Francesca Gallo - Poesie

Raccolta: TOTO CAELO ERRARE

Altalena appesa
a ciglia bagnate
mi dondola lieve
tra stelle malate.

Le lacrime colgo
nell’urna dorata
che del nostro ardore
tien polvere ambrata.

Sopra la tua schiena
piantai per amore
di verbena fiori a
sopire il dolore,

e ad allontanare
i demoni infami
che sotto la pelle
tracciavan fiorami.

Eppur nulla valse
e, serpe allettante,
lei, Ate, ti vinse, e
di noi restò il Niente.

 

 

 

 

Angelica Madre,
inchiodami al muro:
non merito croce
ch’è simbolo puro.

Trafiggimi gli occhi,
non già dritto al petto,
poi ch’è l’inquisire
il fallo più abietto.

La colpa non nego,
accolgo sciagura:
ma scelgo la morte
a iena impostura.

 

 

 

 

Aveva, quel fiore,
un volto di donna.

Sbucava infelice
tra i petali gialli,

regina d’un regno
di rasi e percalli.

Le labbra rubine,
la pelle d’argento.

Un tordo volava
tra le spine attento…

Poi sopra ad un occhio
glacial si posava

e, fiera brutale,
dal bulbo cenava.

L’immobile rosa
dagli occhi grondanti

pativa in silenzio
tormenti aberranti

dacché ormai più nulla
poteva sfregiarla:

il suo sol bocciolo,
la sua rara perla,

il cuor del suo cuore,
sua sola speranza,

le avevan strappato
per nuziale danza.

Aveva, quel fiore,
un volto di morta.

 

 

 

 

S’aprì in due il suo volto
e falene si spansero
in quel tanfo opprimente
poi sul ventre si cinsero.

Sola con l’acquitrino,
ormai strabica e muta,
non poté più mentire
a maschera caduta.

Già la selva indiscreta
la guardava bramosa
mentre Lei rimpiangeva
sua mendacia morbosa.

La Meschina impetrava
il perdono agognando,
ma il suo petto era buio,
di finzioni facondo.

La civetta strideva.
Solo allora comprese:
volan via le parole
se all’oblio sono appese.

Come falene stanche
s’alzano lievemente
e s’affidano al cielo
per morire tra il niente.

 

 

 

 

Porto al guinzaglio
usignoli e farfalle.

Foglie nel vento
I miei piedi.
Passi
che fanno l’amore
col suolo di cenere.

Dama tra i rovi
il mio cuore,
Che non batte
ma grida.
Che non torna
ma implora.

Voce di spilli
E bocca di serpe,
Piena di colpa.
Bramosa, ma schiava.

Crine di strega
Canuto e guastato
Ma forte abbastanza
Per toglierti il soffio.

Porto al guinzaglio
Pulviscolo e morte.

 

 

 

 

Un Dio mercante
dal ghigno coperto,
adorno di pizzi
e trame intagliate,
regista del tempo
oriolaio infame,
con grazia ruffiana
stanotte mi scorta
innanzi ai cancelli
di quel campo santo.

Nel buio marciando
tra torvi angioletti
e tra i lepidotteri
dal volto di ninfa
e il corpo di salma

un pomo mi porge.

Ma poi, come strega,
il cuore m’ingabbia:
lo ciba di sette
gustose menzogne
di veleno intrise
che sanno di fiele
che suggon la vita
che fermano il polso.

E corvi affamati
dalle umane tombe
mi guardan negli occhi,
ch’ormai sono specchi
della mia miseria.

O luna indiscreta,
O luna mondana,
in infesto bosco
di scarniti rami
in perenne lutto
io per Amor muoio.

 

 

 

 

Senza dimora, sempre lei sola
anche la Morte va perdonata.
Del sonno l’isola è la sua meta,
in processione scorta respiri.

Sacra la veste, turpe la falce,
sceglie la luna, il sole non sente
e giorno o notte non cambia niente
fiacchezza e tedio l’han per sorella.

Guerra, affezione, vile suicidio,
cancro, pistola, cappio o pugnale,
quale che sia lo scherzo fatale
giunge incurante a sugger vigore.

Mesti congiunti son rincasati
quando sul vespro nel sepolcreto
-cui suo animo, certo, è assueto-
stanca lei siede su antica croce.

Spera, prostrata, si compia il mondo,
meta del tempo, epilogo probo,
soltanto allora potrà esser degna
alfine anch’ella d’eterno sonno.

 

 

 

 

16.08
Gelosia e Malfidenza.
Mai ci furono serpi più velenose e letali.
Mostri. Deformi demoni seviziatori. Abusatori di ciò ch’esiste di più sacro.
Divorano dall’interno, consumano, scavano, logorano, erodono, esauriscono.
Mali senza soluzione.
Chimere dell’anima.

Si dice che l’amore possa guarire tutto…. Ma se fosse proprio l’amore la mia malattia?
Provo con tutte le forze ad andare avanti senza guardarmi costantemente alle spalle, a testa alta, come un soldato che si rialza dopo una sciabolata nel fianco e torna a combattere fiero la battaglia della sua vita, ma a volte sento solo il disperato bisogno di chiudere gli occhi e non riaprirli fino al mattino dopo, perché non so respirare, il peso che mi preme sul petto è troppo greve da sopportare, e preferirei bermi il cuore piuttosto che sentirmelo sbattere in seno così miserabile.

Eppure…
Eppure quel fuoco policromo e poderoso che è il mio slancio verso di Lui è duro a morire, e mi deflagra in corpo come uno stormo d’uccelli che si alza in volo per raggiungere l’orizzonte, come un nugolo di frecce scoccate per colpire il mio centro, come l’uragano perfetto, che, pur devastando tutto ciò che incontra lungo il suo cammino, incanta e rapisce con la sua magnificenza, a tal punto che i più folli tra gli uomini restano fuori a guardarlo, facendosi trascinare via dalla furia con la consapevolezza di andare a morire.

Lui è terrore dell’ignoto e ignoto terrore, è malevola Sirena, irresistibile magnete.
Ma è anche colui che mi ha salvata da un’esistenza priva di Grazia.
E’ vivente ispirazione, è costante suggestione.
Un’anima sublime, di cui egli stesso dovrebbe imparare ad avere più cura, affinché il suo istinto ad autoinfliggersi supplizi continui non Le impedisca di sbocciare e fiorire in tutto il suo armonico e prorompente incanto.

 

 

 

 

01/09
È arrivato settembre, il mese più gentile, certamente il più atteso. Ma nulla s’è risolto, nulla è passato.
Per me, quanto ci ha divisi è come un angelo di Dio che si copre il volto per la vergogna, è come il grido silenzioso che ti esplode nel costato quando un sogno ti scuote e percuote. Mi sento sempre come se fossi seduta in disparte, nascosta, a guardare il resto del mondo che banchetta e danza, mentre io, osservatrice in autocompianto, mi chiedo soltanto quanto impiegherò ancora prima di sprofondare nelle sabbie mobili della mia miseria. Da sola. La notte sogno di gettarmi da un dirupo e, mentre cado, pezzo per pezzo mi disintegro nell’aria tagliente. Nulla resta di me se non un cuore di perla che si tuffa nell’oceano della mia tragedia, e lì si perde per sempre.
Accanto a te io continuo a tremare, perché sono tanto sciocca da cercare la felicità nello stesso luogo in cui l’ho persa, laddove il mio calice ha accolto il tuo nettare ed è sbocciato a prodigiosa Vita, e laddove, poi, il sangue divino di Amore è sgorgato e ha intriso il terreno che giace ancora marciscente. Ti amo in modo irragionevole, come quando ci si lega inscindibilmente a ciò che di più effimero esiste, perché niente è più fragile di una promessa, niente è più fragile della parola “sempre”, e questo io l’ho imparato a mie spese…
Ma, ciononostante, ciecamente e sordamente, insieme al tuo cuore il mio cuore danza, come fossero due stelle che stanno andando a morire sulle note di un macabro waltzer, dimentiche di qualunque cosa che non sia la luce dell’altra.

 

 

 

 

A Diego Riccobene, l’Autore del primo verso di questo componimento, e l’unico vero Poeta.

Tu credi nell’iniqua malasorte,
nel falso, nell’esizio, nella morte.
Io credo nella guerra a chi spergiura,
nella benevolenza della cura.

Il simbolo di noi è ancora intatto
ma ormai il sacro spirito è ritratto.
Quell’anello, del tuo cuore allegoria,
è vestigio avvelenato d’agonia.

Tu credi nell’umana aberrazione
Credi nella divina ispirazione.
Io credo nel supplizio e nel dolore,
e credo nell’amore, quando muore.