Francesca Giacchello

Poesie e Racconti


Guerra interiore

Ma tu sei mai stato in guerra?
e con guerra intendo
una lotta interiore
sangue del tuo sangue
le tue ossa contro le tue ossa
i tuoi muscoli contro i tuoi stessi muscoli
pensieri contro pensieri
azioni scaccia azioni
tutto così avvincente
se solo fosse una semplice storia
ma è realtà
e allora diventa estremamente doloroso
come una malattia autoimmune
la tua mente si attacca da sola
e lo fa pure con il tuo corpo
attacca ogni cellula
porta tutto ad una dimensione di battaglia
il problema qual è?
chi è che perde qui, chi è il vincitore,
se a combattere ci sono solo io?
ritorniamo bambini?
facciamo la pace.

 


 

Nemmeno tu

Tu sai cosa ti rende felice
ma fai tutto il contrario
hai paura di non saperla reggere la tua felicità
di sprofondarci insieme

conosci meglio la paura
quante cene hai mangiato insieme ai sensi di colpa?
quanti tramonti hai visto a braccetto con la vergogna?

eppure
credimi
sai cosa ti rende felice
non pensare mai il contrario
non credere mai di essere fatta per il dolore
nessuno lo è
nemmeno tu

 


 

Bimba

Ho perso di vista la me bambina
ho fatto finta di dimenticarla
in realtà l’ho rinchiusa a chiave con doppia mandata in cantina
le ho tappato la bocca con del nastro adesivo
e legato braccia e gambe ad una sedia

stai lì
non ti muovere
non fiatare
stai zitta
non fai più parte di me

è riuscita a liberarsi
non so come
ed è venuta a bussare alla mia porta
arrabbiata e delusa

le ho promesso che non la dimenticherò più
le ho regalato un cuscino morbido e una parte del mio letto
tanto è ad una piazza e mezzo
ci stiamo
ogni tanto ci capita di addormentarci abbracciate

 


 

E se

Ma dimmi un pò
a cosa pensi quando ti svegli al mattino
a chi regali il tuo primo pensiero appena sceso dal letto
cosa mangi per colazione
la colazione dice tanto delle persone
io non la faccio
di mattina mi sale la nausea di vivere
riesco a mangiare qualcosa solo dalle undici in poi
quando il movimento interiore si acquieta
e accetto il fatto di dover affrontare la giornata

dimmi un pò
cosa fai per vivere
e non parlo di lavoro
cosa ti tiene in vita
se ascolti ancora quelle canzoni di autori che conosci solo tu
se continui a prendere lo stesso panino del McDonald’s
se cammini per strada cercando di non pestare le righe orizzontali
se in camera tua quel poster attaccato storto continua a decorare la parete

vorrei sapere se hai ancora amato dopo di me
se ti sei fatto una nuova vita e hai dimenticato il passato
o se invece, ogni tanto, anche tu cadi nel tranello del “e se”
perché io ci cado sempre
inizio a farmi domande su domande

e se io e te ci fossimo incontrati in altre circostanze
in un tempo migliore
in un periodo più felice
in un’altra città
e se ci avessimo provato di più
se non avessimo mollato tutto così
forse saremmo rimasti insieme
ancora per un pò oppure per sempre

 


 

Briciole di Pollicino

Ho sognato di te due giorni prima della tua morte. Eri felice, nel sogno intendo. Quelle tue labbra color pesca erano inarcate all’insù, come voler sfoggiare un sorriso pieno, non finto, umano, consapevole. Non ti avevo mai vista sorridere così. Dal primo giorno che ci siamo incontrate, da quel nove novembre del duemila e diciassette, ho potuto godere della tua serenità poche volte.
“Ma ti ricordi?” mi chiedi.
“Che cosa?”
“Il giorno in cui sei entrata in clinica, la tua prima volta lontana da casa, la prima notte senza il tuo letto rimboccato dalle coperte ricamate della nonna, la prima dormita senza la buonanotte di tua madre. Ti ricordi la prima colazione? Ti hanno fatta sedere vicina a me. Non hai spiccicato parola, ad ogni mia domanda guardavi fissa nella tazza piena di cereali e yogurt davanti a te in cerca di una risposta. Ti ricordi…”.
“Sì, certo che me lo ricordo, ricordo tutto come se fosse ieri Gabri, alcune volte credo che quel “ieri” sia ancora “oggi”. Ricordo tutto. Ma perché me lo chiedi?”.
Tu continui a far domande su domande, le mie risposte sembrano non bastarti. Vorrei sapere dove vuoi arrivare, tu vuoi sempre arrivare da qualche parte e di solito la meta la tieni segreta fino alla fine o la mostri a modi effetto sorpresa in un momento inaspettato.
Mi continui a bombardare di parole, la tua voce sembra non fermarsi mai. Vuoi sapere tutto, ogni cosa, non ti bastano i dettagli. Come nella fase dei “perché” dei bambini, non sono sufficienti risposte a monosillabi, tu pretendi un qualcosa di più articolato.
“Ti ricordi della nostra promessa?” mi chiedi un pò di sfuggita e capisco che è qui il nodo centrale, eccolo qui, forse sto iniziando a percepire verso quale rotta stia navigando la tua barca.
“ Ma certo che me la ricordo” ti rispondo con tono saccente, quasi infastidita dal tuo continuo mettere in dubbio la mia capacità di memoria.
“ Ci eravamo dette che non ne avremmo dovuto parlare più, a meno che una delle due non venisse meno al patto” continuo io.
“Lo so…” mi dici. Guardi in basso. Le tue labbra color pesca sono diventate bianche. Devi dirmi qualcosa di importante, lo so. Hai sempre fatto così: butti l’amo e poi aspetti che qualcuno lo raccolga. Ora aspetti che sia io a farti le domande, che non mi lasci sfuggire nulla, che raccolga le briciole di pane che hai lasciato lungo il tuo sentiero, un pò come Pollicino.
Non dici più nulla, il tuo sguardo continua ad essere fisso per terra, ti osservi le scarpe, sei bloccata, sembri aver perso la voce. Quando eravamo entrambe in clinica avevo imparato a conoscerti, a comprendere il tuo modo di funzionare, a tirarti un pò fuori dalle tempeste. Avevo capito che, durante la pioggia, non avevi bisogno di qualcuno che ti obbligasse a vedere il sole fuori dalle finestre ma che ballasse insieme a te, qualcuno che non avesse paura di bagnarsi i capelli, i vestiti, le scarpe e il cuore. Per tirarti su il morale ti cantavo una canzone, fingevamo di essere ad un concerto, io sul palco a cantare e tu in platea ad applaudire e ad urlare “ancora ancora”. Come con quel brano di Eros Ramazzotti, “rosa nata ieri”, quanti bis ti ho concesso, solo perché vedevo in te la mia miglior fan.
“La nostra promessa di restare in vita entrambe” continuo io.
Mi prendi la mano e la poggi sul tuo cuore, mi inviti a sentire i tuoi battiti.
“Franci, il mio cuore batte a ritmi non più compatibili con la vita”.
Silenzio rumorosissimo di almeno un minuto. Con la voce spezzata mi fai un’altra delle tue domande: “perché siamo diventate amiche? Perché tra tutte le altre compagne, quel nove novembre del duemila e diciassette io e te ci siamo scelte?”.
“Ci siamo scelte per tanti motivi. Dove vuoi arrivare?”
“ Io e te Franci, bruciamo per lo stesso motivo. Ecco perché siamo diventate amiche. Ti ho scelta perché eravamo arrabbiate con il mondo allo stesso modo. Ti ho scelta perché la storia dei nostri corpi si somigliava così tanto che ogni tanto mi pareva di star ascoltando la mia di storia quando invece eri tu a raccontare la tua”.
Divento un punto interrogativo parlante, sono piena di dubbi ma sono ferma sul punto principale, non voglio perdermi nel sentiero , hai lasciato delle briciole di pane in più per depistare il cammino.
“Io brucio ancora, brucio così tanto. Il mio cuore non batte più a ritmi compatibili con la vita. In fondo lo sappiamo entrambe che la più brava a spegnere gli incendi sei sempre stata tu”.
Mi lasci la mano e in meno di un secondo scompari, ti cerco nella stanza in lungo e in largo, sotto il letto con le lenzuola ricamate della nonna, dentro l’armadio pieno di vestiti ancora con le etichette attaccate, dietro la porta. Non ti trovo più. E inizio a pensare che questo sia solo un brutto sogno, uno dei tanti incubi che faccio quasi ogni notte e che di giorno racconto alla psicologa.
Ho sognato di te due giorni prima della tua morte. Mi avevi avvertito di quello che sarebbe successo, mi avevi lasciato le briciole di Pollicino lungo il sentiero.

Oggi, ventisei aprile duemila e ventidue, è passato un mese dalla tua morte. Inutile dire quanto questa sia una giornata nera. Dicono sia la sindrome del sopravvissuto: mi sento in colpa perché tra le due, a sopravvivere, sono stata io. Dicono che quello che sto sperimentando sia sintomo della sindrome del sopravvissuto.
“È assolutamente normale”, mi ripetono. Vorrei rispondere che fa assolutamente schifo sopravvivere. Fa schifo pensare che tu non ci sia più, che il mostro abbia scelto te e non me. Che la vittima sacrificale sia stata tu. Che io sia qui sul letto a scrivere di te, di me, di noi.
Oggi sento la tua mancanza attraversarmi tutti i muscoli, le ossa, tutte le cellule del corpo. Credo che la tua mancanza sia diventata un organo a parte. Oltre al cuore e ai polmoni, io ho la tua mancanza. Forse solo così sento di possedere il privilegio di averti ancora accanto.