Kalì
Non molto lontano da qui, né là, né lì
viveva una donna di nome Kalì.
Era la gran dama di compagnia
della giovane principessa Lia.
Kalì cambiava abito tre volte al dì
e fino a quattro il giovedì.
Aveva montagne di vestiti eleganti
scarpe a bizzeffe, cappellini e guanti.
Era la dama della principessa
mica un’anatra lessa.
Ma quando Kalì doveva viaggiare
i servitori parevan sgobbare
per bauli pesanti da trasportare.
“Prima o poi la lasceranno a piedi”
borbottava il più pigro “ci credi?”
E le cameriere parlavan tra loro:
“A me basterebbe la sua collana d’oro”.
“A me il suo braccialetto di perle
ah, quanto vorrei averle! “
Un giorno al castello si tenne gran festa
Kalì cambiò abito tre volte e cappello in testa.
Voleva brillare come una stella
perché non sapeva quant’era bella.
Ma nel suo strascico per la fretta inciampò
e il medico di corte il ginocchio le fasciò.
E quanto stette in pena il principato;
che ci crediate o no, era preoccupato.
Kalì era una bella presenza
e di lei si sentiva l’assenza.
Guarì in fretta, fortunatamente
così riprese ad incontrare gente.
“Finalmente si è rimessa
dama di compagnia della principessa”
le disse una contessa
nel bazar di una duchessa.
“Certamente si!” Rispose Kalì.
“Altrimenti non potrei essere qui”.
E continuò col suo hobby preferito
quello di cambiarsi spesso il vestito.
Ma un pensiero in lei era ricorrente
se diventerò ricca non trasporterò più niente
comprerò tutto altrove
che bello, chissà dove?
Questo desiderio presto si realizzò:
la principessa di un maharaja indiano s’innamorò
e alla sua fedelissima una grossa fortuna lasciò
perché partì con lui, lontano
stretti mano nella mano.
Dato che Kalì tanti denari poté gestire
senza bauli prese a partire.
E comprava, comprava e comprava
e cappellini, vestiti e scarpe accumulava.
Ben presto però
questa pratica noiosa diventò.
Intanto i vestiti eran da lavare
stendere, raccogliere e inamidare.
Poi riposti, ripiegati
e più di due volte mai indossati.
Nessuno osava farle capire
che lo spreco doveva finire
ma critiche tante però:
“Spende e spande come può
fa la ricca a quale pro
porta veli di chiffon
non sarà ammattita un po’?”
E il tempo volava via, per di là, per di qui
come gli anni di Kalì.
Ma un pomeriggio piovoso, la sua dama di compagnia
restò con lei a guardar la pioggia, anziché andar via
e poiché quando parlava
la migliore delle sue virtù sfoggiava
le chiese che facesse della roba che abbondava
giacché non era né una principessa
né una regina, né un’arciduchessa.
Ed esortandola a liberarsi da quella schiavitù
le disse che doveva amar sé stessa
non un vestito verde a fiori blu.
Per venire fuori queste parole
avevan trovato la strada migliore.
Furono come una magia
che le vecchie abitudini portò via.
Pian piano Kalì tirò fuori le sue qualità.
Vaneggiando meno, perfezionò le sue abilità.
Preparava acque, olii e unguenti rari
elisir creme e saponi vari.
E cominciò per i suoi viaggi
a rifar bagagli saggi.
Della felicità trovò la strada:
amarsi, amare ed essere amata.
Nick
Un caldo pomeriggio di giugno, Marta e Giuliana, due graziose sorelle dai lunghi capelli color miele, costeggiavano antichi muretti a secco, percorrendo una vecchia strada di campagna mano nella mano. Quando, un bel momento, saltò fuori da non si sa dove, un gatto fulvo con la coda diritta come una bacchetta. La più grande delle due gli si avvicinò quatta quatta e quando fu abbastanza vicina per prenderlo, il gatto svanì per ricomparire cinque metri più avanti.
- Non ci posso credere – Disse Marta – Lascia che questa volta provi io a prenderlo.
Gli si avvicinò con passi leggeri e silenti, ma quando fu abbastanza vicina da poterlo prendere, il gatto sparì una seconda volta, per ricomparire tre secondi dopo, dieci metri più avanti.
Una volta insieme, una volta una e una volta l’altra, il gatto compariva e scompariva a ogni tentativo delle sorelle di prenderlo, conducendole fino al pozzo dei desideri.
- Voglio sapere chi di voi due è la più forte.
Marta e Giuliana si guardarono, poi volsero il viso verso il gatto, sostenendo che lo erano entrambe.
- La più forte chi è? – Riprese a parlare il gatto.
- Io! – rispose Giuliana
- E allora fammi vedere come riesci a tirare fuori il secchio pieno d’acqua per dissetarmi.
La piccola gentildonna per accontentarlo afferrò la corda con tutta la sua forza e tirò su il secchio pieno d’acqua.
- Eccoti l’acqua, gatto.
Il felino, assetato come un cammello, svuotò il secchio in men che non si dica.
- Ora che mi hai dissetato come volevo io, puoi accarezzarmi come vuoi tu, senza però toccare la mia coda.
Giuliana lo accarezzò amorevolmente mentre il suo pelo sprigionava un profumo di mandorle. Visto che il gatto sì faceva accarezzare, Marta colse l’occasione per avvicinarsi e quando fu tanto vicina da poterlo toccare, il gatto si eclissò per ricomparire quindici metri più lontano.
- Gatto… gatto, ma come ti chiami? - Gridò Giuliana.
- Mia madre mi ha chiamato Edward, ma io mi faccio chiamare Nick.
- E noi come possiamo chiamarti?
- Chiamatemi come volete.
- Nick, per favore fermati.
Si ripresero per mano, cominciando a correre fino a raggiungerlo, ma appena furono vicine a lui, tanto da prenderlo, Nick svanì ancora per ricomparire trenta metri più avanti.
Una volta insieme, una volta una e una volta l’altra, il gatto scomparve e ricomparve tredici volte, finché si ritrovarono sfinite di fronte al mare.
- Credo che ci siamo allontanate parecchio.
- Lo credo anch’io. Che bello però questo mare, non c’eravamo mai venute.
- Chi è la più coraggiosa di voi? – Domandò Nick.
- Io.
- Anch’io.
- Ma tu l’ha già accarezzato, ora tocca a me. - Disse Marta.
- Devi entrare in acqua e acciuffare con le tue mani un pesce, perché sono affamato.
- Ma non era meglio un topo di campagna?
- No. I topi non mi piacciono affatto.
- Va bene, prenderò un pesce per te. Come lo vuoi, Nick, grande, piccolo o medio?
- Fai tu.
E così Marta entrò con i vestiti in acqua e, dopo qualche minuto, riuscì a catturare un pesce molto più grande delle sue audaci manine. Lo dispose su un pezzettino di legno che galleggiava vicino al suo vestito e lo appoggiò sotto al naso di Nick.
Nick mangiò fino all’ultimo brandello di carne. Leccò la lisca e poi i suoi baffi.
- Ora ho di nuovo sete.
- Torneremo al pozzo quando anch’io ti avrò accarezzato.
E il gatto, dopo essersi raccomandato per la coda, si fece accarezzare energicamente il pelo, sprigionando questa volta un profumo di pino marittimo.
Mentre il vestito di Marta si asciugava al caldo pomeriggio di giugno, Nick scomparve.
- Nick…Nick…Dove ti sei cacciato? Sei tornato al pozzo perché avevi tanta sete? È tornato al pozzo a bere – Rivolgendosi alla sorellina – Il pesce è salato. Mannaggia! E chi solleverà il secchio?
- Vedrai che tornerà – Disse Giuliana, ma di Nick nemmeno l’ombra.
- Ma che stupido gatto – Confessò Marta poco dopo – Io l’avevo capito subito sai? Era sciocco e sai perché? Vuoi saperlo?
- Si.
- Perché aveva la coda dritta come un bastone.
- Lo pensi davvero o sei solo arrabbiata perché non torna?
- Si, lo credo! Altrimenti perché non ci ha permesso di toccargliela?
- Ah, questo non lo so – e si sedettero sulla spiaggia a far mucchietti di sabbia, finché non gli venne in mente di creare un castello.
Quando il castello di sabbia fu finito nei minimi dettagli con frammenti di legno, ciottoli e piume di pavone entrarono in acqua a giocare con le onde. Quando ne ebbero abbastanza di questo gioco si misero a osservare i granchi negli anfratti degli scogli e quando i granchi si mimetizzarono tra le alghe le due sorelle cominciarono a raccogliere conchiglie. Ve ne erano di tutti i tipi, colori e misure. Marta riempì le sue tasche di piccoli gusci madreperlati, mente Giuliana aveva trovato un’enorme conchiglia bianca e se l’era appoggiata sull’orecchio per sentire la musica del mare. Quella melodia le fece venire sonno e contagiò anche Marta. Allora si stesero sulla sabbia e si addormentarono con l’antica musica del mare, svegliandosi nel tardo pomeriggio nella loro stanza, dove regnava il silenzio, profumo di mandorle e di pino marittimo, mentre sulla finestra socchiusa uno splendido gatto ciondolava la sua morbida coda.
La casa di cemento
Quando nella casa di cemento
nessuno t’insegna bene la vita
come i pellerossa ai loro figli
e a scuola come merli ti esortano
a ripetere i testi per le discusse
cene di pochi applausi non sei
indietro. Non lo sei se la tua vita
è legata a quella della terra senza
essere un fattore. Se non sei nato
per le trappole moderne non devi
maledirti d’esser nato diverso ma
benedirti per quella sana estraneità.
Chi ha il cuore limpido come un
ruscello cristallino è uno specchio
destinato a non offuscarsi mai.
Sii fiero di te se la tua mente non
ammette abusi e diffida da chi vede
i suoi simili come nemici da finire
che le guerre altro non fanno che
nutrire conflitti nel calice della morte.
Sostieniti come meglio puoi (che
non ci sarà sempre il sereno) se la
tua indole partorisce pensieri d’amore
per una terra sana (manomessa solo
per fatto suo di natura) di alberi altissimi
e strabilianti fiori, di abbondanti frutti
di variopinti uccelli e di uomini fratelli
che questo sogno si può ancora fare
che non è d’altri tempi il male
ma di questo perciò serve un cuore
impavido come il tuo per nutrire
buoni intenti che verrà presto domani
con un nuovo giorno luminoso per fare
ciò che sia degno d’essere fatto
poiché in questo cerchio dipendiamo
l’uno dall’altro.
Il mio doppio sono io
Non sono pazza
non desidero ammazzare nessuno
nemmeno quando mi uccidevi tu.
Sceglievo la morte
raccomandandomi a Dio
ma, mai ho tramato contro la tua ira
volevo solo giustizia
e quel tempo è stato.
Ora che mi si chiede l’impulso omicida
per quel bavaglio
per andare in fondo al mio mestiere
devo cercare li
nella stanza delle torture
quando abbassavi le persiane
e chiudevi la finestra.
Mai avevo patito così
mai prima di te
la mano potente di un uomo
aveva sfiorato la mia pelle
mai
e dei segni e dei capelli sciupati
non mi sapevo vendicare.
Stanotte però mi saliva dalla pancia
una potenza omicida.
Ti stringevo il cervello tra le mani
non come fanno certe donne con la pasta del pane
ma con una mano sola.
Non sono pazza
solo che spesso dimentico chi sono
e chi sono stata
e una notte come questa me lo ricorda.
Al buio mi viene in mente il giorno
e le finzioni che adopero con gli altri
per non macchiare il mio abito di sudore
e restare la buona fanciulla.
Ma mi disprezzo pure
per non saper rivelare il mio coraggio.
Ti devi sporcare l’abito da signorina
che ti sei cucito addosso
mi ripete Giselle.
Non sono mai andata oltre.
Sono morta a diciassette anni.
Sono un cadavere
con l’aspetto da bambina.
Riscrittura per l’Intervista a Paulina.
Mi chiamo Paulina Salas, ho 39 anni e sono cilena. A 24 anni sono stata rapita. Era il 6 aprile del 75’intorno alle 14 e 15. Da un’auto dietro di me sono usciti tre uomini, uno di loro mi ha puntato la pistola alla schiena. Una sola parola e ti ammazzo mi disse. Non ho opposto resistenza e mi hanno portata via. Non so dove, ero bendata. Li mi hanno violentata più volte. Il terzo giorno ho udito una voce nuova. Dolce, rassicurante, sembrava che qualcuno fosse venuto ad aiutarmi. Ma ad un certo punto ho sentito il quartetto di Schubert e le scosse elettriche.
Mi hanno smembrata, solo io so in che stato ero.
Quando sono stata rilasciata non sono tornata dai miei; erano inconsapevolmente insensibili. Sono andata a casa di Gerardo. Non è ho mai parlato con nessuno, nemmeno con Lui.
Se solo sapessi quello che vorrei farti Miror moriresti di colpo. Ma la tua agonia sarà lenta come la mia.
Dimmi che
non puoi scordare
la follia di quella sera
quando noti alla luna
chiudemmo la notte
sotto la volta bruna
sopra un dolce giaciglio
di sabbia bagnata dove
assaporandoci a fior di labbra
ci facemmo misti all’Universo.
Quando mi parli con quegli occhi ridenti
cadono i confini
perché la terra partorisce scalpelli
e il cielo canzoni
che stornano il frastuono.
Dalla mia parte il vento
Sei ancora così giovane amore mio
che ti brama rivale altra sorte
e ti spinge altrove
per colmarti invano
e da chi ti vive mirabilmente accanto
mandarti lontano.
Ma il vento spira dalla mia parte
e alla mia porta t’avvicina
come quando una folata improvvisa
accosta quelle cose leggere.
Quello nostro è stato un amore grande.
Quando ho compreso che
per amare bisogna aver coraggio
ho lasciato libero l’amore
così che potesse durare in eterno.
Noi
Quando tu ed io ci apparteniamo
il moto fuggente della vita
più non esiste.