Francesca Melle - Poesie

Kalì

 

 

Non molto lontano da qui, né là, né lì

viveva una donna di nome Kalì.

Era la gran dama di compagnia

della giovane principessa Lia.

Kalì cambiava abito tre volte al dì

e fino a quattro il giovedì.

Aveva montagne di vestiti eleganti

scarpe a bizzeffe, cappellini e guanti.

Era la dama della principessa

mica un’anatra lessa.

Ma quando Kalì doveva viaggiare

i servitori parevan sgobbare

per bauli pesanti da trasportare.

“Prima o poi la lasceranno a piedi”

borbottava il più pigro “ci credi?”

E le cameriere parlavan tra loro:

“A me basterebbe la sua collana d’oro”.

“A me il suo braccialetto di perle

ah, quanto vorrei averle! “

Un giorno al castello si tenne gran festa

Kalì cambiò abito tre volte e cappello in testa.

Voleva brillare come una stella

perché non sapeva quant’era bella.

Ma nel suo strascico per la fretta inciampò

e il medico di corte il ginocchio le fasciò.

E quanto stette in pena il principato;

che ci crediate o no, era preoccupato.

Kalì era una bella presenza

e di lei si sentiva l’assenza.

Guarì in fretta, fortunatamente

così riprese ad incontrare gente.

“Finalmente si è rimessa

dama di compagnia della principessa”

le disse una contessa

nel bazar di una duchessa.

“Certamente si!” Rispose Kalì.

“Altrimenti non potrei essere qui”.

E continuò col suo hobby preferito

quello di cambiarsi spesso il vestito.

Ma un pensiero in lei era ricorrente

se diventerò ricca non trasporterò più niente

comprerò tutto altrove

che bello, chissà dove?

Questo desiderio presto si realizzò:

la principessa di un maharaja indiano s’innamorò

e alla sua fedelissima una grossa fortuna lasciò

perché partì con lui, lontano

stretti mano nella mano.

Dato che Kalì tanti denari poté gestire

senza bauli prese a partire.

E comprava, comprava e comprava

e cappellini, vestiti e scarpe accumulava.

Ben presto però

questa pratica noiosa diventò.

Intanto i vestiti eran da lavare

stendere, raccogliere e inamidare.

Poi riposti, ripiegati

e più di due volte mai indossati.

Nessuno osava farle capire

che lo spreco doveva finire

ma critiche tante però:

“Spende e spande come può

fa la ricca a quale pro

porta veli di chiffon

non sarà ammattita un po’?”

E il tempo volava via, per di là, per di qui

come gli anni di Kalì.

Ma un pomeriggio piovoso, la sua dama di compagnia

restò con lei a guardar la pioggia, anziché andar via

e poiché quando parlava

la migliore delle sue virtù sfoggiava

le chiese che facesse della roba che abbondava

giacché non era né una principessa

né una regina, né un’arciduchessa.

Ed esortandola a liberarsi da quella schiavitù

le disse che doveva amar sé stessa

non un vestito verde a fiori blu.

Per venire fuori queste parole

avevan trovato la strada migliore.

Furono come una magia

che le vecchie abitudini portò via.

Pian piano Kalì tirò fuori le sue qualità.

Vaneggiando meno, perfezionò le sue abilità.

Preparava acque, olii e unguenti rari

elisir creme e saponi vari.

E cominciò per i suoi viaggi

a rifar bagagli saggi.

Della felicità trovò la strada:

amarsi, amare ed essere amata.


 

Nick

 

 

Un caldo pomeriggio di giugno, Marta e Giuliana, due graziose sorelle dai lunghi capelli color miele, costeggiavano antichi muretti a secco, percorrendo una vecchia strada di campagna mano nella mano. Quando, un bel momento, saltò fuori da non si sa dove, un gatto fulvo con la coda diritta come una bacchetta. La più grande delle due gli si avvicinò quatta quatta e quando fu abbastanza vicina per prenderlo, il gatto svanì per ricomparire cinque metri più avanti.

- Non ci posso credere – Disse Marta – Lascia che questa volta provi io a prenderlo.

Gli si avvicinò con passi leggeri e silenti, ma quando fu abbastanza vicina da poterlo prendere, il gatto sparì una seconda volta, per ricomparire tre secondi dopo, dieci metri più avanti.

Una volta insieme, una volta una e una volta l’altra, il gatto compariva e scompariva a ogni tentativo delle sorelle di prenderlo, conducendole fino al pozzo dei desideri.

- Voglio sapere chi di voi due è la più forte.

Marta e Giuliana si guardarono, poi volsero il viso verso il gatto, sostenendo che lo erano entrambe.

- La più forte chi è?Riprese a parlare il gatto.

- Io! – rispose Giuliana

- E allora fammi vedere come riesci a tirare fuori il secchio pieno d’acqua per dissetarmi.

La piccola gentildonna per accontentarlo afferrò la corda con tutta la sua forza e tirò su il secchio pieno d’acqua.

- Eccoti l’acqua, gatto.

Il felino, assetato come un cammello, svuotò il secchio in men che non si dica.

- Ora che mi hai dissetato come volevo io, puoi accarezzarmi come vuoi tu, senza però toccare la mia coda.

Giuliana lo accarezzò amorevolmente mentre il suo pelo sprigionava un profumo di mandorle. Visto che il gatto sì faceva accarezzare, Marta colse l’occasione per avvicinarsi e quando fu tanto vicina da poterlo toccare, il gatto si eclissò per ricomparire quindici metri più lontano.

- Gatto… gatto, ma come ti chiami? - Gridò Giuliana.

- Mia madre mi ha chiamato Edward, ma io mi faccio chiamare Nick.

- E noi come possiamo chiamarti?

- Chiamatemi come volete.

- Nick, per favore fermati.

Si ripresero per mano, cominciando a correre fino a raggiungerlo, ma appena furono vicine a lui, tanto da prenderlo, Nick svanì ancora per ricomparire trenta metri più avanti.

Una volta insieme, una volta una e una volta l’altra, il gatto scomparve e ricomparve tredici volte, finché si ritrovarono sfinite di fronte al mare.

- Credo che ci siamo allontanate parecchio.

- Lo credo anch’io. Che bello però questo mare, non c’eravamo mai venute.

- Chi è la più coraggiosa di voi? – Domandò Nick.

- Io.

- Anch’io.

- Ma tu l’ha già accarezzato, ora tocca a me. - Disse Marta.

- Devi entrare in acqua e acciuffare con le tue mani un pesce, perché sono affamato.

- Ma non era meglio un topo di campagna?

- No. I topi non mi piacciono affatto.

- Va bene, prenderò un pesce per te. Come lo vuoi, Nick, grande, piccolo o medio?

- Fai tu.

E così Marta entrò con i vestiti in acqua e, dopo qualche minuto, riuscì a catturare un pesce molto più grande delle sue audaci manine. Lo dispose su un pezzettino di legno che galleggiava vicino al suo vestito e lo appoggiò sotto al naso di Nick.

Nick mangiò fino all’ultimo brandello di carne. Leccò la lisca e poi i suoi baffi.

- Ora ho di nuovo sete.

- Torneremo al pozzo quando anch’io ti avrò accarezzato.

E il gatto, dopo essersi raccomandato per la coda, si fece accarezzare energicamente il pelo, sprigionando questa volta un profumo di pino marittimo.

Mentre il vestito di Marta si asciugava al caldo pomeriggio di giugno, Nick scomparve.

- Nick…Nick…Dove ti sei cacciato? Sei tornato al pozzo perché avevi tanta sete? È tornato al pozzo a bere – Rivolgendosi alla sorellina – Il pesce è salato. Mannaggia! E chi solleverà il secchio?

- Vedrai che tornerà – Disse Giuliana, ma di Nick nemmeno l’ombra.

- Ma che stupido gatto – Confessò Marta poco dopo – Io l’avevo capito subito sai? Era sciocco e sai perché? Vuoi saperlo?

- Si.

- Perché aveva la coda dritta come un bastone.

- Lo pensi davvero o sei solo arrabbiata perché non torna?

- Si, lo credo! Altrimenti perché non ci ha permesso di toccargliela?

- Ah, questo non lo soe si sedettero sulla spiaggia a far mucchietti di sabbia, finché non gli venne in mente di creare un castello.

Quando il castello di sabbia fu finito nei minimi dettagli con frammenti di legno, ciottoli e piume di pavone entrarono in acqua a giocare con le onde. Quando ne ebbero abbastanza di questo gioco si misero a osservare i granchi negli anfratti degli scogli e quando i granchi si mimetizzarono tra le alghe le due sorelle cominciarono a raccogliere conchiglie. Ve ne erano di tutti i tipi, colori e misure. Marta riempì le sue tasche di piccoli gusci madreperlati, mente Giuliana aveva trovato un’enorme conchiglia bianca e se l’era appoggiata sull’orecchio per sentire la musica del mare. Quella melodia le fece venire sonno e contagiò anche Marta. Allora si stesero sulla sabbia e si addormentarono con l’antica musica del mare, svegliandosi nel tardo pomeriggio nella loro stanza, dove regnava il silenzio, profumo di mandorle e di pino marittimo, mentre sulla finestra socchiusa uno splendido gatto ciondolava la sua morbida coda.

La casa di cemento


Quando nella casa di cemento

 

nessuno t’insegna bene la vita

come i pellerossa ai loro figli

e a scuola come merli ti esortano

a ripetere i testi per le discusse

cene di pochi applausi non sei

indietro. Non lo sei se la tua vita

è legata a quella della terra senza

essere un fattore. Se non sei nato

per le trappole moderne non devi

maledirti d’esser nato diverso ma

benedirti per quella sana estraneità.

Chi ha il cuore limpido come un

ruscello cristallino è uno specchio

destinato a non offuscarsi mai.

Sii fiero di te se la tua mente non

ammette abusi e diffida da chi vede

i suoi simili come nemici da finire

che le guerre altro non fanno che

nutrire conflitti nel calice della morte.

Sostieniti come meglio puoi (che

non ci sarà sempre il sereno) se la

tua indole partorisce pensieri d’amore

per una terra sana (manomessa solo

per fatto suo di natura) di alberi altissimi

e strabilianti fiori, di abbondanti frutti

di variopinti uccelli e di uomini fratelli

che questo sogno si può ancora fare

che non è d’altri tempi il male

ma di questo perciò serve un cuore

impavido come il tuo per nutrire

buoni intenti che verrà presto domani

con un nuovo giorno luminoso per fare

ciò che sia degno d’essere fatto

poiché in questo cerchio dipendiamo

l’uno dall’altro.


Il mio doppio sono io

 

Non sono pazza

non desidero ammazzare nessuno

nemmeno quando mi uccidevi tu.

Sceglievo la morte

raccomandandomi a Dio

ma, mai ho tramato contro la tua ira

volevo solo giustizia

e quel tempo è stato.

Ora che mi si chiede l’impulso omicida

per quel bavaglio

per andare in fondo al mio mestiere

devo cercare li

nella stanza delle torture

quando abbassavi le persiane

e chiudevi la finestra.

Mai avevo patito così

mai prima di te

la mano potente di un uomo

aveva sfiorato la mia pelle

mai

e dei segni e dei capelli sciupati

non mi sapevo vendicare.

Stanotte però mi saliva dalla pancia

una potenza omicida.

Ti stringevo il cervello tra le mani

non come fanno certe donne con la pasta del pane

ma con una mano sola.

Non sono pazza 

solo che spesso dimentico chi sono

e chi sono stata

e una notte come questa me lo ricorda.

Al buio mi viene in mente il giorno

e le finzioni che adopero con gli altri

per non macchiare il mio abito di sudore

e restare la buona fanciulla.

Ma mi disprezzo pure 

per non saper rivelare il mio coraggio.

Ti devi sporcare l’abito da signorina

che ti sei cucito addosso

mi ripete Giselle.

Non sono mai andata oltre. 

Sono morta a diciassette anni.

Sono un cadavere

con l’aspetto da bambina.


Riscrittura per l’Intervista a Paulina.

 

Mi chiamo Paulina Salas, ho 39 anni e sono cilena.  A 24 anni sono stata rapita.  Era il 6 aprile del 75’intorno alle 14 e 15. Da un’auto dietro di me sono usciti tre uomini, uno di loro mi ha puntato la pistola alla schiena. Una sola parola e ti ammazzo mi disse. Non ho opposto resistenza e mi hanno portata via.  Non so dove, ero bendata. Li mi hanno violentata più volte. Il terzo giorno ho udito una voce nuova. Dolce, rassicurante, sembrava che qualcuno fosse venuto ad aiutarmi. Ma ad un certo punto ho sentito il quartetto di Schubert e le scosse elettriche. 

Mi hanno smembrata, solo io so in che stato ero. 

Quando sono stata rilasciata non sono tornata dai miei; erano inconsapevolmente insensibili. Sono andata a casa di Gerardo. Non è ho mai parlato con nessuno, nemmeno con Lui.

Se solo sapessi quello che vorrei farti Miror moriresti di colpo. Ma la tua agonia sarà lenta come la mia.

 

 

Dimmi che

non puoi scordare

la follia di quella sera

quando noti alla luna

chiudemmo la notte

sotto la volta bruna

sopra un dolce giaciglio

di sabbia bagnata dove

assaporandoci a fior di labbra

ci facemmo misti all’Universo.

 

 

Quando mi parli con quegli occhi ridenti

cadono i confini

perché la terra partorisce scalpelli

e il cielo canzoni

che stornano il frastuono.


Dalla mia parte il vento

 

 

Sei ancora così giovane amore mio

che ti brama rivale altra sorte

e ti spinge altrove

per colmarti invano

e da chi ti vive mirabilmente accanto

mandarti lontano.

Ma il vento spira dalla mia parte

e alla mia porta t’avvicina

come quando una folata improvvisa

accosta quelle cose leggere.


Quello nostro è stato un amore grande.

 

Quando ho compreso che

per amare bisogna aver coraggio

ho lasciato libero l’amore

così che potesse durare in eterno.


Noi

 

Quando tu ed io ci apparteniamo

il moto fuggente della vita

più non esiste.