appellativo di questo nipote del conte che ha l’appellativo di stupore del mondo. E vai di nuovo a ritroso. La madre? Eh, la madre, sapendo come vanno le cose in una corte, vedendo il proprio figlio ancora piccolo e immaturo, vedendosi lei vicina alla morte che fa? Nomina tutore del figlio, il papa, tanto per metterlo in mani buone ed intoccabili. Ma, come ogni curato, anche di campagna, sa’, cioè che “non è bene fare un favore, senza prima averne in cambio qualcosa”, senza che, in cambio non si riceva qualcos’altro, cioè, la madre del bimbo, prima che il papa gli faccia la richiesta, gli da’ quello per cui, il papa, non potrà fare a meno di ricevere: la reggenza del Regno temporale, e, con questa reggenza, conseguentemente, la rinuncia a una bolla pontificia che concedeva ai monarchi di avere il potere spirituale in questa strana isola a tre punte come il berretto a tre punte di Luigi. Ma il bambino cresce e sa come è andata la storia della sua famiglia e di quale sarebbe dovuto essere il destino suo e della sua famiglia. Tutte le terre di Svevia ha, della Franca Contea, del Giudicato di Torrese della Franca Contea di Borgogna, fin giù passando le Alpi, con il regno d’Italia, a lambire i confini con la Chiesa di Roma, sono tutte degli Hohenstaufen o Staufer o Staufen che dir si vogliano, oramai. Tutte le terre a sud dello Stato della Chiesa, sono tutte degli Hohenstaufen o Staufer o Staufen, ormai. E, allora: – come si potrà mai fare per unire queste terre?, tutto questo stivale? È la stessa domanda che si pone il papa che, vedendo il pericolo di ritrovarsi con una Italia tutta unita assieme a tutte le terre degli svevi e uno Stato della Chiesa di Roma, scomparso o con una mangiata di terra entro le mura di Roma, come, in effetti, diventerà fra qualche lustro di secoli, inizia a demolire la figura del nipote di questo conte. E ci riesce. E ci riesce anche con i suoi discendenti. Ma non sa che una cosa va come deve andare. Non sa che il destino d’ogni cosa è scritto. Niente si ci può fare. Non sa che già c’è una breccia praticata proprio in una porta che da tutti è chiamata “Pia”. Non sa che una madre di Loano sta già partorendo un figlio e che questo figlio ha nome Peppino, e che va, questo figlio, per mare, fino alle lontane Americhe e che trova una donna già sposata e che lui se la prende e se la porta al suo paese che non vuole più separato, ma unito, tutto intero vale a dire: dall’isola di Sicilia alle Alpi, quelle che furono profanate da un africano e che agli abitatori dei sette colli gli sembrò uno sfregio, una cosa impossibile da fare, e non gli calava la cosa, e da quell’esempio, da quell’avvenimento, non è che iniziarono a erigere muri su quelle cime, ma strade, strade, e ancora strade, strade che collocassero la loro città a tutte le altre città conquistate. Le mura? Non servono a niente, dicevano i romani! Le mura costano fatica e denaro e tempo perso e il primo imbroglione te li profana con un nuovo cavallo. Strade ci vogliono per difendere le proprie terre, i propri possedimenti – n’è vero? Geniali questi romani. In effetti avevano visto tante mura essere crollati, tanti confini profanati. Con le strade si poteva raggiungere qualsiasi angolo del loro impero. Strade, ponti, gallerie, anche scavate sulla nuda roccia, anche scavate sulle alpe che avevano fatto da mura possenti alla loro penisola, e che non erano servite a nulla contro gli elefanti dell’africano. Strade ci vogliono! – dicevano- altro che mura! avete visto mai un muro che non cade sotto i colpi imperterriti di uomini? I muri o si saltano, si scavalcano, o si demoliscono, o si fanno scomparire completamente con l’artificio dell’inganno, della mente, dell’intelligenza! – dicevano costoro. Ma le strade fanno civiltà. E la civiltà viene a cambiare, a cadere, quando questa civiltà non ha i valori, le capacità, di rimanere la civiltà, la cultura, i valori che prima, andavano bene e che ora non vanno bene più: è inutile fare arrestare, mettere in carcere la vicepresidente di una società privata di proprietà dei suoi dipendenti, la Huawei, Meng Wanzhou, figlia del fondatore Ren Zhengfei, con l’accusa di aver violato le sanzioni statunitensi contro l’Iran: lavorare si deve fare, essere più bravi degli altri bisogna essere! nulla possono fare i dazi. È possibile che lo stesso nome della società cinese impegnata nella produzione e commercializzazione di prodotti e sistemi di rete e telecomunicazioni non vi indichi qualcosa? “essere fiorente”, “azione magnifica”, “la Cina sa fare”: “huá wéi” : Huawei. Cambia la civiltà, e se non cambia, il mondo muore, non progredisce più e si ferma – ma si può fermare ne ora e ne mai si può fermare il mondo? I romani non morirono in un giorno. I romani caddero perché il mondo stava cambiando ed era una cosa impossibile che continuasse come era continuata per millenni. E dai romani si passò ai così detti barbari (barbaro per i romani era tutto il mondo che non fosse romano) che diedero dei grandi re, dei grandi imperatori a quello che era stato l’impero dei romani che non era più l’impero dei romani già da tanto tempo. Le strade furono abbandonate, i muri furono ricostruiti. Ogni casa diventò una torre. Un insieme di torre, un castello. Anche i luoghi religiosi, dove pregare, dove orare dopo aver lavorato o lavorato dopo aver orato, furono fortificate. E non è che con tutte quelle torre, tutti quei castelli le cose cambiarono e nessuna guerra veniva più fatta: macchè! Centinaia di guerre, di lotte, di rivoluzioni c’erano, più di prima! Anche i monaci erano diventati uomini d’armi. Muri, muri e poi muri. Muri di qua, muri di là. Le strade non servivano più. Per percorrere la distanza tra un paese e l’altro ci voleva l’ira di Dio, l’eternità di cui fa cenno Kafka. Ma andiamo al discorso dei nomi, che il discorso sarebbe infinito da fare, e tanti secoli dovranno passare di guerre, di muri, e di guerre, e di morti, e di rivoluzioni, e muri, torri, trincee, cannonate, assalti, strategie militari, invasioni di nuovi barbari, nuove razze, e nuovi bastardi (così vengono chiamati inizialmente i figli di coloro che si univano con questi barbari, fin quando nessuno ne sapeva più l’origine e anche costoro iniziavano a parlare di razza pura, di difesa della razza, di nobiltà e di discendenza. Ma quale razza? Tu di chi sei figlio? Tutti a parlare del giorno della civetta: bel titolo, questo, azzeccato. La prima impressione è questa. Poi ti chiedi e ti richiedi cosa voglia significare, dire Il giorno della civetta. Scopri che di giorno la civetta non ci vede (forse per nulla). Ed è così che colleghi il tutto con il dire che in Sicilia la mafia non esiste e non è mai esistita per alcuni, per molti intellettuali, per molte autorità, alti prelati. A sentire invece parlare uno che è sceso dal nord e che ha iniziato a fare schifiu – per dire – invece, la mafia esisteva. Un pugno di civette sono i siciliani, hanno scarsa vista. E’ tutta una finzione, vale a dire, dicevano costoro altolocate. Parlano e riparlano, ma credo che, al di là del titolo, al di là del film, non hanno letto o visto nulla di questo benedetto giorno della civetta. Dicono che il maestro di Regalpetra è difficile da leggere. Le sue opere sono interessanti, ma difficili da leggere, da capirsi. E allora entri nella biblioteca comunale. E che scorgi? Scorgi una sottile costola di un libriccino. Leggi l’autore, il titolo. Posi poi l’indice della tua mano destra sopra la testa di questa costola e l’avvicini verso di te, facendola roteare ai suoi piedi ove appoggia alla mensola, facendo diventare questo punto il fulcro di una così detta macchina semplice, e così rompendo il suo principio di equilibrio, lo fai venir fuori dalla sua mensola, e te lo poni fra le mani. Occhio di capra. Che vorrà dire? Vuol dire che, il modo migliore per iniziare a comprendere il maestro di Regalpetra, è quello di leggere Occhio di capra. Sarà lo sgranare di un rosario. Leggerai tutto del maestro, tranne Il giorno della civetta.
– ma perché, perché mai non leggerai Il giorno della Civetta?
Perché subentra la vergogna, mi capisci? Dopo aver letto tutto, ma dico tutto, del maestro di Regalpetra, dopo aver saputo tutto ciò che c’è da sapere del maestro e sul maestro, come fai ad andare in una libreria e chiedere <>.
– ma puoi andartelo a prendere tu, il libriccino che ti interessa!
Facile a dirsi. A farlo: difficilissimo. Difficilissimo, perché hai letto tutto quel che ha scritto, e ti presenti alla cassa col libro de Il Giorno della civetta? Ma è un attimo. Decidi che è solo una tua fissazione. Fatti coraggio e vai, chiedi: Il giorno della civetta, e lo leggi, finalmente, per ultimo. Cosa diversa è leggere l’Ulisse di Joyce. Se vuoi proprio leggere qualcosa di Joyce, leggi l’Ulisse di Joyce. Leggi la prima pagine. Non hai capito un cazzo. Ti dici: <<verrà fuori, verrà, vedrai>>. Giri pagina e continui a leggere: peggio che andar di notte, peggio: te lo assicuro. Peggio che andar di notte, era un proverbio che mio padre ripeteva sempre, quando c’era qualcosa di impossibile da fare, da vedere, peggio del giorno della civetta. Ed è una di quelle frasi che non si può dire in siciliano: non rende. Non solo non rende, ma, tradotta, viene fuori la stessa frase: peggiu d’iri di notti. peggio d’andar di notte a cercare di comprendere cosa voglia dire Joyce nelle sue prime pagine.
– perché poi andando andando nella lettura la cosa migliora, vorresti dirmi?
Non migliora per niente, infatti vai a riporre nella tua mensola il libro e ti dici che è meglio che stia li. Passano gli anni. E ti ricordi che c’è l’Ulisse di Joyce, che è un capolavoro del novecento, e che non sei riuscito a leggere, non comprendi. E ti dici: – ma è possibile mai, ‘sta cosa? – e lo vai a ripescare. Lo prendi con più ottimismo della prima volta. Sei cresciuto, hai fatto altre letture. Letture ancora più difficili. Adesso sarai in grado di leggere l’Ulisse. Prima pagina. Al solito. Seconda pagina. Al solito. Terza. Riponi il libro nella mensola e non lo cerchi più. Stavolta non lo leggerò più, ti dici. Ma è possibile? Tutto ti rimanda a Joyce. Tutti dicono che la sua scrittura è rivoluzionaria. Ci sono metodi che, addirittura, ti dicono come fare per leggere l’Ulisse. Una sera, dopo tanti mesi, e ancora qualche anno, apri, involontariamente l’Ulisse. Il maestro di Regalpetra ebbe a leggerlo e non lo comprese, ci rinunciò e disse che non se ne fregava se il libro era rivoluzionario. Non lo comprese, ci rinunciò per sempre. E non se ne fece un problema. Anche perché il Maestro, ti insegna che non per forza un libro va letto. Un libro, non appena tu inizi ad annoiarti, lo devi ri-posare.
Bruciare, no, questo mai; che bruciare un libro è come bruciare un uomo. Brucialo un libro e ti fa l’odore di carne bruciata, carne umana. Stando però attentissimo: ché certe volte il libro all’inizio ti annoia, ma se hai il coraggio di continuare, si rivela una passione e ti dici: meno male che ho continuato. Ti corichi sul letto. Apri l’Ulisse. Cominci a leggere. Leggi e scopri che la vita reale, di tutti i giorni, è precisa precisa le pagine dell’Ulisse. Non c’è libro più realista, più verista. Tu pensi, e nel mentre pensi c’è qualcuno che sta parlando di chissà che cosa, di un’altra cosa differentissima della cosa di cui tu stai pensando; non solo: tu pensi, c’è qualcuno che ti parla, e nel mentre c’è qualcuno che parla, c’è uno che canta, che fa cadere il suo boccale di birra a terra; che c’è un gruppo che ride perché uno ha raccontato una barzelletta. È come se qualcuno stia registrando tutto quello che succede in un pub. Non solo. C’è qualcuno che registra tutto quello che si dice in un Pub e anche tutto quello che in questo Pub stanno pensando. Ed è così che inizi a comprendere Joyce. Joyce non è altro che uno che si mette, là, lì, a registrare quel che si dice in un Pub e quel che si pensa in quel Pub, e filma anche, filma tutto quel che c’è da filmare in quel Pub. Ma, non avendo una pellicola, ma un foglio di carta, e una penna a disposizione, il nostro Joyce che fa? Si mette a scrivere quel che c’è nel pub. Ed è allora che scopri che Joyce ha scoperto l’America, l’acqua calda, l’uovo di Colombo. E se vuoi scrivere qualcosa non puoi scriverla se non hai letto Joyce. O, quanto meno, ogni cosa che scriverai è una cosa che è rimasta ancorata alla gravità terrestre. Joyce ti insegna ad uscire fuori dall’orbita terrestre. Puoi finalmente andare sulla luna. Vedere il pianeta Terra come una sfera un po’ schiacciata ai poli. Azzurra. Azzurra con delle macchie bianche o grigie di sfumature d’ogni bianco e d’ogni grigio. Joyce è il Rothko di turno, il Vasilij Kandinskij, il Piet Mondrian, il Jackson Pollock, l’Edward Hopper di turno, l’Andy Warhol, il Kasimir Malevic di turno. Con la differenza che lui non ha un pennello, lui non ha un registratore, lui non ha una videocamera, non filma, scrive. Ma se c’è uno che è abituato a leggere, così come è abituato a guardare le cose che vede con gli occhi, allora il libro di Joyce non lo potrà sopportare, non lo potrà comprendere così come non si potranno sopportare le opere di….e rimpiangerai le opere di Raffaello, di Michelangelo, di Leonardo, di Bellini, del Canaletto, di Caravaggio e vedi un ritratto di Picasso e dici: l’arte è morta, l’arte s’è fermata a Michelangelo, oltre quel ‘rinascimento’ non c’è più arte. E non ti rendi conto che a dire queste cose sei uno che dell’arte ha capito ben poco.
– ma questa cosa la disse anche uno che di pittura ne capiva!
– dici del fratello di Savinio? Ma lui nelle interviste non rispondeva mai seriamente: si divertiva, faceva dello spirito, scherzava: parola di moglie; aveva un umorismo tale che ti prendeva per il culo senza che tu te ne accorgevi, anzi te ne accorgevi e ti piaceva. Disse che la pittura si fermò al rinascimento, ma lui la sua pittura non è che la fermò al rinascimento, eppure avrebbe saputo fare la pittura del rinascimento. Ha capito ben poco anche della mente umana chi dice di queste cose. Non ha capito che non serve mai costruire dei muri, perché ogni muro viene demolito, anche con la sola mente, non per forza con le mani, con le armi. L’arte è demolire i muri. Ogni arte è demolizione. Ogni arte è demolizione prendendo in prestito i mattoni o le pietre squadrate che sono serviti per costruire quei muri. Ogni arte è demolire l’arte passata avendo rispetto di conservare ciò che ha permesso all’arte nuova di essere chiamata nuova, di essere chiamata rivoluzionaria. Non bisogna bruciare i libri, non bisogna bruciare i quadri, non bisogna fare nessun falò. Nessun Savanarola bisogna che vi sia. Bisogna che vi sia un rinnovo continuo di cose, anche di popoli, di civiltà, di società. La sola arte che va ignorata è quell’arte che si crede sufficiente a se stessa. La civiltà greca è stata la culla della nostra civiltà, la civiltà romana è la pietra miliare su cui oggi fondiamo il nostro essere in questa società; ma chi vuole che si ritorni a quei tempi? Pur sapendo che molte cose andavano meglio in quei tempi che non ai nostri. Avremmo potuto vedere un quadro di Picasso? Avremmo potuto avere il Blues? E Joyce? bisogna che il sangue si rinnovi. Bisogna che si dia larga strada alla legge naturale scoperta da Darwin. Si può fermare la legge evoluzionistica della natura? Si può, certamente, ma con grave pregiudizio della stessa nostra sopravvivenza, subentrando quella legge contraria all’evoluzionismo che è l’estinzionismo. Vecchia storia quella dei dinosauri. Grande epoca. È servita fin quando è servita. È finita quando è finita, permettendo agli altri esseri di evolversi così come si è evoluta. <> disse mia nipote un giorno vedendo il mare tutto davanti a se’. Anna aria Ortese disse che il mare non bagna Napoli eppure tutti sanno che il mare bagna Napoli. Sconfinato, senza confini insomma, largo, grande, di un blu sormontato da un bell’azzurro. Due materie chiuse dentro un’altra materia. Una materia chiusa fra due materia. Materia più o meno rarefatta. Un altro bambino un giorno vide il mare – lui dentro un treno – e disse: <> Un professore, lì seduto nello stesso scompartimento, lo redarguì: noo, baambiino, il maaare è azzuuurro! <<no! Il mare è del colore del vino!>> Insistette il bambino. Bambino, sei monello, e, per giunta maleducato e presuntuoso, io sono un professore e so’ di che colore è il mare: il mare, è blu, non lo vedi? Signora, suo figlio non sa riconoscere i colori! Lo scusi, professore, è un bambino, e i bambini, si sa, come sono! Vedono cose che noi non vediamo, e vedono anche i colori come non sono in effetti. Signora, non è così, questo bambino o è un presuntuoso e arrogante o è malato e va curato. Il treno scorreva lento, come lenti scorrono i treni in Sicilia. Lo stretto si avvicinava sempre più al loro sguardo. Dall’altra parte dello stretto c’era il golfo dell’Aria. Prima di quel mare, là c’era un uomo che quel mare guardava. Sarebbe andato a Roma, quell’uomo, e da Roma avrebbe sognato quello stretto, quella linea immaginaria che divideva due mari, linea immaginaria come in nessuna parte del mondo lo pensò lui. Quel mare del colore del vino. Quel mare di quel colore di come se lo immaginò un giorno molto lontano un poeta cieco che parlava di armi, di battaglie, di un muro demolito con la forza della fantasia. Parlava di una città incendiata. Di due eroi che giravano attorno a quel muro e l’uno cercava di rincorrere l’altro, mentre l’altro sembrava che volesse scappare dall’altro e invece lo inseguiva. E un altro siciliano, un maestro di scuola elementare che si diede a scrivere cose siciliane, notò questa cosa, notò un bambino che millenni dopo di un poeta cieco, vedeva il mare non di un bel blu, ma di un bel colore del vino, scuro, come il vino che beveva suo padre ogni mezzogiorno tornato dal lavoro pesante, che beveva ogni sera, prima d’andarsene a dormire, dopo un lungo giorno di fatica. Scoprì che i professori limitano la fantasia, limitano, la mente, il pensiero, la libertà di guardare e pensare alle cose con una mente nuova, priva di ogni precognizione. Il professore avrebbe notato che l’asino non è un leone, ma un asino vestito da leone nei giorni di carnevale? Il bambino è come l’agnellino di una delle favole della dittatura del maestro di Regalpetra. Il professore avrebbe dovuto essere come quel castrato, insegnare al bambino che già nota più dei grandi, e, invece, non fu altro che come quei ciechi di Cecità. E non c’è cosa più pericolosa di quei professori ciechi. E non c’è cosa più bella di un bambino che vede il mare, non come tutti lo vedono, ma del colore del vino. Ma è possibile che pensiamo a nomi, alla parola e andiamo sempre a finire su altri argomenti? Ritorniamo ai nomi allora. Una volta c’era un principe. Una favola? Un racconto? Bello! Questo principe aveva uno strano nome. Non lo si chiamava per nome. Nessuno più conosceva il suo nome. Questo principe aveva un palazzo, e il suo palazzo era proprio dietro stante il palazzo di un altro principe. Chissà se questi due principi si conoscevano tra loro? Certamente si: – ché se abitavano l’uno quasi accanto all’altro! – due principi che non poterono conoscersi a vicenda perché l’uno nacque in un periodo della vita di questo pianeta chiamato da tutti Terra, ma che è più l’acqua che non la terra in questo pianeta chiamato Terra; e l’altro in un altro periodo catalogato dall’anno di nascita di un tale che tutti chiamano adesso figlio di Dio in persona, addirittura, Dio lui stesso fattosi uomo come uomini siamo noi fatti di carne e di ossa e di spirito come Spirito è Lui. Ma ci sono persone e principi che, malgrado nascano in epoche differenti, alla fin fine è come se questi fossero nati nello stesso periodo ed è come se questi si fossero incontrati e si fossero parlati, poiché i loro palazzi, ripeto ancora, se ci fosse il bisogno di ripetere, stavano l’uno di fronte all’altro, divisi da una strada e che guardavano tutti e due (i loro palazzi) al mare, allo stesso mare. Un ragazzo sentiva parlare di questo principe senza nome. Nessuno più si preoccupava di sapere quale potesse essere il nome di questo principe senza nome e, neppure, a dire il vero, senza cognome: ché di solito i nobili, i principi, di cognome non ne hanno e si nominano solo attraverso il luogo che è il loro luogo. Attraverso il luogo che alla sua persona era assimilato, potè notare che, così come in molte lingue la Y e la U sono una stessa cosa e che, di conseguenza, le parole che contengono in italiano la vocale I o la vocale O al posto della Y, acquistano il suono di I. Eyro, perciò diventa Euro. Torre, diventa Tirri. Il ragazzo attraversò in autobus la tratta di statale che da Palermo va a Messina. Notò che c’era una indicazione. Torremuzza. Torremuzza era il luogo del principe senza nome e senza cognome. Sicuramente. Avrà avuto un castello? Un palazzo, il principe senza nome e senza cognome e che tutti chiamavano solo per Tirrimuzza? Si ripromise il ragazzo di andarci un giorno in questo posto. Si ripromise il ragazzo di andare alla ricerca del nome e del cognome di Tirrimuzza che ormai sapeva essere quello di Torremuzza. Qual era il nome e il cognome del principe di Torremuzza? Era mai stato questo principe nelle terre che erano sue e dove ora viveva quel ragazzo? Un giorno vi fu una mostra nel castello di Catania. Uno dei tanti castelli che lo Svevo e Normanno Federico l’Anticristo fece costruire nelle sue varie città. Perché Svevo è normanno? Perché tutti siamo bastardi, tanto bastardi che un patriota nazionalista per fare l’esempio di come i Siciliani siamo stati bravi e abbiano la loro brava e grande civiltà, nomò Federico. Quel ragazzo lo guardò in faccia e, poi, guardo l’effetto che la faccia di quel patriota nazionalista fece, quando gli dissi che Federico non era un Siciliano se non di nascita, poiché era per parte di madre, francese, e, per parte di padre, addirittura, Tedesco. Quindi, gli disse, l’esempio di grande sicilianità non è altro che l’esempio di un grande incrocio di conquistatori, che dal nord della Francia andò in cerca di terre in Puglia, con dei conquistatori tedeschi: questi tedeschi! In questo castello costruito da Federico trovò un depliant e, in questo depliant, non si arrivò a parlare di questo principe di Torremuzza? Il principe di Torremuzza andava a Catania. Da Palermo passava per Agira, là andava alla fiera di Maggio, una delle fiere più importanti della Sicilia, e di là faceva una capatina nei suoi possedimenti che erano le terre in cui quel ragazzo sta. Un diario teneva il principe che non aveva né nome e né cognome. Il ragazzo, ormai fatto uomo, si ripromise d’andare a vedere se in una delle più grandi e belle biblioteche della Sicilia potesse mai trovarsi il diario del Principe di Torremuzza che adesso aveva un nome, che di nome faceva Gabriele Lancillotto e di cognome faceva Castelli o Castello. Il principe non aveva un solo nome, come d’altronde tutti i principi, ma due, nomi! Bella davvero la biblioteca dei Benedettini a Catania, grande davvero, fornita davvero, la biblioteca dei benedettini; ma il diario di Gabriele Lancillotto, così lo chiameremo confidenzialmente ora, non c’era. Il bibliotecario di turno chiamava quello che fu il ragazzo di una volta: “professore”. E fu buona cosa, questa cosa qua, che se non lo avesse preso per un professore che a lui gli ricordava di essere, sicuramente non l’avrebbe fatto entrare nel caveau di quella biblioteca fornitissima dove volumi importanti e antichi erano custoditi dentro innumerevoli casseforti blindate a prova di tutto. E chi poteva voler trovare un diario di uno sconosciuto principe se non un professore topo Firmino di turno di biblioteca? O un suo – addirittura! – antenato? Nel dubbio, meglio concedere, meglio farsi un amico. Parlavamo di mura. Credo che parlare di mura, di nazionalismo, di regionalismo, di campanili sparsi ovunque, in un tempo in cui con un computer entro dove e quando voglio, è proprio non aver capito nulla del presente e si è nostalgici del medioevo oscuro. Ciò che non aveva trovato per anni, andando per biblioteche e per librerie e per antiquari, riuscì a trovare, il ragazzo, entrando nella rete di internet. Molte biblioteche storiche stanno iniziando a scannerizzare manoscritti e dattiloscritti e libri antichi che non sono stati più pubblicati, e sono introvabili al grande pubblico. Per fortuna non tutto va alla malora in Palermo, o in Sicilia, o nel meridione, o nel mondo. E il mondo, questo pianeta Terra, dice un detto ebraico, si salverà fin quando ci sarà almeno una persona giusta, buona a calpestarla questa Terra. Cerca che ti cerca trovo il diario di Gabriele Lancillotto. Il diario parla di una venuta nel paese di dove ora abita quel ragazzo che ora è un uomo fatto. Qualcuno gli aveva procurato delle monete antiche, ché Gabriele Lancillotto aveva questa passione della numismatica, delle cose antiche, della grande Grecia e di tutto quello che era passato per quest’isola asciugata dal sole e alluvionata dalla pioggia e tempestata dai venti. Trovò il Principe nelle sue terre di Motta D’Affermo un reperto che risaliva ai tempi che furono prima della colonizzazione dei greci. Per dire la verità non è che li trovò lui, ma un suo villano. Ma quel villano che ne avrebbe fatto di quel reperto? Che ne avrebbe capito? Gabriele Lancillotto capì che lì doveva trovarsi una grande città oramai scomparsa dalla bussola della memoria umana. Oggi si possono trovare anche delle lettere che a lui alcuni gli indirizzarono. Si posso anche leggere lettere che lui medesimo indirizzò a questi. Attraverso queste lettere possiamo conoscere quali furono i rapporti con un altro principe, quello di Biscari, e, attraverso un diario di viaggio, quali siano stati i rapporti intrattenuti con un così detto genio: Johann Wolfgang von Goethe! A Goethe non piacevano più di tanto le monete, a lui piacevano i sassi, le pietre; ma sopportò Gabriele Lancillotto mentre glieli faceva visionare, quasi come sopportò un altro principe: quello di Palagonia: Ferdinando Francesco II Gravina Cruyllas, un principe che agli occhi suoi non poteva avere che tutti gli elementi della pazzia, sennò come avrebbe potuto dare ordine di realizzare quell’estesa sequela di statue mostruose posizionate sopra di quel muro che cingeva e che ancora cinge, per fortuna di cose e coincidenze strane e straordinarie, la villa, la villa di Palagonia, con tutte quelle statue che non sono altro che mostri, mostri volgari? “Uomini: mendicanti dei due sessi, spagnuoli e spagnuole, mori, turchi, gobbi, deformi di tutti i generi, nani, musicanti, pulcinella, soldati vestiti all’antica, dei e dee, costumi francesi antichi, soldati con giberne e uose, esseri mitologici con aggiunte comiche (…) Bestie: parti isolate delle stesse, cavalli con mani d’uomo, corpi umani con teste equine, scimmie deformi, numerosi draghi e serpenti, zampe svariatissime e figure di ogni genere, sdoppiamenti e scambi di teste. Vasi: tutte le varietà di mostri e di cartocci che terminano in pance di vasi e piedistalli. Immaginate tali figure a bizzeffe, senza senso e senza ragione, messe assieme senza scelta né discernimento, immaginate questi zoccoli e piedistalli e deformità allineate a perdita d’occhio: e proverete il penoso sentimento che opprime chi si trova a passare sotto le verghe da questa follia.(…) Ma l’assurdità di una mente priva di gusto si rivela al massimo grado nel fatto che i cornicioni delle costruzioni minori sono sghembi, pendono a destra o a sinistra, così che il senso dell’orizzontale o della verticale, che insomma ci fa uomini ed è fondamento di ogni euritmia, riesce tormentato e torturato in noi. E anche questi tetti sono popolati e decorati di idre di piccoli busti e di orchestre di scimmie ed altre dabbenaggini.» “
Entrato che fu Goethe nel salone della villa, che cosa ti scorge? Una scritta
«Specchiati in quei cristalli e nell’istessa
magnificenza singolar contempla
di fralezza mortal l’immago espressa.»
Pazzo, il principe sennò perché «I piedi delle sedie sono segati inegualmente, in modo che nessuno può prendere posto e, davanti all’entrata, il custode del palazzo invita i visitatori a non fidarsi delle sedie solide perché sotto i cuscini di velluto nascondono delle spine.» ?
Sennò perché, come dice Giovanni Macchia, nel suo Il principe di Palagonia, «L’orologio a pendolo è sistemato dentro il corpo di una statua: gli occhi della figura si muovono col pendolo, e roteano mostrando alternativamente il bianco e il nero. L’effetto è orribile.>>? perché <>?
< Il principe di Palagonia come Gomez Addams? Aveva Ferdinando Francesco una moglie come Morticia?
Anche i così detti geni hanno difficoltà a comprendere l’estrosità, la fantasia, il piacere del buffo, il barocco del mondo il rococò della mente umana. Anche i geni, certe volte, vedono il mare del colore Blu, come tutti gli altri uomini che geni non sono. Anche i geni prendono per pazzi chi, nel guardare un mare, lo vedono del colore del vino. E non è una questione di epoche; ma di punti di vista, di occhio clinico, di sguardo straordinario, non comune, della capacità di vedere e misurare le cose, come diceva il viaggiatore incantato. E che, come succede per il signore d’ogni versi, anche noi, pensiamo che la capacità di vedere e quindi misurare, paragonare le cose che vedi, è un regalo, è una mercede che Dio ti dona, e che non dona a tutti, chissà perché, nemmeno ai geni, certe volte. O che lascia che anche ai geni possa sfuggire, qualcosa, nonostante, la mercede, il regalo di poter vedere e misurare. A Giovanni Meli piaceva, invece, la villa, tanto che scrisse per questa villa questi versi:
Giovi guardau da la sua reggia immensa
la bella Villa di Palagonia,
ùnni l’arti impetrisci, eterna e addensa
l’aborti di bizzarra fantasia.
“Viju – dissi – la mia insufficienza;
mostri n’escogitai quantu putìa;
là duvi terminau la mia putenza,
ddà stissu incuminciau Palagonia.
È facile immaginare che a un pittore basco come Salvador Dalì potesse allettare di farsi una vacanza siciliana in questa villa.
Renato Guttuso ci perse le sue giornate a giocare lì da bambino, in questa villa.
Il principe di Biscari Ignazio Paternò-Castello V, non era strano, nemmeno Gabriele Lancillotto era strano, ma li immaginiamo chiusi dentro il loro studio, dentro la loro biblioteca (quella di Biscari era più fornita). Biscari forse più vasto nei suoi interessi. Gabriele Lancillotto colpito dalle monete antiche e dai beni culturali e ambientali della sopraintendenza. Immaginiamo anche, poco più lontano, un altro principe che, appressoporta, come si direbbe, è chiuso, anche lui, dentro il suo studio: ha un manoscritto (la macchina da scrivere non fa al caso suo, ed è forse per questo che a un Vittorini non sarebbe piaciuto. Un regista cinematografico chiamerà quel manoscritto “quello del principe”. È al chiuso, tossisce, sputa sangue dalla bocca. Sua moglie è di là che sente il suo respiro forte, la sua tosse. Sa che è meglio non entrare. Anche quando sa che è ammalato, che sputa sangue dalla bocca. Il principe esce. Va di là. Mentre ad entrare in quella stanza entra un suo studente prodigio (che non è il figlio suo adottivo). Costui vede il manoscritto, apre il libro e legge la prima pagina. Che ci sarà mai scritto in questo manoscritto? È il suo diario? Trema quel ragazzo. Trema perché da un momento all’altro potrebbe rientrare il principe. Ma non resiste.
“Nunc et in hora mortis nostrae. Amen”. La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz’ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Gloriosi e Dolorosi; durante mezz’ora altre voci, frammiste, avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d’oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e durante quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.”.
Che sia un romanzo? Ne è proprio convinto: il principe ha un manoscritto scritto in bella del romanzo che ha in mente. Nomi. Parole. Verbo. Pensiero. Pensieri. Mente. Nomi di persone, ormai divenute ombre, mai conosciute e che diventano per te, anime, corpi, persone conosciute più che non quelle anime, quei corpi, quelle persone che hai conosciute “panza e prisenza”. E ogni loro gesto, ogni loro pensiero, ogni loro sguardo, ogni loro intima cosa vuoi conoscere di costoro, e ad ogni loro gesto, ogni loro pensiero, ogni loro sguardo, ogni loro intima cosa che vieni a conoscenza è come trovare un tesoro, come trovare un reperto, quello stesso reperto che Gabriele Lancillotto trovò nelle sue terre di Motta D’Affermo, ritrovando una favolosa e mitica città perduta dalla bussola della memoria degli uomini: una città che prese il nome da una delle tante ninfe del fiume: Himera. Il manoscritto del principe come andò a finire? Il manoscritto del principe fu mandato alla Einaudi dove un altro siciliano era responsabile delle pubblicazioni. Bravo anche lui. La frase che più quel ragazzo ricorda di lui è quella di quando ebbe a dire che lui, voleva venire a dire, era un comunista per i non comunisti e un non comunista per i comunisti. Stessa sorte di come era considerato Giuseppe Prezzolini: fascista per i non fascisti e non fascista per i fascisti. Questa frase piaceva al ragazzo. Piaceva perché era una prova evidente di uno spirito libero. Gli uomini liberi rischiano d’esser presi sempre per quello che non sono: giudicati sempre nemici, sia da coloro che dovrebbero e sono giudicati amici; sia da coloro che non lo sono, amici. Ma, come tanti, nel periodo fascista, fu anch’egli un fascista. Ma, evidentemente, per l’esperienza che ebbe a fare, dopo il fascismo, ebbe la forza, o ricercò il modo d’essere un uomo libero. Difficile è essere liberi. L’istinto della sopravvivenza, il raziocinio ci porta a comprometterci, a non parlare più di tanto, a perdere il coraggio necessario per professare le proprie idee. Fu scartato il manoscritto. Fu giudicato troppo d’epoca. Poco moderno, troppo datato.
Gentile Tomasi Giuseppe (si presume in questo modo abbia iniziato la lettera:
“Anche se come modi, tono, linguaggio e impostazione narrativa può apparire piuttosto vecchiotto, da fine Ottocento, il suo è un libro molto serio e onesto, dove sincerità e impegno riescono a toccare il segno in momenti di acuta analisi psicologica, come nel capitolo quinto, forse il più convincente di tutto il romanzo (…) il libro non riesce a diventare (come vorrebbe) il racconto d’un epoca e, insieme, il racconto della decadenza di quell’epoca, ma piuttosto la descrizione delle reazioni psicologiche del principe alle modificazioni politiche e sociali di quell’epoca ”
lo cercò, però, di raccomandarlo, quel manoscritto, Elio, alla Mondadori, in questo modo informando:
“per i due primi lettori il lavoro manca soltanto di abilità; per il terzo di determinazione morale. Manca comunque di qualcosa che rende monco il libro pur pregevole. Non si può far capire all’autore che dovrebbe rimetterci le mani (e in qual senso)? Intanto restituirei avendo cura di assicurarci che l’autore rispedisca a noi dopo fatta la revisione”
Andò a finire un giorno quel manoscritto, però, nelle mani di uno scrittore e poeta, a Giorgio Bassani, cioè presso la casa editrice Feltrinelli. E andò a finire, anche, quel libro nelle mani di un altro nobile che si interessava di cinema e che di nome fa Luchino. E da questo nome sarebbero spuntati altri nomi che lo avrebbero interpretato quel libro: Claudia, Alain, Paolo, Burt. Come fu per Il dottor Zivago, e fu un successo anche la versione cinematografica. L’ideologia fa brutti scherzi. Un principe, il contenuto del manoscritto. I personaggi. Le vicende non erano le vicende che avrebbero potuto far piacere a degli intellettuali, a dei lettori che, nella maggiore, erano di sinistra. Ma si dovrebbero dare delle colpe a qualcuno? Molti furono i romanzi che il siciliano fece pubblicare. Gli errori ci stanno. Il problema che gli errori segnano profondamente la nostra vita, così come le nostre scelte giuste. Forse il siciliano aveva ragione. Un romanzo troppo datato. I promessi sposi, scritto com’è scritto, come nuovo romanzo, potrebbe essere pubblicato? Il suo linguaggio, sarebbe troppo datato, un moderno scrittore sarebbe bocciato. Letto oggi, pensando che fu scritto duecento anni fa, ridiventa il capolavoro che è, tanto che quel ragazzo l’avrà letto più di una volta, iniziando per migliorare l’ortografia, la grammatica, la punteggiatura, per poi passare ai concetti, ai pensieri, all’ironia, l’ironia che fu di Dante e che poi diventò di Manzoni. Il manoscritto del principe, si, è un po’ datato; ma le idee, il pensiero, la vicenda, i personaggi ne fanno un capolavoro che rimarrà nei tempi. E quel ragazzo li vede, i due principi, che s’affacciano al verone dei rispettivi palazzi, vedono il mare, azzurro o, meglio, del colore del vino, a seconda di che fantasia e piacere si è aggiornati in quel giorno che ci si è svegliati. Si guardano i due principi Gabriele Lancillotto e Giuseppe. Guardano il mare e pensano ai due colori del mare che hanno facciafronte, loro che si trovano sotto il più bel promontorio del mondo, secondo il giudizio che ne dà uno che di promontori se ne intende, uno che di bei paesaggi ne sa capire. Uno che il romanticismo ce l’aveva nel sangue. Nomi, nient’altro che nomi? La vita consiste in questo: fare dei nomi che abbiamo avuto per destino, dei simboli, dei ricordi, delle ricerche, dei significati, delle allegorie, delle immagini, dei volti, e non solo dei nomi; poiché, i nomi, quelli, i nomi diventano soltanto nomi, col passare del tempo, col passare della nostra vita. Nomi, oggi non sono nient’altro che nomi. Anime sono, potremmo dire, spiriti. Parole com’è stato in origine, prima che venisse fuori il Big Beng o chi sa che cosa. Prima del big beng e prima ancora di chissà che cosa fu il verbo. Un nome: Enrico. E a questo nome associ una professione: ingegnere. E poi, con l’andare del tempo scopri che nemmeno di un ingegnere si trattò. Un ragioniere è. Alzavi lo sguardo in alto e vedevi quel nome scritto in bianco su una rocca. Una rocca che un tempo fu un castello. Un castello che un tempo fu di quel Gabriele Lancillotto, principe di Torremuzza, di prima. Si percorreva con l’autovettura la statale che da Palermo portava a Catania passando da Regalbuto, le strade che ti vedevi spuntare, poi, nel film di Francis, quando, con la sua cinepresa faceva rinascere il libro di Mario, e in quel tragitto di strada tutta curve a gomito che, di tanto in tanto, ti faceva scorgere un lago tutto azzurro, tu bambino cercavi un riferimento: quello della rocca. E la scorgevi, e l’additavi, ed esclamavi che lì si trovava la Rocca. Anche Enrico, un giorno alzò lo sguardo e vide la Rocca, e, in quella Rocca, proprio nel punto più alto, vide scritto il suo nome: Enrico. Gian Maria cercò di alzare lo sguardo in alto, così come fece un giorno lo stesso Enrico. Quello stesso Gian Maria che qualche anno prima era andato in un altro paese del sud che non aveva lo stesso nome del paese che fu della contea di Gabriele Lancillotto, ma che Carlo, non appena decise di scrivere il libro che scrisse su questo paese, gli volle dare quello stesso nome: Gagliano, perché così gli sembrava più bello. Ora – ditemi – si può che un paese che si chiami Aliano, venga da tutti conosciuto ora con lo stesso nome del paese dove si trovò a fare il suo ultimo discorso Enrico; e che, a sua volta, Gian Maria dovette interpretare sia la vicenda di Carlo che quella di Enrico? Ma chi è Enrico? Enrico? Enrico è uno dei tanti Cristo che, di volta in volta, come Tiresia, calpestano di volta in volta la polvere di questo pianeta che il maestro di Regalpetra chiama Terra; il solito Tiresia che, mantenendo sempre la sua natura, assume una determinata fisionomia, ora col volto di Socrate, ora col volto di Francesco, ora col volto di Edith, ora col volto di Enrico; e quella volta, con quello di Enrico, calpestò la terra che fu un tempo di Gabriele Lancillotto. E quando ripensi alla vita di Enrico non puoi che rimanere con la bocca piena dell’amaro del file, amara come il veleno. Lo stesso fiele di Cristo. Ti dici che se non fosse morto chissà che cosa avrebbe fatto: con una differenza, una sola: che mentre il Cristo, morendo, ha vinto, ha compiuto quel che doveva compiere, e non poteva che non finire la sua vita nel modo in cui la finì la sua vita: morto in croce, ammazzato, assassinato – giustiziato, per modo di dire -; Enrico non è che con la sua morte abbia potuto dimostrare la sua natura divina: un dio, si, non può campare fino a 90 anni e poi morire di morte naturale; ma un uomo? Un uomo in carne ed ossa se viene ammazzato finisce la sua vita nel modo in cui tutti quelli che vengono ammazzati ingiustamente (ammattati, aveva scritto la mia tastiera) ingiustamente finiscono la loro vita, lasciando, cioè, la nostra bocca, con l’amaro del file. I bambini fra loro, quando parlavano di Enrico dicono: avrebbe fatto diventare Gagliano una città: una città? Si, una Città, forse come Catania, forse anche come Milano, oggi tutti non l’avrebbero chiamato il paese di Gagliano, ma la città di Gagliano. Non aveva detto che tutti quelli ch’erano emigrati con la solita valigia di cartone sarebbero dovuti ritornare dalla Germania? Dal Belgio? Dalla Francia? Che ci sarebbe stato lavoro per tutti? Tanto erano entusiasti i bambini, di Enrico. Come Tiresia, Enrico era: tale e quale: Cristo ritornato a dare speranza di una nuova vita, in una terra di miserabili, di nuovo Tiresia venuto a calpestare la polvere di questo pianeta che il maestro di Regalpetra chiama pianeta Terra; un Tiresia che, mantenendo sempre la sua natura, quella sua stessa anima che era stata anche donna, assume di volta in volta, una determinata fisionomia, ora col volto di Socrate, ora col volto di Francesco, ora col volto di Edith. Edith? Edith! Un nome, no? Un nome che ti entra in testa: fai girare il CD e ascolti; ascolti e senti che questo nome ti penetra dentro la testa: E-di-th Ste-in. E il nome ti entra nella mente. Canta il cantautore Franco e dice di un convento, di un convento e di un campo di concentramento, e poi di una signora che non ha un nome, perché nessuno oggi lo conosce più quel nome, ma che va a fare la spesa: ha due buste della spesa nelle sue mani, passa da una chiesa ed entra, a pregare, come un individuo del tutto normale, uno che vive in società come vive normalmente uno normale individuo della società, come può capitare di viverla la vita a una signora che, dopo che è andata al mercato, si ritrova a passare da una chiesa e decide di entrare in quella chiesa. Niente, una normalità è questa cosa. Ma se a guardare la signora, che è andata al mercato, e passa da una chiesa e vi entra, è una ebrea: che potrà succedere?
– che potrà succedere?
Avrà la stessa normalità, dico? No, non di sicuro: quell’ebrea, quella donna non catalogabile da certi uomini come appartenente alla razza umana, per quell’ebrea non sarà una cosa del tutto normale: per quell’ebrea è un modo come un altro, un modo normale per andare incontro alla croce, per dire: non è che è la montagna che deve venire da te: sei tu che devi andare dalla montagna: percorrere l’ascesa e salire su in cima per poter dare uno sguardo più ampio. E se ascendere, salire in cima all’impervia montagna, vorrà anche significare, andare verso un campo di concentramento, dopo tutta quella fatica dello scalare questa benedetta montagna, tanto meglio: può, essa ebrea, salvarsi, riservarsi un diverso trattamento? Diventare cristiana significa non essere più ebrea? Avere un trattamento diverso dagli ebrei?, nascondersi dentro la fisionomia, dentro l’anima di un cristiano per salvarsi? Nomi anche anonimi, cioè senza identità, che parlano, oppure, no, non parlano: sono muti: esprimono cose senza saperlo, a loro insaputa, vale a dirsi, strumenti insondabili sono, misteriosi. Strumenti anonimi e insondabili che cambiano la vita a persone che sono straordinarie, persone che sono come quell’anima di Tiresia che ti ho detta, che, da un corpo a un altro, acquista, opera: sempre con quello stesso spirito iniziale (hai visto che differenza c’è tra anima e spirito?), quell’anima Tiresia iniziale che non altro che quel Verbo iniziale, quello Spirito che continua imperterrito a solcare, a calpestare la polvere di questo pianeta Terra, in cerca di angeli da salvare, angeli che siano disposti a salvare quel Verbo iniziale, quello Spirito iniziale, quel nome.

 

 

 

Otto

tratto da DURANTE, XXXIII Paradiso

Legge, Michelangelo, e scopre che la madre è più giovane del suo figlio.
Pensa che, sicuramente, vi sarà un cretinointelligente di turno
(ve ne sono molti, e in ogni epoca, e d’ogni specie, ci rassicura quel tal maestro di Regalpetra)
che gliela potrà far notare questa cosa qua.
Guarda, Michelangelo, e vede che la madre è più giovane del suo figlio.
Una ragazza madre di beltà divina.
Un giovane figlio atletico che si accascia, in tutta la sua pesantezza, su quel delicato corpo di madre ancora giovane, bella.
A quell’età, i ragazzi, oggigiorno, stanno a giocare con le loro play station, a quest’età.
– Eh?
I giovani, a quell’età stanno tutti a chattare con i loro telefonini.
Michelangelo non ha una play station, lui non ha ancora un cellulare per chattare, ovviamente, a quell’epoca: manda messaggi d’altro tipo, però: provenienti dal futuro.
Pietà.
Pietà per una giovane madre, figlia del suo figlio.
Pietà per un giovane figlio di una madre ch’è sua figlia.
Un miracolo.
Una cosa incomprensibile, questa.
Difficile da potersi raccontare.
Qualcuno parla della necessità di liberare la scienza occidentale (occidentale!) dal pregiudizio materialistico:
Si resta immersi nelle tenebre
La Matrix ignora le stesse sue regole che conseguono da se stessa; un mondo fatto di regole “create” da una “intelligenza” non molto diverse da quelle regole di un qualsiasi avanzato sistema di videogiochi che ogni ragazzo d’oggigiorno si ritrova fra le sue mani, ovviamente molto più complesso e impensabile ad ogni mente: il sistema di rottura fa parte di questa regola iniziale.
Tipo: << facciamo un gioco…>>, alla Saw
Regole matematiche che non bastano, tecnica del “semi-radio primitivo di tachioni” che ci fa intuire e darci l’illusione di arrivare sempre più vicini a una verità che sappiamo esistere, ma che è irraggiungibile per sua stessa definizione, natura, per sua stessa ‘regola’ data dalla “Matrix”.
Chissà per quale ragione abbia avuto inizio questo sistema avanzato di videogiochi, ovviamente molto più complesso e impensabile e fitto di accadimenti non ordinati nel tempo; ancor più dei replicanti immaginati da Philip K. Dick.
Si sforza Michio Kaku, e non ha più dubbi, e sbaglia – anche lui – a non avere dubbi, altrettanto come quelli che hanno dei dubbi sempre, e ne fanno, di questi dubbi, una Verità, creando dai dubbi una verità incontestabile, ma assurda, “così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano”, avrebbe detto il Manzoni al X capitolo dei Promessi.
Cuore umano.
Una forza che ‘governa’ tutto, anche il suo contrario, dice Michio.
L’uomo ama sognare le cose incomprensibili e li realizza, come Dio realizza i suoi ‘sogni’.
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Sogna, Dio, senza che neppure se ne accorga Dio.
Sogna, Dio, e sogna d’esser diventato un corpo, una carne, molecole dimoranti fra uomini, cianobatteri, animali, cose, “Su un pianeta, forse su un solo pianeta dell’intero universo, (dove) molecole che di norma non produrrebbero niente di più complesso di una roccia si aggregano in pezzi di materia grandi come una roccia ma di tali incredibili complessità da poter correre, saltare, nuotare, volare, vedere, udire, catturare e mangiare altri pezzi animati di materia complessa; da poter, in alcuni casi, pensare, sentire, innamorarsi di altri pezzi di materia complessa” così come verrà compreso solo nel 1859 e della quale potrà riferircene il dottor Richard Dawkins quando arriverà a scriverà il suo saggio su L’illusione di Dio e che un’altra aggregazione di molecole potrà leggere nella versione italiana di Laura Serra quando verrà pubblicata dalla Mondadori e letta a pagina 360 del libriccino tascabile.
Sogna, Dio, e sogna d’esser diventato il figlio di una ragazza che non ha preso ancora marito.
Una bambina la si potrebbe dire.
Non è possibile questo sogno, si dice Dio, nel suo sogno stesso.
– Sogno cose irrealizzabili – si dice Dio nel sogno, mentre sta già sognando ed è nel suo sogno.
Ma Dio non sogna, o sogna sempre: in continuazione.
In continuazione sogna Dio, e sogna d’esser diventato il figlio di una vergine ragazza che non ha preso ancora neppure marito.
Una bambina la si potrebbe dire.
– Come farà a diventare moglie?, che non s’è nemmeno maritata!
Poco più che una bambina, la si potrebbe dire.
All’età di Michelangelo, molti ragazzi appena fatti, di anni ventiquattro, giocano (forse studiano), sono già fuori corso agli studi universitari, oppure hanno già smesso perché non ci credono più ai loro studi che hanno intrapresi, perché sarà difficile prendere un lavoro con i lunghi studi intrapresi.
Il guadagno non c’è più, a diventare giovani laureati, oggi.
Sognano, i ragazzi col cellulare, con la moto, coi jeans strappati per fare un po’ di moda, per far capire un po’ di vissuto, per celare il non vissuto del loro vissutononvissuto.
E Dio continua a sognare il suo sogno, e tanto lo sogna, ogni notte (notte illusoria, tantoperdire, chè di notte e di giorno non si può nemmeno parlarne, ancora), tanto lo sogna che il sogno gli riesce: è un miracolo – dice Lui, è un miracolo, non può essere che Io possa poter diventare un uomo in carne ed ossa ed essere partorito da una vergine che non ha nemmeno preso marito.
Una sposa, una bambina la si potrebbe dire.
Ma già c’è un Angelo, un bell’Angelo, non più bello del più bello fra gli angeli, che va’ dalla ragazza madre, e gli racconta tutto: gli racconta del sogno che ha fatto Dio, del sogno strano che ha fatto Dio, tanto strano che nemmeno Lui ci vuol credere a questo sogno che ha fatto, le dice.
L’angelo sorride e dice alla ragazza madre che Dio gioca e non si rende nemmeno Lui conto di poter realizzare i suoi sogni tanto impossibili che nemmeno Lui ci crede che possano essere realizzati.
Figlia del suo figlio.
Vergine madre.
Bambina, poco più.
Che nemmeno marito ha preso.
L’Angelo è bellissimo, ma non più bello di Lucifero (questo è assodato e tutti lo sanno), è lì, di fronte a lei che è rimasta, non senza parole, non senza credere, non senza felicità, non senza umiltà; è rimasta credente, con la parola senza proferire parola, parola solo fatta di pensiero, di silenzio, e si chiede com’è potuto succedere che Dio non possa aver creduto ai sui stessi propri sogni.
Silenzio, parola divina che intende solo Dio.
“La vita nasce nel silenzio,
l’uomo muore nel silenzio, Dio si incontra nel silenzio” – recita una preghiera dei Padri Rosminiani, uno si reca al Sant’angelo e là la trova, questa preghiera, che chiunque la può trovare e prenderla e leggerla e pregare.
E’:
– Maestro di verità.
– Gusto di profondità.
– Pace.
– Gioia.
– Serenità.
– Linguaggio adatto per capire Dio.
, continua la preghiera dei padri rosminiani che continuano a pregare, in ginocchio, davanti al silenzio che si fa pensiero che diventa parola, carne.
Sangue.
E’ sempre stato così, fin dall’inizio: Dio sogna il mondo, e tutto ha inizio, solo col suo pensiero fuori del tempo.
L’Angelo (non più bello di Lucifero) sorride: non ci crede nemmeno lui, che Dio non possa non aver creduto ai suoi stessi sogni, al sogno di voler diventare un uomo in carne ed ossa, per poter camminare scalzo sulla terra di Palestina, fra gli ebrei, suoi eletti – dicono alcuni – fra i romani che comandano quelle parti del mondo, e l’hanno sottomesso, sconoscendone altre di ben più vaste proporzioni.
Camminerà fra gli uomini, amerà da uomo gli uomini: Tutti: anche quegli uomini che non amano; anzi, amerà più questi, che quegli altri: è un assurdo, ma a Lui piacciono le assurdità, Matrix iniziale che contraddice se stessa.
L’Angelo ha lunghe ali bianche: mai visto un angelo più bello; allora come potrà essere Lucifero che è il più bello di tutti?
Impensabile la bellezza di Lucifero, sfavillante luminosità senza pari: Quis ut deus?, Chi è come Dio? Forse lui era come Dio.
E’ come essere chiamati a scegliere tra Dio e il nulla, se il nulla potrebbe mai essere; scegliere tra Dio e il vuoto, se il vuoto potrebbe mai essere
Lucifero è altrove, s’è allontanato, di là, e si dice che non vuol avere a che fare con tutti loro.
Dice che sì, si può scegliere, che il nulla può essere, e che non sia affatto il nulla, senza Dio.
Dice che sì, si può scegliere, che il vuoto può essere, e che non sia affatto il vuoto, senza Dio.
Lucifero ha altri amici.
Lucifero ha discepoli, anche lui.
– Se non ci sarà Dio, ci sarà la materia, questa basta e avanza -, dice – ormai è cosa fatta.
Potremo fare dei replicanti, dice.
Lucifero è riuscito a convincere alcuni Angeli che potranno diventare belli come lui, e loro ci hanno creduto:
Senza Dio ci sarà lo stesso la materia, non abbiate paura del nulla: – ormai tutto è fatto: non si può tornare indietro!, vi dico.
L’angelo che ha nome di Gabriele non vuol diventare bello come è l’Angelo più bello e lucente.
Nemmeno Michele, il principe delle milizie angeliche, l’Angelo che ha una lunga spada in mano, ne vuol sapere d’essere come l’Angelo più bello; potrebbe usare la sua spada, ma la tiene in mano, non c’è bisogno che qualcuno gli dica: << fermati!>>
– Se io non son bello come lui – pensa l’angelo che ha nome di Gabriele – un motivo ci dovrà pur essere, sennò l’Amore di Dio m’avrebbe fatto bello quanto a lui, ci avrebbe fatti tutti belli come a Lucifero: il più lucente di tutti noi.
Raffaele, un altro angelo ancora, è d’accordo con lui e annuisce, col mento.
Michele il congiungitore delle due spiritualità, ha la spada nel fodero e si sente tranquillo, gli basta questa, quando Dio non alzerà un dito, allora lui, il principe delle milizie angeliche, sarà già pronto.
Dio non ha volto, nessuno lo ha visto mai; ma un giorno, forse, un uomo lo potrà vedere.
La madre è giovane, l’imbecille di turno se ne accorge, e dice:
– ma come mai la madre, madre di un figlio di più di trent’anni, ha un’età che non supera quella di suo figlio?
– Come mai la madre è molto più giovane di suo figlio? – dice.
La madre ha pietà del figlio.
Il figlio ha pietà della madre.
Pietà. Pietas.
Ci son madri che
nasci e non ti lasciano mai
Ci sono madri che
nasci e recidono col budello ciò che sgravano
Ci sono madri che
tu nasci e tutti si è felici
e non sanno quel che verrà
Ci sono madri che
piangono come solo le nostre donne sanno fare
e raccolgono i pezzi
di ricotta dei loro figli
e si disperano
e gridano che
<<no, questo non è m’o figghiu>>
Altre madri sono
sotto la croce
e il sangue rosso indurito (dei loro peccati?)
del costato dei loro figli
gli cade a scaglie
e ogni scaglia
ognuna la prende
e la bacia
e s’addolora
e
ogni scaglia diventa
una spada che
trafigge il loro cuore.
Gli uomini dovrebbero avere pietà per quello che hanno fatto al figlio,
alla madre.
Gli uomini non dovrebbero avere pietà per il cretinointelligente di turno.
…ma il mondo cresce cretinitelligenti di turno dopo cretinintelligenti di turno, e questi cretinintelligenti di turno continuano ad avere sempre più credito nel mondo (chissà nell’extramondo?) sempre più ragione, sempre più pericolosi, tanto che si dice che se il cretinointelligente incontra il furbo non potrà che essere qualcosa di brutto.
E chissà che non accadranno i tempi che dice che accadranno Giacomo Papi, i tempi in cui si inizieranno a censire i radical chic a causa di questi cretinintelligenti e dove la cultura si trasformerà in inganno e l’ignoranza in innocenza.
E Dio sogna di poter diventare figlio ebreo di una giovane ragazza ebrea poco più che bambina e che abita in Palestina.
Neanche Lui ci crede, e nemmeno gli uomini potranno credere a quest’assurdità.
(in palestina, poi!)
Ma a Dio piacciono le assurdità, e dice: <<sennò che miracolo sarà, che assurdità sarà mai, se non è un sogno irrealizzabile, incredibile?>>
– <> – dice Dio, dando ragione al dottor Jung: è giusto che vi sia anche qualcosa di assurdo: dobbiamo offrire un quadro diverso alla storia dello spirito: che intervenga il miracolo della coscienza riflettente, la seconda cosmogonia.
– <<L’inatteso e l’inaudito appartengono a questo mondo. Solo allora la vita è completa>> – dice Dio, dando ragione al dottor Jung; che un giorno verrà che la scriverà questa cosa qua, facendola propria questa cosa pensata da Dio.
E Jung gli da’ ragione e le scrive, queste cose qua, in modo che qualcuno li possa un giorno leggere, anche negli Ultimi Pensieri, o nell’Esame retrospettivo, poiché, dice Jung: <<L’importanza della coscienza è così grande che non si può fare a meno di supporre che da qualche parte, in tutta la smisurata e apparentemente senza significato organizzazione biologica, si nasconda l’elemento significativo, e che questo abbia alla fine trovata la via per manifestarsi al livello degli animali a sangue caldo, dotati di un cervello differenziato, via trovata come per caso, non, prevista e voluta, e pure presagita, sentita e tentata per un <>”. (pag. 409, Ricordi, sogni, riflessioni, ed. BUR)
– Che cos’è la ‘coscienza’?
E il replicante pensato da Philip K. Dick l’ha, la coscienza, la morale, qualcosa d’umano.
– Da dove, questa benedetta coscienza? che tutto è atomo, tutto è particelle, tutto è materia, insomma? E noi, noi uomini, che arrogantemente attribuiamo la nostra propria origine a un piano divino, non possiamo altro che desumere, vederci, con ciò, a seguito di ciò, che più umilmente e verosimilmente siamo creati dagli animali, come diceva Charles Darwin.
Davvero?
– Così almeno leggo dalla raccolta di Gino & Michele con Matteo Molinari. Può la molecola avere una coscienza?, diventare coscienza, senza l’anima delle cose, insomma? veriddio? Benedettoiddio?
Roy sta ricordando, parla. Vuole ricordare ancora, non vuol perdere ciò che ha visto, sentito, pensato.
Senza Spirito? Dice che sì, Lucifero: si può scegliere, dice che il nulla può essere, e che non sia affatto il nulla, senza Dio.
Eccitazioni effimere di un campo.
Campi quantistici.
Codici di un linguaggio per parlare di interazioni ed eventi.
Dio ride, a pensare queste cose che pensano gli uomini che verranno.
Fa bene Dick a scrivere le cose che scrive, pensa Dio.
– ci saranno cacciatori di androidi, un giorno?
Sogna Philip K. Dick, e sogna anche Dio.
Non ha fatto ancora nulla e se la ride pensando a quello che sarà il “guazzabuglio del cuore umano”.
Si mette a sognare Dio, comunque, come sempre.
L’Angelo Gabriele ora ha come un solco lungo il viso: come una specie di sorriso e pare un pescatore.
Ci potrà mai essere un monaco beato capace di dipingere la bellezza degli angeli?, dell’Angelo Gabriele davanti a questa ragazza madre?
Il volto della ragazza figlia di suo figlio ha una tale sicurezza, una tale accoglienza in grembo che non ha insicurezze alcune, solo amore e pietà per quel figlio sulle proprie ginocchia, lei: figlia del suo figlio, lei vittima sacrificale di una vittima sacrificale.
Cosa dirà il suo promesso sposo?
Sa con certezza cosa dirà.
Dio sta sognando anche questo: il promesso sposo di Sua madre.
– Impossibile – si dice -: non potrà essere che Mia madre avrà un figlio senza uno sposo.
L’Angelo Gabriele sorride, sta nel suo biancore angelico, dalle ali bianche innalzate al cielo come lance d’argento multicolori. Profilo bellissimo e che sta a guardare.
L’Angelico!
Certe volte pare una donna di quanto è bello, cert’altre pare un uomo che tanto è bello che rassomiglia a una donna, androgino volto come quello della Gioconda, come quello che ha il San Giovanni di Leonardo pieni di indefinibile grazia e di grave mistero, come ci dice Algernon Charles Swinburne, di dolente bellezza, per certi versi, bellezza maschile e femminile insieme posti in perfetto equilibrio e dove il sesso – ti rispondi – non è altro che un enigma.
Carni bianche come quello del midollo di sambuco.
Io non ne ho visto midollo di sambuto ma pare che Joris-Karl Huysmans ne abbia visto per certificarne la bianchezza particolare.
Ali bianchi che i migliori pittori inizieranno a vederle non più bianchi, ma di colori che paiono presi dall’arcobaleno, dalle ali del pappagallo, dall’uccello del paradiso che nessuno ancora ha mai visto, perché nessuno è ancora andato nel nuovo mondo.
Scompare l’Angelo.
Svuotamento.
Incredibile Kenosin affinché si possa “ridurre la Sua totalità all’infinitesimale misura dell’uomo”.
Questa cosa mi piace: potrà essere scritta in qualche epistola, magari in quella ai Filippesi (II,6)
Rimane in grembo una parola in carne ed ossa.
Ossa.
Ossidimorto da mangiare. Dolci e duri come ossa di morto.
Con una parola: tutto l’universo, tutti gli universi possibili e immaginabili.
Extramondi.
Con una parola: tutto Dio in un grembo di una giovane donna di una terra arida com’è la Palestina:
assetata di acqua, di pace. Di Dio.
Povera Palestina!
Parola fatta carne.
Sangue.
Parola che viene dal silenzio.
– sciiih: lascia che sia!
Nel principio era la Parola. In principio era il Verbo appresso a Dio
Ancora lei, la Parola, come in principio. Ed era Iddio il Verbo e ‘l Verbo Lui:
Il Silenzio era con Dio, e il Silenzio era Dio. Questo era nel principio, al parer mio,
La Parola era con Dio, e la Parola era Dio. E nulla si può far sanza Costui.
Essa era nel principio con Dio. Luigi Pulci, giocando scrive nel I del Morgante
Parola fatta carne.
Sangue e Carne fatte di molecole, di atomi, di particelle elementari fatti di eccitazioni effimere di un campo, campi quantici di un linguaggio a codici per parlare di interazioni ed eventi.
Codici, numeri.
Parole, dunque, numeri:1,2,3…..3,14
Codici.
Nominare le cose.
Saper nominare le cose.
Parola
sangue
come In principio, non iniziando dall’inizio
La giovane madre si tiene ora il grembo.
Bambina che gioca,
ancora.
Le gambe gli tremano sotto il peso della sua stessa Parola che ora gli pesa.
Trema.
Ha freddo la povera ragazza.
Povera fimmineddramatri.
Fimminaddulurata.
EROS Che devo dirti, Tànatos? Io non posso intenerirmi su un capriccio. E lo sai anche tu – quando un dio avvicina un mortale, segue sempre una cosa crudele. Tu stesso hai parlato di Dafne e Atteone. (Dialoghi con Leucò,Il fiore ed. Einaudi)
Ma questa volta non si tratta d’un semplice capriccio di un dio.
L’Angelo non c’è più.
Dio continua a sognare il suo sogno; ora è più sicuro, del suo sogno.
Nel Suo sogno, Dio sogna e si dice: quando Dio sogna è sicuro che i suoi sogni si realizzano.
Michelangelo sogna. Anche.
Simile a Lui.
Vuol fare una pietà che sia impossibile a farsi, dopo che ha falsificato molte statue greche, spacciandole per antiche e vendendole come tali, e come tali, ora, chi li possiede, crede che esse siano antiche; non pensando che queste statue che possiede non sono statue greche antiche, ma di Michelangelo, e chissà quanto ora varrebbero se solo lo sapesse che sono di Michelangelo e non di uno scultore anonimo dell’antica Grecia.
Da un pezzo di marmo preso in una delle montagne bianche, come sparse di neve, di Carrara ora vuol tirarne fuori una pietà che possa infondere pietà.
“molecole che di norma non produrrebbero niente di più complesso di una roccia (che si sono aggregati) in pezzi di materia grandi come roccia”, potranno dire qualcosa, rappresentare qualcosa, far nascere agli uomini che l’ammireranno, qualcosa dentro la propria anima fatta di cellule e di spirito.
– sciiih: lascia che sia!
E’ sicuro che ci possa riuscire: sa che quando Dio sogna le cose, tutte le cose che Lui sogna, riusciranno, saranno realtà percettibili, toccabili, respirabili.
Non replicanti.
Parole che non si vedono, parole che non si possono toccare, parole che non hanno nessun odore, parole che non hanno peso, parole che son fatti di nulla, parole che possono solo essere sentite, non sempre comprese; ma che, pur tuttavia, esistono e sono capaci di far nascere cose concrete, i sogni.
Parole, dunque, numeri:1,2,3…..3,14
Codici.
Nominare le cose.
Saper nominare le cose.
Parola
sangue
come In principio, non iniziando dall’inizio
Dio è con lui, ci riuscirà, anche se, ancora non ha nemmeno venticinque anni d’età, Michelangelo.
– E quando un imbecille mi dirà perché abbia fatto la madre del figlio, più giovane di suo figlio, io gli ricorderò i versi di un tale di Firenze che ebbe in visione una madre figlia del suo figlio.

 

 

 

Nove

tratto da DURANTE, XXXIII Paradiso

LA COSA
(altro manoscritto trovato nella spelonga della Contea del principe di Torremuzza)

Dire che ho visto tutto quello che ho visto è inspiegabile. Nessuno ci crederebbe mai. E’ impossibile pensare che tutto quello che ho visto sia iniziato, che possa avere avuto inizio, cioè, che possa finire e iniziare tutto d’accapo, crearsi scomparire e ricrearsi ancora. Cos’è l’inizio, può iniziare l’inizio? Può esserci un ‘prima’ e un ‘dopo’? Eppure vi dico che è tutto vero e che io l’ho visto, ve lo assicuro, il mondo, questo mondo e ve ne ho fatto parte integrante ed inscindibile. Si tratta d’uno spazio che senza alcun dubbio trattasi di un ‘infinito spazio’; anche se nessuno è riuscito, né forse riuscirà mai, a dire che lo sia o che non lo sia, finito (Alcuni un giorno arriveranno a dire che in un PUNTO iniziale ci sia stata la nascita dell’universo, con uno scoppio! Il fatto stesso che citeranno un punto iniziale, questo punto necessariamente dovrà essere il centro. E se c’è un centro, allora, avranno, di conseguenza voluto stabilire per certo, per corollario, che l’universo ha dei confini, che, perciò, è finito.). Eppure è talmente vasto che nessuno potrà mai percorrerlo, vi dico, anche se la sua esistenza fosse infinita nel tempo. Il tempo, di nuovo, questa nozione del tutto soggettiva: ché l’idea di un presente comune a tutto l’universo (o multiverso degli universi possibili) è un’illusione. Che esso sia d’una qualsiasi forma è problema di pura sciocchezza: nessuno mai potrà scoprirla la sua benedetta forma. Si sa, forse, che ne contiene altri, di spazi pieni e vuoti (ma esiste il vuoto? O è una sorta di altra illusione come il buco nero che vediamo?), e che ogn’uno d’essi abbia una particolare forma a spirale a cono a sfera ‘a cesso’ che risucchia continuamente se stesso; che si comprime in un solo punto infinitesimale per poi tutt’un tratto espandersi, crescere di nuovo a dismisura tanto da non poter più, né misurare né poter vedere la sua forma reale: solo le congetture, le supposizioni riescono in qualche modo a spiegarlo, ma non a convincere tutti. Si è reso visibile solo da parte d’alcune particelle elementari ch’esso stesso – non si sa come – è riuscito a creare; che, messosi assieme, hanno potuto creare tutto lo spazio stesso; è riuscito a creare tali e tante situazioni di quasi coscienza di tutto se stesso vuoto e pieno che gli sta attorno: è come dire che tutto lo spazio vuoto e pieno abbia voluto fare in modo di potersi vedere, potersi guardare, capirsi da sé, senza, per altro, riuscire in questo intento. Come se, in effetti avesse voluto far finta di volersi capire, scoprire; nascondendo a se stesso, la sua stessa esistenza, quantità, forma, inizio, fine – se di fine si può parlare, visto che lo spazio vuoto è qualcosa che non si potrà distruggerlo, una volta, che chissà quando è iniziato (è iniziato? Cos’è l’inizio? Che dico!) -. Tutto è, forse, una catena di avvenimenti: catena della quale è impossibile individuare il suo primordiale anello, se di primordiale anello si può parlare. Il punto è questo! Dire che vi sia uno spazio senza nulla è già dire tanto e tutto: come possa tutto questo esistere?!: Può esistere uno spazio di nullità ove si possa creare qualcosa di sostanzioso, di toccabile, di pieno, che abbia una massa? Potrebbero sembrarvi tutte fanfaluche, eppure io l’ho visto questo spazio pieno di tante cose; io, parti di queste cose le ho viste, vi giuro! Ho visto il nulla, che a me pare, ogni volta che lo guardo, infinito, pieno di infinite cose che a loro volta contengono poderose e spaventose forze distruttrici e creatrici nello stesso tempo. Perché, si deve sapere – e questo è certo – che la distruzione non è una vera e propria distruzione, perché – dicevo – che ormai nulla, una volta creato, sviluppatosi, potrà più essere, più distrutto; succede anche questo: che le distruzioni che avvengono non sono distruzioni vere e proprie, ma creazioni di sempre cose nuove che si ripetono all’infinito e che possono e, certe volte, si riconducono a cose già vecchie ed esistenti. Da una compressione vien fuori una esplosione e da un’esplosione viene un’altra implosione: nulla mai va mai perso in tutto quello che vi racconto, in tutto quello che ho visto. Eppure è nella natura stessa di questo spazio vuoto – che poi si è fatto pieno, o che era pieno e s’è fatto mezzo pieno e mezzo vuoto – a volersi provare a guardarsi, senza per altro che vi ci sia riuscito, a vedersi tipo su uno stagno d’acqua argentato e riflessivo per poi tuffarviciSi tutto, quasi ad affogarviciSi dentro, sapendo di non poter riuscire, di certo, nella folle impresa. Uno spazio vuoto che vuoto non è mai, che ha deciso di guardarsi, vedersi, cercarsi, capirsi e perdersi di vista, non potendosi più capire, per poter sapere di come lui stesso è fatto, di come lui stesso si è potuto fare; ci ragiona sopra, per interi lunghi tempi, dando tante definizioni di se stesso e arrivando a dire anche che il tutto può essere che non sia mai esistito; che il tutto, vuoto e pieno, o solo vuoto senza il pieno – che poi e tutta un’assurdità – non esista e che anche le cose viste non sono mai state vedute perché impossibili che possano veramente essere esistiti o esistere cose che si possano guardare, vedere, capire; che non possano esistere cose che si possano da se stessi guardare, vedere, capire, per poi finire a non capirsi. Qualche insieme di pieni queste cose li ha pure scritte e, scrivendoli, li ha messi anche in dubbio (anche l’inchiostro e la penna e il foglio in cui ha scritto le cose che lui pensa e che lui ha pensato d’aver imparato da inesistenti maestri di cose studiate, capite, guardate, vedute, toccate) non riuscendo a capire che il suo stesso dubbio è prova che qualcosa esiste e che, almeno il vuoto, senza il famoso pieno, deve pur esistere (senza pensare, di poi, all’inchiostro, alla penna, alla carta su cui scrive queste cose). Può il nulla toccarsi? Può il nulla un giorno riuscire a guardarsi tutto intero, dalla testa ai piedi? Vedersi, capirsi: impossibile. Il fatto che qualcuno abbia potuto scrivere le cattiverie sul suo stesso conto, pensarle, vederle; questo, secondo il mio modesto parere, ci autorizza a dire, ci autorizza a capire che il nulla è potuto divenire qualcosa di sostanzioso e che da sostanzioso abbia – di poi – avuto le forze di riuscirsi a guardare – almeno in parte, non per intero, ma in parte, si, questo si -. E, se tutto questo che ho visto non esiste per nulla? Se è stata tutta una costruzione della mia mente e sono solo io ad esistere in uno spazio inesistente, solo di “così detto” spirito?, ed esiste solo la mia mente, solo il mio pensiero? E non esiste spazio, materia, grandezza e piccolezza?, distanza e tempo? Se è tutta una mia fantasia?, immaginazione? Io sto creando anche quest’altro pensiero da dare ad altri esseri, con altri pensieri che, in realtà, sono solo il frutto del mio stesso pensiero. E quel dio di cui si favoleggia l’esistenza non è altro che la mia stessa ‘persona’? No! È solo un pensiero più alto del mio che sta costruendo questo mio pensiero e mi fa dire queste sciocchezze, cose che porterò a conoscenza di altri pensieri che faranno come per ascoltarmi, ed io, nella mia mente, dirò che mi ascolteranno.
“Una volta Zhuang Zhou sognò che era una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte e ignara di essere Zhuang-zi. Bruscamente si risvegliò e si accorse con stupore di essere Zhuang-zi. Non seppe più allora se era Zhou che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhou. Tra lui e la farfalla vi era una differenza. Questo è ciò che chiamiamo metamorfosi degli esseri”, qualcuno lo leggerà un giorno a pagina 32 del II capitolo dal titolo Sull’eguaglianza di tutte le cose, questo scritto che un giorno il filosofo cinese Zhuang-zi ha scritto e che verrà edito dalla Adelphi, nella versione di Carlo Laurenti assieme a Christine Leverd; ma esiste davvero il libro? Mi viene il dubbio. E’ esistito mai il filosofo cinese Zhuang-zi? O è tutta un’altra delle creazioni di Elias Canetti; ed Elias Canetti: sta solo nel mio cervello? E il libro che sto appena appena leggendo non è possibile che sia mai esistito? Che dico: – è possibile che possano esistere atomi sui quali possa essere scritto, con altri atomi, qualcosa, poi, da poter leggere?
E se fosse così davvero vorrebbe dire che quello spazio vuoto, quello spazio pieno, quel pensiero, quel dio non son altre ‘cose’ che me stesso! No che non è così, no davvero, esiste il mio pensiero, esiste il pensiero di altri pensieri dentro altri corpi come il mio, corpi dentro uno spazio che si muovono, vivono, si trasformano e, forse, diventano altra dimensione, altra forma di vita, sicuramente, perché nulla va sprecato, nulla va perduto in questo spazio vuoto che si è fatto pieno o è stato sempre pieno. Ora potrei anche pensare che non sono io a pensare, ma è lo stesso spazio che vuole adesso anche pensare attraverso me: tanto è stato capace di fare tutte le cose che ho visto! Perché, poi, non deve anche essere in grado di pensare per conto proprio, per conto suo? Senza aver bisogno dei miei neuroni, dei miei animaletti. Ed infatti è proprio così: quando io penso è lui che pensa e quando è lui che sta a pensare, non sono altro che io a creare questi miei pensieri. E’ questa l’anima, è questa quella cosa insostanziale di cui tutti ne parlano?, anche chi a quest’anima non crede? Ed ecco che potrei parlarti anche di questa cosa, ma per ora non so darti una certezza, questa si che non l’ho vista! o la mia mente dice di non aver visto ancora; anche se, certe volte, è in grado di pensarla, quasi vederla, certe volte addirittura la sente, se la sente. Posso solo dirti che lo spazio è riuscito anche a pensare a queste cose che nessuno ha mai visto, ma che molti – che lui spazio, dico – è riuscito ad esprimere e la dice reale, come possibile realtà fra le cose esistenti in questo grande spazio contenente universo o multiverso che, poi, credo, essere la stessa cosa. Ora fatemi riposare, non fatemi più pensare. Lo spazio ha creato anche questa forma di esistenza chiamata riposo: uno stato posto fra due tempi ove cercare di non più pensare, ragionando, ma lasciando libera la mente di pensare tutto quello che vuole, in modo da analizzare, in maniera del tutto libertaria, arbitraria? liberale, tutto quello che vuole analizzare, senza ragionare; non più pensare per abbandonarsi in uno stato di semi-incoscienza di semi-irresponsabilità; uno stato in cui lo spazio non fa altro che cercare di ridiventare spazio per poi prepararsi a ridiventare scrutatore di se stesso anche attraverso mezzi da lui stesso creati attraverso il pensiero, scoprendo le sue stessi leggi, i suoi stessi segreti: non gli basta il mezzo del suo stesso solo pensiero.
Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente,
fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,
ed ecco che io ribaltavo eludevo
e ogni inclusione era fattiva
non meno che ogni esclusione;
su bravo, esisti,
non accartocciarti in te stesso in me stesso.

Io pensavo che il mondo così concepito
Con questo super-cadere super- morire
Il mondo così fatturato
Fosse soltanto un io male sbozzolato
Fossi io indigesto male fantasticante
Male fantasticato mal pagato
E non tu, bello, non tu “santo” e “santificato”
Un po’ più in là, da lato, da lato.

Fa’ di (ex-de-ob etc)-sistere
E oltre tutte le preposizioni note e ignote,
abbi qualche chance,
fa’ buonamente un po’;
il congegno abbia gioco.
Su, bello, su.

Su, munchhausen.

Si, ora fatemi riposare, non fatemi più pensare. La poesia che ho letta è di Andrea Zanzotto?
Si, me l’ha, or ora, recitata Gassman
Andrea Zanzotto, chi? Scusate.
Si! Lasciatemi così, come una cosa posata a riposare, e dimenticata, a non pensarmi più.

 

 

 

Dieci

tratto da DURANTE, XXXIII CANTO DEL PARADISO

LA CERTEZZA

Credevo che il mondo fosse fatto così come io lo vedevo, così come i miei occhi me lo elaboravano al mio cervello, ed invece non era così. Iniziai a notare che altri con altri occhi, con altri cervelli che elaboravano pensieri e sensazioni, vedevano il mondo in una maniera diversa. Per ciò alla fine il mondo che io vedevo non aveva una sola forma, ma due forme, tre, dieci forme, cento, mille forme, infinite forme, infiniti volti. Alla fine uno non riusciva più a sapere la vera forma del mondo che io avevo sempre in quel modo visto. Notai anche un’altra cosa particolarmente importante: che le forme del mondo che io inizialmente ero convinto d’aver visto, cambiavano d’anno in anno. Da bambino il mondo aveva una forma che nello stadio della pubertà cambiò, non dico radicalmente, ma cambiò. I rumori che io sentivo, che percepivo del mondo, anch’essi, erano differenti da orecchio ad orecchio.
Mio nonno, un giorno, mi disse che il suono dolce e bello che io stavo ascoltando – non dico con beatitudine ed estasi, ma quantomeno con un certo grado di soddisfazione, per quel certo genere di gusto musicale che allora possedevo – per lui non era altro che un rumore insopportabile per i suoi orecchi, tanto che, nel risentirlo, lui se li tappò; mentre io – chiusi, per un attimo gli occhi – continuavo a gustare il dolce rumore di quella dolce musica e di quella voce, di quell’insieme di ‘rumori’ che l’accompagnavano e m’appagavano, il tutto ad alto volume di un mangiadischi portatile
Nulla era per tutti allo stesso modo, constatavo. Anche su una cosa reale e incontestabile c’era da non scherzarci poi tanto: una misura presa un giorno per vedere quante volte ci sarebbe potuto entrare in uno spazio dato – la misura di paragone con tutti i suoi sottomultipli – non fu per tutti la stessa misura: eravamo prima in due, poi in tre, poi in dieci, in cento in mille a prenderla, e le misure risultarono tante quanti eravamo i misuratori presenti. Si decise di sommare tutte le misure rilevate da tutti i misuratori presenti e dividerli per l’infinito numero di misuratori il che diede una misura irrilevabile, infinita: un numero infinito. Una delle scoperte più eccezionali del geomètra è stata quella di arrivare a capire che non si conosce il vero valore di una grandezza: si può solo arrivare ad individuare quello che si possa ritenere il più probabile, il più vicino valore di quella grandezza che a noi pare certo e stabilito. Il mio bel mondo, il mondo che io avevo visto per la prima volta e che mi risultava così certo, nella sua forza, grandezza, bellezza e colori, non mi si iniziò a rivelare altrimenti che un mondo di pazzi, un mondo senza forza certa, senza grandezza certa, senza bellezza e colori certi; il mondo mi risultò tutto incerto, questa sola era la certezza! La mia vita iniziò ad essere incerta, anche lei. Prima ero certo d’aver conquistato, per sempre, certe certezze di numeri, di leggi fisiche, chimiche, di gravità, di pressioni, di economia, di staticità, di capacità proprie e di altri: niente mi si rivelò così falso! Re che diventavano di colpo poveri pazzi che nessuno chiamava più re; persone savie che uscivano fuori di senno. Altri che, da bambino, conoscevo come incapaci, diventare, da adulti, persone di molto conto e considerazioni. Leggi della matematica – che io avevo letto o immaginato di aver studiato in un dato modo – riletti dopo qualche anno, per scommessa, mi risultavano completamente diverse da come tanti anni prima io li avevo studiati o capiti: così come per magia! Tutto mi si cambiava di colpo senza colpo ferire. Ero nelle stesse condizioni dei tre Grandi Meditanti di endeniana memoria nella sua Storia infinita. I tre superiori – ricordiamo – avevano corpi umani ma, ognuno per la sua specifica natura, testa d’animale, come certe divinità egiziane. “Ushtu, la Madre dell’Intuizione, aveva il volto di gufo. Scirkri, il Padre della Visione, aveva una testa d’aquila. E Ysipu, il Figlio dell’Intelligenza, un muso di volpe La cosa mi si fece poi più reale da quando conobbi un autore che metteva in discussione cose che lui stesso aveva fissato come certe.Sedevano su roni di pietra e parevano molto grandi. Alla loro vista, Atreiu e persino Xayde parvero colti da timidezza. Bastiano, invece, si avvicinò con grande disinvoltura. Nella sala regnava il silenzio più profondo. Scirkri, che a quanto pare era il più anziano dei tre e sedeva al centro, indicò con un gesto lento della mano il sedile del trono che stava vuoto di fronte a lui. Bastiano vi prese posto. Dopo un lungo silenzio, Scirkri cominciò a parlare; aveva una voce molto bassa, ma singolarmente piena e profonda.
<>
<>, rispose Bastiano.”
Il difetto di ogni creatura, compreso l’uomo – per non dire solo dell’uomo – è quello di rapportare se stessa al mondo che lo circonda, misurare le cose col solo proprio sguardo e non con il possibile sguardo degli altri o dei possibili altri sguardi, altre leggi, altre circostanze, altre alternative che esistono in natura. Evidentemente, il nostro poeta della rettitudine vedeva bene quando intuiva che ‘vedere e misurare è un dono, è una mercede’, ma lui non si contentò di intuirlo, come un qualunque uomo di scienze, lui lo mise in rima: “e del vedere è misura mercede.”. Non appena Bastiano Baldassarre Bucci fa vedere ai tre ‘Grandi Meditanti’ la realtà di Fantàsia, ognuno di loro non fa altro che intravvedere una creatura della sua stessa specie.
“<>, lo contraddisse con lieve sorriso Ushtu, dal volto di gufo, <>
<>, replicò Ysipu con occhi sfavillanti.
<<là ho visto un essere che appartiene alla mia specie, è una volpe.>>
Scirkri levò le mani in un gesto di rifiuto.
<>, disse.
<>
Bastiano sorrise con indifferenza e disse:
<<Tutt’e tre>>.”
In questo mondo, che è poi lo stesso mondo – per dire – di Fantàsia, il certo non esiste; anzi che una volta acquisito il certo, come per magia, per capriccio, il certo diventa incerto, tanto da cambiare completamente.
Non dare per certe le cose certe
Perché
Le cose certe possono diventare incerte
Le cose incerte possono diventare certe
Le cose certe possono diventare certe
Le cose incerte possono diventare incerte
Ma Michael Ende potrebbe parerci roba da ragazzi i cui protagonisti principali dei suoi romanzi non hanno nome tipo Renzo, Lucia, don Abbondio, fra Cristoforo etc, etc; ma nomi poco credibili e un po’ comici come può esserlo quello di Bastiano Baldassarre Bucci; per avvalorare la serietà dei nostri argomenti possiamo far uso di un autore ‘serio’ come J.L.Borges che, per l’appunto, ci racconta di queste cose strane, lui che non credeva in un essere superiore quale potrebbe essere un dio che molti immaginano di esistere, o anche dell’ignoto autore dei Racconti di un pellegrino Russo.
Ma questa è un’altra storia – avrebbe scritto l’Ende di prima – , e si dovrà raccontare un’altra volta; e, invece, noi la racconteremo ora; anzi, la trascriveremo proprio ora, un po’ più avanti, non prima di aver precisato che solo apparentemente v’è similarità col fatto che anche il nostro viaggiatore incantato, vedendo la realtà divina, intravvede se stesso, nonché il volto di Cristo, dentro i tre raggi di luce; e questo potrebbe trarci in inganno facendoci fare una pericolosa attinenza con la metafora di Ende. Vedere, intravvedere se stessi, nonché il Cristo, nei tre raggi di luce ove il nostro pellegrino arriverà a vedere Dio, in questo caso, non vuol significare ed essere la stessa metafora di quei tre Grandi Meditanti, e anche lo sbaglio di tutti noi che, nei limiti di ognuno d’essi, con poco intuito, costruisce la sua realtà a sua immagine e somiglianza; ma comprendere che solo quando si è veramente cercato Dio, e dopo lunga e faticosa ascesi, si potrà avere coscienza che, quel Dio che si è tanto cercato, non era altro che anche dentro di noi, così come in ogni altra creatura, e parte integrante ed inscindibile dell’universo. Ora possiamo andare al nostro Borges.
– Ah, scordavo – per la dovuta precisione dell’inventario che continuiamo a repertoriare, e i relativi dovuti e santi diritti d’autore ed editore -, che l’edizione da cui ho attinto i brani della Storia infinita di Ente è quella della Longanesi nella versione di Amina Pandolfi che a me è costata Euro 10,00. L’ho acquistata facendo ritorno da Lugano – ricordo ancora -, con la precisione alla stazione aeromobile di Linate, in modo da poter finire di leggere il libro che avevo intrapreso a leggere proprio lì a Lugano cortese ospite di mia figlia e da dove avevo preso in prestito il libro dallo scaffale con dei libri di qualche suo collega. Volendo assolutamente tentare di acquistarne una copia – che a me piace più che leggere avere copia dei libri che leggo – fra le edicole di quell’aeroporto in cui Enrico Mattei nel lontano 1962 era diretto e mai arrivò, per continuare a leggere il romanzo anche durante il viaggio di ritorno in Sicilia; giunto di fronte all’edicolante – che in quell’attimo stava parlando al telefono con una sua collega – alla domanda se avesse una copia del libro della Storia infinita, la sua pronta risposta fu che, non ne aveva una; ma che poteva chiederne notizia alla sua collega: che lei era pratica di ‘storie infinite’ e che proprio in quel momento gliene stava raccontando una. Il pellegrino russo che racconta le sue misteriose avventure, il prete, al Quinto racconto (pag. 149) confessa: “< Un colpo all’incudine e uno al martello: la graziosa poesiola di Karen Owens, così la chiama Dawkin, trascrivendola nel suo capitolo che tratta degli Argomenti a favore dell’esistenza di Dio del suo best seller L’illusione di Dio, dove pone una bella e interessante domanda, più che una bella poesiola.
Può Dio onnisciente,
che conosce il futuro,
essere onnipotente
e cambiare il futuro?
“Se Dio è onnisciente, deve sapere in anticipo come modificherà il corso della storia usando la sua onnipotenza, ma ciò significa che non può cambiare parere e quindi che non è onnipotente” scrive ancora a pagina 82 del suo saggio Dawkins, giustamente ironizzando e trovando un nuovo appiglio per dimostrare l’inesistenza in vita del suo inesistente dio. L’errore è sempre quello: iniziale: si pone Dio come una qualsiasi creatura supernaturale che si arroga poteri super naturali, prevaricando la natura e le sue leggi. Seduto su un bel trono tutto d’oro e sovrastante il mondo delle cose e degli uomini. La natura e le leggi di cui è alla ricerca costante il Dawkins non sono altro che le varie leggi e le varie nature di cui è parte integrante ed inscindibile la natura di Dio, scaturenti dall’Ente iniziale di tutto. Ogni legge fisica e metafisica, chimica e metachimica che arriva a scoprire il Dawkins è legge non fatta da Dio, ma che è nella natura delle cose di Dio, di quell’Ente insondabile ed iniziale che noi chiamiamo, per semplificazione di tutto quello che non può essere semplificato, Dio. Possiamo modificare il corso degli eventi? Siamo noi la causa di noi stessi? O le nostre azioni “sono libere e prive di senso esattamente come i liberi movimenti delle particelle elementari”? (pag. 11 H.P.Lovecraft di M. Houellebecq) Dobbiamo credere solo in ciò che appare? Dobbiamo dimenticare che siamo divini? Dobbiamo scordare che è la materia che genera il pensiero? Giordano Bruno aveva ragione? Possiamo aggiungere che ‘la materia genera il pensiero’ poiché è il pensiero, la parola, l’anima della materia?